Formazione Religiosa

Domenica, 07 Agosto 2011 13:05

Radicale uguaglianza nella Chiesa (Dario Vitali)

Vota questo articolo
(6 Voti)

Parlare di "popolo di Dio" non è più di moda. Finita l’era del dopo Concilio con le battaglie tra teologi progressisti e tradizionalisti, forse è il caso di tornare a rileggere il testo della Lumen gentium. Per non rischiare di parlare un giorno di un sogno mai diventato realtà.

Il popolo di Dio non è più di moda. Dopo gli anni dell’immediato post-Concilio, nei quali l’immagine della Chiesa-popolo di Dio venne sventolata come la bandiera ideologica del rinnovamento e spesso brandita come un’arma contro ogni aspetto istituzionale della Chiesa, sull’argomento è calato un silenzio pesante. Difficile dire se quel silenzio sia il naturale estenuarsi della discussione che ha opposto il carisma all’istituzione, la libertà (di parola, anzitutto) all’autorità di una gerarchia, vista come palla al piede di una Chiesa incamminata finalmente sulle vie del rinnovamento e dello svecchiamento, o l’esito di un bavaglio imposto – a volte doverosamente – a tesi che finivano per destabilizzare la Chiesa. Sta di fatto che la scelta di parlare dell’ecclesiologia del Concilio come "ecclesiologia di comunione" ha segnato, tra l’altro, anche la fine del dibattito sul popolo di Dio.

Attualità del tema

Le rivendicazioni, naturalmente, erano giustificate dal rimando al capitolo II della Lumen gentium, che costituiva il fondamento della "rivoluzione copernicana" in ecclesiologia. Questo fatto sortì un riflesso immediato e deleterio sull’ermeneutica dei testi conciliari, introducendo una contrapposizione inesistente nell’intenzione dei Padri, i quali pensavano i capitoli I e II della costituzione in logica continuità: il popolo di Dio in cammino nella storia altro non è che la Ecclesia de Trinitate che, «già prefigurata fin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica alleanza e istituita "negli ultimi tempi", è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei tempi» (LG 2).
Così diceva G. Philips nel suo autorevole commento: «Il primo capitolo, "Il mistero della Chiesa", mette senza dubbio l’accento sull’unità, soprattutto quando parla del Corpo mistico. Per questo un’esposizione complementare, che forma un tutto con il capitolo precedente, è indispensabile per dimostrare che questa Chiesa "una" non è un’astrazione, ma una comunità aperta e largamente diffusa, che si estende continuamente sempre più lontano. [...] La seconda tavola del dittico formata dai capitoli I e II presenta l’immagine del mistero della Chiesa nella sua dimensione umana, nel suo apparire nel mondo e nel tempo» (La Chiesa e il suo mistero, 119).
Non basta quindi, per un dossier sul popolo di Dio, partire dal capitolo II della Lumen gentium. Se, in effetti, il tema fu uno dei grandi recuperi del Vaticano II, peraltro avvertito, al di là delle intenzioni dei redattori e dei contenuti stessi del testo, in profonda discontinuità se non in antitesi con l’ecclesiologia precedente, bisogna misurare anche il condizionamento che la polemica post-conciliare ha determinato sulla recezione conciliare, compromettendo forse irrimediabilmente l’eredità del Concilio per un piatto di lenticchie.
Con un approccio del genere dovrebbero risultare chiare anche le gravi responsabilità di chi, per un verso, ha preteso di forzare i tempi e con intemperanze verbali ha affossato una visione di Chiesa inimmaginabile alla vigilia del Concilio, ma anche di chi, per l’altro, ha utilizzato strumentalmente la polemica per ritornare su posizioni del passato, nel tentativo di recuperare non tanto la tradizione, ma una posizione di privilegio e, in definitiva, un potere, che la visione ecclesiologica del Concilio andava a minare fin nelle fondamenta.

Il testo conciliare

La vicenda che ha portato alla redazione del capitolo sul popolo di Dio è nota. Alla fine della prima sessione conciliare venne consegnato ai Padri lo schema de Ecclesia. Benché molti si fossero iscritti per intervenire in aula, era chiaro a tutti che lo schema doveva essere rifatto. Durante l’intersessione pervenne alla Commissione centrale una fiumana di osservazioni dei Padri, tra cui, spesso a nome di interi episcopati, alcune proposte di rifacimento dello schema. Così negli Acta synodalia si incontrano lo schema tedesco, quello francese, quello cileno, quello belga, gli schemi Parente, Elchinger, Ghattas, Feltin, dal nome dei vescovi che li presentarono. Dietro alcune di queste proposte si indovinano i volti dei più noti teologi del tempo: Rahner, Ratzinger, De Lubac, Congar. La linea di tendenza di tutte le proposte era una presentazione della Chiesa in chiave più teologica.
Davanti a tutto questo materiale, la Commissione decise di adottare lo schema belgicum, detto anche schema Philips, dal nome del perito che aveva curato la proposta e che nella Commissione svolgeva la funzione di segretario. Peraltro, la scelta era nella linea della continuità, perché la caratteristica dello schema Philips era di riprendere in toto lo schema de Ecclesia, inquadrandolo – con poche varianti – in una griglia di temi che conferivano unità al testo: I) che cosa sia la Chiesa; II) come sia articolata; III) come viva; IV) che relazioni intrattenga con gli altri cristiani; V) che relazioni intrattenga con la società civile.
La prima sezione prevedeva due capitoli: "Il mistero della Chiesa, popolo di Dio e Corpo di Cristo" (I) e "La necessità della Chiesa per la salvezza" (II). La seconda sezione si articolava invece in tre capitoli, che trattavano rispettivamente: della gerarchia (III), dei laici (IV) e dei religiosi (V). A seguire, la terza sezione prevedeva tre capitoli, sulla funzione del magistero (VI), sull’autorità e l’obbedienza nella Chiesa (VII), sull’evangelizzazione (VIII); e la quarta altri due capitoli: sull’ecumenismo (IX) e sulla relazione della Chiesa con la società civile (X).
Di fatto il testo presentato ai Padri – lo schema compendiosum – comprenderà unicamente le prime due sezioni, comprensive di soli quattro capitoli, essendo stati i primi due fusi in uno solo. Praticamente si trattava di un capitolo dottrinale sul mistero della Chiesa, completato dalla trattazione sui membri della Chiesa che molto si avvicina a una trattazione sugli stati di vita. Già in fase di discussione, il card. Suenens presentò una mozione di riordino dei capitoli, con la richiesta di creare un capitolo che sottolineasse gli elementi di uguaglianza dei membri del popolo di Dio (II) prima di trattare distintamente della gerarchia (III), dei laici (IV) e dei religiosi (V). Il capitolo doveva essere costruito scorporando gli elementi del capitolo sui laici che si riferivano a tutti i battezzati, in particolare il tema del sacerdozio comune e del suo esercizio nella partecipazione alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, con l’aggiunta del cap. II dello schema de Ecclesia sui criteri di appartenenza alla Chiesa, rivisti alla luce del criterio della cattolicità.

La novità

Fu così che nacque il capitolo "De populo Dei". La sua finalità era di illustrare ulteriormente la natura e il fine della Chiesa, mostrandone non tanto la dimensione misterica, quanto quella storica di popolo in cammino. Scartata l’idea di unire il materiale in questione al già corposo capitolo I, si optò per un capitolo distinto. In questo modo il capitolo I metteva a tema il mistero della Chiesa, dalla sua fondazione nel pensiero di Dio alla sua consumazione escatologica, il capitolo II andava a descrivere la Chiesa come soggetto storico, in cammino tra l’evento-Cristo e la parusia.
Due tronconi già contenuti nello schema de Ecclesia (gli attuali nn. 10-12 sull’esercizio del sacerdozio comune dei fedeli) e i nn. 14-15 (sui fedeli cattolici e non-cattolici, con l’integrazione del n. 16 sui non-cristiani) sono stati inquadrati in un insieme coerente dai nn. 9.13.17, scritti da Y. Congar. Il filo che lega i nove paragrafi è l’unità e varietà del popolo di Dio. I nn. 9-12 sviluppano l’unità, affermando anzitutto la radicale uguaglianza di tutti i membri della Chiesa in forza del battesimo, recuperando nella teologia cattolica il tema del sacerdozio comune dei fedeli, su cui era calato il silenzio da ben quattro secoli nella Chiesa a causa della polemica antiluterana, e descrivendo la capacità della Chiesa come totalità dei battezzati di essere soggetto attivo, attraverso la partecipazione di tutti alla funzione profetica, sacerdotale, regale di Cristo. I nn. 13-17 trattano invece della cattolicità della Chiesa, affermando anzitutto la destinazione alla salvezza di tutti gli uomini, i quali, a diverso titolo e in diversi gradi, sono «chiamati a formare il nuovo popolo di Dio». Su questa comune destinazione si fonda tanto la relazione della Chiesa con i non-cattolici e i non-cristiani, quanto la sua missione di annunciare il Vangelo e di instaurare il regno di Dio.
Chi conosce la genesi del testo sa che la novità del capitolo non sta tanto nei suoi contenuti, già presenti in larga parte nello schema de Ecclesia. La novità sta piuttosto nella loro collocazione: la creazione di un capitolo che trattasse ciò che è comune a tutti i membri della Chiesa prima di ciò che li distingue – le funzioni, i ministeri, gli stati di vita – ha prodotto, in forza di questo solo fatto, un terremoto nell’impostazione tradizionale dell’ecclesiologia. Novità che investe, naturalmente, il principio su cui si fonda la Chiesa stessa: la radicale uguaglianza di tutti i battezzati in forza della comune rigenerazione in Cristo. Se il più alto titolo di dignità nella Chiesa è la condizione di figli di Dio, e questa è per tutti uguale, «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici», il modello piramidale di Chiesa risulta ormai impraticabile.
Ma non si tratta semplicemente di un ribaltamento di posizioni, la creazione di un modello che qualcuno ha voluto descrivere come "piramide rovesciata". A dispetto della lettura polemica introdotta dopo il Concilio, in gioco non è chi sta sopra e chi sotto, chi comanda e chi ubbidisce, ma cosa sta prima e cosa dopo. In altre parole, il capitolo II della Lumen gentium afferma un primato della vita teologale come principio fondativo della Chiesa: «Questo popolo messianico ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio» (9). Perciò la Chiesa è «il nuovo popolo di Dio», «l’assemblea di coloro che guardano nella fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace» (9), la «comunità sacerdotale» organicamente strutturata, il cui fine è «quella perfezione di santità» a cui tutti sono chiamati (cf 11): «Stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo tratto in salvo» (9.10; 1Pt 2,9s).

Le implicazioni di una scelta

Anche a voler minimizzare la portata del capitolo, la descrizione della Chiesa come popolo di Dio costituiva una novità tale che si imponeva un radicale ripensamento delle relazioni, delle strutture, degli stili ecclesiali.
Il primo e più decisivo dato in controtendenza era l’affermazione della radicale uguaglianza di tutti i membri della Chiesa, che introduceva un elemento di discontinuità con almeno mille anni di storia, durante i quali la Chiesa si era pensata sul rapporto asimmetrico tra gerarchia e fedeli, finendo per identificarsi con la Chiesa docente e, in ultima analisi, con il Papa. Diretta conseguenza di quell’affermazione era l’importanza data all’esercizio del sacerdozio comune, che obbligava a ripensare il sacerdozio ministeriale non più in termini di potere o di dignità, ma di servizio al popolo di Dio. Senza sminuire l’agere in persona Christi proprio del ministro ordinato, anzi mostrandone la funzione irrinunciabile, il capitolo sottolineava la parte attiva che la Chiesa come totalità dei battezzati è chiamata a svolgere attraverso la partecipazione alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo.
Per quanto le tre forme di partecipazione al sacerdozio di Cristo non siano distintamente trattate nel capitolo, come avverrà ai nn. 25-27 per la gerarchia e ai nn. 34-36 per i laici, dai nn. 11-12 emerge il profilo di una Chiesa come totalità dei battezzati che trova nell’esercizio del sacerdozio comune la modalità propria di attuazione ed espressione della vita cristiana. Anche qui, nessuna rivendicazione alternativa, ma la descrizione di una Chiesa matura che, nutrita dai sacramenti e fortificata dall’esercizio delle virtù (cf 11), è capace di quella testimonianza di santità in grado di «rendere ragione della speranza della vita eterna» (10; 1Pt 3,15). Anche l’enfasi sulla partecipazione alla funzione profetica di Cristo e sul «consenso universale in materia di fede e di morale» del popolo di Dio (12) altro non è che la sottolineatura di una capacità a cui era ricorso ben due volte il magistero pontificio, in occasione delle definizioni dogmatiche dell’Immacolata Concezione (Pio IX: 8.12.1854) e dell’Assunzione al cielo di Maria (Pio XII: 1.11.1950). Nuovo risultava invece il discorso sui carismi, e tuttavia già aveva trovato il suo spazio nel capitolo I della costituzione (cf 4.7).
Quanto, tuttavia, elementi tradizionali della dottrina cristiana possano sovvertire un ordine costituito, lo dimostra la seconda parte del capitolo: paragrafi elaborati per fondare la necessità della Chiesa per la salvezza secondo l’assioma "extra Ecclesiam nulla salus", peraltro inteso in senso restrittivo, alla luce della destinazione universale della salvezza si trasformano nella più lucida proposta di dialogo ecumenico e interreligioso che la Chiesa abbia mai formulato. I cerchi concentrici con cui LG 14-16 disegna il rapporto della Chiesa con i suoi membri, con i non-cattolici e i non-cristiani costituiscono non solo l’affermazione del principio, ma anche la ricerca delle vie per rendere visibile e reale il fatto che «tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio» (13). La comune destinazione al Regno, senza nulla togliere alla missione della Chiesa, anzi sollecitandola in termini di testimonianza coerente (cf 17), apre al dialogo con tutti, secondo la loro condizione, «affinché la pienezza del mondo intero passi nel popolo di Dio, corpo del Signore e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, capo di tutti, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell’universo» (17).

I motivi di una troppo debole recezione

Perché tanta difficoltà a recepire questa visione di Chiesa? Certamente pesa la polemica su carisma e istituzione, che ha irrigidito le contrapposizioni e strumentalizzato i termini, caricandoli di valenza ideologica. Se era giusto criticare lo stato di passività supina dei fedeli di fronte a una gerarchia egemone, risulta una falsificazione della realtà ipotizzare un popolo di Dio come forza critica perennemente contrapposta alla gerarchia: il dissenso non saliva tanto dal popolo di Dio, ma da gruppi organizzati, fossero teologi o cristiani che amavano definirsi "impegnati", i quali si comportavano come lobbies di potere che usavano il richiamo al popolo di Dio per spostare il peso dell’opinione pubblica e affermare le proprie idee.
La conseguenza pesante di questa polemica è stata di stravolgere dottrine che dovevano essere unicamente recuperate alla coscienza cattolica. Così, ad esempio, la pretesa di trasformare in bandiera il sacerdozio comune, consegnandolo a istanze rivendicatorie che non gli appartengono, ha comportato la scelta di rompere la sua correlazione necessaria con il sacerdozio ministeriale, in palese contraddizione con la natura stessa di questa forma di partecipazione al sacerdozio di Cristo: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque non differiscano per grado, ma per essenza, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, perché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacrificio di Cristo» (10).
Stessa conseguenza per il sensus fidei, che trova la sua massima espressione ed efficacia nella «singularis antistitum et fidelium conspiratio» («singolare unità di spirito tra pastori e fedeli»: Dei Verbum 10, che riprende la Munificentissimus Deus di Pio XII).
Eppure non sembra sufficiente la polemica a spiegare la faticosa recezione del capitolo sul popolo di Dio: semmai questa appare più come il pretesto per liquidare un tema scottante, forse difficile da digerire anche per molti di quanti l’avevano approvato, quando si sono resi conto delle implicazioni che comportava. Figurarsi per quanti non desideravano altro che ristabilire lo status quo, cancellando questa sorta di concezione "democratica" della Chiesa.
Che si sia trattato di un pretesto, o dell’incapacità a concepire una funzione attiva della Chiesa come totalità dei credenti, sta di fatto che il tema è scomparso dalla riflessione ecclesiologica e non entra nel vissuto della Chiesa. Non tanto perché non si parli di popolo di Dio: a ben vedere, i manuali di ecclesiologia dedicano sempre una sezione al tema. Piuttosto, non si parla di sacerdozio comune (ne è dimostrazione evidente la letteratura prodotta durante l’Anno sacerdotale!), né di senso della fede del popolo di Dio; il capitolo sui carismi rimane una terra tanto decantata quanto inesplorata, quasi si temesse una destabilizzazione degli equilibri faticosamente raggiunti. Si parla invece, e tanto, di laici e di teologia del laicato, decantandola come un capitolo del rinnovamento conciliare: a parere di chi scrive, questo tema rappresenta piuttosto una scorciatoia che finisce per rinverdire il rapporto asimmetrico tra gerarchia e fedeli, sul registro della collaborazione, di sottoporre la Chiesa a un nuovo processo di "clericalizzazione", con buona pace per la radicale uguaglianza di tutti i battezzati come affermazione fondamentale del capitolo sul popolo di Dio.
La questione è cosa fare per riattivare un processo di autentica recezione, prima che il capitolo De populo Dei sia liquidato come anticaglia, cifra di un sogno mai diventato realtà. Forse la cosa più utile, mentre si fanno grandi discussioni sullo "spirito del Concilio", è di ritornare a rileggere seriamente il testo.

Dario Vitali

Ordinario di Ecclesiologia presso  la Pontificia Università Gregoriana

(da Vita Pastorale, n. 9, 2010)

 

Letto 2933 volte Ultima modifica il Mercoledì, 20 Marzo 2013 16:43
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search