4. La storia della salvezza: inizio e compimento
Non costituisce nulla di notevole affermare che una storia ha un inizio e un compimento; eppure nella storia della salvezza, questo ha un significato particolare e speciale, e la distingue da ogni altra storia. A dire il vero, la cosa non è senza sorprese, perché nella teologia ci sono stati anche dei cambiamenti significativi, accompagnati da polemiche, poi superate nella grande avventura del concilio ecumenico, negli anni 1962-65. La cosa singolare è costituita dalla discussione sull’inizio e su come interpretarlo. Tutto sembra iniziato nel 1946, quando il teologo francese H. de Lubac pubblicò l’articolo Surnaturel sulla rivista Recherches de science religieuse.
Non si trattava certamente di cambiare delle date, ma di stabilire un principio generale circa la storia della salvezza. Tutti sappiamo che la Bibbia inizia con il racconto della creazione e che l’inizio del Credo dice la stessa cosa, ma in teologia, soprattutto in quella occidentale, fu interpretato in modo del tutto diverso. Che valore dare a quell’inizio? In Occidente, almeno da sant’Agostino in poi, l’attenzione dei teologi si spostò dal primo al terzo capitolo della Genesi, cioè al peccato dell’umanità, passato poi alla storia come peccato originale.
Questo spostamento provocò una vera rivoluzione o un capovolgimento in teologia; esso proseguì con alterne vicende, inclusa quella drammatica del Protestantesimo, fino ai nostri giorni. È forse il capitolo meno riuscito nella nostra teologia, perché dava al peccato un primato che non gli spetta, se appena si fa un po’ di attenzione a quanto scrive san Paolo in Rom 5,19-22: laddove abbondò il peccato, lì sovrabbondò la grazia. L’insistenza sul peccato, e chi può negarne l’esistenza?, non deve squilibrare i rapporti, così ben descritti da san Paolo. Ma il pericolo di questo squilibrio c’è stato e ha procurato più di qualche problema.
In primo luogo la creazione non costituì l’inizio della storia della salvezza, ma un preambolo, che dava luogo ad un altro inizio, con la promessa della salvezza futura, come leggiamo in Gen 3, 14s. ciò comportò la divisione della storia in due sezioni, divise fra di loro: una storia del fine naturale ed un’altra di quello soprannaturale. Le conseguenze di questa impostazione non furono indifferenti, legate come sono al ricordo del Limbo. Esso nella concezione più mite, ma che risale agli anni ’20 del 1500 ed è legata al nome illustre di Tommaso de Vio, vescovo cardinale di Gaeta, da ciò il soprannome di Gaetano, prevedeva una doppia destinazione dei bambini, morti prima dell’uso di ragione, con o senza battesimo. Per i primi c’era il paradiso, per i secondi il Limbo, concepito come un luogo naturale di felicità, ma senza la comunione con Dio, se non in quanto conosciuto come principio e fine delle cose, con la sola ragione.
Questo era già un passo avanti, perchè antecedentemente il Limbo era concepito come il primo girone dell’inferno, e dunque nell’assenza di Dio. Ma il miglioramento introdotto dal Gaetano non era in linea con il progetto generale della salvezza, letto nella luce della redenzione operata da Cristo. Una storia umana con due fini molto diversi fra di loro, non poteva soddisfare a tutte le esigenze di sapienza e ricchezza contenute nel Vangelo. Un fine ultimo naturale, costituito dalla conoscenza filosofica di Dio, era distante anni luce da quello soprannaturale, consistente nella comunione personale ed immediata di Dio, come sommo bene dell’umanità.
Per questo motivo de Lubac cominciò a riflettere su questa sconnessione, determinata dal fatto che non si era dato il giusto spazio e la dovuta attenzione alla sovrabbondanza della redenzione. Come si poteva pensare che l’opera di Cristo poteva essere limitata ad alcune persone, indipendentemente dalla loro volontà? Gli effetti del peccato erano più forti di quelli della grazia, se avevano diviso in due sezioni la storia della salvezza? A de Lubac la cosa parve davvero strana ed allora, dopo lunga riflessione, con l’aiuto determinante di san Tommaso d’Aquino, suggerì l’idea di una riformulazione teologica proprio sul concetto di soprannaturale, nei termini sopra ricordati, ma con l’aggiunta di motivazioni ulteriori.
La prima veniva suggerita proprio da san Tommaso, quando egli, parlando del fine dell’uomo, affermava che in ognuno di noi c’è ‘un desiderio naturale di vedere Dio’. Ogni parola era debitamente soppesata, a cominciare dal desiderio. Non si trattava di un diritto da parte nostra, quanto invece di un orientamento, di una tensione o proiezione, scaturiti dal fatto che l’uomo, filosoficamente inteso, in quanto dotato di spirito immortale, è proteso per costituzione verso Dio ed è caratterizzato dal desiderio di vederlo, cioè di comunicare personalmente con lui, nella linea della conoscenza e dell’amore. Questo desiderio può essere soddisfatto unicamente da Dio ed ancora nella linea della grazia e non dello sforzo umano. In concreto, il Vangelo ci dice che tutto questo è stato realizzato, gratuitamente, dal Cristo Gesù. È opera della grazia, non del merito umano. Ma la grazia di Cristo è certamente universale ed è offerta a tutti gli uomini. Per cui risulta del tutto improprio parlare di due fini, se non per un gioco di ipotesi teologiche non verificabili.
La conclusione di queste riflessioni portò il de Lubac a dire che esisteva una sola storia della salvezza e che questa aveva il carattere di universalità ed aveva inizio con la creazione. Così questa era il primo capitolo ed la resurrezione ne era l’ultimo. Si può subito vedere che questi capitoli non sono cronologicamente statici, nel senso che la creazione non interessa il passato e la resurrezione il futuro, ma entrambi coesistono, senza dimenticare che c’è un inizio ed una fine.
A questo punto possiamo aprire una parentesi per illustrare un tema di particolare importanza. Negli anni ’30 del secolo scorso, il teologo tedesco luterano G.von Rad si fece conoscere per la pubblicazione di una importante Teologia dell’Antico Testamento. Fra le cose notevoli che espone, c’è quella della esperienza di fede del popolo di Israele, collegato all’epopea dell’Esodo. Esso è il cuore della storia della salvezza, collegato necessariamente con la celebrazione dell’alleanza con Dio. La centralità dell’Esodo, determinata dalla importanza dei contenuti di fede e di esperienza, fa sì che Israele rilegga e comprenda la storia del passato alla luce del presente, che è più raggiungibile e sperimentabile. La riflessione sugli eventi dell’Esodo hanno aiutato Israele a pensare e credere anche nella creazione, perché il Dio che li aveva liberati dall’Egitto si era mostrato come Signore degli eventi e della storia. Ciò poteva avvenire solo se egli era anche il creatore.
La creazione dunque, era una conclusione teologica, letta nella luce della esperienza di salvezza che aveva il suo cuore nell’Alleanza. Da ciò anche la conclusione significativa che l’ultimo concilio ha sancito, che, cioè, la storia della salvezza è unitaria ed ha il suo inizio con la creazione. Che essa sia il primo capitolo di una lunga storia salvifica, lo dice e conferma l’esperienza di fede che anche noi oggi viviamo. C’è un modo di fare profezia rivolto anche al passato, come del resto la nostra professione di fede esprime chiaramente: noi annunciamo la resurrezione di Gesù, evento del passato e nello stesso tempo verità che illumina il presente.
Riprendendo allora il bandolo del discorso, diciamo che l’inizio della storia della salvezza non è una cosa senza interesse. L’aver indicato che esso coincide con la creazione, ci dà l’opportunità di considerare lo svolgimento della salvezza come un tutto organico, anche se ha avuto ed ha momenti di pausa e di sbandamento, certamente non da parte di Dio, ma da parte nostra. Non per nulla fra i rimedi che Cristo ci ha dato c’è quello della penitenza e della rinnovata conversione. Ma avere la conferma dell’unità della storia salvifica, significa anche avere un’apertura ecumenica a cui lo Spirito ci apre, perché noi non ne saremmo capaci.
Mons. Marino Qualizza