Dalla legge morale si distingue la legge positiva, promulgata da un'autorità legislativa. Ci riferiamo all'autorità politica, preposta al governo della civitas, della polis: la societas delle persone istituita dalla legge e dall'autorità che la promulga e se ne fa garante. Di qui il problema della legislazione in campo bioetico, dell'emanazione di leggi regolative delle scelte e dei comportamenti dei cittadini (leggi civili) nel campo della vita e della sua tutela, ad opera del potere politico. Legislazione in crescita esponenziale oggi, provocata dalle progressive, inedite e pervasive possibilità d'intervento sulla vita umana. Il problema si pone a un duplice livello: "di principio" (de iure), vale a dire di postulati di giustizia legislativa; e "di fatto" (de facto), ossia di condizioni effettive di elaborazione legislativa, in una contingenza storica determinata e concreta.
Bene della vita e bene comune
Al primo livello la questione concerne il paradigma e il motivo dell'intervento legislativo: ci s'interroga sul principio-guida dell'azione legislativa e sul perché e quando della stessa. Il paradigma vuol dire il parametro assunto a principio di legislazione: il criterio in base al quale il legislatore elabora regole di comportamento, e queste possono dirsi giuste e doverose per i cittadini. Tale criterio è costituito dai diritti della persona che la legge riconosce e garantisce, prescrivendo i correlativi doveri di rispetto e tutela.
In bioetica si tratta del diritto primario e basilare alla vita, alla sua integrità, indisponibilità e inviolabilità. E così stabilita la continuità tra diritto e morale, tra legge civile e legge morale, essendo il diritto la traslitterazione giuridica del bene morale, che gli sta alla base: nel nostro caso il bene morale della vita. Questa traslitterazione è esito della razionalità giuridica, in continuità logica con la razionalità etica. Ciò significa che la bioetica prende forma istitutiva nel biodiritto, che la biopolitica fluisce dalla bioetica, che alla base della legislazione civile c'è la legge morale. Dire morale è dire il bene della persona - in bioetica il bene della sua vita, della sua salute - e del riconoscimento e rispetto che esso comporta; fino alla sua istituzione ed esigibilità legale, in un ordine di diritto e giustizia.
Questa fondazione personalistica del diritto - che assume il bene morale della persona a paradigma di legalità - è compromessa oggi da un modello atipico e alternativo, che va sotto il nome di consensualismo e proceduralismo. Per esso il diritto non trae consistenza e vigenza da una natura oggettiva umana, da un'ontologia della persona e delle persone in relazione tra loro e con il mondo, ma da una deliberazione e statuizione politica. Nel primo caso il diritto è riconosciuto, nel secondo è originato dall'uomo. Di conseguenza, la legge non regola e tutela diritti che la precedono ma che essa stessa istituisce. Come? Per via consensuale e procedurale.
Il che significa attraverso il consenso degli individui e delle parti, ottenuto con la formale osservanza di procedure legislative previamente stabilite. Cosicché tutto ciò che viene statuito nel rispetto delle regole procedurali - prima fra tutte, in democrazia, la regola del 51 % - diventa diritto e legge. Al principio del diritto e della legge non c'è la persona ma il potere, non c'è la verità morale ma l'opinione maggioritaria. Il che è accettabile per leggi di contenuto convenzionale (umanamente indifferenti), non di valore morale (umanamente rilevanti). Questo sviamento fondativo spiega il costituirsi di diritti e leggi eticamente discuti bili: diritti espressioni di desideri, e leggi lesive della dignità e sacralità della vita.
Al primo livello si pone ancora la questione del motivo dell'intervento legislativo. Perché una codificazione e un vincolo giuridico? Non basta la legge e il vincolo morale? A reclamarli sono esigenze di bene comune: quel bene che gli individui ricercano unendosi in comunità sociale e politica, a garanzia effettiva ed efficace dei propri beni, riconosciuti e fatti valere in essa come diritti. Di questi, la vita umana è il bene primo e fondamentale. Esso non ha valenza unicamente individuale, ma altresì sociale e pubblica, che il garante del bene comune - lo Stato - riconosce e assume a promozione del valore e della qualità, a tutela della indisponibilità e inviolabilità e a cura della salute; in ogni condizione e fase del suo sviluppo, con attenzione privilegiata a condizioni e fasi di piccolezza e fragilità. Tanto più quanto più l'assenza di una copertura legale può dar luogo a condotte abusive o omissive verso la vita.
Se n'è avvertito, tra l'altro, il bisogno in Italia per disciplinare la donazione e il trapianto di organi, tutelando la libertà e la vita del donatore ed evitando abusi e sfruttamenti (Legge 91/1999); per regolamentare la fecondazione extra-corporea, mettendo fine al cosiddetto far west della provetta (Legge 40/2004); per scongiurare vie surrettizie all'eutanasia (come la via giudiziaria nel caso Englaro), attraverso una legge – in via d'approvazione in parlamento di tutela della vita terminale da pratiche sia di abbandono che di ostinazione terapeutica. Di un sapiente assetto legislativo s'avverte particolare bisogno in genetica, per prevenire interventi abusivi e lesivi dell'identità e integrità del genoma umano.
Nel "qui e ora" di una contingenza sociale e politica
Il problema della legislazione bioetica è da considerare altresì nella sua elaborazione di fatto, vale a dire nel qui e ora di un'assemblea legislativa di un determinato Paese, nella molteplicità delle espressioni culturali, morali e politiche che la segnano e delle maggioranze che in essa si formano. Nel contesto pluralistico e multiculturale che caratterizza oggi le nostre società e le loro rappresentanze politiche - investite dalla ventata relativistica che indebolisce i valori morali - diventa sempre più difficile la trascrizione completa della legge morale in legge civile, soprattutto in questioni eticamente sensibili, di cui quella bioetica è la più esposta. Essa è al centro dell'agone socioculturale oggi tra i sostenitori del bene primario della vita (i pro life) e quelli che considerano primario il bene della libertà (i pro choice). Agone che deborda in politica nella contesa tra quanti vogliono la legge civile a tutela della vita umana in tutto il suo valore, e quanti invece a garanzia della libera scelta degli individui in questioni bioetiche.
Come si vede, il problema qui non si pone nei termini dottrinali della legge morale, ad opera della ragione etica e del suo rigore logico; ma in quelli congiunturali della legge positiva, ad opera di un'assemblea legislativa e delle sue maggioranze possibili. Nulla quaestio dove si riesce a costituire maggioranze a tutela integrale della dignità e sacralità della vita. Ugualmente sul versante opposto, dove tale dignità e sacralità sono radicalmente disattese: il politico amante della vita - come il parlamentare cattolico - esprime la sua totale contrarietà a leggi lesive di esse.
Il problema sorge in presenza di una legge non interamente rispondente alle esigenze morali in essa implicate (perché non le garantisce tutte e/o non premunisce da tutti i possibili abusi), quando il voto ad essa contrario di parlamentari che vogliono una legge pienamente morale finisce col favorire la formazione di maggioranze più libertarie, a sostegno di una legge ancor più lesiva del bene della vita, o coll'assecondare quel vuoto di legalità in cui allignano impunemente comportamenti anti-vita. In questo caso il parlamentare profondamente convinto del bene irriducibile della vita, che dà voto favorevole a quella legge, compie un atto per la vita, per la sua migliore tutela nella concretezza delle possibilità che gli si offrono, sottraendola in questo modo agli abusi di una legge più permissiva o dell'assenza di legge che il suo disimpegno può provocare.
Nell'impossibilità di garantire tutto il bene, la morale chiama ad assicurare il bene concretamente possibile, tanto più quanto il tirarsi fuori favorisce l'affermarsi del male. E poi quale legge civile - specie in ambito bioetico - può dirsi moralmente esaustiva, riuscendo a prevedere tutti i casi, gli sviluppi e le variabili del bene da garantire e del male da proibire? Davanti a queste impossibilità e insufficienze i parlamentari pro life che devono fare? Arretrare in una posizione da "duri e puri", autocompiacendosi della propria purità e tacciando di correità chi nell'agone della politica cerca pazientemente di ottenere la migliore copertura legale possibile del bene della vita?
Arroccarsi in una logica del "tutto o niente" - come incitano a fare certi gruppi massimalisti e intransigenti - è fuggire dalle durezze del reale; nel nostro caso, dalle asperità della mediazione politica del bene della vita, e finire col fare il gioco dei suoi detrattori. Non è vero che sottrarre un bene alle mediazioni della politica e della legalità, per preservarlo dalle loro incompiutezze, vuol dire assicurarne la purezza. Significa piuttosto esporlo a poteri altri e abusivi, che s'insinuano nel vuoto di legalità. Molte volte - nella mediazione politica del bene - volere di più significa dissipare il possibile.
Ci sovviene in questo l'insegnamento autorevole della Chiesa. Vale per l'intero campo della bioetica quanto Giovanni Paolo II nell'enciclica Evangelium vitae, dice a proposito dell'aborto: «Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa a una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. [...] Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui» (73).
E’ nel solco di questa sapienza ponderatrice che i cattolici in Italia hanno dato il proprio consenso e sostegno a una legge come quella sulla fecondazione extracorporea (40/2004), non del tutto in linea con gl'insegnamenti della Chiesa; e si trovano persino a difendere una legge come quella sull'interruzione di gravidanza (194/1978), in ciò che essa contiene di moralmente valido e in cui viene disattesa. Così facendo, essi non approvano gli elementi deplorevoli della legge, ma riconoscono e promuovono i contributi positivi.
Con questa apertura operativa e mentale, essi cooperano efficacemente al progresso etico e bioetico del Paese. Non si chiudono in una professione massimalistica e fideistica del bene della vita, ma in nome del bene morale e alla luce della ragione pratica si uniscono a tutti gli uomini e le donne amanti della vita per la migliore legislazione possibile a sua tutela e promozione.
Mauro Cozzati
professore di teologia morale nella Pontificia università lateranense e nell'Accademia alfonsiana
(da Vita Pastorale, anno 2011, n. 10, p. 89)