Nel libro di Isaia i cc. 34-35 costituiscono un testo letterario autonomo, costruito come un dittico antitetico ed inserito in questo contesto nell'ultima fase della redazione. In genere questo poema viene definito la «piccola apocalisse» di Isaia, per distinguerlo da un altro più ampio testo apocalittico inserito nel corpo isaiano ai cc. 24-27 e chiamato abitualmente la «grande apocalisse». Questa definizione abituale degli esegeti lascia intendere che il poema in questione appartenga al genere letterario che i moderni hanno indicato con il nome di apocalisse.
Un poema «apocalittico»
Oltre all'indagine letteraria su questo genere di testi, studi recenti (1) hanno cercato di ricostruire una storia dell'apocalittica, intesa come corrente di pensiero alternativa al giudaismo di Gerusalemme, che, adoperando un particolare linguaggio, ha prodotto una grande quantità di testi, alcuni dei quali sono stati inseriti nel canone biblico. (2)
La particolare visione del mondo condivisa dagli autori che chiamiamo «apocalittici» può essere sintetizzata con uno schema teologico-letterario in quattro momenti. Innanzi tutto, questi pensatori partono dalla constatazione che il mondo ed il tempo presente sono irrimediabilmente corrotti: una forza maligna sovrumana sta rovinando tutto e l'umanità non è in grado di opporre una controffensiva risolutrice. Perciò, il secondo momento dello schema è costituito dalla fervida attesa di un intervento decisivo e definitivo da parte di Dio che ribalti la situazione, dal momento che solo lui può fare qualcosa; tale intervento è descritto con immagini catastrofiche, per rappresentare il completo capovolgimento della storia.
Tale irruzione del divino nel mondo è spesso presentata con le immagini del combattimento, per esprimere lo scontro fra Dio ed il male del mondo. L'esito di tale conflitto costituisce gli altri due momenti dello schema teologico apocalittico, giacché viene prospettato come duplice e contrastante. Da una parte, la vittoria divina contro il male comporta la completa eliminazione dei malvagi e di ogni causa di corruzione; dall'altra, invece, determina un grande beneficio per i fedeli che potranno godere finalmente la pace paradisiaca in un mondo rinnovato.
L'intervento di Dio produce effetti diversi
Il poema di Is 34-35 esprime proprio, con una ricca serie di immagini poetiche, questo schema apocalittico dell'intervento di Dio nella storia, caratterizzato da una profonda differenza di esito: morte o vita.
Letterariamente si tratta di un dittico antitetico, cioè la rappresentazione di un evento in due tavole contrapposte: il c. 34 costituisce la prima tavola, quella negativa, caratterizzata dal giudizio divino e dalla distruzione del male, mentre la seconda tavola, cioè il c. 35, è quella positiva che mostra gli effettivi salvifici del giudizio di Dio. Dato che fra i due quadri ci sono molti punti di contatto e lo schema di pensiero che li regge entrambi è lo stesso, possiamo affermare che si tratta già in partenza di un unico testo così strutturato dal suo autore e non di una composizione redazionale di due testi indipendenti.
Molte immagini che compaiono in questi capitoli e soprattutto le idee teologiche che vi fanno capolino sembrano derivare dall'anonimo profeta dell'esilio, autore dei cc. 40-55 del libro di Isaia, comunemente chiamato Secondo Isaia. Gli esegeti, quindi, sono in genere dell'avviso che l'autore di Is 34-35 sia un discepolo ideale del Secondo Isaia, vissuto probabilmente in terra di Israele fra il V e il IV secolo a.c. durante l'epoca persiana; (3) simpatizzante della corrente apocalittica, egli ha composto un poema teologico con l'intento di consolare i suoi destinatari, presentando come una certezza l'imminente intervento decisivo di Dio, capace di capovolgere le sorti della condizione umana.
Erede della tradizione profetica, egli annuncia «un giorno di vendetta per il Signore, l'anno della retribuzione» (34,8): l'espressione giorno del Signore è divenuta nel linguaggio profetico un termine tecnico per indicare il momento escatologico, vertice della storia della salvezza, in cui Dio realizzerà finalmente le sue promesse, punendo i traditori e premiando i fedeli. In questo senso si parla di vendetta (in ebraico naqam): noi, però, potremmo usare, come termine corrispondente e più comprensibile, rivendicazione. Il profeta. cioè, annuncia che il Signore interverrà per realizzare concretamente nella storia gli impegni dell' alleanza, rivendicando i propri diritti: chi si è messo contro di lui ne avrà un grave danno, mentre per chi gli è rimasto fedele si tratterà del momento buono della retribuzione.
Ai destinatari di questo poema l'autore si rivolge con tono consolatorio. Un'espressione importante al centro della seconda tavola evidenzia che l'intenzione di questo componimento sta nell'irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti (35,3). Il profeta, dunque, ha di fronte ed in mente persone stanche e deboli, forse deluse e demotivate; la sua intenzione è quella di dire agli smarriti di cuore: «Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi» (35,4). Ritornano in questa seconda tavola le stesse parole già incontrate nella prima: vendetta e ricompensa sono, infatti, i termini tecnici che indicano i due versanti dell'opera divina, quali punizione e salvezza. Di fronte alla corruzione del mondo e al dramma della storia anche i fedeli si trovavano smarriti, senza saper più che cosa pensare; probabilmente dubitavano della fedeltà di Dio ed abbandonavano la speranza di una soluzione reale. Proprio a costoro il profeta dice: «Coraggio! Il Signore mantiene il suo impegno di salvezza».
Un altro elemento poetico che lega strutturalmente le due tavole è l'immagine simbolica del giardino contrapposto al deserto. Il primo quadro, infatti, descrive un processo di desertificazione della civiltà: l'ambiente umano diviene bestiale ed invivibile, la terra e l'acqua si trasformano in pece e catrame, zolfo e fumo ne caratterizzano l'atmosfera e nessun uomo vi può più vivere. Con linguaggio moderno noi parleremmo di un disastro ecologico a dimensione cosmica: la realtà umana, intende dire il poeta profeta, è rovinata dal male e destinata ad una fine pessima. Ma il secondo quadro cambia completamente registro espressivo ed introduce le immagini deliziose di una trasformazione al contrario: il deserto diventa un giardino. La scena squallida e disumana si trasforma in un paradiso di delizie, in cui l'umanità viene guarita dai suoi mali e ricupera con grande gioia tutte le proprie potenzialità. In entrambe le tavole il principio ideale che regge le immagini poetiche è quello della trasformazione: il profeta apocalittico, infatti, annuncia e garantisce l'imminenza del cambiamento decisivo.
Infine, un ruolo significativo nei due quadri contrapposti è giocato dai simboli animali: nella scena negativa sono presenti come un incubo molte bestie selvatiche, fra cui spicca il serpente; mentre nella scena positiva si afferma espressamente l'assenza delle fiere, in modo particolare del leone. Il simbolismo animalesco è comune nell'immaginario apocalittico per indicare delle forze sovrumane che dominano la storia e schiacciano l'umanità: per il nostro modo di esprimerci un contrasto simile è riscontrabile nel significato allusivo di aggettivi come «bestiale» e «umano».
Vediamo ora più da vicino il contenuto dei due capitoli.
La tavola negativa: fine di Edom
«Questo poema ci presenta con vigore di immagini una visione tragica e lugubre; si tratta dell'esecuzione di un giudizio solenne e delle sue fatidiche conseguenze». (4)
L'intero capitolo 34 si può dividere in quattro parti:
l) v. 1: introduzione con appello universale;
2) v. 2-9: presentazione dell'intervento divino;
3) vv. 10-15: descrizione della desolazione bestiale;
4) vv. 16-17: conferma dell'autentica rivelazione. (5)
Il poema si apre con una solenne convocazione dell'universo intero: con l'insistenza su quattro elementi vien detto che destinatari dell'annuncio profetico sono i popoli e le nazioni, gli abitanti di tutta la terra e quanto il mondo produce. Proprio per tutte le creature vale il proclama: tutti gli esseri del mondo devono prestare ascolto a ciò che il Signore sta per fare, giacché la sua azione li riguarda proprio tutti.
La seconda parte (vv. 2-9) è ritmata in tre strofe, indicate letterariamente dalla ripetizione della particella ki (= perché), che introduce i contenuti da ascoltare:
1ª strofa: «Perché il Signore è adirato contro tutti i popoli» (vv. 2-4);
2a strofa: «Perché si è inebriata la spada del Signore» (vv. 5-7);
3a strofa: «Perché è il giorno della vendetta del Signore» (vv. 8-9).
La prima strofa (vv. 2-4) sviluppa l'idea dell'ira di Dio. Non si tratta di un furore passionale e violento, ma è un'immagine con cui i profeti evocano l'intervento giudiziale di Dio contro il male che rovina il mondo. Il simbolo che caratterizza questa strofa è il chérem, cioè lo sterminio religioso dei nemici: nell'antichità era prassi diffusa che i vincitori passassero a fil di spada tutti i nemici vinti e distruggessero i loro beni come sacrificio alla divinità del popolo vittorioso. Anche Israele aveva seguito nella sua storia arcaica queste pratiche e la tradizione teologica del Deuteronomio, nei secoli VII - V, riprendeva con insistenza questa tematica per incitare gli israeliti tiepidi ed incoerenti ad un'ardente difesa della propria tradizione religiosa. Tale premessa di teologia simbolica è indispensabile per una corretta interpretazione del messaggio profetico: infatti «la presentazione del Signore, che ha votato gli eserciti dei popoli allo sterminio, non voleva essere intesa come la predizione in un evento bellico che si concludeva con l'uccisione dei popoli in una ecatombe dalle proporzioni incalcolabili»; (6) voleva bensì indicare l'eliminazione di tutte le forze negative che ostacolano il progetto di Dio e si oppongono alla sua salvezza. Con ardore eccezionale il Signore compie il giudizio cosmico, che interessa soprattutto «la milizia celeste»: la ricca simbologia apocalittica vuole mostrare che l'intervento deciso e decisivo del Signore non è la fine «del» mondo, ma segna la fine «di un» mondo, quello del male.
La seconda strofa (vv. 5-7) evoca l'intervento divino come una battaglia contro Edom. L'immagine apocalittica del combattimento richiede un simbolico nemico: talvolta si tratta di una figura mitica primordiale (il Leviatan: Is 27,1), altre volte di un personaggio inventato dalla fantasia dell'autore (Gog: Ez 38,2), in altri casi come nel nostro testo si tratta di un nome storico assunto come paradigma simbolico negativo. Edom si prestava bene a questa operazione per diversi motivi: è infatti il popolo discendente di Esaù, fratello-nemico di Giacobbe antenato del popolo di Israele, e quindi un nemico naturale; durante la guerra babilonese contro Gerusalemme gli edomiti si erano alleati con Nabucodonosor e dopo la distruzione avevano saccheggiato la città ed angariato i superstiti; infine in ebraico le tre consonanti di Edom ('dm) sono le stesse del nome Adam, cioè «uomo», per cui era facile una generalizzazione che vedesse nel popolo idumeo un simbolo universale dell'uomo dominato dal male. (7) Vinta la battaglia in cielo contro le forze cosmiche negative. Dio interviene sulla terra con la spada (8) e nella capitale di Edom, cioè Bozra, compie una strage immane, che ha il carattere del grandioso sacrificio espiatorio. Il sacrificio, infatti, aveva la funzione di superare la rottura fra Dio e l'uomo a causa del peccato, cioè di creare nuovamente comunione: attraverso queste immagini, dunque, l'autore vuole mostrare l'intervento divino con la connotazione sacrificale e lo scopo di «fare giustizia», cioè rendere di nuovo possibile la vita.
La terza strofa (vv. 9-10) conclude la presentazione dell'intervento divino, mostrandolo come il giorno del giudizio, il momento decisivo in cui viene ristabilito l'equilibrio della giustizia. Ma questo segna definitivamente la fine del nemico: pece e zolfo richiamano l'antica distruzione di Sodoma (9) ed esprimono con crudezza un disastro irrecuperabile.
Proprio da questa ultima immagine prende avvio la terza parte del capitolo (vv. 10-15), che descrive le macerie fumanti della città del male, abbandonata dagli uomini e divenuta ricettacolo di animali selvatici. L'autore abbonda con gusto orientale nell'enumerare varie specie di strane bestie: pellicano, riccio, gufo e corvo, sciacalli, struzzi, gatti (o cani) selvatici, iene, satiri (cioè capre del deserto), civette, (10) serpenti e sparvieri. In particolare si insiste (v. 15) sulla presenza del serpente che vi pone la dimora e vi rafforza la sua discendenza, con probabile allusione simbolica al serpente delle origini (Gn 3). La potenza dell'uomo è scomparsa, il potere politico è ridotto a nulla; le fortezze ed i palazzi, simboli della prepotenza umana, sono soffocati dalle erbacce. L'autore sembra evocare un'autentica anti-creazione: «Il Signore stenderà su di essa la corda della solitudine e la livella del vuoto» (34,11 b). I termini ebraici adoperati (tohu e bohu) indicano il caos primordiale (Gn 1,2) e determinano un' amara ironia: gli attrezzi usati dal muratore per costruire (corda e livella) diventano per Dio strumenti di distruzione, anzi di annientamento. L'ordine urbano, dominato dal male, viene ridotto in caos dall'intervento di Dio: tutto è deserto!
La tavola positiva: gloria di Israele
Ma il deserto può fiorire! Il secondo quadro prosegue l'annuncio teologico proprio invertendo le immagini: al lugubre e squallido cumulo di rovine del c. 34 si sostituisce la visione di un mondo che germoglia e fiorisce, con un'umanità malata che guarisce e si mette a gridare di gioia e a camminare verso il grande obiettivo futuro. «Alla disintegrazione del cosmo si oppone la nuova creazione escatologica, che cambia il paese di Giuda in un fiorente giardino, quasi nuovo paradiso terrestre». (11)
Anche nel capitolo 35 si possono riconoscere, secondo i temi, quattro parti:
1) vv. 1-2: invito alla gioia;
2) vv. 3-4: istruzione divina agli smarriti di cuore;
3) vv. 5-7: descrizione della splendida condizione futura;
4) vv. 8-10: annuncio del raduno escatologico a Sion.
L'invitatorio dà inizio al poema positivo con una avvincente metafora: il deserto che fiorisce è l’immagine dell'umanità depressa che trova nuova possibilità di vita. La quadruplice insistenza sulla felicità («rallegrarsi, esultare, gioia e giubilo») esprime bene il contenuto della buona notizia profetico-apocalittica e la formula del comando esortativo («esulti e fiorisca») richiama le parole con cui Dio all'inizio aveva creato il mondo (Gn 1). In contrapposizione alla natura desertica e stepposa di Edom vengono ora ricordate le regioni più ricche di vegetazione: i monti del Libano, il promontorio del Carmelo e la pianura di Saron. Tutto questo splendore «è dato a lei» (35,2b): il passivo divino indica un'azione compiuta dal Signore stesso e la destinataria femminile del dono, non nominata espressamente, non può essere altro che la figura simbolica del popolo, sposa di YHWH.
Un altro pronome imprecisato («essi vedranno») allude chiaramente ai destinatari del poema consolatorio: sono gli smarriti di cuore, a cui si rivolge l'oracolo profetico che annuncia l'imminente venuta del Signore (vv. 3-4). Tale venuta è garanzia di salvezza: per questo il profeta può invitare alla speranza e al coraggio; non esprime, infatti, un generico ottimismo umano ed un vago anelito, ma propone l'attesa certa di un bene promesso dal Dio fedele che mantiene la sua parola.
Nella terza parte (vv. 5-6) la metafora della fioritura si assomma ad un corrispondente quadro umano: le quattro immagini naturali (deserto, steppa, terra bruciata, suolo riarso) trovano l'applicazione alla situazione umana con altre quattro immagini di handicap fisico (ciechi, sordi, zoppo, muto). Per due volte (v. 5 e v. 6) l'annuncio del cambiamento è introdotto dall'avverbio allora (in ebraico 'az): la prospettiva è futura ed indica un momento decisivo in cui le cose cambieranno, la drammatica situazione dell'uomo malato e impedito sarà curata e all'umanità verrà finalmente donata la capacità di vedere e di ascoltare, di camminare e di parlare. La ricchezza antropologica di questo simbolo è evidente ed assume una rilevanza ancora maggiore nella rilettura neotestamentaria che indica nei miracoli di Gesù a favore dei malati il segno della realizzazione messianica di questo oracolo apocalittico. (12)
Infine, l'ultima strofa apre ulteriori prospettive escatologiche, introducendo l'immagine del raduno universale nella città di Sion. Il tema del nuovo esodo, caro alla teologia del Secondo Isaia, ricompare nel tessuto simbolico di questo poema: nel deserto scaturisce l'acqua ed in esso si trova la via per giungere alla terra promessa. Gli esuli a Babilonia avevano avuto la promessa del ritorno a Gerusalemme su una via attraverso il deserto (Is 40,3-5): ora il discepolo del Secondo Isaia allarga l'orizzonte teologico e propone un pellegrinaggio cosmico di tutti i redenti, coloro che il Signore ha riscattato. Nell'ottica dell'apocalittica e dell'universalismo isaiano è possibile vedere in questa promessa l'annuncio del nuovo popolo di Dio, costituito finalmente da puri e saggi, perché salvati dal Signore che ha eliminato le forze maligne, simboleggiate dalle fiere e dal leone. La «via santa», comune negli antichi santuari come luogo di solenni processioni liturgiche, diviene l'emblema di un nuovo stile di vita, una realtà divina che dona all'uomo la possibilità dell'autentica felicità: il Messia Gesù è questa via (Gv 14,6) di novità.
Conclusione
Alla fine della prima parte del rotolo di Isaia il redattore ha inserito questo poema che può riassumere bene per contrapposizione i temi del giudizio e della salvezza; ma l'accento finale cade sulla gioia e la felicità e sull'annuncio che fuggiranno tristezza e pianto. Agli uomini sconsolati e preoccupati dalla prepotenza del male il profeta rivolge parole di speranza messianica: «Dio non è in alcun modo impotente di fronte ai mali terreni, anche se questi agli uomini sembrano irreparabili. Egli è in grado e pronto a compiere la nuova creazione che tutto trasformerà. Di fronte alla salvezza che ci si deve aspettare c'è da rimaner stupiti della potenza di Dio e della sua benevolenza per gli uomini». (13)
Nella persona di Gesù Cristo Dio è venuto a salvarci; nel mistero della su Pasqua di morte e risurrezione si è realizzato questo radicale capovolgimento che è una creazione nuova. L'opera della redenzione, infatti, ha distrutto il potere del male e ha donato all'umanità vita nuova; ha riscattato gli uomini e li ha incamminati verso il compimento escatologico; attraverso il «deserto» del mondo li accompagna come Via all'incontro definitivo nel «giardino».
Claudio Doglio
(da Parole di Vita, n.3, 1999)
1) Cf soprattutto P. SACCHI, L'Apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990.
2) Nel rotolo di Isaia sono riconoscibili i testi della «grande apocalisse» (/s 24-27) e della «piccola apocalisse» (Is 34-35), oltre al canto del «divino pigiatore» (Is 63,1-6); il poemetto di Gog inserito nell'opera di Ezechiele (Ez 38-39); la seconda parte del profeta Zaccaria (Zc 9-14); i libri di Gioele e di Daniele. Altri testi apocalittici, composti nell'epoca precristiana, sono considerati apocrifi dell'Antico Testamento. Anche la comunità cristiana del I secolo ha assimilato questa mentalità ed ha prodotto testi letterari di questo genere. È importante soprattutto la cosiddetta «Apocalisse sinottica»: Mt 24,1-44; Mc 13,1-31; Lc 21,5-36; ma anche nella letteratura paolina si trovano brani di questo genere (cf I Ts 4,16-17; 2 Ts 2,1-12) e il testo fondamentale è senza dubbio l'Apocalisse di Giovanni: cf B. CORSANl, L'Apocalisse e l'apocalittica del Nuovo Testamento, Bologna 1996.
3) B. MARCONCINI, L'apocalittica biblica, in: ID. (a cura di), Profeti e apocalittici (Logos. Corso di studi biblici, 3), Leumann-To 1995, p. 217: «È evidente il carattere antologico del dittico, con preponderanza di citazioni dal Secondo Isaia. Se numerosi autori fanno risalire i due capitoli al V sec. (P. Procksh, R.H. Pfeiffer, J. Morgenstern), i riferimenti letterari tardivi, l'antagonismo viscerale contro Edom, sulla via di diventare un simbolo, ci portano alla fine del periodo persiano». Cf J. VERMEYLEN, Du prophète Isaie à l'apocalyptique (Etudes Bibliques), I, Paris 1977, p. 445.
4) L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Roma 1984, p. 273. Cf J. MUILENBURG, «The Literary Character of Isaiah 34», in Journal of Biblical Literature 59 (1940) 339-365.
5) I vv. 16-17 non sono di facile interpretazione e sembrano una glossa, aggiunta da un redattore posteriore con l'intenzione di confermare la veracità di quanto è stato affermato. Il riferimento al «libro del Signore» potrebbe essere una allusione allo stesso libro di Isaia, inteso come documento sacro attraverso cui si esprime la bocca del Signore.
6) G. ODASSO, Isaia, in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato (Al) 1996, p. 1739.
7) Molti testi biblici dell'esilio e del post-esilio accusano fortemente il popolo di Edom e ne parlano come del peggior nemico: Ger 49,17; Ez 25,12; 35,5.11-12; Lam 4,21-23; Abd 10-16; Is 63,1; Sal 137[136], 7; Gl 4,19; MlI 1,3-4.
8) Nella tradizione popolare ebraica il termine lîlît, che in tutta la Bibbia compare solo qui ed è tradotto in genere come civetta, è venuto ad indicare un demone femminile che si aggira fra le rovine.
8) Elemento simbolico della battaglia, divenuto comune nel linguaggio apocalittico, applicato a Dio (Ger 46,10; Dt 32,42), ai fedeli nella gloria (Sal 149,6) o al Cristo risorto (Ap 1,16; 2,12).
9) Cf Gn 19,23-25; Dt 29,22; Ez 38,22.
10) Nella tradizione popolare ebraica il termine lîlît, che in tutta la Bibbia compare solo qui ed è tradotto in genere come civetta, è venuto ad indicare un demone femminile che si aggira fra le rovine.
11) S. VIRGULIN, Isaia, Roma 1977, p. 202.
H.A. EISING, Il Libro di Isaia (Commenti spirituali dell'Antico Testamento), I, Roma 1971, p.222.
12) Ai messaggeri del Battista, che gli chiedono se è davvero «Colui che deve venire», Gesù risponde con le immagini di questo poema, ma con chiaro riferimento alla propria attività a favore dell'uomo (cf Mt 11,4-6; Lc 7,22-23).
13) H.A. EISING, Il Libro di Isaia (Commenti spirituali dell'Antico Testamento), I, Roma 1971, p.222.