San Paolo e Pierre Teilhard de Chardin hanno concezioni della morte che a prima vista possono apparire assai diverse, per certi aspetti persino inconciliabili. Per l’Apostolo la morte è l’oltraggio supremo alla dignità di Dio e dell’uomo; entrata nel mondo come conseguenza del peccato (Rm 5,12.17; 1 Cor 15,21), vi regna sovrana (Rm 5,14). Tale concezione è ripresa dalla dottrina cattolica. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma senza mezzi termini: «Interprete autentico delle affermazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione, il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, sess. 5°, Decretum de peccato originali, canone 1: DS 1511). Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato (cfr. Sap 2,23 – 24). “La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato” [Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, 18: AAS 58 (1966) 1038], è pertanto “l’ultimo nemico” (1 Cor 15,26) dell’uomo a dover essere vinto» [1].
Nell’affermazione del Catechismo c’è una frase che esige spiegazioni: «Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire». Cosa vuol dire che l’uomo possedeva una natura mortale ma Dio lo destinava a non morire? Il teologo saveriano Battista Mondin lo spiega così: «Di per sé la morte, per quanto odiosa e dolorosa, non è un evento innaturale, ma è una conseguenza naturale della costituzione psicofisica dell’essere umano. Questi non è dotato soltanto di un’anima intellettiva spirituale, la quale è di diritto incorruttibile e immortale, ma anche di un corpo soggetto alla generazione e alla corruzione e pertanto alla disgregazione e alla morte. Tuttavia nei progenitori, Adamo ed Eva, la corruttibilità del corpo e quindi la morte, grazie a un dono speciale, erano state rimosse» [2]. San Tommaso, nella Summa, precisa in cosa consiste questo dono speciale: «Dio, a cui tutte le nature sono soggette, nel creare l’uomo supplì al difetto della natura dando l’incorruttibilità al corpo mediante il dono della giustizia originale. E in questo senso si dice che Dio non fece la morte e che la morte è punizione del peccato» [3].
Il conflitto tra visione scientifica e teologica
L’Aquinate, dunque, afferma che con questo dono «della giustizia originale» Dio «supplì al difetto della natura». Qui il divario tra la visione teologica e quella scientifica si fa ampio. Per la scienza moderna la morte non è affatto un difetto di natura ma, al contrario, un elemento vantaggioso e anzi necessario alla sopravvivenza della specie: se non esistesse la morte dei singoli individui le specie non sopravviverebbero né tantomeno potrebbero differenziarsi.
Il conflitto tra visione scientifica e teologica, quindi, non sta tanto nella trasmissione del peccato originale, come Pio XII scriveva nella Humani generis – anche perché in questi ultimi anni molti genetisti stanno rivalutando il monogenismo, ritenendo il poligenismo incompatibile con la teoria di Darwin [4] – quanto nell’immortalità dei singoli individui: se Dio non avesse revocato a Adamo ed Eva il dono della giustizia originale quanti uomini ci sarebbero oggi sulla Terra, soprattutto se teniamo conto dell’esortazione a «essere fecondi e moltiplicarci» di Gen 1,28? Possiamo davvero pensare che Dio avesse in mente di riempire fino all’inverosimile il nostro pianeta?
La morte secondo Teilhard de Chardin
Se per l’Apostolo la morte è un insulto alla dignità di Dio e dell’uomo, Teilhard, pur senza nasconderne il carattere drammatico, vede nella morte il momento/luogo privilegiato in cui si nasconde la forza ascensionale del mondo. Scrive Teilhard: «Essa (la morte) ci farà subire la dissociazione attesa. Ci porterà allo stato organico richiesto perché si precipiti su di noi il Fuoco divino. In questo modo, il suo nefasto potere di decomposizione e di dissolvimento verrà captato in vista della più sublime delle operazioni della Vita. Ciò che per natura era vuoto, lacunoso, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità di Dio» [5]. Questo vale anche e soprattutto per la morte di Cristo, che Teilhard considera non meno feconda della resurrezione e della quale – scrive – ancora «ci sfugge la potenza creatrice».
Teilhard – fa notare il teologo protestante Georges Crespy [6] – non è affatto insensibile alla sofferenza umana, argomento che affronta sempre con il massimo rispetto e la più grande serietà. Ma per il gesuita francese i dolori che affliggono l’uomo non sono mancanze della creazione: in essi, al contrario, si nasconde quella «forza ascensionale del Mondo» che deve essere in qualche modo liberata. In questo senso la croce di Cristo può essere vista come il simbolo di un’azione di eccezionale intensità. È come se, nel Cristo crocifisso, l’intera creazione si consumasse, senza tuttavia annientarsi: la forza creatrice, al contrario, libera tutta la sofferenza del mondo e la trasporta su un piano più elevato, verso una nuova creazione o meglio, come direbbe Teilhard, verso una nuova fase della creazione [7].
Possiamo fare un parallelo tra questa azione straordinariamente intensa di cui parla Teilhard e il concetto di energia che ricorre negli scritti di Paolo. L’Apostolo utilizza quattro termini differenti per descrivere questa energia: «potenza», che troviamo oltre 50 volte nelle sue opere; «energia» e simili (circa 30 volte); «forza» (5 volte); «vigore» (3 volte) [8]. In Ef 1,18 – 20 li usa tutti insieme, in una sequenza di impressionante intensità: «(Dio) illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza (δύναμις) verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia (ενέργεια) della sua forza (κράτος) e del suo vigore (ίσχύς). Egli la manifestò in Cristo quando lo risuscitò dai morti...» (cfr. Bibbia CEI ed. 2008).
Comment je vois: la metafisica teilhardiana
La visione che Teilhard ha della morte, e del male in generale, discende dalla sua particolare metafisica. Il gesuita la espone nel saggio Comment je vois (1948), uno dei testi presi di mira dal sant’Uffizio nel Monitum del 1962. Teilhard muove critiche radicali alla metafisica classica, nella quale si deduce il mondo a partire dall’essere, considerato come originario. Per il gesuita francese, invece, non esiste un essere immobile e a se stante che in un bel momento decide di mettere in moto l’universo: «Il mobile» – scrive Teilhard – «è fisicamente generato dal movimento che lo anima». Il gesuita parte dall’idea che l’essere sia determinabile grazie a un suo movimento caratteristico, che lui definisce «di unione». Teilhard concepisce l’essere non come «l’essere in sé», in senso statico, ma come «l’essere per sé»: l’essere esiste solo in relazione all’unione con altri esseri; per questo c’è chi ha definito quella teilhardiana una «metafisica dell’unione». Dio, per Teilhard, esiste unendosi («opponendosi trinitariamente a se stesso») e unendosi si completa. L’essere non può concepirsi al di là del movimento per mezzo del quale si unisce. Il nostro universo in evoluzione esiste come premessa di mondo non appena lo fa sorgere la relazione trinitaria; il disordine iniziale non è materia senza forma ma contiene in sé una prestruttura di unione. In altri termini: l’universo esiste e non può non esistere, al contrario di quello che la metafisica classica afferma. San Tommaso, per esempio, ragiona a partire ex contingentia mundi, cioè dall’idea che l’universo non è necessario ma contingente: esiste ma potrebbe non esistere, esiste solo per un atto di volontà di Dio. Secondo Teilhard, insomma, sembrerebbe che Dio non possa fare a meno di creare. In questo modo l’autodeterminazione e l’autosufficienza di Dio sono fatte salve, ma la creazione assume un carattere molto diverso: non è più un atto di volontà del Creatore, una sua scelta, ma appare come una simmetria – o un riflesso, un’immagine, se si vuole – della Trinitizzazione. L’unione non si esercita più, come nella metafisica classica, sopra uno strato esistente che costituisce l’oggetto della creazione. L’essere non preesiste all’unione, così come il mobile non preesiste al movimento: la creazione, intesa come origine, non è che l’atto iniziale di una realizzazione progressiva (pleromizzazione) che si attua su una materia già idonea all’unione perché costituita a immagine della Trinità [9].
La soluzione al problema della teodicea
In questo modo Teilhard risolve in modo elegante quanto rigoroso il problema della teodicea. Finché si rimane nella metafisica classica il problema è senza soluzione, oppure trova soluzioni non del tutto convincenti. Teilhard, muovendo sapientemente pochi pezzi della scacchiera, fa invece uscire la partita dalla condizione di stallo. Dio, creando, si unisce alla sua creazione, si immerge nel molteplice e così facendo entra in lotta con il male. Per creare, egli non può che procedere ordinando e unificando una quantità di elementi che dapprima sono estremamente numerosi e semplici, poi man mano diventano più complessi e coscienti. Tutto questo non può non produrre degli errori, dei difetti, dei sottoprodotti di lavorazione, se così possiamo dire. Scrive Teilhard al riguardo, elaborando una sorta di gerarchia del male in tutte le sue forme: «Disarmonie e decomposizioni fisiche nel previvente, sofferenza nel Vivente, peccato nel campo della libertà, non c’è ordine in formazione che, in tutti i gradi, non implichi disordine». In sé il molteplice disorganizzato non è cattivo, ma proprio in quanto molteplice non può progredire verso l’unità senza generare il male, dal momento che è sottoposto al gioco delle possibilità. Se Dio crea l’universo in un solo modo, unificando, il male è praticamente inevitabile, quasi «una pena inseparabile dalla Creazione». Ecco quindi come Teilhard risolve il problema della teodicea: l’onnipotenza, la bontà e la perfezione di Dio non sono messe in discussione, mentre alla perfezione del mondo si può (si deve) rinunciare. Organizzare – e Dio crea organizzando, unificando – vuol dire vincere un disordine, e questo implica necessariamente la produzione di una certa quantità di errori e difetti, il che non mette minimamente in discussione la potenza unificatrice e positiva di Dio [10] e nello stesso tempo libera l’uomo dal senso di colpa che una interpretazione troppo rigida del racconto della caduta può far gravare sulle sue spalle. Si badi bene: lo libera dal senso di colpa, non dal senso del peccato; l’essere umano non è affrancato dall’arduo compito della conversione.
Teilhard esprime tutto questo in una splendida pagina de Il significato e il valore della sofferenza: «In un mazzo ci si stupirebbe di scorgere fiori imperfetti, “a disagio”, dal momento che i singoli elementi sono stati raccolti a uno a uno e artificialmente messi insieme. Al contrario, su di un albero che ha dovuto lottare contro gli incidenti connessi al suo sviluppo e quelli esteriori delle intemperie, i rami spezzati, le foglie lacerate, i fiori secchi, fragili o avvizziti si trovano “al loro posto”, esprimendo le condizioni più o meno difficili di crescita del tronco che li sostiene. Allo stesso modo, in un Universo dove ogni creatura formasse un piccolo universo tutto chiuso, voluto per se stesso e teoricamente trasponibile a volontà, avremmo qualche difficoltà a giustificare, nel nostro modo di vedere, la presenza di individui dolorosamente bloccati nelle loro possibilità e nel loro sviluppo. Perché questa gratuita ineguaglianza e queste gratuite restrizioni? In compenso, se il Mondo rappresenta veramente un’opera di conquista attualmente in corso; se, veramente, con la nascita veniamo lanciati nel pieno della battaglia, non possiamo fare a meno di intravedere che, per il successo dello sforzo universale di cui siamo insieme i collaboratori e la posta, sia inevitabile la sofferenza. Il Mondo, visto sperimentalmente al nostro livello, è un immenso brancolare, un’immensa ricerca, un immenso attacco: i suoi progressi sono possibili solo a costo di molti insuccessi e di molte ferite. I sofferenti, a qualunque specie appartengano, sono l’espressione di questa condizione, austera ma nobile. Non rappresentano elementi inutili o sminuiti, ma si limitano a pagare per la marcia in avanti e il trionfo di tutti. Fanno parte dei caduti sul campo» [11].
Nel brano appena riportato risuona l’eco di Rm 8,19 – 23: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». Insomma: quello che Paolo chiama redenzione, salvezza, liberazione dalla schiavitù della corruzione, Teilhard lo definisce evoluzione, pleromizzazione, convergenza, ma il concetto è essenzialmente lo stesso. L’inconciliabilità tra la visione di Paolo e di Teilhard sulla morte, il male e la sofferenza, dunque, è solo apparente: in realtà, fatte salve le differenze, c’è una sostanziale identità.
Principio di complementarità, principio di inerzia e peccato originale
Resta però uno scoglio, e tutt’altro che piccolo: come conciliare le esigenze evolutive con quelle del singolo, l’interesse della specie con la tragedia personale che ogni morente affronta? Anche in questo caso la scienza può venirci in aiuto. Non la biologia o la genetica, stavolta, ma la fisica del ‘900, e per l’esattezza il principio di complementarità di Niels Bohr. Tale principio afferma che di una particella atomica o subatomica non può essere osservato contemporaneamente, nello stesso esperimento, l’aspetto corpuscolare e quello ondulatorio, la posizione e la velocità. I due aspetti sono complementari, ma si nascondono reciprocamente: li si può osservare soltanto separatamente, uno alla volta. Così è anche per la morte del singolo individuo e per la sopravvivenza della specie: sono il complemento – cioè il completamento, l’integrazione – l’una dell’altra, ma non possiamo afferrarle con lo stesso ragionamento perché si nascondono a vicenda; la morte del singolo è un vantaggio per la specie ma un dramma per l’individuo; per converso, l’immortalità personale sarebbe disastrosa per la specie.
La scienza può aiutarci anche a guardare con maggior serenità al momento del trapasso. Noi crediamo per fede che la nostra vita non si concluda con la morte del corpo, ma la fisica ci offre un principio che può soccorrerci nei momenti in cui la fede vacilla o in cui la ragione esige i suoi tributi: è il principio di inerzia, intuito da Galileo Galilei – ma già Giordano Bruno, nella Cena delle ceneri, in qualche modo lo anticipa [12] – e poi elaborato pienamente da Cartesio e da Newton. Il principio di inerzia afferma che «un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato». A questa formulazione si è arrivati, dopo circa duemila anni di riflessioni, attraverso un cambiamento di domanda: invece di continuare a chiedere «perché, se lanciamo un sasso, questo a un certo punto cade?» si è cominciato a porre la domanda in quest’altro modo: «Perché, se lanciamo un sasso, questo non prosegue la sua corsa all’infinito?». Sembra la stessa domanda, ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che la corsa del sasso duri indefinitamente: se noi oggi riusciamo a mandare le sonde spaziali su Marte è proprio in virtù del principio di inerzia. Possiamo applicare lo stesso ragionamento alla nostra vita, smettere cioè di chiederci perché a un certo punto moriamo e iniziare a domandarci perché la nostra vita non prosegue oltre. Se nel caso della fisica ciò che impedisce al sasso di proseguire la sua corsa è una forza esterna (l’attrazione gravitazionale terrestre, l’attrito dell’aria), per quanto riguarda la nostra vita la forza perturbatrice è il peccato, non nel senso che il peccato causi la morte biologica ma nel senso che, offuscandoci la vista e la mente, riducendo la prospettiva del nostro sguardo, ci impedisce di cogliere che la vita in realtà non termina, non ci viene tolta ma trasformata. Ecco perché Paolo, in 1 Cor 15,56, dice che il peccato è il pungiglione della morte: l’Apostolo non dice che senza il peccato la morte non ci sarebbe, perlomeno non lo dice in questo passo; afferma che senza il peccato la morte non ferirebbe, non farebbe male.
Senza il peccato originale attraverseremmo la morte serenamente, come gli uomini di cui parla Dostoevskij ne Il sogno di un uomo ridicolo (1877) [13]. Lo scrittore racconta che, sopraffatto dal senso di colpa, sogna di togliersi la vita e di essere deposto nella tomba. Qui, con sua sorpresa, lui che si aspettava «il perfetto non essere», scopre che dopo la morte continua in qualche modo a esistere. A un certo punto arriva una misteriosa creatura alata (un angelo, un demone?) che lo afferra e lo porta a fare un giro nell’universo. Quindi riconduce lo scrittore sulla Terra, ma è una Terra diversa, senza il peccato originale. E qui Dostoevskij descrive gli uomini che la abitano: sono uomini bellissimi, felici, che vivono in pace tra loro e con gli animali, senza ucciderli né fargli del male; lavorano pochissimo, quanto basta a procurarsi un po’ di frutta e qualche seme. Muoiono anche loro, ma molto in là con gli anni e benedicendo chi rimane come se fossero sicuri di rivederlo poi dall’altra parte. Così moriremmo – in questo modo splendido che solo uno scrittore come Dostoevskij poteva descrivere – se il peccato originale non ottundesse la nostra anima e i nostri occhi.
Marco Galloni
Note
[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999 (prima ed. 1992), n. 1008, p. 293.
[2] B. Mondin, Gli abitanti del cielo, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1994, pp. 127 – 128.
[3] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I/II, 85, 6.
[4] Cfr. G. Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, Milano, 2006, pp. 95 – 113.
[5] P. Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo (titolo originale: Hymne de l’Univers, Led Éditions du Seuil, Paris, 1961), trad. it., Queriniana, Brescia, 1992, pp. 92 – 93.
[6] Cfr. G. Crespy, Il pensiero teologico di Teilhard de Chardin (titolo originale: La pensée theologique de Teilhard de Chardin, Editions Universitaires, Paris, 1961), trad. it., Borla, Torino, 1963, passim.
[7] Cfr. S. Maggi, Pierre Teilhard de Chardin: il pensiero e le interpretazioni, tesi di laurea in filosofia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, A.A. 2004 – 2005, p. 97, link: http://www.biosferanoosfera.it/uploads/files/7c388fd8213e55e17a1bef0496769e42998d8965.pdf.
[8] Cfr. A. Gentili, Teilhard de Chardin: energia ed evoluzione, atti del convegno San Paolo e Teilhard de Chardin organizzato dall’Associazione Italiana Teilhard de Chardin in collaborazione con la Comunità dei Padri Barnabiti, la rivista «Teilhard Aujourd’hui Europe», l’Istituto Santa Famiglia della Società San Paolo e l’Associazione Amici dell’Univesrità Cattolica, Eupilio, 17 – 18 ottobre 2008, pp. 4 – 8.
[9] Cfr. S. Maggi, op. cit., pp. 99 – 101.
[10] Ivi, pp. 102 – 103.
[11] J. Carles, A. Dupleix, Teilhard de Chardin. Mistico e scienziato (titolo originale: Pierre Teilhard de Chardin, Édition du Centurion, 1991), trad. it., Paoline Editoriale Libri, Milano, 1998, p. 252.
[12] G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, Cena, Mondadori, Milano, 2000, p. 88.
[13] F. Dostoevskij, Le notti bianche. La mite. Il sogno di un uomo ridicolo, Newton Compton, Roma, 2003.