(Mt 22,1-14 [cf Lc 14,16-24])
Il filone letterario e teologico del banchetto messianico iniziato nell'AT, è prolungato nel NT. Ci soffermiamo sulla parabola degli invitati riportata da Matteo, conosciuta da Luca come la parabola della cena (cf Lc 14,16-24) e presente anche nell'apocrifo Vangelo di Tommaso. (1) Noi fissiamo la nostra attenzione sul testo di Matteo: la parabola serve a capire meglio la sua comunità; viceversa, una migliore conoscenza della comunità ecclesiale al tempo dell'evangelista favorisce una più profonda comprensione della parabola. (2) In entrambi i casi, possiamo trarre insegnamento per la vita di oggi e guardare con fiducia in avanti.
La comunità di Matteo si trovava in un momento di espansione, perché i pagani di un tempo desideravano diventare cristiani. Ogni più rosea previsione era stata superata dai fatti. Come contraccolpo negativo bisognava registrare l'incredulità cocciuta degli israeliti, attestati su posizioni di netto rifiuto e di avversione preconcetta. All'interno poi della comunità non tutto procedeva per il meglio e incominciavano a profilarsi segni di tiepidezza spirituale.
Aiutati da questo sommario quadro, possiamo ora leggere la parabola cui Matteo ha impresso un forte carattere ecclesiale.
Il materiale e la sua organizzazione
Il brano presenta una disposizione chiara e ordinata. Racchiuso tra un'introduzione (v. 1) e una conclusione (v. 14), ambedue di carattere generale, viene modellato in due quadretti paralleli e opposti che rispondono allo schema comune: invito - reazione - conseguenze.
Primo quadretto (vv. 2-7). Un re prepara un banchetto per le nozze del figlio e manda i suoi servi a chiamare gli invitati. Come risposta si ha un rifiuto. Altri servi sono mandati a sollecitare gli invitati indicando l'urgenza della partecipazione: tutto è pronto. Segue un secondo rifiuto aggravato da un disinteresse totale per il banchetto e da un implicito disprezzo al re di cui si uccidono i messaggeri. La conseguenza è un intervento duro del re che uccide gli assassini e distrugge la loro città.
Secondo quadretto (vv. 8-13). Lo scacco subito non blocca il re che ordina ai servi di invitare chiunque incontrassero sulla strada. In breve tempo la sala si riempie. A questo punto si verifica un colpo di scena: un invitato che non porta l'abito di nozze è clamorosamente escluso dal banchetto. Per maggior rigore, dobbiamo ricordare che questo secondo quadretto si compone di due parti, i vv. 8-10 collegati direttamente con quanto precede e i vv. 11-13 che appartengono originariamente a un'altra parabola: (3) la loro aggiunta a questo punto mostra l'intento ecclesiale di Matteo.
Il punto decisivo che confronta i due quadretti sta nell'accoglienza o meno dell'invito. Qui si registrano le più vistose differenze: i primi erano già stati invitati e i servi hanno solo il compito di sollecitarli; i secondi ricevono un invito improvviso e inaspettato. I primi hanno un'occupazione, di conseguenza un salario sicuro e quindi una certa agiatezza; i secondi invece si trovano ai crocicchi delle strade dove sostano i disoccupati in attesa di reclutamento al lavoro e i nullatenenti. I primi vengono sollecitati due volte e ciononostante oppongono un ostinato rifiuto; i secondi accolgono subito l'invito. I primi sono totalmente eliminati; i secondi, eccetto uno, sono accolti.
Breve commento
È legittimo e doveroso per un re solennizzare le nozze del figlio con un banchetto. Le persone sono state già avvertite, ma l'invio di messaggeri a chiamare gli invitati vuole essere un atto di deferente omaggio e un implicito riconoscimento della loro dignità. Per tutta risposta si ottiene un rifiuto non meglio precisato nelle sue motivazioni. Il gesto suona scortese e anche offensivo, tuttavia il re mostra una signorile magnanimità rinnovando la sollecitazione mediante altri messaggeri che dichiarano completata la fase preparatoria e improrogabile il banchetto. «Venite alle nozze» è simile più a un ultimatum che a un invito. Se alla prima sollecitazione si potevano concedere possibili scusanti, alla seconda deve senz'altro seguire una risposta di adesione. Invece, contro ogni logica previsione, il rifiuto si colora di pacchiano disinteresse verso l'invito e di sdegnoso disprezzo verso il padrone di casa.
Il rifiuto
Il disinteresse al banchetto subentra allorché le energie vengono convogliate su nuovi e più allettanti centri di interesse che prendono il nome di «lavoro» e di «affari». Il disinteresse trascina con sé il disprezzo per il Signore. Infatti partecipare al banchetto non è solo soddisfare un bisogno primario quale la fame, ma, molto più presso gli orientali che nel nostro mondo, soprattutto un'occasione privilegiata per condividere i sentimenti dell'invitante e vivere con lui una solidarietà, resa visibile dallo stare insieme a tavola. (4) Nel momento in cui si preferiscono il lavoro e gli affari, non si contravviene solo una regola di cortesia verso il padrone, ma, molto peggio, gli si arreca una grave offesa per l'umiliante preferenza accordata alle cose.
Per quanto abnorme e perfino irrazionale possa essere la decisione, il fatto non costituisce un'eccezione nella vita degli uomini che spesso si lasciano imbambolare dal civettuolo luccichio delle cose, anziché appassionarsi a solida costruzione di un rapporto interpersonale. Questo tipo di vita è anticamera della morte.
Lo testimonia la reazione del re che non può tollerare un insulto al suo invito e l'ingiustizia perpetrata a danno dei suoi servi. Si legge al v. 7: «Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città». Davanti a una punizione tanto dura, sorgono almeno due interrogativi: Non erano liberi gli invitati di rispondere negativamente all'invito? Non risulta eccessiva la reazione del re nei loro confronti?
In una logica puramente umana il rifiuto è ammesso e plausibile. Si richiede solo l'osservanza di elementari norme di galateo come la giustificazione, tanto meglio se accompagnata da una petizione di scusa. Nella parabola notiamo invece che il rifiuto, non solo non sembra radicarsi in un terreno di valide scuse, ma addirittura si sviluppa come villania. Al primo invito si risponde con un netto rifiuto: «non vollero venire», non meglio precisato. Al secondo invito, che è una calda sollecitazione, si risponde con un sentimento: «non se ne curarono» e con un atteggiamento: «andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari» che corrisponde a un insolente disprezzo verso colui che ha invitato. Considerando anche la finale: «altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero», allora si tocca il fondo del lecito e, diciamolo pure, del verosimile.
È appunto questa inverosimiglianza sul piano dei rapporti umani (chi uccide un portatore di invito?) che orienta verso una lettura storica della parabola. L'evangelista ha voluto sintetizzare in pochi tratti la storia della salvezza e il suo apparente fallimento: Dio (il re) per mezzo dei profeti (i suoi servi) ha sollecitato il popolo di Israele (gli invitati) a prendere parte alla sua alleanza (il banchetto), ma non ha ottenuto che una sorda ostilità. Ha riprovato con altri profeti, non ottenendo miglioramento, anzi, vedendo la situazione peggiorare sempre di più. L'incendio della città e la connessa morte degli invitati è la trasparente metafora della situazione di Gerusalemme del 70 d.C., anno in cui cessa di esistere la nazione ebraica.
I nuovi invitati
Con questa interpretazione si appiana la via alla comprensione della seconda parte. Poiché il piano di Dio non viene bloccato dal rifiuto umano, si rende necessario un nuovo approccio. Non più i primi invitati, ora eliminati, ma nuove persone prendono parte al banchetto. Costoro sono degli estranei, vengono da tutte le parti, non sono persone di rango bensì gente raccogliticcia trovata ai crocicchi delle strade, là dove indugiano coloro che non contano, coloro che attendono di essere ingaggiati, addirittura «buoni e cattivi» per indicare che non si è fatta una previa selezione. L'invito non intende perciò premiare nessuno ed è proposto come puro dono. L'invito raggiunge tutti indistintamente, senza preferenze e senza esclusioni. Si registra una novità rispetto alla storia precedente che conosceva solo il popolo ebraico come privilegiato destinatario della salvezza. Ora infatti si respira l'aria universalista della comunità primitiva che apre il tesoro del suo messaggio a tutti gli uomini, prolungando lo stile insegnato da Gesù. Egli parlava di Dio anche a gruppi ufficialmente esclusi dalla corsa verso la salvezza, quali erano ritenuti i peccatori pubblici e le donne di mal affare che erano per lui non meno degni di comprensione della élite religiosa ebraica. Questi semi di universalità fioriranno nella comunità primitiva che supererà le distinzioni all'interno di un popolo e anche le distinzioni tra popoli.
Colpo di scena
È ancora la situazione storica e teologico-ecclesiale a rendere comprensibile e logico il finale della parabola (vv. 11-13). Giustamente il lettore si schiera dalla parte del malcapitato che viene redarguito perché non indossa l'abito adatto e si fa istintivamente suo avvocato: «Come si può pretendere che un invitato all'ultimo momento e trovato per strada, porti l'abito da cerimonia? Pretesa assurda!». La ragione vuole la sua parte. Un primo tentativo di spiegazione affonda le sue radici in recenti scoperte archeologiche che hanno portato alla luce alcuni testi dell'antica città di Mari, sul fiume Eufrate, grazie ai quali siamo informati che il guardaroba regio metteva a disposizione degli invitati l'abito conveniente. Nel nostro caso, l'uomo trovato senza abito nuziale mostrerebbe una sfrontata impertinenza verso colui che lo ospita, perché si rifiuterebbe di indossare l'abito messogli a disposizione. Per questo sarebbe colpevole e quindi passibile di pena.
A questo primo tentativo di risposta obiettiamo che l'evangelista non necessariamente era a conoscenza di tali usanze, del resto non ben documentate in Palestina. Il testo è così laconico e scarno che ogni supposizione non esce dai confini della congettura.
Possiamo seguire un'altra strada interpretativa, senza ricorrere a elabora supposizioni. La situazione storico-ecclesiale della comunità di Matteo propone una ragionevole pista. Infatti, l'aggiunta dell'abito nuziale - parabola entro la parabola - intende stroncare la leggerezza che poteva introdursi nella comunità cristiana primitiva, producendo un rovinoso effetto. La chiamata di Dio in Cristo è senz'altro dono e non conosce frontiere e limitazione alcuna, perché sono caduti tutti gli antichi privilegi. Accettato pacificamente questo, non è meno vero che al dono di Dio bisogna rispondere con una vita corrispondente. Universalismo sì, ma a condizione che siano rispettate le regole fondamentali. La veste, per restare nel mondo biblico, è molto di più di elemento ornamentale, perché diventa segno e prolungamento della dignità della persona nel suo valore fisico e morale. Già il profeta Isaia aveva parlato di veste di salvezza: «Io gioisco pienamente nel Signore ... perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia» ( 61,10). Fa eco la simbologia dell'Apocalisse dove la veste bianca segna l'appartenenza a Cristo grazie ad una vita integerrima (cf Ap 3,4). L'apostolo Paolo molto chiaramente afferma che i battezzati si sono «rivestiti di Cristo (Gal 3,27). La nuova veste dei battezzati esprime la loro nuova condizione.
Così all'uomo invitato al banchetto di Cristo è richiesto un nuovo modo di essere, pena l'esclusione dal banchetto stesso. La scena infatti è bruscamente trasformata da conviviale in giudiziale. Lo documentano l'ingresso del re per «vedere», l'interrogatorio con non-risposta, che è una implicita ammissione di colpevolezza, (5) e infine la condanna. «Pianto e stridore di denti» significa disperazione per la salvezza perduta per colpa propria. Non dobbiamo quindi chiedere al testo una intelligibilità logica che non possiede (come può indossare l'abito di festa se è invitato all'ultimo minuto e trovato per strada), una intelligibilità storica e teologica (per partecipare alla comunione con Dio occorre un minimo di risposta personale, di collaborazione).
L'invito al banchetto ieri, oggi e domani
Anche il versetto finale stride con il precedente. Da una prima lettura sembrerebbe che pochi si salvino e questo in manifesto contrasto con il contenuto della parabola che parla di tanti invitati, dei quali uno solo trovato senza le condizioni richieste. Gesù non ha mai fatto giudizi così pessimistici, soprattutto sui risultati finali. Non mancano soluzioni ingegnose, purtroppo non ben documentabili. Una di queste legge «molti» come coloro che provengono dal paganesimo e «eletti» come coloro che provengono dal giudaismo, essendo «eletto» il termine spesso usato per il popolo ebraico (cf Es 19,6). La parafrasi dell'ultimo versetto suonerebbe più o meno così: il regno messianico sarà formato da una moltitudine proveniente dal paganesimo e da un piccolo numero di ex Giudei. (6)
Più semplicemente, «Matteo sottolinea al v. 14 l'insistenza e la serietà del suo discorso di monito con l'aggiunta di una parola della predicazione di Gesù che circolava isolata»: (7) dalla parabola si ricava che l'unica esclusione possibile dal Regno (e dalla comunità ecclesiale) dipende esclusivamente dalla cattiva volontà umana che non coopera con Dio «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,4).
Edotta dalla tragica vicenda della caduta di Gerusalemme, la comunità cristiana primitiva lesse questo spezzone di storia come la conclusione della funzione storico-teologica di Israele. La fase di Israele si chiude, ma la storia continua con nuovi invitati. La festa non è né cancellata, né ritardata; l'invito non si arresta né si perde: trasmigra da popolo a popolo, continua nel tempo e nello spazio come invito nuziale che sollecita alla partecipazione. Quindi solo la storia con la sua lettura teologica dà una comprensibile e accettabile spiegazione della parabola, preziosa miniatura della storia della salvezza. La parabola guarda indietro, ma pure sollecita ad affondare lo sguardo verso il futuro, un invito a vivere con speranza l'invito al banchetto della grazia e della vita che il Signore ci rivolge ogni giorno, in attesa di partecipare per sempre al banchetto dell'Amore.
Mauro Orsatti
Note
1) Si tratta di uno scritto, conservato in copto, trovato nel 1945-46 a Chenoboskion presso Nag Hammadi, in Egitto, durante gli scavi nella sabbia del deserto. Scritto originalmente in greco, risale al II secolo. Si tratta di 114 detti del Signore, raccolti senza un collegamento narrativo. In esso, oltre alla nostra, sono presenti altre dieci parabole che troviamo nei vangeli canonici (seminatore, granello di senapa, scassinatore, zizzania, ricco stolto, i cattivi vignaioli, la perla, il lievito, la pecorella smarrita, il tesoro nel campo).
2) Per un approfondito studio cf AA.VV., La parabola degli invitati al banchetto, Paideia, Brescia 1978.
3) Cf R. FABRIS, Matteo, Borla, Roma 1982, p. 451: «Per fare questo discorso ai suoi cristiani Matteo ha attualizzato una parabola originale di Gesù, completandola o integrandola con la sequenza finale dell'ispezione del re». Che si tratti di un'aggiunta redazionale, lo prova il confronto con la parabola simile in Luca e nel Vangelo di Tommaso.
4) La rappresentazione della comunione con Dio è spesso espressa con l'immagine del banchetto, cf Is 25,6; Sal 23,5; Ap 3,20.
5) Il termine «amico» compare solo tre volte in tutto il NT e sempre in Matteo: qui e in 20,13; 26,50, ogni volta in contesto di colpevolezza.
6) Proposta non molto convincente di ORTENSIO DA SPINETOLI, Matteo, Cittadella, Assisi 1993, p. 592.
7) A. SAND, Il Vangelo secondo Matteo, II, Morcelliana, Brescia 1992, p. 666.
(da Parole di Vita, n. 3, 1999)