Formazione Religiosa

Giovedì, 19 Marzo 2020 21:50

Castighi di Dio? (Faustino Ferrari) In evidenza

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Sofferenza e morte, in Gesù, non sono esperienze umane negate o sottratte, ma condivise. Mentre il Risorto si rivela ai suoi discepoli con il segno delle ferite.

Ogni volta che accade una catastrofe naturale particolarmente grave (terremoti, tsunami, inondazioni, epidemie, ecc.) non manca l'affacciarsi di un qualche predicatore che interpreta tali fenomeni quali castighi di Dio. Secondo questo modo di vedere è la continua, cattiva, perversa condotta degli esseri umani ad aver spinto Dio ad intervenire nella storia umana infliggendo una giusta punizione.

Non possiamo nasconderci il fatto che la ragione scientifica moderna, con tutte le sue analisi, spiegazioni e dimostrazioni non riesce tuttavia a colmare il bisogno di senso insito negli esseri umani. Persiste, infatti, la domanda: perché tutto questo accade? Ed ancora: perché a me? Perché ai miei cari? Le informazioni scientifiche sulla trasmissione di un virus e sugli effetti prodotti sul corpo umano non sono sufficienti. Non ci basta sapere che il terremoto è stato causato dallo scontro di due zolle tettoniche a dieci chilometri di profondità. Tutto ciò non ci spiega il perché della morte di quanti restano investiti da tali catastrofi. In gioco non è il perché scientifico, ma quello esistenziale.

Lungo la storia umana la risposta più facile che è stata data a queste domande di senso è quella che pone una causa ed un effetto: la colpa ed il castigo. Molti antichi miti giocano su tale binomio. Se accade un male, esiste qualche fatto o azione che sta all'origine. Pensiamo, ad esempio, alla vicenda di Edipo o anche ad alcune pagine della Bibbia.

In fondo, un tale modo di pensare si fonda su una concezione magica dell'esistenza umana. Dio sarebbe una sorta di grande burattinaio che dispensa bene o male, miracoli o castighi, a seconda dell'agire umano. Benedizione per i suoi fedeli e maledizione per tutti gli infedeli. Con queste premesse ci vuole poco a considerare che successo personale, economico e sociale siano il segno della benevolenza di Dio, mentre povertà e disgrazie rivelino invece una sua volontà condannante. E, dunque, ricollegare le catastrofi naturali ad un'azione punitiva da parte di Dio.

La Bibbia non contiene solo racconti di colpa e di castigo, ma anche una radicale contestazione di tale modo umano di concepire Dio. Il libro di Giobbe, in particolare, manda in soffitta l'idea di un Dio che muove le fila delle vicende umane nei termini del premio e del castigo, della carota e del bastone. L'agire umano s'inscrive nell'ambito della fede e della libertà e le questioni del male e della morte contengono una soglia umanamente invalicabile di mistero.

Ma è con Gesù che la contestazione del modo umano di concepire Dio raggiunge l'apice. Nella vicenda dell'incarnazione del Verbo si rivela definitivamente che l'azione di Dio è per la vita e non per la morte, poiché «non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47).

Sofferenza e morte, in Gesù, non sono esperienze umane negate o sottratte, ma condivise. Mentre il Risorto si rivela ai suoi discepoli con il segno delle ferite (Gv 20,24-29). Il cristiano non trova una risposta alle domande di senso sulla sofferenza e la morte, ma gli è donata la consapevolezza della condivisione divina di queste sue esperienze. La sua esperienza religiosa non può essere disgiunta dal volto del Crocifisso. Da un evento che non è espressione di castigo, ma d'amore (1). Per il cristiano, dunque, la solidarietà e la responsabilità umane si radicano in questo momento assoluto della rivelazione divina.

La vita cristiana si sostiene attraverso la preghiera personale e comunitaria (liturgia), i sacramenti, l'ascolto della Parola, il digiuno e la penitenza. Non è costellata di eventi straordinari (2), ma è fatta di semplicità e quotidianità. Poiché qui e ora, per chi ha orecchi per ascoltare, è data la possibilità di sperimentare la grazia salvifica di Dio.

«Se l’uomo fosse destinato a non sparire mai […] ma a rimanere in vita per sempre nel mondo, le cose perderebbero il potere di muoverci. La cosa più preziosa della vita è la sua incertezza». Così scriveva il maestro zen giapponese Yoshida Kenkō (1283-1340). La cosa più preziosa della vita è la sua incertezza. E potremmo aggiungere: la sua fragilità e la sua vulnerabilità. Le catastrofi naturali s'inscrivono nel vasto e per certi versi inafferrabile senso della bellezza della vita umana? Senza di esse, probabilmente, saremmo consegnati alla noia, all'insignificanza, alla deresponsabilizzazione. Dobbiamo ammetterlo: ogni tanto la natura ci ricorda, attraverso fenomeni estremi, la bellezza della vita.

Torniamo al libro di Giobbe. Difensori della teologia della colpa e del castigo sono alcuni amici di Giobbe. Apportano lunghe argomentazioni a sostegno della loro tesi, ma alla fine l'intervento divino dà loro torto. Che fossero amici non c'è dubbio. Quando vengono a sapere le tristi vicende occorse a Giobbe si recano con sollecitudine presso di lui, per portargli conforto. Il testo biblico ci dice che restarono in silenzio per sette giorni (3). Con il silenzio si mostrarono vicini a Giobbe e partecipi alla sua sofferenza. Ma appena aprirono la bocca, tutto questo venne meno.

Ecco, non è che i predicatori di castighi divini perdano ogni volta un'occasione buona per restare in silenzio?

Faustino Ferrari

Note

1) «O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem» (Beata colpa, che meritò tale e così grande Redentore), come ricorda l'Exsultet pasquale.

2) Cfr Lc 16,29-31.

3) Gb 2,13.

 

 

Letto 1681 volte Ultima modifica il Giovedì, 19 Marzo 2020 22:15
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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