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Domenica, 02 Maggio 2021 17:35

Avere cura del creato. Rilettura del decalogo: il settimo comandamento (Cettina Militello) In evidenza

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Non rispettare l'integrità della creazione è offendere sì aria, acqua, terra, ma soprattutto è offendere le persone, ostentare disprezzo verso di esse, derubarle del bene più vero.

Il mondo non ci appartiene. Ci ospita. Perciò se lo violiamo e ce ne appropriamo come risorsa individuale o collettiva senza accettarne i ritmi e i limiti, senza averne cura, noi "rubiamo". Si tratta insomma di aprirci alla realtà che ci accoglie: aria, acqua, terra e alle loro capacità ''energetiche" riconoscendone innanzi tutto la prossimità. Siamo impastati, appunto, di acqua e terra; respiriamo; l'intreccio organico che ci supporta modula anche l'energia nostra del nascere, crescere, morire. Non possiamo insomma trattare ciò che ci accoglie e che ci è prossimo negando il tratto che ad esso ci unisce: la fragilità e dunque il bisogno di cura. Fragile è la nostra umanità di continuo messa a prova dall'interno e dall'esterno, fragile è il mondo in cui viviamo. E le due fragilità collimano. Si iscrivono infatti nel limite creaturale. Siamo fragili perché creature, cioè esseri - senzienti e non – che non hanno in sé stessi la loro radice, la loro ragione, ma appunto la ricevono. Essere creature evoca necessariamente un "creatore", un qualcuno che sta oltre noi e che ci ha voluti e ci vuole nell'utopia del giardino primigenio al cui interno tutto fiorisce e fruttifica armoniosamente.

Rispetto verso il creato

Il deficit ontico della creatura le merita la cura del creatore. E il disposto «siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela» o anche «lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» esprime bene questa cura. che immediatamente diventa dovere di farsi carico, di curare a nostra volta, nella consapevolezza del limite che ci connota.

Per millenni l'umanità si è posta in un atteggiamento di rispetto nei confronti del creato. Se n'è presa cura addirittura divinizzando animali, alberi e alture. Ha adorato il vento e la folgore, il cielo e le acque, le grandi foreste, le altissime montagne. Ha tratto dalla terra il nutrimento chiamandola e venerandola come "madre". Ha assecondato le stagioni senza avversarle, celebrandole nei loro ritmi propri. Certo i mezzi tecnici a disposizione impedivano di modificare il corso delle acque, o di usare le energie del vento o altre risorse ancora. Ma anche quando, limitatamente allo sviluppo raggiunto, si ricorreva ad acqua, cielo, mare, e all'immensa terra, lo si faceva con un rispetto sacrale, riconoscendosi impari dinanzi al dono che essi costituivano e offrivano.

Intendiamoci, da sempre abbiamo manipolato le specie. Da ruvidi e arcaici cereali abbiamo tratto nobilissimo grano, ad esempio. Da ovini o bovini o equini di poco pregio abbiamo tratto animali splendidi sotto il profilo della risorsa. Ma tutto questo si è accompagnato alla cura, al rispetto della vita sottesa a quella semente, a quell'animale. Si sono tolti triboli e spine perché, ad esempio, quella semente fruttificasse al meglio.

Non si è preteso però di ipotecarne questo o quel tipo, rendendolo praticamente possesso di pochi, e obbligando a coltivarlo intensivamente, squilibrandone le componenti nutritive - penso alla dilagante intolleranza al glutine, ad esempio - e, soprattutto sottraendolo alla genialità di chi la terra cura e ama nelle stagioni avverse come in quelle propizie. Oggi le multinazionali dettano legge. Impongono sul mercato cereali e legumi che è impossibile reimpiantare nel circolo virtuoso che torna a riseminare parte del prodotto. Oggi occorre riacquistare le sementi e, soprattutto, adoperare diserbanti sempre più velenosi, garanzia di quantità e non di qualità. Per dirla con gli esperti siamo passati da un'economia di sussistenza a un'economia di sfruttamento, sempre crescente, sempre più massiccia, snaturando il rapporto con la terra madre, impoverendo i poveri sempre di più e arricchendo sempre di più i pochi ricchi.

Economia di sfruttamento

La perdita ci tocca tutti perché a venir meno è la biodiversità, la ricchezza enorme e variegata che sotto ogni latitudine connota peculiarmente i frutti della terra e moltiplica, si può dire quanti sono i popoli, cereali o legumi, verdure e frutti. Ogni volta che una specie viene meno, sia vegetale o animale, è l'umanità intera a subire un immane furto. Purtroppo però sono pochi a denunciarlo e questi pochi vengono etichettati come stupidi nostalgici, come soggetti incapaci di guardare lontano e di pensare realisticamente il futuro. Nel frattempo il mare s'impoverisce e s'inquina. Si impoveriscono fiumi e laghi. Vengono meno foreste secolari. Cresce la desertificazione. Viene meno la qualità dell'aria, la terra offesa riceve e restituisce veleni.

Come non pensare al dissesto idrogeologico di cui subiamo le conseguenze ad oggi rovescio di pioggia. Parliamo sì di "bombe d'acqua", ma a volte sono tali a ragione della nostra inettitudine, dell'incuria con cui abbiamo ignorato i bisogni dell'habitat, cementificato, offeso dagli incendi, deturpato e ammorbato dai liquami degli allevamenti intensivi o dai gas dei silos nei quali conserviamo cereali e legumi, dal gas con cui manteniamo frutta e verdura garantendone il commercio oltre il ciclo loro proprio.

Dinanzi a un territorio che si sgretola, dinanzi alle acque che riprendono possesso dei loro antichi alvei, dinanzi a disastri annunciati là dove si è costruito in spregio al buon sènso, dinanzi alle molteplici "terre dei fuochi", discariche a cielo aperto, generatrici di morte, come non gridare al furto, come non lamentare la sottrazione di un bene fondamentale e vitale, un bene comune, un bene di tutti.

Non rispettare l'integrità della creazione è offendere sì aria acqua terra, ma soprattutto è offendere le persone, ostentare disprezzo verso di esse, derubarle del bene più vero, quello che ne rende possibile la vita stessa. È dichiarazione di guerra, di indifferenza, di superbo disprezzo della fragilità che tutti ci connota e perciò è dismissione della cura, del dovere di farsi carico degli altri, persone e cose. La dissennatezza dello sviluppo illimitato deve convertirsi in operatività per uno sviluppo sostenibile. Non si possono rottamare persone e cose. Occorre farsi carico della loro debolezza, assecondarla, sanarla, rispettandone il tratto irrepetibile e proprio. In gioco, alla fine, è la multiculturalità, il diritto nativo di ogni gruppo umano a porsi attivamente e originalmente dinanzi alla natura ed elaborare colture proprie, cibi propri, memorie proprie, risorse proprie, sviluppo sì, ma sempre adeguato alla propria visione del mondo.

Il creato, tema ecumenico

Non a caso leggiamo nell'Evangelii gaudium: «Ci sono altri esseri fragili e indifesi che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all'insieme della creazione. Come esseri umani non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l'estinzione di una specie come fosse una mutilazione. Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano i segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni» (215).

E citando un documento del 1988 della Conferenza dei vescovi delle Filippine, il testo prosegue evocando la varietà d'insetti impegnati ciascuno in un compito proprio, la varietà degli uccelli e del loro canto: «Dio ha voluto questa terra per noi, sue creature speciali, ma non perché potessimo distruggerla e trasformarla in un terreno desertico». Le domande angosciate dei vescovi valgono anche per noi: come potranno nuotare i pesci in fiumi divenuti fogne? Chi ha trasformato il meraviglioso mondo del mare in cimiteri subacquei spogliati di vita e colore? «Tutti [...] siamo chiamati a prenderci cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo» (216).

Il tema del rispetto e della cura e dell'integrità del creato è ragionevolmente tema ecumenico e interreligioso. Non stupisce, dunque, ritrovarlo in encicliche vecchie e nuove. Se vogliamo, è da Gaudium et spes in poi che è maturata una diversa attenzione che, in verità, ò connaturale alla visione cristiana del mondo - si pensi al Cantico delle creature. Il nodo vero è quello della dismissione di modelli offensivi. Da qui il dovere di chiamare a render conto delle proprie scelte amministratori e imprenditori. Da qui l'obbligo d'impedire la reiterazione di pratiche unicamente dirette al loro utile. Da qui la necessità di denunciare la trama perversa che giustifica, ad esempio, l'inquinamento a partire dal legittimo diritto al lavoro o che fa entrare in conflitto salute e, appunto, lavoro.

Senza però dimenticare che la cura del creato comincia da gesti umili ed elementari, quelli che compiamo ogni giorno favorendo ad esempio il riciclo o misurando austeramente le risorse ed evitando lo spreco. Ecco, non rubare è anche non buttare via il superfluo, non insudiciare le nostre città, favorire uno stile di vita più sano e austero, limitare i consumi, premiare coloro che si fanno carico della biodiversità e boicottare quelli che la distruggono. Siamo al mondo per riconoscerne il miracolo, per ottimizzarlo. L'antidoto al furto è la cura, il riconoscimento della reciproca interdipendenza, la scelta di un modello di vita costruttivo e solidale.

Cettina Militello

(Vita Pastorale, n. 4, 2014 – pp. 46-47)

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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