Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Quadro sintetico delle relazioni
tra le comunionida aprile a ottobre 2004
(a cura di P. Franco Gioannetti)
Ortodossi
Il Cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, Primate delle Gallie e Mons. Gerard Dancourt, Vescovo di Nantene, si sono recati il 13/04/04, martedì di Pasqua, presso il Patriarca di Costantinopoli per pregare con lui nel giorno dell’ottocentesimo anniversario del sacco di Costantinopoli da parte dei crociati. L’incontro tra i due vescovi ed il Patriarca è stato caratterizzato da cordialità e dialogo.
La sessantesima sessione del “Dialogo Teologico Cattolico-Ortodosso dell’America del Nord” si è svolto dall’1 al 3 giugno 2004 presso l’Istituto teologico ortodosso della S. Croce a Boston, sotto la co-presidenza di Mons. Daniel Pilarczyk. La Commissione ha esaminato le reazioni, fondamentalmente positive, ad una sua recente pubblicazione di una dichiarazione sulle implicazioni teologiche ed ecclesiologiche del Filioque. Ha anche iniziato a discutere il suo nuovo tema di studio per gli anni a venire che è: “Conciliarità-Sinodalità ed il primato nella Chiesa”.
Vari interventi sul tema sono stati fatti in relazione all’enciclica “Ut unum sint”. Il secondo giorno di lavoro è stato consacrato ad un giro di orizzonti sulle relazioni cattolici-ortodossi e ad uno scambio di informazioni sulla situazione interna delle due chiese.
Iniziato nel 1965 il “Dialogo” dell’America del Nord è posto sotto gli auspici delle conferenze episcopali, cattoliche degli Stati Uniti e del Canada ed ortodosso d’America.
La prossima riunione avrà luogo a Washington nell’ottobre 2004.
Il gruppo di lavoro “Cattolico-Ortodosso internazionale S. Ireneo” si è riunito in Germania a Paderborn dal 23 al 27 giugno in sessione costituente.
Su invito di Mons. Gerard Feige, Vescovo ausiliare cattolico di Magdeburgo, e di Mons. Ignazio Mitic, Vescovo di Branicevo (Serbia), undici teologi cattolici, provenienti da Germania, Austria, Belgio, Usa, Francia, Olanda, Polonia, ed undici teologi ortodossi, provenienti da Bulgaria, Usa, Francia, Grecia, Romania, Russia, Serbia, hanno deciso di continuare l’attività, come gruppo stabile, con il nome sopra indicato.
Il gruppo ha adottato una dichiarazione sulla propria identità enunciante i seguenti principi:
- L’unità è fondata sul comandamento di Gesù.
- Il gruppo vuole mettere le sue risorse teologiche a servizio delle due Chiese per approfondire il dialogo.
- La separazione tra le chiese ha una dimensione ecclesiale e teologica ed elementi sociologici, storici e psicologici.
Il gruppo considera come proprio compito:
1. offrire uno spazio per uno scambio di vedute non ufficiale e per una discussione libera ed aperta sui problemi in corso.
2. Riflettere sulla situazione attuale delle relazioni cattolico-ortodosse cercando di proporre delle soluzioni.
3. ricordare alle due chiese che le difficoltà attuali non potranno essere superate se non attraverso il dialogo.
E ritiene anche suo dovere studiare, in un gruppo di lavoro internazionale, multilingue e multiculturale, le differenze più profonde di mentalità, di forme di pensiero, di modi di fare teologia, differenze che si trovano alla base dei problemi attuali.
Icona della S. Vergine di KazanUna antica copia di questa icona, conservata in Vaticano, è stata solennemente restituita alla Chiesa Ortodossa Russa da una delegazione inviata da Giovanni Paolo II. Questa delegazione era guidata dal Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani, dal Cardinale Teodoro McCarrick, arcivescovo di Washington, accompagnati da Mons. Antonio Mennini, nunzio apostolico presso la Federazione Russa, e da Mons. Tadensk Kondrusiewicz, presidente della conferenza dei Vescovi Cattolici della Russia.
Il Patriarca russo Alessio II ha ricevuto la delegazione nella residenza patriarcale ed ha espresso la sua riconoscenza al Papa riconoscendo e condividendo la ferma volontà del Vaticano di tornare a relazioni sincere e rispettose tra le due Chiese.
II – Ortodossi ed altri cristiani
Cattolici
La prima riunione del gruppo di lavoro bilaterale sui problemi esistenti tra la Chiesa Ortodossa Russa e la Chiesa Cattolica si è tenuto a Mosca nei giorni 5/6 maggio 2004.
Il 6 maggio i padri Vsevalodo Chaplin, ortodosso, ed Igor Kovalevsky, cattolico, hanno tenuto una conferenza stampa. Il P. Chaplin ha ricordato che il gruppo è nato dopo la visita a Mosca del cardinal Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Ha aggiunto che il gruppo ha preso in esame le varie situazioni conflittuali in atto in varie regioni della Russia, in Ucraina, in Kazakhistan, in Uzbekistan specificando che tali problemi non vanno affrontati in base alle leggi civili ma secondo i principi etici delle relazioni tra le chiese. Queste non debbono mai agire come imprese concorrenti in un clima di libero mercato, ma fondandosi nell’etica delle relazioni interecclesiali e sui principi delle relazioni tra vescovi e diverse strutture ecclesiali formulate nei primi secoli del cristianesimo.
Il P. Kovalevsky ha affermato che la Chiesa cattolica, nella sua attività in Russi, parte dal principio che questo paese non è terra di missione ma un paese cristiano dalle antiche e profonde radici ortodosse. Tuttavia vi esistono etnie e confessioni differenti, tra cui i cattolici che sono e resteranno sempre una minoranza.
Visita a Roma di Bartolomeo I.
Il Patriarca ecumenico ha fatto una visita ufficiale a Roma dal 29 giugno al 1 luglio 2004.
Tradizionalmente, dal 1980, le Chiese di Roma e Costantinopoli si scambiano visite fraterne in occasione delle rispettive feste patronali: 29 giugno, S. Pietro a Roma, 30 novembre, Andrea a Costantinopoli. Quest’anno, quarantesimo anniversario dello storico incontro, a Gerusalemme, tra Paolo VI ed Atenagora, il Papa aveva invitato il Patriarca a venire personalmente.
Il 29 giugno il Patriarca ecumenico è stato ricevuto da Giovanni Paolo II che nel suo discorso di benvenuto ha evocato quell’incontro storico e “benedetto” dove i loro predecessori, spinti dalla fiducia e dall’amore di Dio, avevano saputo superare i pregiudizi e le incomprensioni secolari dando così un esempio ammirabile di pastori e di guide del popolo di Dio.
Il Papa ha ugualmente ricordato il triste e vergognoso episodio del sacco di Costantinopoli, operato dai soldati della VI crociata.
Preghiamo il Signore, ha aggiunto, perché purifichi la nostra memoria di ogni pregiudizio e di ogni risentimento e ci conceda di avanzare nel cammino dell’unità.
Dopo un incontro strettamente personale, il Patriarca ha presentato al Papa un gruppo di professori e di studenti dell’Istituto di Studi superiori di Teologia Ortodossa, che dipende dal Centro del Patriarcato Ecumenico a Chambesy, in Svizzera.
In serata il Patriarca ha assistito alla Messa della festa dei Santi Pietro e Paolo ed ha tenuto l’omelia, nella quale ha evidenziato i progressi compiuti in questi quarant’anni malgrado le divergenze accumulatesi in nove secoli.
Il fatto di esser qui oggi, ha aggiunto, esprime chiaramente la nostra sincera volontà di superare quegli ostacoli che non sono di natura dogmatica, per concentrarsi poi sui problemi fondamentali di ordine dogmatico che dividono ancora le due chiese.
Il 30 giugno degli incontri bilaterali hanno avuto luogo tra il Patriarca con la sua delegazione ed il Cardinale Kasper con i suoi collaboratori. Il Patriarca ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Roma dal sindaco Veltroni, ha quindi incontrato rappresentanti della Comunità di S. Egidio e del Movimento dei Focolari, ambedue attivi nel dialogo intercristiano ed interrelegioso.
Il 1° luglio ha ricevuto dal Cardinale Ruini la Chiesa di S. Teodoro, destinata alla comunità ortodossa di Roma.
Successivamente il Patriarca ha invitato il Papa a recarsi a Costantinopoli il 30 novembre, per la festa di S. Andrea.
Precedentemente i primati delle due chiese avevano firmato una dichiarazione comune nella quale riaffermavano il loro impegno a lavorare per la piena unità dei cristiani, così da annunciare il Vangelo in modo più credibile e convincente.
Come passo importante il Papa ed il Patriarca si propongono di rilanciare il lavoro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra le due chiese, lavoro che era giunto ad un punto morto nel 2000.
In un suo intervento alla Radio Vaticana Kasper ha detto che le due Chiese hanno ripreso a parlare ed a guardare verso il futuro.
Ha anche parlato di tendere ad una unità nella stessa fede, negli stessi sacramenti, nello stesso episcopato, nella successione apostolica ma anche ad una unità nella pluralità delle forme liturgiche, teologiche, spirituali, canoniche.
Il Cardinale ha anche parlato del riprendere la riflessione sul primato del Vescovo di Roma.
III – Luterani ed altri cristiani
Cattolici
Il dialogo Cattolici-Luterani negli U.S.A. ha terminato il suo decimo ciclo durante la riunione, tenuta a Milwaukee dal 22 al 25 aprile 2004.
La Commissione mista ha approvato all’unanimità la dichiarazione: “La Chiesa come Koinonia di salvezza, le sue strutture i suoi ministeri”. Nei precedenti cicli la Commissione aveva riflettuto su: il simbolo di Nicea, il battesimo, l’Eucarestia, il ministero, il primato papale, l’autorità e l’infallibilità, la giustificazione, l’unico mediatore – i santi – Maria, le Scritture e la tradizione.
Questi lavori hanno avuto un grande influsso sui rapporti cattolici-luterani, anche a livello internazionale.
Il documento, ultimo prodotto, “La Chiesa come koinonia” ha preso come punto di partenza delle considerazioni generali sulla ecclesiologia della koinonia e nel concetto di Chiesa locale per giungere ad un esame delle strutture particolari della koinonia che esistono nelle due chiese.
Nel N.T. il concetto di koinonia riguarda i credenti giustificati, in rapporto a Dio, a Cristo, allo Spirito. Così il documento afferma che la Chiesa partecipa alla salvezza offerta da Dio in Cristo ed è così che, attraverso la Chiesa, la salvezza è proposta all’umanità.
Il documento percorre la storia della riflessione teologica del XX secolo sul concetto di Chiesa locale perché è in essa che si manifesta in pienezza la Chiesa di Cristo. Ma la tradizione cattolica chiama così la diocesi mentre la luterana fa riferimento alla comunità parrocchiale.
Ugualmente problema si pone per il sacramento dell’ordine perché per i cattolici sono i vescovi ad avere la pienezza del sacramento mentre per i luterani l’unica differenza tra vescovo e presbitero è data dalla giurisdizione.
La concezione di ministero ai differenti livelli riflette le differenti maniere in cui cattolici e luterani realizzano la koinonia. Già nel N.T. esistono i termini vescovi e presbiteri ma il loro contenuto varia da un luogo ad un altro.
Nell’epoca patristica si generalizza il triplice ministero di vescovi, presbiteri e diaconi, ma la natura esatta della distinzione resterà una questione aperta anche per la teologia medievale. Il problema si riaprirà e si radicalizzerà all’epoca della Riforma e del Concilio di Trento e poi fino al Vaticano II; resteranno però aperte delle vie per un approfondimento e per delle chiarificazioni della problematica. Ad esempio: la distinzione tra episcopato e presbiterato è di origine divina? E dell’espressione “pienezza del sacramento dell’ordine” non è stato specificato il significato.
Un ulteriore problema aperto, da specificare più chiaramente, è quello della successione apostolica.
Ugualmente una riflessione più approfondita viene proposta dalle due confessioni. Come può essere compreso, visto più subordinato al Vangelo il ministero petrino? Oppure quali forme può assumere per essere più conforme al Vangelo?
Il documento ha proposto alcune raccomandazioni:
1. I vescovi delle due chiese debbono sottolineare la mutua comunione con lettere pastorali comuni, incontri di riflessione comuni, prese di posizione comuni sulle questioni di interesse pubblico.
2. Preti e pastori debbono intensificare la mutua collaborazione, a livello di parrocchie, con studio, preghiera comune, iniziative comuni.
3. I laici delle due chiese esprimono il legame derivante dal comune battesimo con iniziative comuni di catechesi e di evangelizzazione ed a favore della giustizia e della pace.
4. Le organizzazioni caritative ed i ministeri specifici delle due chiese si impegnino in una vera collaborazione per diffondere il vangelo ed il bene comune.
La seconda parte del documento presenta studi biblici e storici per approfondire lo studio della koinonia che saranno di grande utilità per la continuazione della riflessione e delle ricerche.
IV – COE
Il Segretario generale della Chiesa d’Australia, il pastore luterano J. Henderson, ha espresso critiche in vista di nuovi modi che il C.O.E. deve trovare per comunicare con le nazioni del Sud del mondo. Ha specificato che esistono, a suo avviso, troppa burocrazia e modi di fare di stampo europeo.
Commissione speciale
Il Comitato permanente della Commissione speciale sulla partecipazione delle Chiese Ortodosse al COE si è riunita dal 16 al 19 giugno del 2004 a Minsk in Bielorussia. Copresidenti il vescovo Koppe (Chiesa evangelica di Germania) ed il Metropolita Gennadios (Patriarcato ecumenico). Era presente il pastore Samuel Kobia, nuovo segretario generale del COE. I membri del Comitato hanno preso in esame le nuove prospettive di partecipazione degli Ortodossi al COE. Hanno anche preso in esame i problemi del dialogo bilaterale tra Chiese ortodosse e Chiese ortodosse orientali o precalcedoniane e quelli del dialogo tra queste chiese e quella cattolica.
Accanto a questa riunione si è anche svolto un dialogo teologico internazionale sull’ecumenismo oggi.
Il Comitato ha anche discusso sui modi di funzionamento del COE in particolare sul processo della presa di decisioni ed hanno anche discusso del come superare le difficoltà relative alle decisioni; difficoltà dovute al fatto che i Protestanti sono il 75% delle Chiese membre del COE, mentre gli Ortodossi sono il 25%, superabili favorendo la presa di decisione consensuale.
Il Comitato ha anche approfondito un progetto per rendere più chiari i criteri di adesione e di appartenenza al COE.
Il vescovo Koppe ha inoltre parlato della necessità che le Chiese siano sempre più impegnate a pregare e ad agire insieme pur avendo chiare le divergenze e sapendo in che modo le varie Chiese si identificano in rapporto alla Chiesa indivisa. Il metropolita Gennadios si è detto felice del buon livello di impegno e fiducia reciproci pur avendo chiare le difficoltà che persistono; ma crede nella possibilità di superare gli antagonismi e di trovare sia un linguaggio comune sia nuovi approcci in vista dell’unità.
Fede e Costituzione
L’Assemblea plenaria della Commissione di Fede e Costituzione si è tenuta in Malesia a Kuala Lumpur dal 28 luglio al 6 agosto 2004 sul tema: “Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio (Rom. 15/7)”.
L?Assemblea ha riunito un centinaio di membri della Commissione, teologi rappresentanti quasi tutte le confessioni cristiane e regioni del mondo ed anche una trentina di osservatori, invitati, giovani teologi e rappresentanti delle Chiese locali. La discussione ha fatto rilevare il rischio di una differenza di impostazione tra teologi occidentali che mirano soprattutto ad un buon livello accademico ed i teologi del terzo mondo che vedono questa tendenza come una forma di “esportazione” occidentale.
Il pastore Woong, presbiteriano dalla Corea, ha sottolineato l’importanza di superare l’opposizione tra Est ed Ovest, come pure quella del contributo asiatico alla teologia cristiana. Ha anche parlato di tre tipi di Oriente: geografico, politico, ecclesiale e delle distanze rilevanti, non solo geografiche ma anche culturali. È necessario uno spirito pioneristico per studiare più a fondo i disegni di Dio nell’insieme della creazione dove uomini e natura soffrono per la scarsa fede e per i disordini provocati dall’avidità umana.
Il pastore David Yemba, presidente di Fede e Costituzione ha parlato di possibilità e di sfide per Fede e Costituzione in questi secoli strategici nella storia dell’umanità e del movimento ecumenico. È necessario, ha detto, che le Chiese camminino insieme verso l’unità visibile superando la tendenza alle discussioni solo accademiche. Il tema dell’Assemblea “Accoglietevi...” spinge ad andare oltre una convergenza limitata ai documenti. La Chiesa di Cristo è in crescita nell’emisfero Sud del mondo e le chiese madri del Nord debbono limitare la loro eccessiva influenza confessionale perché il confessionalismo è uno dei maggiori ostacoli alla via dell’unità.
Il direttore uscente del Segretariato di Fede e Costituzione, il pastore Falconer, in una relazione letta dal pastore Peter Donald, ha scritto che le Chiese debbono essere in ascolto rispettoso e reciproco, in un clima di interrogativi, di scambio di esperienze e di incontri che le trasformano in organismi in continuo pellegrinaggio.
Samuel Kobia, nuovo segretario generale del COE ha detto che il concetto cristiano di ospitalità si fonda sull’atteggiamento accogliente di Cristo stesso verso i poveri, esclusi e peccatori. Occorre pentirsi, ha aggiunto, di essersi limitati a scoprire la grazia di Dio negli stretti confini del doma e della tradizione.
Gli studi in corso hanno attirato l’attenzione dell’Assemblea, in particolare:
1. il mutuo riconoscimento del battesimo.
2. L’antropologia teologica.
3. L’ecclesiologia.
4. L’identità etnica e nazionale.
5. L’ermeneutica ecumenica.
6. Il dialogo interreligioso.
Il tema di un solo battesimo si è focalizzato sulle implicazioni ecclesiologiche del muto riconoscimento del battesimo.
Su questo punto è stata fatta rilevare l’importanza della fede e dei contenuti di essa per la persona battezzata e per la Chiesa che la battezza.
Ed anche l’importanza del duplice “Sì”; alla fede espresso dal battesimo e quello espresso con l’adesione alle confessioni. Ci si è chiesto se noi che siamo stati accolti da Cristo possiamo non accoglierci gli uni gli altri.
In secondo luogo l’assemblea si è poi soffermata su una serie di studi riguardanti l’antropologia teologica, essi si sforzano di enunciare ciò che le chiese possono dire insieme su ciò che è la natura umana e sulle implicazioni che ne derivano per le scelte etiche fanno i cristiani e le Chiese.
Il rapporto “Prospettive ecumeniche sull’antropologia teologica”, discusso a Montevideo nel marzo 2004, è stato presentato a Kuala Lumpur dal pastore W. Tabberenee. La prima parte del documento ha presentato delle situazioni limite dove i modi di comprendere la natura umana sono messi in discussione:
1. Le rotture e le divisioni che affliggono il nostro mondo.
2. Le nuove tecnologie.
3. Le persone handicappate.
La seconda parte del documento è consacrata all’approccio dei grandi temi biblici legati alla natura umana:
1. L’essere umano come immagine di Dio
2. L’essere umano in seno alla Creazione
3. Il problema del peccato
4. La prospettiva della nuova creazione in Cristo.
Tutta questa sezione è corredata di citazioni, soprattutto Patristiche, è redatta in stile conciso e comprensibile anche dai non teologi e mette in evidenza i punti convergenti delle differenti famiglie cristiane. Globalmente le Chiese hanno, emerge dalla relazione, una concezione largamente comune dell’antropologia teologica cristiana.
Comprensioni differenti non dicono che le Chiese rifiutano di affrontare insieme le sfide esistenti anche le più difficili, come la ricerca su:
1. le cellule staminali
2. la clonazione
3. i problemi legati alla sessualità
4. la ripartizione dei ruoli tra uomini e donne
5. l’appartenenza etnica e nazionale
6. il razzismo
7. l’ecologia
Proprio su questi problemi, è emerso dalla discussione, il testo deve osare di più anche a costo di indicare delle divergenze ed è stato detto che:
“La teologia non deve evitare...” (Erikson).
“I punti di vista sui problemi antropologici si evolvono e certe cose condannate nel passato ora non lo sono più” (Onaiyekan).
La terza parte della discussione ha riguardato l’ecclesiologia e c’è un testo del 1998, “La natura ed il fine della Chiesa”, che, anche se non definitivo, è stato definito uno strumento ecumenico essenziale. Quindi la commissione continuerà a lavorare su di esso per presentarlo all’Assemblea COE del 2006.
Un certo irenismo è stato contestato da Mons. Hilarion, vescovo bizantino slavo di Vienna, il quale ha ritenuto importante non ignorare, ma piuttosto ammettere le divisioni esistenti tra le Chiese.
La quarta parte riguarda il problema del rapporto tra l’unità della Chiesa da una parte e l’identità etnica e nazionale dall’altra. Problema designato con la sigla “ETHNAT”.
A Kuala Lumpur sono state ricordate le ultime tappe dell’ETHNAT: l’inizio lo si è avuto nel 1997 a Fontgombault in Francia ed il programma mira a :
1. Aiutare le Chiese a comprendere meglio il ruolo giocato dalla propria identità in seno a se stessa e nel loro rapporto con la società.
2. Favorire il rinnovamento delle Chiese con il superamento della divisione.
3. Aiutare le Chiese a divenire dei segni profetici dell’unità umana e cristiana.
4. Aiutare le Chiese a realizzare un ruolo di conciliazione nelle situazioni di tensione e di conflitto.
Il Comitato incaricato dell’ETHNAT si è riunito nel Galles nel 1997 ed ha deciso di dare la priorità a due progetti:
1. Esame interdisciplinare dell’etnicità basato sulle risorse degli studi biblici, della teologia, della storia ecclesiastica, delle scienze sociali.
2. la testimonianza delle Chiese, dei consigli delle Chiese e dei centri ecumenici.
Sul tema ETHNAT hanno parlato il metropolita Makarios (Kenya) del Patriarcato ortodosso di Alessandria e da altri relatori di Romania, Sry Lanka, Zambia, Argentina.
La quinta è “L’ermeneutica ecumenica”, ed è stata presentata dal Prof. P.R. Andinach (Argentina). Questo studio è nato dai dibattiti della V Conferenza di Fede e Costituzione nel 1993; esso fa un esame dell’interpretazione delle Sacre Scritture ed una ricerca sull’interpretazione dei simboli, dei riti e delle pratiche. Una consultazione tenuta a Strasburgo nel 2002 si è rivolta ai luoghi dell’interpretazione: liturgia, vita della Chiesa, Canone delle Scritture, Concili ecumenici, contesto sociale, ai criteri di interpretazione, alla possibilità di un’ermeneutica propriamente ecumenica.
Un’altra consultazione tenuta a Vienna nel 2004 ha esaminato i simboli e la loro relazione per la costituzione di una identità (confessionale, etnica, ecc.).
Il sesto ed ultimo punto è stato quello del dialogo interreligioso. Un approfondimento è stato quello del dialogo interreligioso. Un approfondimento è stato fatto su continuità e discontinuità tra popolo ebraico e Chiesa cristiana.
Nel corso della riunione sono stati apprezzati degli studi teologici fatti su:
1. Pace e violenza.
2. Ripartizione dei ruoli maschili e femminili.
3. Sessualità.
È stato chiesto un legame più evidente tra formulazione teologiche e le loro implicazioni etiche e cioè una maggiore integrazione delle prime con la realtà della vita.
È stato anche raccomandato di mettere meno in rilievo la propria identità e di mettere più l’accento su ciò che si riceve gli uni dagli altri e su ciò che si riceve da Dio.
A conclusione dei suoi lavori l’Assemblea ha inviato un “messaggio alle Chiese”. In esso si dice che l’assemblea di Kuala Lumpur è stata un “momento di speranza”. Certamente molti problemi restano ancora da esplorare insieme ma si è presa coscienza che vi è un quadro di base che potrebbe permettere alle Chiese di avanzare in termini di un mutuo riconoscimento. “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo...”, tema dell’incontro, ci invita a riflettere sul dovere comune di una mutua ospitalità; andando al di là delle nostre divisioni per agire insieme per l’unità visibile della Chiesa.
Comitato Esecutivo
Il comitato esecutivo del COE si è riunito a Seul in Corea dal 24 al 27 agosto2004. ha raccomandato che i prossimi rapporti sui programmi sintetizzino meglio i problemi sui quali il Comitato esecutivo è chiamato a dare un consiglio o a prendere una decisione.
Successivamente il Comitato ha discusso su tre problemi riguardanti le strutture ben sapendo che, nei tre casi, il partenariato che ciò implica e di una importanza primordiale.
a) Il Comitato ha preso atto con soddisfazione del rapporto sull’Azione comune della Chiesa (ACT) ed ha sottolineato l’importanza di essa in materia di intervento in caso di catastrofe o di conflitto ed ha chiesto all’ACT di lavorare in stretta collaborazione con le chiese che si trovano nell’area sopra indicata.
b) Il Comitato esecutivo ha riaffermato l’impegno del Consiglio a sostenere l’obiettivo originale riguardo all’informazione nel movimento ecumenico.
c) Il Comitato ha preso atto del rapporto sullo spostamento del segretariato del COE per il Pacifico ed ha preso atto degli inconvenienti dovuti ad esso. Ha raccomandato di presentare al Comitato Centrale del COE la proposta fatta dai dirigenti di Chiesa del Pacifico di portare il Segretariato dal Pacifico a Ginevra.
Successivamente il Comitato esecutivo ha chiesto al Segretariato Generale di continuare a studiare, con le Chiese membri, le possibilità di realizzare la proposta le Chiese ai fini della loro rappresentanza e partecipazione. Ha raccomandato al Comitato Centrale l’ammissione come chiesa membro della Comunità del COE di
1. Chiesa protestante evangelica di Ginevra
2. Associazione delle Chiese Evangeliche Riformate del Burkina Faso
3. Chiesa protestante dei Paesi Bassi.
Il Comitato esecutivo ha poi lungamente discusso sull’accusa di grave deviazione teologica rivolta alla Chiesa Kimbanguista ed ha chiesto al COE di decidere se detta Chiesa gli appartiene o meno ed ha inoltre deciso che il problema dell’appartenenza o esclusione va risolto nella riunione del Comitato esecutivo del settembre 2005.
Il Comitato ha inoltre esaminato l’inserimento del problema delle “decisioni per consenso” nel regolamento; ha inoltre fatto delle dichiarazioni su:
1. sostegno al processo di unificazione della Corea
2. sostegno al progetto di risoluzione pacifica del conflitto del Darfur.
V – Tra Cristiani
CCEE
La sesta consultazione delle Conferenze episcopali europee sulla responsabilità della creazione si è svolto in Belgio a Namur dal 3 al 6 giugno 2004.
Tema: “Responsabilità delle Chiese e delle Religioni verso la creazione”.
Tra i presenti erano: rappresentanti della S. Sede, del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace”, della Commissione degli Episcopati presso l’Unione Europea, della “Rete” ecumenica per l’ambiente, di Giustizia e Pace-Europa, degli ordini religiosi.
Durante la prima seduta sono stati presentati tre contributi teologici: la prima di queste relazioni è stata di Mons. Emmanuel, metropolita di Francia del Patriarcato di Costantinopoli; egli ha sviluppato il tema della vocazione comune dell’umanità a divenire “sacerdote” avendo per compito di santificare la creazione la creazione in un atto culturale di azione di grazie. Una tale approccio infatti risponde meglio alla ricerca di una autentica intimità tra l’umanità e la creazione.
La seconda, a cura del pastore riformato svizzero Lukas Vischer, ha esposto l’apporto specifico delle chiese protestanti alla ricerca di uno sviluppo durevole nel mondo.
Cercando sempre di fondare la loro comprensione della creazione a partire dalla Scrittura, i protestanti hanno la tendenza a mettere l’accento sullo stato peccatore dell’umanità e sulla presenza costante della grazia di Dio.
La teologia protestante si sforza di mantenere l’equilibrio tra un ottimismo che pretende di risolvere i problemi ed un pessimismo che lascia ogni situazione alla responsabilità di Dio.
In sintesi: i credenti debbono fare tutto quello che possono per proteggere la natura, l’avvenire sarà in ogni caso un dono della grazia di Dio.
La terza è stata tenuta da Mons. P. Kelly, arcivescovo cattolico di Liverpool che ha esplorato il concetto tomista di “transustanziazione” come punto di partenza della sua relazione. Il termine, in S. Tommaso d’Aquino, non significa una trasformazione magica della materia, ma un movimento dove la materia acquista un senso radicalmente nuovo in una relazione radicalmente nuova tra l’uomo ed il suo Creatore per mezzo di elementi materiali.
Nella seduta pubblica vi sono stati interventi di appartenenti a diverse religioni.
Il P. Guy Gilbert ha presentato il punto di vista cristiano mettendo l’accento sulla franchezza e l’onestà che debbono caratterizzare il rapporto uomo-creazione.
Il rabbino belga, Albert Guigui, ha presentato l’interdizione biblica (Dt. 20) di tagliare gli alberi durante l’assedio di una città. Citando poi Amos 9 ha descritto l’armonia che esiste tra l’uomo e l’ambiente naturale.
Il venerabile Lama Karta di Tihanga ha presentato delle intuizioni profonde: utilizzando la natura l’uomo si trova ad un bivio tra vita interiore e mondo dei fenomeni . per lui tutte le grandi tradizioni religiose costituiscono un unico grande coro che canta l’indispensabile armonia tra vita interiore e mondo fenomenologico.
Il professore di religione musulmana M. Mahi Yacoub che per la conservazione della natura l’umanità deve cercare la pace tra le religioni nel rispetto del progetto di Dio, nella giustizia e nella fraternità umana.
Dal dibattito sono usciti molti elementi:
1. La responsabilità della creazione è una sfida fondamentale per l’avvenire della terra, la difesa della pace e la testimonianza cristiana nella società contemporanea.
2. Le Chiese cristiane debbono accordarsi nella valutazione del problema ecologico, ricordando la necessità del dialogo interreligioso, della pace, della giustizia, di una buona ripartizione delle risorse della creazione.
3. Attenzione alle risorse: acqua, petrolio, terra coltivabile.
I Segretari generali delle Conferenze Episcopali Europee si sono riuniti a Belgrado dal 10 al 13 giugno 2004 sul tema: “Il ruolo del cristianesimo e delle Chiese nell’Europa attuale”.
Dal comunicato stampa pubblicato al termine della riunione è emerso che molti segni indicano che una riscoperta ed una nuova proposta del Vangelo sono possibili nel continente europeo:
- Il dibattito nelle radici cristiane dell’Europa.
- L’inquietudine e la paura di fronte al terrorismo.
- Il senso di vuoto nei confronti di punti di riferimento.
- La nuova richiesta di senso e di spiritualità.
- Lo sviluppo di esperienze religiose ambigue, irrazionali, alternative.
I segretari hanno riflettuto su recenti esperienze che esprimono simbolicamente questa nuova possibilità offerta al cristianesimo ed hanno concluso che il popolo cristiano esiste ed è vivo in Europa. È urgente superare la dicotomia Europa dell’Est ed Europa dell’Ovest come pure è importante il confrontarsi con la cultura moderna e con i fenomeni del secolarismo e della secolarizzazione, l’occidente ha l’esperienza di una vita cristiana nella società secolarizzata e può offrirla all’Est e l’Est può aiutare l’Occidente a ritrovare i suoi valori perduti.
Un discorso positivo è stato poi fatto sui rapporti tra Chiesa ed Istituzioni europee, facendo riferimento in particolare al trattato costituzionale perché esiste un dialogo tra mondo ecclesiale e mondo politico.
Un vivo dibattito ha avuto luogo sulle relazioni tra cristianesimo, laicità e religioni; infatti occorre distinguere tra il laicismo che rifiuta la religione e la laicità autentica che è un modo di relazionarsi tra Chiesa e Stato.
In una società laica la Chiesa deve essere capace di ascoltare i problemi e le domande che si pongono e di trovare un linguaggio che permetta di rispondere, testimoniare ed annunziare il Vangelo che è la Buona Novella per tutti.
L’incontro di Belgrado ha ugualmente costituito una importante esperienza ecumenica. Particolarmente fraterna è stata l’accoglienza da parte del Patriarca serbo Pavle.
All’incontro organizzato ogni anno dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, hanno partecipato i segretari generali di: Albania, Germani, Inghilterra, Austria, Belgio, Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Scozia, Spagna, Francia, Ungheria, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Paesi Scandinavi, Polonia, Portogallo, Romania, Russia, Serbia e Montenegro, Slovenia, Slovacchia, Svizzera, Ucraina.
KEK
La prima riunione plenaria della nuova commissione “Chiesa e Società” della conferenza delle Chiese europee si è tenuta in Belgio dal 28 aprile al 2 maggio.
La Conferenza delle Chiese europee ha salutato l’adozione da parte della Conferenza intergovernamentale della Costituzione dell’Unione europea. La Kek e le 125 chiese membri di tradizione anglicana, vecchio cattolica, ortodossa e protestante, hanno seguito attentamente l’elaborazione della Costituzione europea e si sono rallegrate che il Parlamento europeo abbia un più forte ruolo in materia di asilo e di migrazione come pure che d’ora in avanti chiare norme giuridiche proteggeranno i diritti delle persone e della dignità umana; ha tuttavia deplorato che l’Unione europea abbia messo l’accento più sul miglioramento delle capacità militari degli stati membri che sull’impegno in favore della prevenzione dei conflitti.
Dal 25 al 27 giugno 2004 la seconda consultazione dei teologi ortodossi e protestanti nell’ecclesiologia si è svolta in Germania. L’incontro ha riunito vescovi e teologi ortodossi, calcedoniani e precalcedoniani da una parte e teologi delle chiese luterane, riformate ed unite.
Comunione delle Chiese protestanti d’Europa (CEPE)
Il Comitato esecutivo della Comunione delle Chiese protestanti in Europa si è riunito in Germania dal 23 al 25 aprile 2004 per preparare la VI assemblea generale.
Dal 6 al 10 maggio 2004 il gruppo di studio della CEPE si è riunito ad Oradea in Romania per elaborare dei suggerimenti in vista di una riforma delle strutture dell’organizzazione della Comunione.
Il rapporto finale della seconda serie di dialoghi tra la CEPE e la Federazione Battista Europea (FBE) è stato pubblicato il 26 giugno 2004.
Il dialogo tra FBE e CEPE non pretende di aver regolato definitivamente le discussioni teologiche controverse, infatti un tema che mostra differenze profonde è quello dell’ecclesiologia. Una piena comunione è ancora lontana ma la ricerca e la riflessione continuano.
Doha: ebrei cristiani e musulmani
esortati a saper vivere insieme
"Vogliamo rinnovare il nostro impegno e la nostra la piena volontà di rafforzare i legami fra i fedeli nel Dio Onnipotente". Con questo proposito si sono conclusi i lavori del terzo Meeting delle Religioni, che dal 29 al 30 giugno ha visto riunirsi a Doha (Qatar) più di 100 delegati delle 3 religioni monoteiste; quest’anno per la prima volta erano presenti anche rappresentanti ebrei.
I partecipanti hanno pubblicato alla fine del Meeting un documento comune, che afferma l'importanza di questi incontri, i quali riflettono la sincera volontà di tutti a “convivere" ed hanno esortato i fedeli delle 3 religioni a rafforzare il loro impegno a favore della pace e della concordia fra tutti i popoli del modo.
Durante l’incontro è emersa la necessità per il mondo arabo di aprire sezioni di scienze religiose e le studio delle religioni comparate. I partecipanti hanno auspicato la fondazione di un istituto arabo impegnato a rilanciare gli studi delle religioni e hanno rifiutato le “teorie false” che parlano di ‘”polemica tra le religioni”.
I delegati hanno dato piena adesione a un progetto mirante alla fondazione di un Consiglio superiore che si impegna a favore del dialogo interreligioso, formato da rappresentanti delle 3 religioni. La dottoressa Aisha Al Manah, presidente dell'Istituto degli studi islamici e della scienza della sharia, ha espresso ad AsiaNews il suo desiderio di vedere un mondo arabo più riconciliato e tollerante, assicurando a tutti la disponibilità del governo degli Emirati Arabi di proseguire gli sforzi capaci di mantenere questo spirito di apertura.
Dura la condanna del terrorismo esercitato nel nome della fede; il meeting ha ribadito che le religioni non sono mezzi di guerra, ma strumenti di pace e ha chiesto alla comunità internazionale di rafforzare le misure in grado di prevenire l’ “anomalia del terrorismo” esercitato sotto diverse “etichette” religiose.
Grande attenzione è stata data all’informazione e ai media. I partecipanti hanno chiesto agli ecclesiastici e ai capi religiosi di impegnarsi in pubblicazioni su riviste e giornali e collaborare a trasmissioni radiofoniche e televisive capaci di illuminare il popolo sulle problematiche religiose. Gli studiosi hanno poi chiesto ai governi interessati di mantenere un controllo rigido sulle trasmissioni “non sane”, che “rovinano le coscienze e le menti e che danneggiano le religioni.
I lavori si sono chiusi con il discorso di Shaikh Hamad Ben Khalifa Al Thani, emiro del Qatar. Egli ha rinnovato l'impegno del suo governo a favore della pace e della convivenza fra tutti i fedeli delle religioni monoteisti ed ha auspicato la fondazione di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso.
Walid Ghayad, tra i partecipanti all’incontro, ha espresso ad AsiaNews il suo compiacimento “per il clima di dialogo” che ha caratterizzato i lavori di Doha ed ha sottolineato l'importanza dell'apertura verso l'altro, “che non è un'isola ma una creatura di Dio”.L'uomo, nel corpo, è immagine di Cristo risorto nel corpo. Quello che si tratta di affermare è quindi il rapporto tra corpo e risurrezione.
Il calendario della liturgia cattolica segna, il prossimo 27 novembre (2005), l'inizio del tempo di Avvento e del nuovo anno liturgico, anno B del ciclo triennale.
Che cosa si sa oggi di Paolo?
di Michel Trimaille
Cronologia
6 a.C. Nascita di Paolo in Galilea
Primi anni del I secolo I suoi genitori sono deportati a Tarso, in Cilicia.
Intorno al 15 d.C. Paolo studia a Gerusalemme.
33 Conversione di Paolo a Damasco.
34 Soggiorno presso gli arabi Nabatei.
37 Ritornato a Damasco, Paolo fugge e si sottrae al governatore del re Areta (39).
37 Prima visita a Gerusalemme. Paolo ritorna in Siria-Cilicia. Ritorna ad Antiochia e istruisce i nuovi cristiani.
41 Editto di Claudio contro certi ebrei di Roma. Torbidi a causa di «Chrestos». Primo viaggio missionario con Giovanni Marco, sotto la responsabilità di Barnaba (Cipro, Anatolia).
Inverno 45-46 ad Antiochia Seconda missione con Sila, senza Barnaba. Paolo è capo missione, ritorna al centro dell’Anatolia.
Estate 46 Viaggio verso la Galazia settentrionale (regione di Pessinunte), poi evangelizzazione della Macedonia: Filippi, Tessalonica, Berea, passaggio ad Atene. Soggiorno di fondazione a Corinto (18 mesi?). Paolo sbarca a Cesarea, discende ad Antiochia.
49-50 Incontro a Gerusalemme con Barnaba e Tito («dopo 14 anni», Gal 2,1). Paolo ad Antiochia. Incidente con Pietro (Gal 2,11-14).
50 Paolo si ferma ad Efeso che diventa il centro del suo irradiamento missionario.
51-52 Proconsolato di Gallione a Corinto. Paolo compare dinanzi a lui in occasione di uno dei suoi passaggi a Corinto.
Piacerebbe potersi rallegrare senza riserve di numerosi, sapienti lavori su Paolo…
Ma, anche se vi si possono trovare delle convergenze, parecchi problemi rimangono senza soluzione e le numerose ipotesi avanzate non si mostrano sempre convincenti. Perché tanti problemi? Perché, sull’esistenza di Paolo, noi possediamo due tipi di fonti: le sue tredici lettere (di cui sette sono considerate autentiche dalla quasi totalità dei commentatori), e gli Atti degli Apostoli di Luca, la cui seconda parte è pressochè interamante un racconto della vita missionaria di Paolo sino al suo arrivo a Roma. Dal momento che le lettere paoline non hanno nulla di un’agenda, e che, in compenso, Luca segue un metodo narrativo che sembra concatenare le tappe della vita di Paolo nel loro ordine cronologico, i biografi hanno, sino a tempi recenti, considerato questo quadro come il più semplice, liberi di completarlo con informazioni spigolate dalle lettere. Ma oggi si sa meglio che Luca, sia nel primo che nel suo secondo libro, era in primo luogo un teologo del Figlio di Dio e della sua Chiesa, e che le sue relazioni con i fatti «storici» non erano così originali come si credeva.
Allo stesso tempo, si incontravano sempre più difficoltà a conciliare certi dati degli Atti con le informazioni attinte dalle lettere, benché conosciute da Luca!
Di qui la reazione, detta «principio di Knox», dal nome di un esegeta che scrisse attorno al 1950, secondo il quale gli Atti degli Apostoli possono essere utilizzati – e con prudenza – soltanto per completare i dati autobiografici delle lettere, ma mai per correggerli. In realtà, un fatto narrato da chi l’ha vissuto merita sempre maggior credito delle informazioni fornite da un terzo che si pone finalità teologiche o apologetiche.
Questo principio radicale si rivela però difficile da metter in pratica. Le lettere di Paolo sono scritti di circostanza: egli parla poco d sé, se non costretto dalla polemica. Vi è poi il problema dell’autenticità letteraria: alcune delle sue lettere ci informano soltanto sul ricordo emozionante ed efficace che egli ha lasciato nella memoria delle Chiese. Infine, un ultimo scoglio: nelle sue lettere, Paolo non cita alcun avvenimento conosciuto attraverso la storia, tranne una volta, in 2 Cor 11,32, in cui racconta dei suoi contrasti in Damasco con il governatore del re Areta (re degli arabi Nabatei, morto nel 39).
Non si può dunque stabilire una cronologia dell’opera missionaria di Paolo senza tenere conto, in modo certamente critico, dei riferimenti cronologici riferiti da Luca, tanti più che la sua documentazione di base merita di essere valutata seriamente nel suo valore storico.
Tenterei quindi modestamente di distinguere i punti che sembrano condivisi da quelli sui quali ci si attendono ulteriori lumi per potersi pronunciare con onestà.
Un ebreo fariseo di Tarso?
Nelle sue lettere, Paolo non allude mai al suo luogo di nascita o alle origini della sua famiglia. Solo Luca parla di Tarso In 9,11 a Damasco il Signore rivolgendosi ad Anania nomina «Saulo di Tarso» (9,1) più tardi (9,30) «i fratelli… lo fecero partire per Tarso» dove Barnaba andrà a cercarlo per riportarlo ad Antiochia (11,25). Al momento del suo arresto a Gerusalemme Paolo fa due volte questa dichiarazione di identità, prima rivolto ad un tribuno romano: «Io sono un Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza…» (21,39), poi davanti alla folla: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia» (21,3). Non si vede per quale motivo Luca avrebbe inventato di sana pianta questo luogo d'origine; ma Paolo è nato a Tarso? Il problema non si poneva sino a quando non si è cominciato a prendete in seria considerazione l'informazione fornita da san Girolamo (che la traeva da Origene): «I genitori di Paolo erano originari di Gyscal, provincia di Giudea, e quando tutta la provincia fu devastata dagli eserciti romani e gli ebrei dispersi in tutto il mondo, essi furono trasportati a Tarso, città della Cilicia. Paolo, ancora giovanissimo, seguì i suoi genitori…». Girolamo riferisce altrove un'informazione simile. Questa versione dei fatti permette di attribuire un certo credito ad alcuni dati sino a quel momento difficili da spiegare. In primo luogo a quello della cittadinanza romana di cui Paolo non parla mai in prima persona, ma di cui, secondo Luca, si avvale. I suoi genitori avrebbero potuto acquisirla facilmente a Tarso, poiché, secondo Filone, «la maggior parte degli ebrei di Roma erano degli affrancati». Il nome romano Paulus («piccolo», «poco») era molto vicino all'aramaico grecizzato Saulos. A seguito della sua rivendicazione di essere «Ebreo, figlio di Ebrei» (Fil 3,5; 2Cor 11,22) essa suppone, con la Palestina, relazioni più strette di quelle di un qualunque ebreo della diaspora. Di colpo, l'informazione di Luca secondo la quale Paolo aveva a Gerusalemme un nipote, e forse una sorella diventa più credibile (At 23,16). Infine, si comprende meglio che la sua appartenenza al ramo farisaico più osservante del giudaismo sia sottolineata altrettanto da lui che da Luca (Fil 3,5 ed anche Gal 1,14; At 22,3; 23,6; 26,5). In realtà non possediamo prove certe dell’esistenza, prima della caduta di Gerusalemme, di gruppi farisaici al di fuori dei territori abitati in maggioranza da ebrei (Giudea, Galilea, Perea). Inoltre, se la famiglia di Paolo è stata deportata soltanto da una generazione (4 a.C. e 6 d.C. sono date possibili), non è strano che nella sua famiglia non si sia dimenticata l'appartenenza alla tribù di Beniamino (Fil 3,5), mentre la maggior parte degli ebrei delle antiche diaspore avevano perso la memoria dello loro radici tribali. Gli anni di studio a Gerusalemme (At 22,3) diventano più verosimili: e là, alla scuola di Gamaliele, avrebbe potuto diventare un fariseo abbastanza motivato da perseguitare la Chiesa.
Tuttavia gli storici ammettono la loro perplessità sulla possibilità di essere contemporaneamente ebrei di stretta osservanza e cittadini, di una città ellenistica come Tarso. Se la cittadinanza romana in sè, non imponeva obblighi inconciliabili con la fede, il fatto di appartenere a pieno titolo a una tale città implicava il riconoscimento di istituzioni, ivi comprese quelle culturali e religiose, difficilmente accettabili per un fariseo rigoroso. Si può pensare che Luca abbia visto in questo semplicemente un modo di collocare il suo eroe ai vertici della gerarchia sociale.
Paolo ha conosciuto Gesù di Nazaret?
Alcuni di coloro che scrivono su Gesù utilizzano un testo per pretendere che Paolo avrebbe conosciuto Gesù di Nazaret, ma avrebbe deciso consapevolmente di ignorarlo per conoscere soltanto il Risorto. Ecco il testo: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16). Per loro, «conoscere Cristo secondo la carne» significa «conoscere Gesù terrestre», come si conoscerebbe chiunque. Sottolineiamo che Paolo scrive qui due volte, alla lettera: «conoscere qualcuno secondo la carne». Ora, Paolo ha degli usi letterari: quando parla dell’esistenza umana di un personaggio, egli scrive sempre: «un tale (Abramo, Davide, ecc) secondo la carne». Se egli scrive qui «conoscere Cristo secondo la carne», significa che la locuzione avverbiale qualifica la conoscenza, e non il Cristo. Ora, per lui «conoscere secondo la carne» è il contrario di «conoscere secondo lo spirito», cioè una conoscenza a cui la sapienza umana non può condurre (I Cor 1-2). Paolo non dice dunque di avere incontrato in qualche occasione Gesù di Nazaret e che questo non conta. Egli dice soltanto che egli vede in ogni uomo una persona redenta dal Cristo, dunque un'altra persona! E altrettanto accade per lo sguardo che egli rivolge a Cristo! Lo storico non può dunque sapere se la via di Gesù ha incrociato quella di Paolo prima di Damasco. Non è impossibile, ma non se ne sa nulla!
Come datare la fondazione delle chiese in Europa?
I viaggi di san Paolo («il Mondo della Bibbia» n° 30) ha esposto le argomentazioni per cui le chiese di Filippi, Tessalonica e Corinto sono state fondate nei quattordici anni intercorsi tra le due prime salite di Paolo a Gerusalemme (Gal 2,1). Luca, collocando il secondo viaggio missionario dopo la riunione di Gerusalemme mostra che Paolo aveva fondato queste chiese dopo un accordo armonioso realizzato a Gerusalemme con le «colonne». Così Paolo non è più il franco tiratore di cui lui stesso dà l’idea nelle sue lettere, ma ha lavorato in pieno accordo con le direttive degli apostoli. Adottare questa nuova concatenazione dei fatti obbliga a rimettere in questione alcuni dati accettati. Così, la prima lettera ai Tessalonicesi è stata probabilmente scritta prima di quanto si supponesse. Allora, la comparsa di Paolo a Corinto davanti al proconsole Gallione, fissata attualmente con la maggiore probabilità nei 51, non ha necessariamente avuto luogo - se veramente ha avuto luogo - in occasione del soggiorno di fondazione della chiesa di Corinto. 1 e 2 Cor ne contano almeno tre, ma, come ha fatto in altre occasioni, Luca ha raggruppato questi diversi soggiorni in uno solo, e, quando il lettore lo crede terminato, il racconto riprende con la comparizione di Paolo davanti al proconsole (18,12-17). Analogamente, diventa possibile attribuire l'editto di Claudio contro g!i ebrei di Roma (At 18,2; Svetonio, Vita di Claudio, 25), alla data del 41 che ha, oggi, il favore degli storici, mentre i biografi legati allo schema di Luca si richiamano a quella del 49, che peraltro è stata fissata soltanto nel V secolo, in funzione della supposta datazione della fondazione della chiesa di Corinto: un perfetto circolo vizioso!
Su cosa ci si è accordati a Gerusalemme?
«A me, da quelle persone ragguardevoli (Giacomo, Cefa e Giovanni), non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi...» (Gal 2,6-7). Si tratta di una spartizione geografica dei «territori di missione»? Non è assolutamente verosimile, dato che le comunità a cui si rivolge la prima lettera di Pietro coesistono, nelle stesse province, con delle Chiese paoline. È una spartizione su base etnica? Nemmeno! Cristiani di origine ebraica sono relativamente numerosi a Filippi e a Corinto, e le Chiese che dipendono da Pietro contengono degli antichi pagani (1 Pt 2,18-3,2). L'ipotesi più moderata è quella di un accordo non privo di ambiguità (Cf l'incidente di Antiochia, Gal 2,11ss): esso permetteva che Paolo non chiedesse la circoncisione da parte pagani, ma permetteva anche a Pietro e agli altri di lasciare i cristiani venuti dal giudaismo liberi di conservare le tradizioni, compresa la circoncisione. Paolo ha interpretato l'accordo in senso rnassimalista, ma oggi sappiamo che l'incarnazione della fede nelle culture è lenta e un decreto non è sufficiente perché tutto funzioni secondo i principi, soprattutto in materia di alimentazione! Pietro ne era forse più consapevole.
Un terzo viaggio missionario?
I biografi di Paolo abitualmente raccontano di un terzo viaggio missionario, il cui collegamento con la fine del secondo è problematico: «Giunto a Cesarea, si recò a salutare la Chiesa di Gerusalemme e poi scese ad Antiochia. Trascorso un po' di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli» (At 18,22-23). E il versetto successivo ci conduce in piena Chiesa di Efeso. Queste centinaia di chilometri superati con poche parole dopo la partenza da Corinto (18,18) si spiegano con lo spostamento della riunione di Gerusalemme di cui ho appena detto. In realtà, è dopo la fondazione delle Chiese di Macedonia e di Grecia che Paolo, sbarcato a Cesarea, riscese ad Antiochia, a prendere con sé Barnaba, e, in compagnia di Tito, «salire a Gerusalemme». Dopo la riunione narrata in Gal 2,1-10 (e trascritta da Luca in At 15), Paolo è ritornato ad Antiochia e, dopo l'incidente con Paolo, appoggiato dal fedele Barnaba, è partito per installarsi ad Efeso, ma il suo soggiorno fu interrotto da necessità: il viaggio a Corinto dove era richiesta la sua presenza; e soprattutto mantenimento della promessa di venire in aiuto ai cristiani di Gerusalemme (Gal 1,10).
Paolo ha fondato Chiese in Illiria?
Si potrebbe pensarlo leggendo Rm 15,11ss, in cui egli fa il bilancio della sua missione: «Così da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo...». In due parole, egli percorre tutto lo spazio della sua passata vita apostolica. Ma i limiti che egli fornisce sono da intendere in senso inclusivo o esclusivo? La limitazione che egli aggiunge quanto ai luoghi che ha rifiutato di evangelizzare esclude ogni rivendicazione guardante Gerusalemme: la Chiesa esisteva prima di lui!. È dunque logico non includere l'llliria (attuale Albania), e di comprendere tra Gerusalemme e l'llliria, escludendo l'una e l'altra: egli ha, in realtà, evangelizzata con successo le province limitrofe della Macedonia da un lato, e della Siria dall'altro, per non parlare dei suoi inizi presso gli arabi Nabatei in Transgiordania.
Quali furono i suoi ultimi progetti missionari?
Paolo li espone alla fine della lettera ai Romani: «Avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi i quella regione». In quel momento (inverno 55-56) quando scrive ai Romani prima di portare a Gerusalemme la colletta che gli ha causato tante preoccupazioni, Paolo non è più l’inviato ufficiale di una Chiesa, come lo ero stato in altri tempi di quella di Antiochia, prima del disaccordo di Gal 2,11ss. Viene da dire che la sua vocazione non l'invia là dove Cristo è già conosciuto. La Spagna ben risponde a questi criteri: essa è quella «estremità della terra» alla quale era inviato il Servo di Jahwè al quale egli si paragona in Gal 1,15 («io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» Is 49,6); e siccome là non vi è diaspora ebraica, il suo invio «alle nazioni» troverebbe dunque una destinazione ideale; essa è a qualche giorno di navigazione da Ostia, il porto di Roma; egli può trovare a Roma dei collaboratori che conoscano le regioni occidentali dell'Impero e forse la lingua di popolazioni che non parlano il greco; senza parlare dl quell’aiuto finanziario che i Filippesi gli hanno largamente fornito quando lavorava nelle province orientali. Potersi presentare come un rappresentante ufficiale della Chiesa di Roma sarebbe per lui una carta sicura, forse una condizione necessaria. È questo il motivo per cui, a questa chiesa in cui sono numerosi gli ebrei, egli scrive i tre capitoli più positivi di tutta la sua corrispondenza sul ruolo di Israele nella storia della salvezza (9-11). Paolo ha realizzato questo progetto? Cronologicamente, nulla vi si oppone: prima della data probabile della sua morte a Roma, ne avrebbe avuto il tempo, ma le cose non si sono svolte come previsto: il viaggio che egli annuncia ai cristiani di Roma lo farà come imputato, nella speranza che l'imperatore lo assolva da tutto ciò di cui lo hanno accusato gli ebrei di Gerusalemme. Egli poté essere assolto ed essersi recato in Spagna, ma, sembra, senza grande successo. Non aveva probabilmente ben misurato tutta la difficoltà dell'impresa, presso popolazioni molto diverse per razza, cultura e lingua. Comunque sia, Clemente dì Roma, che scrive una lettera verso l'anno 95, suggerisce che egli ha per lo meno tentato: «Paolo… ha toccato i confini dell'Occidente...». Per uno che abita a Roma, i «confini dell'Occidente» non possono essere che il limite occidentale dell'Impero romano.
La colletta di Paolo è stata accettata?
Paolo non ha avuto l'occasione di scriverne. Si dice che Luca non parli mai della colletta, e per taluni questo silenzio nasconde il rifiuto che Paolo temeva in Rm 15,31: questo rifiuto avrebbe significato, per Giacomo e i suoi fedeli, che la comunione con le Chiese paoline non esisteva veramente. Trattare questa ingiuria col silenzio sarebbe proprio dello stile di Luca: egli tace sui conflitti che non fanno onore alle Chiese. Ma non è certo che Luca non dica nulla della colletta. Secondo 24,17; egli ne testimonia in maniera indiretta: «Sono venuto a portare elemosine al mio popolo», dichiara Paolo al governatore. E in 21,19, nella frase: «egli [Paolo] cominciò a esporre nei particolari quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo del suo ministero, la parola «ministero» è quella con cui Paolo designa la colletta, quando ne parla ai Romani (15,31). Essa avrebbe avuto, anche per Luca, benefici effetti nelle Chiese paoline. Nel difficile quadro storico di quest’epoca i cristiani di Gerusalemme ne avevano bisogno, e non avrebbero potuto permettersi un tale rifiuto.
Che cosa si sa del suo martirio?
Luca chiude il libro degli Atti con l'arresto di Paolo a Gerusalemme, le tappe del suo processo dinanzi alle autorità provinciali, il suo movimentato viaggio verso Roma a somiglianza di un Giona fedele alla sua missione, e il suo arrivo nella capitale. I commentatori che accettano l'autenticità di 2 Tm pensano di beneficiare di altre informazioni e avanzano ipotesi sull'esito positivo del suo processo, la sua liberazione, la realizzazione del suo progetto spagnolo, un nuovo apostolato nelle province orientali e nel mar Egeo, prima di un secondo arresto e la prospettiva del martirio. La prudenza vuole una maggior moderazione nelle certezze ed è poco onesto ammettere la propria ignoranza. Il martirio di Paolo c(i è noto soltanto attraverso una tradizione ecclesiale difficilmente contestabile perché testi e culto convergono. Lo storico Eusebio di Cesarea (313) riferisce la testimonianza di Tertulliano, scrittore romano cristiano, che lo colloca nel contesto della persecuzione di Nerone: «Leggete le vostre memorie: vi troverete che Nerone, per primo, ha perseguitato questa fede, soprattutto nel momento in cui, avendo sottomesso l'intero Oriente, si mostrò crudele verso tutti. Noi siamo orgogliosi che tale condanna venga da un tale promotore». Ed Eusebio prosegue: «Si racconta che, sotto il suo regno, Paolo sia stato decapitato a Roma ed anche Pietro sia stato crocifisso, e questo racconto è confermato dai nomi di Pietro o di Paolo che ancor oggi sono dati ai due cimiteri di questa città». Si ricostruisce questa fase della storia come segue: a seguito dell'incendio di Roma (luglio 64) i cristiani, secondo la testimonianza di Tacito, furono accusati perché fosse discolpato Nerone (primavera 65). Allora si svolsero le scene orribili descritte in Annali XI. È verosimile che Pietro sia stato crocifisso in questo contesto. Inoltre, la decapitazione di Paolo comporta un regolare processo, che si sarebbe svolto un poco più tardi ma prima del suicidio di Nerone il 9 giugno del 68. Si può ipotizzare la data del 67.
(Michel Trimaille, Professore di Sacra Scrittura nel Seminario maggiore del Vietnam, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi e nell’Institut Catholique di Parigi).
Occorre ripensare nelle sue radici l’annuncio morale cristiano sulla storia e sull’economia: il Concilio ha indicato con chiarezza la via, ma finora sembra che pochi se ne siano accorti o siano disposti a seguirla senza compromessi.
Copti in Italia
Gli abbà in subaffitto
di Laura Badaracchi
La sua vocazione è anche quella di pittore: dipinge icone su tela o pergamena, dai colori vivaci e accesi, che poi appende alle pareti della chiesa romana dei santi Gioacchino e Anna ai Monti. Ambà (che in lingua amarica significa "regalo") è arrivato dall'Etiopia due anni fa; ha studiato arte tradizionale mentre frequentava teologia e si preparava a diventare diacono. Con il permesso di soggiorno per motivi religiosi, ora vive in una stanza subaffittata per 300 euro al mese in un appartamento a Centocelle. E affianca nella catechesi e nel canto abbà Gebre Tinsae Hailu, il sacerdote responsabile della comunità copta ortodossa in via Monte Polacco.
La chiesetta in cui da dieci anni si ritrovano gli etiopi è uno dei tanti luoghi di culto cattolici (perlopiù in disuso) "prestati" alle comunità straniere di altre confessioni cristiane dalla diocesi di Roma. Costruita nell'VIII secolo, è stata ristrutturata nel 1609, ma ora necessita di un urgente restauro. «A giugno o settembre dovremo lasciarla», annuncia padre Gebre. «Ma il Vicariato non ci ha ancora comunicato dove possiamo andare».
Vicina alla fermata Cavour della metropolitana, la chiesa è stracolma ogni domenica mattina. A centinaia partecipano alla divina liturgia, nella lingua tradizionale liturgica giez (ghis è la pronuncia), che comincia alle 8 e dura circa tre ore. Tra i banchi si nascondono i bambini, mentre intere famiglie - etiopiche e in qualche caso miste, con uno dei coniugi italiano - pregano e cantano al ritmo di sonagli e tamburi. Sul pavimento, tappeti pregiati; tutti sono scalzi e lasciano le scarpe all'ingresso, sotto un'immagine di Gesù che troneggia sulla bandiera dell'Etiopia; come una didascalia, un versetto dell'Esodo ricorda che si sta entrando «in un luogo santo».
Le donne indossano il netelà, mantello bianco di tela leggera che le avvolge e ricopre il capo. «La Bibbia dice che la donna è chiamata a coprirsi per la preghiera», spiega Esete, una delle veterane della comunità. Nella capitale è approdata nel 1982, a motivo di una borsa di studio in architettura mentre studiava come geometra; sposata con un italiano cattolico, cinque figli educati alla fede ortodossa, fa parte insieme al marito del "Comitato della chiesa", un gruppo formato da sacerdoti, diaconi e laici che si preoccupa delle questioni amministrative e dei problemi comunitari. Caso tipico, ad esempio, quando muore un connazionale e i parenti hanno difficoltà economiche, la comunità organizza una colletta per poter inviare la salma in patria.
Una delle emergenze più discusse è la mancanza di spazio: «Non abbiamo a disposizione una sala dove riunire i bambini e fare catechesi, o in cui incontrarci per le feste o la scuola biblica», lamenta Esete. In mancanza di una struttura propria, sufficientemente capiente e perennemente a disposizione dei fedeli (circa 600 praticanti, giovani donne nella maggioranza dei casi), il giovedì pomeriggio la spiegazione della Scrittura avviene in chiesa; molte ragazze, impiegate per lo più come colf o badanti, chiedono il giorno libero al proprio datore di lavoro per poter frequentare la "lezione".
La liturgia è il fulcro della vita comunitaria. I copti ortodossi festeggiano solennemente l'Ascensione. E il Natale - come succede in tutte le Chiese dell'ortodossia - è spostato al 7 gennaio. Le loro tradizioni vantano quindici secoli di storia: la Chiesa copta ortodossa egiziana, etiope ed eritrea - così come quella siro-giacobita, quella malankarese in India e la Chiesa apostolica armena - sono antichissime comunità orientali, la cui origine risale a uno dei primi scismi della cristianità indivisa: tutte, pur essendo indipendenti tram loro e organizzate in patriarcati autonomi, vengono dette "pre-calcedonesi" perché nel 451 non accettarono le conclusioni del Concilio di Calcedonia, che definì il dogma dell'unione in Cristo delle nature divina e umana. Definite "monofisite" ("una sola natura") perché ponevano l’accento soprattutto sulla natura divina di Gesù, dal IV secolo sono dunque separate dal Papa di Roma.
Con la Santa Sede, a partire dagli anni del post-concilio, molte controversie teologiche sono state relativizzate e le relazioni fraterne sono migliorate. Ma, dall'angolatura di questa piccola comunità straniera dispersa nella capitale del cattolicesimo, sembra che non tutte le frizioni siano state superate: «Siamo una Chiesa povera, non siamo ricchi come i cattolici», dichiara abbà Gebre. Affiancato da altri due sacerdoti e altrettanti diaconi, il parroco sta studiando l'italiano e l'inglese; è arrivato a Roma nove mesi fa e vive in un convento di suore, a San Pietro in Vincoli. Nella chiesa non c'è posto per dormire: né per il parroco, nè per diaconi e sacerdoti, che hanno affittato posti-letto in appartamenti di. periferia.
Il dialogo ecumenico? Viene vissuto in talune occasioni, per lo più liturgiche. L'abbà ha avviato rapporti cordiali con le comunità ortodosse della città: «Spesso recitiamo il vespro insieme», riferisce. E con i cattolici? Ci si incontra solo in occasione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani. Poi la comunità vive molto la fede al suo interno.
Padre Gebre è un punto di riferimento per i fedeli: gli si avvicinano continuamente, al termine della celebrazione, per essere benedetti con la sua croce, che viene poi baciata. Si abbracciano per tre volte: è il saluto tipico. Tra loro, anche Mulumbet, da quattro anni a Roma con suo marito, operaio in una ditta di vini. Lei lavora come colf di mattina, in alcune famiglie, ma sta cercando di impiegare anche le ore pomeridiane per riuscire a pagare l'affitto. «Siamo sposati da sette anni, ma i figli non arrivano. Mi rivolgo a Mariàm, ogni domenica. Sono andata a pregare anche al santuario cattolico del Divino Amore», racconta. Si sofferma davanti a una delle tante icone della Madonna con il Bambino: nella chiesa abbondano, insieme a quelle di Cristo e dei santi, illuminate dal tremolio delle candele che diffondono ovunque un odore di cera. Davanti alle icone, inchinati per accendere una nuova fiammella, si radunano in silenzio giovani madri con i bambini, uomini slanciati che aprono la Bibbia e ne leggono qualche versetto, immergendosi poi nella meditazione. Carnagione olivastra e capelli color ebano: un frammento di Africa, discreto, poco vistoso, intriso di rituali dal sapore antico.
Amhà, il diacono, prova i canti del matrimonio che si celebrerà la domenica successiva. Anche lui sogna di sposarsi, di trovare una borsa di studio in storia dell'arte e di abitare in una casa grande, in cui ci sia spazio per le sue tele, i pennelli e il cavalletto. Intanto continua a intonare gli inni e a insegnare catechismo ai suoi compatrioti. Si sente un po' in terra di. missione: «Ci sono tante difficoltà pratiche, dall'affitto al sostentamento quotidiano. Viviamo grazie alle offerte dei fedeli, che sono poveri come noi», dice. Si ferma un istante. Riflette. Poi conclude: «Nel mio Paese è più facile essere diacono».
(da Jesus, giugno 2004)
Anglicani in Italia
Porte aperte alla diversità
di Laura Badaracchi
Porte aperte, dalla mattina alla sera: al centro della capitale, lontana solo pochi passi dalla stazione Termini, sulla trafficatissima via Nazionale, la chiesa episcopaliana americana di San Paolo entro le Mura pullula senza sosta di visitatori curiosi, che si alternano a credenti, volontari, immigrati. I turisti di passaggio si fermano per ammirarne l'architettura, attratti anche dal fitto programma di concerti. Un giardino accogliente, fiori e piante circondano l'entrata della parish, dove approdano anche tante giovani coppie giapponesi: nel pacchetto turistico sono incluse la visita alla chiesa e la benedizione dei novelli sposi, che per l'occasione indossano per la seconda volta l'abito nuziale. Cerimonie semplici e raccolte: infatti, varcando la soglia della chiesa, si entra in una piccola oasi di silenzio e di pace, isolata dal frastuono dei clacson e dal rumore delle auto in corsa.
I fedeli non mancano, e provengono dai quattro angoli del pianeta: statunitensi e latinoamericani (soprattutto dell'Ecuador), filippini e africani (nigeriani in primis), ma anche italiani: coppie miste e alcuni divorziati ex cattolici. “Arrivano alla nostra chiesa perché la percepiscono come più inclusiva e accogliente verso le diversità: sono ammesse le seconde nozze, l'omosessualità, le donne prete, i pastori sposati”, spiega il reverendo Michael Vono, dal ‘92 rettore di questa parrocchia, divenuta nel tempo testimonianza vivente della presenza nel mondo della Comunione anglicana: quasi 70 milioni di fedeli in 36 Chiese, sparse in oltre 160 Paesi.
St. Paul's within the walls, piccola porzione della "Convocazione europea delle Chiese americane episcopaliane", è una delle 130 parrocchie anglicane sparse in tutta Europa e sulle coste del Mediterraneo. Con un primato: “È la prima chiesa costruita nel 1873 a Roma da una comunità non cattolica”, ricorda il rettore, 55 anni, nativo del Rhode Island ma con l'Italia nelle vene: nonni materni catanesi e padre originario di Catanzaro. Seminarista cattolico alla facoltà teologica di Washington, divenne anglicano nel '72 studiando l'ecclesiologia: “Un professore mi fece notare che concepivo la Chiesa come una comunione in cui il prete o il vescovo non è separato dai laici. Dai cattolici non ci separano diversità di fede, ma di autorità e governo”. Il suo ufficio parrocchiale, stracolmo di libri per la preghiera accatastati vicino alle buste di viveri per i poveri, è un "porto di mare" all'insegna dell'accoglienza: vengono a salutarlo homeless membri del gruppo "Alcolisti anonimi" (che hanno una sala a disposizione per i loro incontri serali), anziani, ragazzi della comunità, che conta oltre 330 membri "registrati", anche se i partecipanti alle celebrazioni in inglese, spagnolo e italiano sono centinaia. Intorno alla Messa, culto al centro dell'anglicanesimo, la comunità si ritrova aprendo Book of Common Prayer.
Crocevia di etnie non solo a motivo dei parrocchiani o dei turisti, San Paolo entro le Mura ospita nella cripta un centro diurno per richiedenti asilo e immigrati, intitolato a Joel Nafuma, sacerdote ugandese rifugiato che vent'anni fa aprì il servizio, inizialmente rivolto soprattutto agli africani, dal '95 esteso a tutti gli stranieri in difficoltà. “Un'espressione dell'ospitalità globale a Roma”, lo definisce padre Michael. In una stanza della cripta un volontario cattolico fa lezione d'italiano ad alcuni stranieri, africani e dell'Est Europa. Al piano di sopra, in una delle sale parrocchiali che di solito ospitano le prove di canto, un'altra volontaria danese-luterana insegna inglese a un afghano, un rumeno, un curdo e un sudanese. A loro si affiancano sister Emy, suora cattolica delle Sorelle di Sion, e padre Peter, religioso sacramentino. L'ecumenismo vissuto assume le forme più svariate: il mercoledì, ad esempio, i presbiteriani portano 300 pranzi al sacco per gli ospiti del centro, coordinato da Akbatan Tuana Abdullà, rifugiato curdo giunto in Italia cinque anni fa. “Sono musulmano, ma non praticante. Qui non parliamo di religione: accogliamo chiunque bussi alla nostra porta”, riferisce Padre Michele - così lo chiamano gli ospiti del Nafuma Center - non porta nè Bibbia nè Corano: “Però tutti capiscono, pur nella diversità delle lingue, che questa è la casa di Dio, senza proselitismo”.
Gli idiomi si moltiplicano anche nell'altra chiesa anglicana della capitale: la All Saints' church, affacciata sulla sofisticata via del Babuino che congiunge piazza di Spagna a piazza del Popolo. Dal francese all'arabo, passando per il tamil e lo swahili: sono le lingue "madri" dei fedeli che frequentano la parrocchia. Ma nell'inglese dei canti della Messa domenicale la variegata comunità (circa 200 iscritti, di fatto mezzo migliaio di frequentanti) ritrova un linguaggio comune.
Struttura simile a San Paolo entro le Mura (fu lo stesso architetto a disegnarle), diverse le persone in preghiera sulle sedie rigorosamente allineate: per lo più di estrazione sociale medio-alta. Nei locali parrocchiali, il giovedì mattina, si riuniscono le mogli di ambasciatori, diplomatici, funzionari di multinazionali o della Fao. Mentre i loro piccoli giocano, si incontrano per un coffee hour e per finanziare Assisi house, destinata a madri povere. Come nella Chiesa episcopaliana, anche in questa comunità si tengono prestigiosi concerti e i molti turisti che si aggirano tra le navate passeggiano discretamente, rispettosi del raccoglimento che si respira tra queste volte.
Le giornate feriali della parrocchia sono scandite dalla preghiera mattutina, cui segue la colazione comunitaria, e dall'Eucaristia pomeridiana, in italiano il sabato alle 18. “Due volte al mese celebra da noi anche un gruppo di "Vecchio-cattolici", che fa parte dell'unione di Utrecht, nata da uno scisma dopo il Vaticano I, che proclamò l’infallibilità del Papa”, riferisce il reverendo Jonathan Boardman, dal novembre '99 parroco di questa chiesa, che fa parte della diocesi europea della Church of England (la chiesa-madre dell’anglicanesimo), costituita da oltre 150 cappellanie. In Italia le "parrocchie" della Chiesa d’Inghilterra sono una decina, oltre a diverse comunità ospitate per il culto in chiese cattoliche, per un totale di circa 60 mila fedeli.
Il reverendo Boardman ha studiato a Oxford, Cambridge e alla Gregoriana. Dopo Liverpool e Londra, è approdato nella capitale, senza perdere la passione per il contatto pastorale con i fedeli: “Dopo il culto resto a disposizione di chi desidera un colloquio personale”. La chiesa di Ognissanti - spiega - è un esempio di ecumenismo “praticato, non solo pensato”. A partire dalle coppie "miste" per provenienza e credo: “Gli italiani, una minoranza, hanno un po’ di Inghilterra in famiglia, perché spesso uno dei coniugi è anglicano e l'altro cattolico”. Ma anche gli-inglesi "doc" rappresentano solo il 30-40 per cento della comunità, formata in primo luogo da persone provenienti da Paesi dell'ex impero britannico: Canada, Australia, Nuova Zelanda, ma anche Sudan, Ghana, Nigeria, Kenya, India. Tra loro, una quota di immigrati che lavorano come domestici.
Non è impresa facile amalgamare una miscela etnica tanto differenziata a livello sociale, economico e culturale. Per Boardman il trait d'union sta nel culto comune: “Lo stile liturgico è abbastanza formale per fornire una base comune in cui tutti possano riconoscersi”. Gli inni, infatti, sono gli stessi per oltre 80 milioni di anglicani sparsi in una cinquantina di nazioni. Il confronto, però, riemerge nella scuola biblica: “Accanto a un laureato in teologia a Cambridge siede chi ha una cultura elementare, ma che dà risposte piene di semplicità e freschezza”.
Sara Mac Vane, assistente del reverendo Boardman, che sta studiando per diventare pastora, racconta: “Ho scoperto la vocazione pastorale di aiutare le persone che arrivano qui con grandi problemi”. Sara li indirizza alle strutture in cui gli anglicani prestano il loro servizio di volontari: dal centro diurno della Chiesa episcopaliana americana alla parrocchia cattolica di San Lorenzo in Lucina.
Partendo dalla solidarietà, l'ecumenismo percorre vie inedite: il gemellaggio con la parrocchia cattolica omonima di Ognissanti (dove periodicamente ci si ritrova per il vespro), ad esempio, e la partecipazione di metà della comunità anglicana alle celebrazioni ecumeniche proposte ogni anno dalla diocesi di Roma. Con le altre confessioni cristiane di lingua inglese (che si incontrano come Churches Together in Rome) la collaborazione è ben avviata, così come con la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Non mancano i contatti con il movimento dei Focolari, la Comunità di Sant'Egidio, Chemin Neuf e Taizè. Resta invece una certa distanza con gli ortodossi e gli orientali in genere. A pochi metri dalla All Saints' sorge la chiesa di Sant'Atanasio, frequentata dai greco-cattolici di rito bizantino. “I rapporti sono fraterni”, commenta Boardman. “Tuttavia è più difficile avvicinarsi a loro, perla profonda diversità dei riti”.
La porta della chiesa di Ognissanti resta aperta per tutta la settimana. Dopo il culto domenicale, segue l'accoglienza dei nuovi arrivati o dei turisti che hanno partecipato alla Messa; durante il rinfresco preparato dalla comunità, la presentazione reciproca crea un clima di condivisione. “Una metafora”, evidenzia il pastore, “del nostro lavoro nella città, all'insegna del dialogo. Amo la Chiesa cattolica, però mi dispiace che le altre realtà cristiane siano poco conosciute: bisogna andare a trovarle, perché è importante celebrare questa diversità”.
Battisti in Italia
Multietnici con brio
di Nicola Nicoletti
In un bel palazzotto di fine Settecento è collocata la sede della più antica chiesa evangelica battista di Napoli. Si trova al numero 93 in via Foria, trafficata arteria del centro cittadino. Una targa sul lato del fabbricato è l'unico segnale che indica la presenza della comunità. Oltre il grande portone si scopre un'oasi di pace inaspettata, offerta da un giardino interno ricco di verde. “Qui, soprattutto la domenica, veniamo per incontrarci. È un momento in cui riusciamo a vederci per pregare e discutere della nostra vita”. A raccontare la storia di questa comunità di cristiani è il suo pastore, Massimo Aprile. Barba curata, sguardo rassicurante, pronta accoglienza.
Da poco tempo è stato nominato per la seconda volta alla guida dei 135 membri della chiesa. Dottori, avvocati, giovani studenti universitari e casalinghe, rappresentano gli assidui membri del piccolo gruppo dei battisti a Napoli che si ritrova, con figli e genitori, per partecipare alle celebrazioni e agli incontri di studio biblico. Dal giardino, un tempo sosta dei cavalli per le carrozze del trasporto urbano, parte una coppia di scale che si ricongiunge al piano superiore ove è posta la chiesa. Al fondo della luminosa sala la grande vasca usata per il battesimo per immersione di chi, dai 18 anni in poi, confessa la propria fede.
Sono numerosi i momenti d'incontro, la celebrazione dell'eucaristia mensile, la preghiera ecumenica, la scuola catechetica per i bambini e il gruppo dei "funamboli", gli adolescenti che, utilizzando il teatro e la musica, animano le celebrazioni. Ai riti non partecipano solo italiani; vi sono infatti numerosi nigeriani (per loro il culto è tradotto anche in inglese), russi, moldavi, rumeni e sudamericani. Si tratta di immigrati accolti dalla comunità che si interessa anche alle necessità materiali di chi giunge in Italia in cerca di fortuna. Spesso, trovato il lavoro al Nord, lasciano Napoli e, quindi, la comunità cambia volto. “Non si perdono totalmente i contatti”, rassicura il pastore, “poiché una lettera o una visita non mancano mai”.
La storia della chiesa battista a Napoli prende il via dal periodo risorgimentale, quando in tutt'Italia si afferma il principio della separazione tra Stato e Chiesa. Il primo nucleo si raccolse nel centro storico del capoluogo. Nel 1892 si stabilì nei locali in cui risiede tutt'ora. La città è stata sempre molto accogliente con le varie espressioni del protestantesimo, e lo è rimasta negli anni. Solo durante il regime fascista vi furono delle vessazioni. Poi, finita la guerra, si è ritornati ai buoni rapporti che avvicinano con spontaneità gli abitanti ai battisti.
Le relazioni con la Chiesa cattolica hanno ovviamente uno spartiacque: il Concilio. Fino al Vaticano II ci sono state piccole discriminazioni (dalla difficoltà nel trovare gli immobili da affittare, all'insegnamento nelle scuole). Dopo, grazie al cammino ecumenico, le Chiese hanno superato le difficoltà iniziando a parlarsi e a programmare iniziative comuni. L'impegno dei gruppi cattolici che pongono in maggior rilievo la Parola hanno agevolato il colloquio, come pure gli incontri alla Cappella della Riconciliazione. Buoni i rapporti anche con i musulmani: “Alla fine del Ramadan gli imam ci hanno invitati a pranzare con loro: è stato un bel momento per le due comunità”.
L'impegno per la pace e la giustizia vede spesso i battisti presenti insieme ad altre confessioni religiose. La Scuola di pace, promossa dal movimento "chiese cristiane per la pace e il disarmo", è stata ospitata dalla comunità battista con un'assidua presenza delle Chiese evangeliche e cattolica. “Con la Chiesa-cattolica c'è una buona esperienza di dialogo”, commenta il pastore. “Certo, le difficoltà non mancano, ma ci sono stati interessanti momenti di scambio quando è venuto il vescovo di Caserta, monsignor Nogaro, a parlarci dell'impegno per gli extracomunitari”. Vi è poi la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, che rappresenta oramai un momento importante per stringere maggiormente il legame spirituale tra le Chiese di Napoli. Da qualche anno alcuni giovani hanno deciso di impegnarsi con chi vive ai margini della società. Collaborando con il Banco alimentare di Caserta, assicurano 180 pasti ai senza fissa dimora che, secondo i volontari, sono in preoccupante aumento.
Massimo Aprile e sua moglie, Anna Maffei, sono i due pastori della comunità. “Siamo l'unico caso in Italia in cui marito e moglie sono pastori, a metà tempo, della stessa chiesa”, racconta Aprile. Napoletano, 49 anni, ha sentito la chiamata alla fede durante l'università, dopo i dubbi spirituali del periodo adolescenziale. Analoga la storia della moglie che, laureatasi in lingue, è andata con il marito a Zurigo a studiare teologia. Dopo un'esperienza di prova in chiese diverse, l'assemblea li ha dichiarati idonei ad essere pastori. “Come congregazionalisti, le decisioni, patrimoniali, teologiche e d'impegno nel sociale vengono prese nell'assemblea generale composta dai delegati”, spiega. “La nostra elezione è stata presa dall’assemblea della comunità, la massima autorità ecclesiale”.
A questa esperienza Massimo Aprile aggiunge anche quella di essere stato cappellano dell'ospedale evangelico di Napoli e, quindi, formato alla pastorale clinica, momento in cui ha scoperto i diversi volti della sofferenza accanto a chi opera in quel delicato mondo. Qual è il ruolo del pastore oggi? “L'annuncio della parola di Dio e la cura pastorale sono gli impegni primari. Il mio compito è anche di essere mediatore culturale con chi non conosce la Chiesa battista, oltre - ovviamente - a essere sposo e padre”. I coniugi Aprile sono genitori di tre figli: Emanuele di 21 anni e Andrea di 16. Poi è arrivato l'affidamento di Anna, 24 anni, che, sposata da poco tempo, è divenuta mamma.
Non mancano gli impegni anche per la consorte. Anna Maffei è vice-presidente dell'Ucebi (Unione Cristiano evangelica battista italiana) e vice-direttrice del settimanale Riforma, l'organo ufficiale delle Chiese battiste, metodiste e valdesi. La dinamica comunità, che ospita al piano terra anche una delle tre redazioni di Riforma, guarda con interesse alle moderne tecniche multimediali per evangelizzare, senza dimenticare la musica, antico patrimonio della Chiesa battista. Nel 1999 hanno registrato il Cd Ipharadisi (nome che riporta alla lotta contro l'apartheid), un bel lavoro corale in cui sono presenti motivi negro spiritual assieme a canti sudamericani e napoletani (come l'immancabile Quanno nascette Ninno). “Il disco ci ha fatti conoscere anche all'estero”, spiega contento il pastore, “e ha creato uno spirito di armonia tra i componenti della comunità e le persone che abbiamo incontrato nei nostri concerti, perché la musica riesce ancora a parlare al cuore della gente”.
(da Jesus, giugno 2004)Ortodossi Russi in Italia
Pane, fede e nostalgia
di Laura Facchi
Ogni domenica mattina, a Milano, la grande "Madre Russia" sembra rivive, almeno nella nostalgia di un gruppo di uomini e donne delle ex Repubbliche sovietiche, che si incontrano con la sensazione di appartenere a una stessa patria. Li unisce la fede ortodossa e il comune destino di emigrati in un Paese straniero, dove fatica, umiliazione e povertà sono il pane quotidiano da mandar giù. Succede accanto a una via del centro, via Dante. Dietro l'angolo, le luci delle vetrine abbagliano i passanti. Qui, in questa piccola chiesa, decine di persone si inchinano a terra, sfiorando il pavimento con le mani dopo essersele passate sulla fronte e sul cuore. E una piccola chiesa che porta il nome di tre santi - san Vincenzo, san Sergio e san Serafino -, dalle grandi vetrate smerigliate attraverso le quali si scorgono i fedeli in piedi, con il volto rivolto all'altare e a padre Dimitri, il sacerdote italiano che ha fondato questa comunità.
Dimitri è un uomo speciale, un ex dottore specializzato in dermatologia, che per anni ha ricercato la fede e dopo un viaggio compiuto attraverso la Chiesa cattolica prima e quella protestante poi, l'ha trovata in quella ortodossa. “La semplicità e l'umiltà sono le cose che più mi hanno colpito della Chiesa russa, soprattutto venendo da una istituzione cattolica dove avvertivo superbia e violenza psicologica”, racconta. “Qui mi sono trovato di fronte a una Chiesa dove si metteva in risalto la preghiera, l'umiltà, la bellezza delle icone, del culto e del canto, cose che producono nell'animo un’atmosfera positiva, piacevole, bella, esaltante”.
Padre Dimitri lavorava in un ospedale di Bergamo quando ha deciso di prendere l'abito monastico. “Nella Chiesa ortodossa tutti i vescovi sono monaci e questo ha un significato profondo, diversamente dalla Chiesa cattolica dove i monaci sono pochissimi tra i vescovi. I monaci hanno la regola della preghiera e dell'ascesi e questo li spinge a un'intensa vita spirituale. Una caratteristica del monaco è l'umiltà. Il vescovo che mi ha ordinato, quando gli ho chiesto: mandami in un monastero, lui mi ha detto, no, tu sei medico e il tuo monastero è l'ospedale, i tuoi fratelli sono i malati. Mi ha dato proprio l'indicazione di restare dov'ero ma con una intensità diversa, una prospettiva diversa e io così ho fatto”.
Nel 1985 padre Dimitri aprì una chiesa in un appartamento di piazza Napoli. Erano in 4 al principio, lui e tre parrocchiani. Non era ancora cominciata la grande emigrazione dai Paesi dell'Est e quando, piano piano, la comunità è andata ingrandendosi, si sono spostati qui. Prese in affitto questa chiesa con un contratto di comodato nel 1996 e negli anni successivi cominciarono ad arrivare a centinaia dalle ex Repubbliche sovietiche, in cerca di un lavoro: “Le persone qui hanno tantissimi problemi, di vario tipo, e il sacerdote non è quello che si fa mantenere ma quello che aiuta, come il padre in una famiglia”.
Quantificare i fedeli di questa comunità è praticamente impossibile: c'è un continuo via vai, chi trova lavoro in un'altra città lascia Milano e a malincuore dice addio ai suoi amici. Sì, perché la chiesa è diventata un luogo di incontro per amici: dopo la funzione della domenica, il sotterraneo della chiesa diventa un refettorio e grandi tavolate vengono imbandite con cibi preparati dalle donne. Cibi originari dei loro Paesi, sapori lontani che ricordano casa. Spesso c'è un compleanno da festeggiare o un matrimonio o un battesimo e la festa si fa ancora più bella. La domenica è il giorno in cui le angosce di una vita combattuta tra problemi pratici, economici e burocratici, vengono dimenticate per un istante.
La dignità di questi uomini e donne è sorprendente. Donne, in prevalenza, perché per loro è più facile trovare un impiego come badanti o baby sitter. Gli uomini ci sono e anche loro pregano e si genuflettono: ucraini, moldavi, russi, bielorussi; uomini di mare o dei Carpazi, donne laureate e contadine. Tutti accomunati dal medesimo destino: la ricerca di un lavoro per spedire soldi alla famiglia rimasta in patria. “Questa chiesa è la salvezza. Ogni domenica vengo qui ed è come essere a casa”, racconta Raissa, che proviene dall'Ucraina. “Lavoro tutta la settimana aspettando solo il momento di tornarci. Qui preghiamo per la salvezza della cristianità. La nostra politica comunista non ci permetteva di essere religiosi ma poi è arrivato Gorbaciov, che ha fatto riaprire le chiese. Nel mio paese, a Cernouz, la chiesa era rimasta chiusa per 45 anni e hanno dovuto restaurarla per farla tornare agibile”.
Raissa, come la grande maggioranza delle persone che frequentano la chiesa ortodossa del patriarcato russo a Milano, è qui in Italia per lavorare: “Era meglio prima, quando tutte le Repubbliche erano unite”, dice. Dopo l'indipendenza, tutto è andato a rotoli. Vorremmo tornare a essere uniti e io prego ogni giorno per questo. Lavoravo in una fabbrica di elettronica e da un giorno all'altro hanno chiuso. Via, tutti a casa! Le nostre donne vendono i loro bambini per salvare la casa o qualche altro figlio. È vero! Ho conosciuto una donna a Napoli che ha venduto due bambini per salvarne un altro. Questa è guerra! È una guerra senza bombe”.
Raissa apparecchia la lunga tavola che ingombra il sotterraneo della chiesa. Si mangia tra le chiacchiere in russo. “Assaggia questo formaggio, viene da casa. Me lo hanno mandato i miei figli”, dice Tatiana porgendo un piatto colmo di formaggio bianco. Ogni settimana un pulmino fa avanti e in dietro da Cernouz all'Italia. Porta cibi, lettere, pacchi e denaro ed è atteso come una manna. Cernouz si trova sul confine con la Romania e molti ucraini arrivati in Italia provengono da quella città o dai suoi dintorni. “Ogni città ha il suo pulmino, quello è il nostro e io l'ho preso per venire qui”, spiega Sveta.
La Chiesa si autofinanzia, tutti danno quel poco che possono offrire, i soldi sono stati separati in diversi fondi di amministrazione e uno di questi è il fondo per il sostentamento di chi ha più bisogno di aiuto. Per molte di queste persone, venire in Italia ha significato lasciare la famiglia. “Non vedo mio figlio da un anno”, racconta Ludmila. “Ho fatto tutte le pratiche per essere messa in regola. Ho pagato tutto io, perché la signora dove lavoro ha detto di non avere i soldi. Lei non ha soldi e quindi figuriamoci io. Comunque... se me ne andassi farei molta fatica a rientrare perché non è semplice avere un visto. Ci sono agenzie che si fanno pagare molto denaro per procurare i visti”.
Sergio ha 29 anni ed è in Italia già da due: “Avevo un lavoro in Moldavia ma non mi pagavano abbastanza, con quei soldi non potevo vivere. I prezzi delle case sono più o meno come quelli di Milano ma gli stipendi no, quelli sono molto più bassi. Ho due figli piccoli e una moglie alla quale mando il denaro che guadagno. Appena arrivato in Italia, mi sono messo a cercare una chiesa come questa e alla fine sono approdato qui. Questa chiesa è come una barca. Dove può andare uno straniero qui a Milano? In Stazione centrale forse? Se crediamo in un'anima, dobbiamo anche nutrirla, e qui trovo cibo per lo spirito. Tanta gente in difficoltà come me ha cominciato a credere”.
La storia di Sergio è uguale a quella di tanti altri. Arrivato a Milano, ha trovato lavoro in un cantiere e quel cantiere è diventato anche la sua casa. Una laurea in tasca che gli permetteva di essere chiamato dottore in Moldavia e qui l'unico lavoro che si riesce a trovare è quello di muratore, che a malapena permette di vivere a chi non ha i documenti in regola. “Me ne sono andato dal cantiere dove lavoravo perché non mi pagavano da tre mesi. Sono stati anni duri. Dopo aver dormito in cantiere ho trovato un appartamento nel quale abitavamo in 24 per 170 euro a testa. Denunciarlo? No, no, io in quel modo avevo un posto caldo dove stare. Anche se dormivo sul pavimento non ero in mezzo alla strada e c'era un bagno. Bisognava fare un po' di coda ma potevamo lavarci. Per me è stata una salvezza. Tutte queste esperienze mettono alla prova il carattere e sono certo che se Dio ha voluto questo, una ragione deve esserci”.
Il giovedì sera si fanno le prove del coro: la liturgia ortodossa è un bellissimo canto dall'inizio alla fine della funzione religiosa, ma la chiesa è aperta sempre, tutti i giorni perché in tanti avvertono il bisogno di pregare o di chiedere un consiglio a padre Dimitri: “I miei parrocchiani”, dice, “provengono quasi sempre dal mondo contadino, ho sentito raccontare storie allucinanti, molti vengono trattati come schiavi e altri parroci che prestano servizio nei centri di aiuto mi hanno raccontato storie altrettanto drammatiche. Facciamo quello che possiamo, qui ci mancano un sacco di cose ma tutti insieme riusciamo a fare molto. Ogni anno andiamo a Bari per celebrare san Nicola, un santo molto importante per i russi e sono momenti indimenticabili. Vengono scattate foto da spedire alla famiglia e tutti ridono e stanno bene”.
Il tempo per le lacrime, però, spesso prevale. Durante la funzione della domenica mattina i volti delle donne dal capo coperto da un fazzoletto colorato, sono spesso rigati di pianto. Nel pomeriggio tutti tornano a casa, una capatina nel bagno del McDonald's di via Dante e poi di corsa verso autobus o treni per tornare a casa, in un centro di accoglienza o dalla signora anziana che ha bisogno di essere accudita. Si è consumata un'altra giornata speciale, che servirà da carburante per tutte quelle a seguire.
(da Jesus, giugno 2004)