Desmond Tutu.
Non c’è pace senza perdono
Desmond Tutu nasce nel 1931 a Klerkdorp, nella regione sudafricana del Transvaal. Studia nelle scuole riservate al Bantu, una delle etnie nere più numerose nel suo paese, ma non ha i soldi per studiare medicina e trova un impiego come maestro. Conosce il reverendo Huddleston che lo avvicina alle problematiche dell'apartheid: nel frattempo Tutu decide di diventare pastore della Chiesa anglicana, e riceve l’ordinazione nel 1961.
Dopo alcuni anni di studio in Inghilterra, si dedica all'insegnamento universitario e nel 1975 è il primo nero nominato decano della cattedrale anglicana di Johannesburg. Successivamente, Tutu viene eletto Segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Sudafricane, e la sua opera lo porta a subire calunnie e intimidazioni da parte del governo sudafricano. Nel 1984 riceve il Nobel per la pace per la sua lotta contro l’apartheid fino al 1996 è stato arcivescovo di Città del Capo. Dal 1995 al 1998 ha presieduto la Commissione perla Verità e la Riconciliazione sudafricana fortemente voluta dallo stesso neopresidente Mandela al termine dell'apartheid. È attualmente visiting professor presso l'Università di Atlanta.
«L'oppressore si disumanizza nella misura in cui disumanizza le sue vittime, e ritrova la sua dimensione di umanità nella misura in cui le sue vittime ritrovano la loro. Ma, più ancora, egli ha un urgente bisogno del loro perdono».
(D. Tutu, Anch'io ho il diritto di esistere)
Tutu ha sempre ricordato ai cristiani che predicavano la rassegnazione di fronte alle ingiustizie del mondo che la Buona Novella di Gesù comporta anche la ricerca della pienezza di vita su questa terra, cioè la cura dell'affamato e del malato, la ricerca della giustizia per l'oppresso e la ricerca della pace e della riconciliazione tra gli uomini. Perciò il cristiano non può restare indifferente di fronte alle ingiustizie, limitandosi a predicare la visione consolatoria dell'altra vita.
Tutu ha dapprima operato nella città-ghetto dei neri di Soweto, dove ha cercato di stimolare i fratelli neri ad essere fieri di essere tali (black consciousness) e a credere in Dio come liberatore del popolo nero. La teologia nera (Black Theology), nata per dare ai neri la coscienza "di non dover più chiedere scusa per il solo fatto di esistere", è stata ostacolata dalle autorità bianche, in un contesto generale di crescente repressione che ha portato al massacro dei neri di Soweto nel 1976 e a violenze sempre più efferate. In un contesto sempre più difficile, la teologia nera si è occupata della sofferenza dell'uomo nero, causata dal razzismo bianco, e ha messo in discussione la pretesa tipica della cultura bianca per cui i suoi valori assumono un carattere universale. L'opera di Tutu è stata fondamentale perché inizialmente la politica razzista del governo sudafricano era approvata dalla Chiesa riformata, e Tutu, nella sua qualità di vescovo anglicano, ha testimoniato con forza che il razzismo era assolutamente contrario al Vangelo e incompatibile con esso.
L'elezione di Tutu come Segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Sudafricane, un organismo che rappresentava milioni di protestanti di tutto il mondo, gli ha dato la visibilità per mobilitare maggiormente l'opinione pubblica mondiale: come presidente di questo Consiglio ha proposto una campagna per la disobbedienza civile dei neri in Sudafrica, e il governo gli ha ritirato il passaporto per aver incoraggiato la Danimarca a boicottare il carbone sudafricano. La posizione di Tutu è stata forte e chiara: di fronte alla legge che propone e copre le ingiustizie è lecito disobbedire.
Una volta rimossa la vergogna dell'apartheid, dopo che nel 1996 la nuova Costituzione ha eliminato gli ultimi residui del regime razzista, l'opera di Tutu non ha conosciuto sosta: egli si è impegnato nel tentativo di transizione pacifica dal regime alla democrazia. L’impegno era difficile: si trattava di trovare il coraggio da parte della gente di affrontare i massacri e le violenze del passato senza desiderio di vendette, ma anche senza voler passare un colpo di spugna radicale, come se nulla fosse accaduto.
Grazie al lavoro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, presieduta da Tutu, le vittime o i loro parenti potevano per la prima volta raccontare le violenze subite e ricevere ascolto, mentre gli oppressori potevano ricevere l'amnistia in cambio dell'intera verità. Grazie al pentimento degli assassini e al perdono concesso dai familiari delle vittime, nasceva la possibilità di ripartire nella vita quotidiana nel segno della pace. Frutto di un compromesso tra chi chiedeva un'amnistia generalizzate e chi invocava una nuova Norimberga, la Commissione ha avuto il compito di ascoltare tutte le persone che si dichiaravano vittime di gravi reati contro i diritti umani e tutti coloro che, accusandosi di tali crimini, chiedevano l'amnistia.
Più di 20mila persone si sono presentate davanti alla Commissione. Alcune erano vittime venute a piangere pubblicamente, ad aprire il loro cuore e a liberare l'angoscia che per tanto tempo era stata ignorata o forse negata. Altre erano autori di crimini, bianchi e neri, che cercavano uno spazio dove sfogare la loro colpa e riconoscere il loro errore, per ottenere amnistia e riconciliazione. L'obbiettivo della Commissione non era quello di accertare la colpa. Infatti, non veniva emessa una sentenza di innocenza o di colpevolezza. L'obiettivo era invece quello di stabilire la verità. Tra il modello di Norimberga dove i colpevoli sono puniti e l'amnistia generale "copritutto", il Sudafrica optò per una "terza via" che si è rivelata un modello da esportare. L'amnistia veniva concessa a chi ne faceva domanda e accettava di comparire davanti alla Commissione facendo una confessione piena e dettagliata dei propri crimini, commessi dal 1961 al 1994, negli anni dell’apartheid Insomma, si dava la libertà ai colpevoli in cambio della verità. Opponendosi all'idea di una giustizia punitiva, Tutu ha rilanciato l'idea della "giustizia restituiva", a cui era improntata la tradizionale giurisprudenza africana. Il nucleo di quella concezione non è la giustizia o il castigo, ma la convinzione che fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. "Una nazione che non sa riconoscere e ammettere la verità del proprio passato, per quanto brutale sia, è condannata a ripetere questi errori nel futuro", ha dichiarato Tutu a quanti tentavano di rallentare i lavori della Commissione.
Perdonare non significa far finta che le cose sono diverse da quelle che sono, chiudere gli occhi di fronte a quello che non va: una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i sentimenti, meschinità, violenza dolore, degradazione, verità. Come ha notato Luigi Bonanate, docente di Relazioni internazionali a Thrino: "eravamo abituati a pensare che quando gli oppressi si liberano dalla catene si vendicano, e invece questo rituale collettivo, questa confessione e purificazione generalizzate, ha svuotato la transizione di tutti i suoi aspetti violenti. Ha "proceduralizzato" il conflitto e ha aperto la via alla democrazia". L'esperienza della Commissione sudafricana è stata seguita da altri paesi dilaniati da conflitti intermi - dal Guatemala al Sudafrica, da Timor Est allo Sri Lanka, dal Perù alla Sierra Leone - che l'hanno affiancata o sostituita alle normali corti giudiziarie.
Negli ultimi anni l'attenzione di Tutu si è progressivamente allargata ad altre situazioni assimilabili a quella sudafricana, come la condizione dei Palestinesi in Israele o l'impegno per sostenere le iniziative volte a lottare contro la devastante povertà che affligge milioni di persone che non hanno accesso all'acqua e all'elettricità.
(da Cem-Mondialità, aprile 2004)