I Dossier

Mercoledì, 09 Febbraio 2011 20:09

La cultura delle differenze (Adel Jabbar)

Vota questo articolo
(5 Voti)

Le culture sono fluide e gli individui interpretano attivamente le loro tradizioni rinnovandole per poter gestire i cambiamenti che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano.

La storia dell’umanità è caratterizzata dal movimento e dalla creazione continua di reti e intrecci tra persone provenienti da contesti geografici diversi.

Ci sono stati periodi storici particolarmente fertili per questi scambi: il medioevo islamico, con gli arabi che interpretavano il ruolo di mediatori culturali (preceduti da altre popolazioni semitiche) facendo del sud del Mediterraneo una “piattaforma girevole” di collegamento tra diverse aree geografiche; poi, il rinascimento europeo con le sue progressive inclusioni di popolazioni di altri continenti che ha inaugurato il “sistema-mondo” con il quale ci confrontiamo ancora oggi.

Le culture, infatti, sono fluide e gli individui interpretano attivamente le loro tradizioni rinnovandole per poter gestire i cambiamenti che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano.

Oggi viviamo una fase di mondializzazione: da una parte prevale il modello occidentale (1), sia sul piano economico che culturale; dall’altra crescono le rivendicazioni identitarie e neocomintariste.

Che cosa si intende allora per “multiculturalismo”?

Alcune considerazioni possono aiutarci ad utilizzare criticamente questo termine.

In primo luogo è bene sottolineare che ogni cultura è “multiculturale” perchè in essa sono riscontrabili sedimenti provenienti da luoghi e da popoli diversi. Ad esempio, il cristianesimo è un elemento significativo nella costruzione dell’identità italiana ed europea, però va ricordato che questo insegnamento religioso ha “radici” nel Vicino Oriente, un’area abitata da una popolazione prevalentemente semitica.

In secondo luogo, con il termine “multiculturalismo” possiamo indicare la coabitazione tra diversi gruppi linguistici, culturali, religiosi che vivono nel medesimo spazio territoriale. Pensiamo alla zona alpina dell’Italia: dall’est all’ovest troviamo diversi gruppi come, ad esempio, quello sloveno, il friuliano, il cimbro, il ladino, il tirolese, il provenzale, l’occitano… Questa pluralità è più evidente nelle zone di confine, ma esiste anche altrove. Ricordiamo ad esempio la minoranza arberesch in Calabria, Sicilia e Basilicata. Per quanto riguarda la dimensione religiosa, pensiamo alla presenza ebraica o cristiana ortodossa a Venezia e a Trieste, oppure ai protestanti luterani nelle zone dell’Alto Adige, o ancora ai valdesi in Piemonte o alla presenza diffusa dei testimoni di Geova.

E’ necessario ripristinare una “memoria plurale” per saper leggere la complessità di contesti che spesso vengono ideologicamente ridotti ad entità monolitiche e omogenee.

Infatti, se il confine statuale è rigido, quello culturale è fluido: gruppi separati da confini statuali possono avere consuetudini culturali simili (2), mentre altri che vivono nello stesso stato possono avere tra di loro più differenze che similitudini. La memoria non può vincolarsi all’ideologia degli stati-nazione ma oggi più che mai bisogna allenarsi a riconoscere la pluralità e la dinamicità degli elementi che contribuiscono alla formazione delle identità.

In terzo luogo, ogni società è multiculturale anche perché coesistono diversi sistemi valoriali. In Italia, ad esempio, c’è chi aderisce o meno a determinate visioni della famiglia (basta pensare al modello contrattuale o a quello sacramentale e alle controversie sulle famiglie di fatto o sulle unioni omosessuali) e troviamo posizioni contrapposte anche sui temi della pace e della guerra e perfino si può riscontrare la presenza di organizzazioni politiche che fanno riferimento a modelli ed esperienze non-democratiche. E’ interessante notare che, al di là della retorica dominante sulla laicità, la religione continua ad essere presente nella sfera pubblica: il calendario scolastico è scandito da festività religiose e l’inaugurazione dell’anno scolastico e accademico avviene spesso con una messa; durante le feste dei patroni delle città non solo i negozi ma anche gli enti pubblici restano chiusi; per non parlare poi dell’influenza della religione su alcune leggi (ad esempio le diatribe sul divorzio, sull’aborto o sulla procreazione assistita) o della richiesta di introdurre riferimenti cristiani nella costituzione europea. Inoltre, pensiamo alla figura dell’insegnante di religione nella scuola: un dipendente pubblico che agisce sotto un controllo normativo di tipo religioso riguardo all’orientamento sessuale e allo stato civile.

Multiculturalismo e immigrazione

I rapporti tra culture sono spesso caratterizzati da asimmetrie di potere. Il mondo che conosciamo oggi è fatto di un centro dominante e sterminate periferie subalterne. Queste ultime hanno scarso potere contrattuale in ambito economico, politico e culturale. Gli immigrati arrivano prevalentemente da queste aree periferiche con il desiderio di intraprendere un percorso di emancipazione sociale, cioè di accedere al centro leggendo la propria affermazione in base ai parametri del modello vincente. Le “ibridazioni” cominciano già nel paese di origine attraverso una socializzazione anticipatoria del modello vincente.

E’ bene ricordare che il multiculturalismo non è creato dalla presenza degli immigrati. Essi aggiungono altre differenziazioni a quelle già esistenti in ogni società e contribuiscono casomai a renderle più visibili.

Le trasformazioni sociali in atto richiedono un metodo di intervento innovativo che definiamo con il termine “intercultura”. Non intendiamo dunque un principio etico né un traguardo da raggiungere ma l’impostazione di una prassi di lavoro in grado di aiutarci a ripristinare una memoria plurale esplorando i nostri contesti multiculturali.

La prassi interculturale implica considerare gli immigrati non tanto rappresentanti di una cultura quanto di un progetto sociale di emancipazione. Gli immigrati vivono un complicato processo di aggiustamento identitario finalizzato a trovare un’ “unità combinatoria” tra elementi appartenenti sia al nuovo contesto sia al contesto di origine. In questo processo non incide solo la cultura ma anche il genere, la provenienza sociale, il livello istruzione, il tipo di occupazione, la politica di accoglienza sul territorio, il tipo di progetto migratorio ecc.

L’intercultura innesca un processo di estensione dei confini della democrazia attraverso una cultura della partecipazione basata sul riconoscimento delle differenze. L’obiettivo è quello di stabilire un nuovo patto di cittadinanza in grado di ristabilire la simmetria necessaria per creare spazi di negoziazione e gestire le trasformazioni sociali in atto garantendo la coesione sociale.

Questo processo intende includere nuove soggettività e non “comunità” (sta a queste soggettività decidere come organizzarsi in termini collettivi: se sul piano religioso, linguistico, o su quello dell’appartenenza statuale o professionale, oppure sulla base di organizzazioni associative o sindacali autoctone ecc.).

Incrementare la partecipazione democratica significa superare il modello di “integrazione subalterna” che vede negli immigrati una mera forza lavoro e riconoscere la complessità delle relazioni che queste persone intraprendono con il territorio dove risiedono.

L’intercultura ha bisogno della mediazione socio-culturale che è innanzi tutto una strategia di parificazione di opportunità con lo scopo di ricostruire reti sociali, creare nuove competenze e ripristinare l’autostima dei cittadini immigrati riconoscendo anche quegli aspetti legati ai vissuto culturali e religiosi.

La mediazione socio-culturale mira a lavorare insieme a questo nuovo segmento della società perché possa partecipare attivamente contribuendo a ricostruire una prospettiva condivisa.

Qui non sono in gioco solo i servizi sociali perché si tratta di una strategia complessiva del territorio e non può essere solo una prerogativa del mediatore socio-culturale.

La questione dell’immigrazione non riguarda solo l’immigrato, nè è solo un intervento di politica sociale di contenimento del disagio e neppure una politica securitaria per arginare il pericolo.

La posta in gioco è rivitalizzare la democrazia attraverso una cittadinanza attiva che coinvolga tutti gli attori sociali del territorio. Gli enti formativi ed educativi, il mondo dell’associazionismo svolgono un ruolo chiave nel diffondere questa consapevolezza delle trasformazioni sociali in atto e facilitando la creazione di un nuovo protagonismo tra i vari soggetti. Naturalmente è indispensabile che ci sia un indirizzo politico in grado di comprendere che l’immigrazione è un tema centrale per la democrazia.

1) L'occidente a cui ci riferiamo non è un'area geografica ma un sistema che ingloba tutte le popolazioni del pianeta.

2) Ad esempio, le comunità linguistiche possono avere una continuità territoriale al di là del confine statuale e in questo caso si parla di "penisole linguistiche" (come nel caso sloveno o in quello tirolese).

Adel Jabbar *

* sociologo Università Ca' Foscari di Venezia.

 

Letto 4340 volte Ultima modifica il Domenica, 31 Gennaio 2016 22:09
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search