Alcuni termini chiave del linguaggio ebraico illuminano di viva luce questa polarità fondamentale del fallimento e della speranza. La loro ambivalenza, per nulla artificiale, rispetta fino alla lettera lo spirito della dottrina ebraica. Il pentimento di Dio è certamente uno dei concetti che introducono nella Bibbia il tema del fallimento nella sua forma più acuta. L'idea di un pentimento divino appare talmente intollerabile che spesso è rifiutata dalla stessa Bibbia (Nm 23, 19 - 1Sam 15, 29). Ma dobbiamo arrenderci all'evidenza. Dio si pente di aver creato l'umanità (Gn 6, 6); si pente di aver condannato gli ebrei (Es 32, 14); si pente di aver eletto Saul (1Sam 15, 11). A quanto pare, nel suo linguaggio antropomorfico, la Bibbia pone intenzionalmente in questo termine di pentimento tutto ciò che suggerisce all'immaginazione umana: il rimpianto, la delusione, la stanchezza, le braccia che cascano davanti al fallimento. Ora, il termine ebraico che esprime questo pentimento è nehamâ, e questo termine designa simultaneamente il pentimento ma anche la consolazione. È l'atteggiamento inverso al precedente, il riprendersi di fronte al fallimento, la volontà, l'energia, le mani che si rituffano nella pasta, la speranza. Così, il fallimento e la speranza non sono due momenti distanziati dell'opera divina; sono inerenti l'uno all'altra, come due poli opposti, e un solo identico termine esprime la loro simultaneità, così che, nel testo biblico, fallimento e speranza si leggono nella stessa parola, si captano nella stessa cerniera dell'avventura biblica. Questa simultaneità del fallimento e della speranza in Dio, la ritroviamo dalla parte dell'uomo, segnata ugualmente dall'ambivalenza di un solo e identico termine — 'azab — che significa nel contempo l'atto dell'abbandonare e del raccogliere. Nessun intervallo di stagione tra il lancio della semente e il suo raccolto. I due movimenti sono simultanei. Quando l'uomo biblico dice: Sono abbandonato, dice nello stesso istante e tramite la stessa parola: Sono raccolto. L'abbandono e il raccoglimento reggono insieme in forza non dell'effetto compensatore del tempo che passa e guarisce, ma in forza della dialettica interna della loro infrangibile relazione. Da virtuosa della lingua tedesca qual è, Margarete Susman ha magistralmente trasposto questo tema ebraico in alcune righe del suo libro su Giobbe (p. 164), che non cercheremo di tradurre, poiché la traduzione altro non può essere che la ripetizione dell'esegesi del verbo 'azab che abbiamo appena fatta: «Nie ist Liebe anderes als Heimsuchung. Indem Gott sein Volk sucht, wie er Hiob sucht, sucht er es heim, heim zu sich».
La speranza è nel rischio e nel suo silenzio
Il Maharal di Praga ha argomentato sulla base di questo tema, che ha attinto dall'ultimo versetto del salmo 126, una fenomenologia delle lacrime e del riso. Che cos'è piangere? Piangere è seminare. Che cos'è ridere? Ridere è raccogliere. Osservate camminare quell'uomo che piange. Perché piange? Perché reca sulle spalle il sacco di semi che sta per gettare nel terreno. Ma eccolo ritornare ridendo. Perché ride? Perché porta sulle braccia i covoni del raccolto. Il riso è il raccolto palpabile, la pienezza. Le lacrime sono la semina, lo sforzo, il rischio, il seme esposto alla siccità, al deperimento, la spiga minacciata dalla grandine e dall'uragano. Il riso è la parola. Le lacrime sono il silenzio. Forse, la prossima primavera, il pane uscirà da questo solco. Forse, verranno invece la siccità e la grandine, e può darsi che la primavera prossima non ci sarà che putredine e morte. Che importa! Che importa dal momento che l'atto si compie. L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza. La speranza è nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio.
Non è la proiezione del Forse, il cui ritmo ci accompagna fin dall'inizio della nostra analisi, in un concreto momento-spazio della vita quotidiana?
André Neher
(da L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato, 1983, pp. 244-246).