I Dossier

Attenzione

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II. DIO VUOLE SALVARE TUTTI GLI UOMINI E TUTTO L’UOMO

 

don Marino Qualizza

 

 

 

 

1. Dio è fedele al suo progetto originario di salvezza. Ef 1,3.

 

Nel panorama della riflessione teologica attuale, c’è un punto molto bello: la riaffermazione del progetto unitario in ordine alla salvezza o alla realizzazione di questo nostro mondo. Era invalsa infatti l’ affermazione che esistesse un duplice progetto di Dio: uno si riferiva alla creazione e l’altro alla redenzione, dopo il peccato dell’umanità. Questo modo di presentare le cose aveva un vantaggio nel mettere in luce la novità della redenzione in Cristo, ma conteneva uno svantaggio ancora più grave, quello di dividere il progetto di Dio in due direzioni, che non si incontravano più. Il progetto di Dio si articolava in due fini, uno chiamato naturale,l’altro soprannaturale; uno limitato alla conoscenza indiretta di Dio, come origine e fine di tutte le cose; l’altro aperto alla conoscenza personale di Dio, mediante l’adozione a figli.

L’UOMO: LIBERTA’ FERITA E LIBERTA’ DONATA

don Marino Qualizza

 

A. 3. Carne e Spirito: l’uomo secondo san Paolo, Romani 7

Il binomio che incontriamo tanto frequentemente nelle lettere di san Paolo, soprattutto in quelle ai Galati e ai Romani, rappresenta la sua visione dell’uomo, la sua antropologia, secondo categorie in vigore ai suoi tempi. Poiché questo binomio ha dato luogo anche a fraintendimenti sia di carattere linguistico che contenutistico, è necessario qualche precisazione iniziale.
Non basta intanto confrontare un vocabolario della lingua italiana corrente per avere delle indicazioni esatte sul significato e sul contenuto di questo binomio e delle due parole che lo compongono. Carne e spirito appartengono ad un vocabolario semitico, non immediatamente traducibile nelle nostre categorie. In seguito hanno anche caratterizzato sistemi religiosi o filosofici, che nei due termini vedevano e leggevano una contrapposizione radicale ed inconciliabile fra materia e spirito, fra anima e corpo. Sono i sistemi che noi chiamiamo dualistici, quelli che hanno trovato una espressione storica nel manicheismo e nel Medioevo fra i Catari e gli Albigesi.

 

 

 

3.a. Una visione religiosa dell’umanità

Nel vocabolario paolino non ci sono queste contrapposizioni, anche se qualcuno ha voluto leggerle. Ed allora vediamo il significato delle parole. Con il termine carne san Paolo intende mettere in luce l’inclinazione umana all’egoismo, all’individualismo, intesi in senso religioso, quindi l’orientamento umano a scelte contrarie a Dio e all’amore del prossimo. Un  po’ nella linea di Genesi 3, che descrive la scelta dell’umanità in termini egoistici, coincidenti di fatto con la negazione di Dio
Con il termine spirito invece sottolinea l’orientamento dell’uomo verso Dio, in quanto è guidato dallo Spirito di Dio. Lo spirito umano può orientarsi a Dio, perché si lascia guidare dallo Spirito di Dio, perché si fida di lui. In questo senso la vita nello spirito è vita secondo la regola dell’amore per Dio e per il prossimo; l’essenza stessa della vita di fede. Nei due vocaboli dunque non c’è accenno alla dottrina filosofica che considera l’uomo come fatto di anima e di corpo, di materia e di spirito, in competizione fra di loro. Queste erano questioni attuali anche al tempo di Paolo, ma non facevano parte della sua visione culturale. Tanto meno c’è in Paolo l’idea di una dualismo antropologico, per cui le due componenti dell’uomo sono in lotta fra di loro. Non bisogna dimenticare questo, perché anche una certa spiritualità con evidente superficialità ha costruito le sue regole su questa presunta contrapposizione antropologica. Carne e spirito sono due dimensioni spirituali, riguardano cioè la vita spirituale, ed in quanto tali sono evidentemente contrapposte.

 

 

 

3.b. La divisione interiore dell’uomo

Questa contrapposizione porta ad una divisione nell’uomo, cosicché egli si sente profondamente in conflitto. Nel capitolo 7 della lettera ai Romani, san Paolo affronta proprio questo problema, in termini drammatici. Introduce l’argomento segnando quelle che sono le attività dello spirito e della carne. <<Quando infatti eravamo in balìa della carne , le passioni che inducono al peccato, rese efficaci dalla legge, agivano nelle nostre membra facendoci portare frutti degni di morte. Adesso invece siamo stati sottratti all’effetto della legge, morti a quell’elemento di cui eravamo prigionieri, affinché serviamo a Dio nell’ordine nuovo dello Spirito e non in quello vecchio della lettera>> (7, 5-6).

 

 

 

3.c. Il suo superamento in Cristo

San Paolo afferma qui, chiaramente che è passato, non c’è più il vecchio mondo costruito sull’egoismo ed è iniziato il nuovo mondo, guidato dallo Spirito di Dio. Ciò non significa ancora che sono sparite tutte le conseguenze del peccato o addirittura il peccato stesso. Vuole dire invece che ora il peccato non può essere una scusa per la pigrizia e per l’egoismo, perché la pasqua di Cristo l’ha obiettivamente vinto e superato. Dunque, ancora una volta, non l’automatismo della grazia, magari contrapposto ad un automatismo del peccato. In entrambi i casi, una situazione oggettiva non è nostra personalmente, se non la rendiamo tale con la nostra scelta libera. Ora la scelta del bene è data dalla grazia dello Spirito; la scelta del male, dal rifiuto dello Spirito. Ora noi viviamo nella felice condizione di chi ha a disposizione il dono di Dio per una vita nella libertà dei figli di Dio.

 

 

 

 3.d. La ripresa del tema

Ma san Paolo non si accontenta di quanto ha detto, perché continuando l’esposizione della vita nuova, vuole mettere in luce violentemente contrapposta le due condizioni estreme di vita, secondo la carne e secondo lo spirito. Non è che egli voglia rimettere in discussione quanto ha già detto; vuole illustrarlo compiutamente, drammatizzando la situazione di grazia e di peccato. Lo scopo è quello di far apprezzare di più il vantaggio di essere in Cristo. Egli così continua nel suo discorso: <<Sappiamo che la legge è spirituale, io invece sono di carne, venduto schiavo del peccato. Non capisco infatti quello che faccio: non eseguo ciò che voglio, ma faccio quello che odio. E se faccio ciò che non voglio, riconosco la bontà della legge. Or non sono già io a farlo, ma il peccato inabitante in me. So infatti che non abita in me, e cioè nella mia carne, il bene: poiché volere è a mia portata, ma compiere il bene no. Infatti non faccio il bene che voglio, bensì il male che non voglio, questo compio>> (7, 14-19).

 

 

 

3.e. Al male va riconosciuta la sua forza

Questo quadro così nitidamente contrapposto, con la sottolineatura della prevalenza della volontà di male sul bene, va debitamente inquadrato, per non trarre delle frettolose conclusioni. Il ragionamento di Paolo si può riassumere così: l’uomo che si basa solo sulle sue forze, anche se conosce il bene da compiere, non è in grado di compierlo, per due motivi fondamentali: uno è dato dalla situazione storica in cui ci troviamo, caratterizzata com’è dal peccato del mondo. Esso ci condiziona, anche se non è l’unica forza. Se ad essa però si aggiungono anche i nostri peccati personali, allora in quadro è completo: l’uomo nel peccato non è in grado di aiutarsi, perché è privo di energie spirituali, è dominato dal suo egoismo.
La descrizione degli effetti del peccato è tremendamente efficace ed è vera. Ma bisogna fare attenzione a non considerarla in modo unilaterale. L’io di cui parla Paolo non è il suo io soggettivo, ma è l’io generico di ogni peccatore. Chiunque è nel peccato, si trova a vivere questa profonda divisione interiore. Ma possiamo dire anche di più. Questa divisione interiore è in realtà già un effetto della grazia di Dio; un effetto cioè della bontà di Dio, che ci dà coscienza del male in cui ci troviamo. Può essere, anzi è, l’inizio della salvezza. Uno che rifiuta la grazia di Dio e vive ostinatamente nel peccato, vive in modo diverso questa divisione, e spesso con grande superficialità.

 

 

 

3.f. Ma non è l’unica forza né la più grande

Ma san Paolo non può fermarsi a questa visione così drammatica, quasi che non avesse uno sbocco. Ne aveva già parlato più sopra ed ora riprende il discorso portandolo alla conclusione tipica del Vangelo. <<Chi mi libererà dal corpo che porta questa morte? Grazie a Dio per mezzo di Cristo nostro Signore!>> (7, 24-25). Questo è dunque il Vangelo, la buona notizia: la nostra ansia di liberazione dal male che ci opprime e non ci fa vivere è data proprio dal Cristo Signore. Non è una risposta prefabbricata questa. È la verità vissuta e l’indicazione della identità umana. Il Cristo Signore non è venuto a liberare l’umanità da scrupoli religiosi, ma è venuto a portare a compimento l’opera di Dio, iniziata con la creazione.

 

 

 

3.g. Il Vangelo della salvezza

Da sempre Dio è la forza e la sorgente della realizzazione umana. Egli non è tale perché c’è il peccato, ma può liberarci dal peccato, perché è il Dio della libertà. Una visione troppo debitrice del peccato restringe anche l’operato di Dio, rendendolo funzionale al peccato. Abbiamo bisogno di Dio, perché siamo peccatori. Questa è la mortificazione del Vangelo e il suo accantonamento negli angoli di mentalità contorte e spiriti affranti. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della creazione buona,è il Dio in grado di riportare l’uomo sulla strada della vita, qualora l’avesse smarrita. Il vangelo predicato da Paolo, nonostante alcune sottolineature che possono sembrare esagerate ed unilaterali, è in verità a servizio di questo ampio orizzonte , in cui Dio è veramente il centro di tutto e l’origine del bene che c’è nell’universo, attraverso Cristo Signore.

Sabato, 26 Giugno 2004 12:29

2) Il peccato Gen 2-3

L’UOMO: LIBERTA’ FERITA E LIBERTA’ DONATA
don Marino Qualizza



A. 2. Il peccato : Genesi 2-3


Come sa chi ha letto la Bibbia, del peccato si parla nel capitolo terzo della Genesi; ma per comprenderne la portata e valutarne le conseguenze è necessario collegarlo al secondo capitolo, dove non si parla di peccati, ma del progetto di Dio nei riguardi dell’umanità. Infatti, il peccato non fa parte del progetto di Dio, come qualcuno potrebbe pensare e di fatto ha anche pensato nel corso dei secoli. Alcuni, colpiti dalla diffusione e dalla forza del male e del peccato, hanno pensato di collegarlo in qualche modo a Dio, rendendolo responsabile di questa tragica situazione. La risposta della Bibbia è molto chiara al proposito: Dio ha creato gli uomini e li ha collocati in un posto ideale, nel giardino dell’Eden (2, 8). Ed a scanso di equivoci e di interpretazioni fantasiose, che mai sono mancate, si dice che l’uomo è stato posto in questo giardino, perché lo lavorasse e lo custodisse (2,13).



 2.a. Il progetto di Dio

Nessuna concezione romantica o arcadica, ma la coerenza con quanto si legge in Genesi 1: Dio lavora e crea e l’uomo è chiamato a partecipare a questo lavoro di Dio, portando a compimento l’opera della creazione. Del lavoro dunque, qui si dà una valutazione oltremodo positiva, perché esso viene associato al lavoro di Dio nella conservazione del creato. Tutti i discorsi che una volta si facevano, indulgendo alla fantasia, di un mondo irreale, perché libero dall’impegno di una vita degna di Dio, vanno abbandonati, appunto perché sono parto di fantasia e non corrispondono al contenuto del messaggio biblico.Ciò che resta è la nobiltà di una vita, fondata sul duplice valore del lavoro e della famiglia. Infatti il capitolo secondo termina con il richiamo alla famiglia. Si parla infatti della creazione della donna, perché il progetto di Dio sull’umanità sia completato. Senza la donna non c’è la normalità dell’esistenza umana, fondata appunto sulla famiglia.



2. b. Dio impegna gli uomini

Ma  questo progetto di Dio, così bello e armonioso, non si realizza automaticamente, per inerzia. Agli uomini vengono poste delle regole, viene indicato un criterio, che può essere anche considerato come limite e quando viene sentito come tale, allora cominciano i dubbi e i sospetti. <<Il Signore diede questo comandamento all’uomo:”Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiarne, perché nel giorno in cui tu te ne cibassi, dovrai certamente morire”>> (2, 16-17). È posta qui in evidenza una verità fondamentale dell’esistenza umana: la sua creaturalità, che non gli permette di essere fonte autonoma di ciò che è bene e di ciò che è male; cioè l’uomo non crea le regole morali, ma le trova.
Da qualcuno o meglio da tutti, questo è sentito come un limite o meglio ancora, come una limitazione. Il sentire questo non è nulla di sbagliato, ma può essere la fonte dei sospetti e dei dubbi nei riguardi di Dio. È così che si insinua la tentazione. In Genesi 3 essa è descritta in modo psicologicamente straordinario. Il cuore della tentazione, che questa volta viene dall’esterno – il serpente, da sempre simbolo ambiguo di vita e di morte – sta nella affermazione centrale che tutto spiega: <<Voi non morirete affatto! Anzi, Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male>> (3, 4-5).



 2. c. Il cuore della tentazione

Ecco il punto: voi diventerete come Dio! Qui è il cuore del problema ed anche la sua soluzione. Il peccato del primo uomo non è solo il primo peccato, ma è quello esemplare e specifico della creatura, di ogni creatura intelligente, perché solo gli essere intelligenti possono peccare. Esso viene posto all’origine della storia, non solo in senso cronologico, ma anche in senso teologico: ogni peccato umano, se è peccato, porta in sé questa connotazione fondamentale: il rifiuto di essere creatura e il desiderio di essere Dio. La storia umana è determinata da queste due scelte o aspirazioni umane. In tal senso la storia umana, in tutti i suoi risvolti, ha come spiegazione finale la natura religiosa dell’uomo, rifiutata o accolta.
Questa pagina biblica è dunque una pagina che si sta scrivendo continuamente, senza sosta. Qui non ci troviamo di fronte a verità arcaiche, ma alla fonte stessa dell’attualità, anche nei suoi aspetti più tragici. Genesi 3 è una delle pagine più attuali della Bibbia, non solo, ma della civiltà in assoluto. Infatti il rifiuto della creaturalità, cioè del fatto di essere creature e quindi di non avere in noi il fondamento dell’esistenza e della sua realizzazione, provoca in noi un senso di rivolta contro il Creatore. È un dato istintivo, che è non peccato se non quando diventa rifiuto. Non dobbiamo pensare che sia stato inserito in noi dopo il peccato. Perché questo renderebbe addirittura impossibile fisicamente il peccato. Questo dipende dal fatto che siamo creature limitate, perché creature. Ma questo limite è anche la nostra identità, che chiede di trovare in Dio il suo punto di riferimento, ed anche la sua attuazione. Diventare noi stessi nel cammino storico della nostra libertà, richiede proprio l’impegno della libertà e la scelta positiva di Dio, che si pone come indispensabile in ogni situazione. La nostra esistenza è determinata positivamente dalla scelta di Dio come lo spazio infinito della nostra libertà. C’è qualcuno a cui questa condizione non piace e la rifiuta; questo è il peccato.



2.d. Il peccato, rifiuto e pretesa

Ma c’è un secondo aspetto. Il rifiuto della nostra condizione di creature è accompagnato dal contemporaneo desiderio di essere come Dio. Le due cose si toccano e in pratica sono la stessa cosa. Le aspirazioni umane non possono essere limitate, ma sono infinite per se stesse. Si identificano con il desiderio di essere Dio stesso. Anche in ciò nulla di male, per sé, perché questo desiderio viene in noi da Dio stesso. E’ il segno che siamo sue creature, è il riflesso della nostra origine ed anche del nostro tendere a lui. Ma se si rifiuta la nostra creaturalità, il desiderio di essere Dio è vissuto in modo sbagliato ed irriverente: si vuole diventare dio a prescindere da lui, quasi sostituendosi a lui. È in pratica le negazione di Dio.
Vediamo allora, nuovamente, in questa pagina della Bibbia, qualcosa di estremamente profondo, serio e semplice ad un certo tempo. C’è solo da lamentare una certa dispersione della spiegazioni teologiche che fino al recente passato hanno allontanato l’attenzione dei credenti e non dalla semplice verità di questo testo, per sbizzarrirsi in ipotesi e motivazioni assolutamente fuori tema. Qui si gioca il tema formidabile della vera autonomia e libertà dell’uomo, di ogni uomo. La libertà umana si vive nella gioiosa accoglienza del nostro rapporto con Dio. E’ in questa luce che ci si apre alla prospettiva di un Dio che è Padre e non padrone, libertà e non dispotismo.



2.e. Luce sulla storia del mondo

Tornando al tema e ribadendo l’attualità di questa pagina biblica, vediamo anticipata in essa la storia dell’umanità, soprattutto del mondo occidentale, proprio quello più legato al mondo biblico. Proprio in Occidente, si è verificato un distacco progressivo da   Dio, a motivo della impostazione culturale di questo nostro mondo. In esso si è imposta una contrapposizione esclusiva, un aut aut assoluto che non promette nulla di buono: o Dio o l’uomo, questa è la pericolosa alternativa del mondo occidentale. Ed ha avuto la sua attuazione con i danni che ne sono seguiti. Perché se Dio e l’uomo sono in competizione, i risultati nella storia umana sono sempre e solo negativi, perché arrivano a questa assurda contrapposizione: quanto più si afferma Dio, tanto più si deprime l’uomo e viceversa.
Questa non è la visione biblica, ma il segno di quel peccato che divide e turba il cuore dell’uomo e la sua storia intera.



 2. f. L’uomo non è abbandonato da Dio

Il Dio della Bibbia è il Dio dell’armonioso incontro fra Dio e l’uomo. Dio come la forza che rende possibile la storia umana della libertà. Non un Dio invidioso della libertà umana, ma suo artefice. Il contrario è peccato, in quanto dà corso alla tentazione che mette in dubbio la verità di Dio e la bontà dell’inclinazione del cuore umano a lui. Ma non possiamo dimenticare un altro aspetto, che in Genesi 3  non è di poco peso. La storia umana non è segnata solo dal peccato e mai il peccato è stato l’unica forza che ha retto i destini dell’umanità. Dio non ha abbandonato gli uomini.la Bibbia lo registra in modo chiarissimo. <<Io porrò una ostilità fra te e la donna e tra il lignaggio tuo ed il lignaggio di lei: esso ti schiaccerà la testa e tu lo assalirai al tallone>> (3, 15)
La storia dell’umanità anche nel peccato, è guidata da una forza più grande, quella della bontà di Dio che si esprime nella misericordia e nel perdono. Questa forza ha sempre accompagnato gli uomini fino alla venuta di colui che il mondo ha aspettato come salvatore, il Cristo Signore.

Sabato, 26 Giugno 2004 12:13

1) Bontà e creazione Gen 1

L’UOMO: LIBERTA’ FERITA E LIBERTA’ DONATA
don Marino Qualizza


A. 1. Bontà della creazione: Genesi 1


Il racconto biblico della creazione è il risultato di una lunga riflessione e soprattutto di una esperienza, alla cui origine e radice si trova la grande epopea raccontata nel libro dell’Esodo. E’ in questa luce infatti che si può parlare a ragion veduta della bontà della creazione. Qui si intrecciano due questioni: il racconto della creazione precede o segue l’esodo? E se lo segue in che modo questo è alla base della narrazione di Genesi 1?



1.a.  La fede biblica è storicamente determinata

La risposta a questa domanda importante è data dalla qualità della fede biblica. Essa non è il risultato di riflessioni filosofiche, importanti o meno, ma di una serie di eventi che hanno cambiato la storia dei credenti di cui ci parla la Bibbia. E il centro e il cuore della Bibbia è proprio l’esodo, cioè la liberazione dalla schiavitù. Essa è l’evento positivo che proietta una luce su tutta la storia e antecedente e successiva. Di più, è la storia nella quale i credenti hanno incontrato Dio in modo concreto e tangibile e ne hanno tratto la convinzione che la fede in Dio è esperienza e dono di libertà. E’ questa la grande verità su cui tutto si fonda e da cui promana quella luce che illumina tutti gli avvenimenti della storia, a cominciare dal suo inizio.
Ma in che modo i credenti sono arrivati tanto alla conoscenza di Dio come alla affermazione della bontà della creazione?  Semplificando al massimo le cose, possiamo dire così. Nel vivere la grande avventura della liberazione – essa è grande in sé, per quel  che contiene, i contorni letterari sono meno significativi- gli Ebrei e con essi tutti i credenti successivi, hanno scoperto due verità fondamentali e straordinarie allo stesso tempo: il Dio in cui credevano era più forte delle forze della natura, spesso avverse, e più forte dei poteri politici ostili, rappresentati dal Faraone.



1.b.   Il Dio della storia e del creato

Queste due verità acquisite per esperienza sono verità che trasformano il credente, perché trasformano la storia e cambiano il corso degli avvenimenti e collegano la fede in Dio alle vicende della storia, da cui Dio non è estraneo ed al creato, visto come il teatro delle vicende umane e divine. Il Dio che si manifesta nella storia degli uomini è anche colui che guida e governa questa storia in favore degli uomini, anche se in modo non sempre chiaramente percepibile. Ma nel caso dell’esodo questa percezione diventa evidente: il Dio dell’esodo è più potente dei principi di questo mondo e degli dèi ai quali si affidano questi principi. Dunque, la storia può avere un esito positivo, perché è nelle mani di Dio.
Ma questo Dio della storia e quindi legato alle vicende umane, è anche il Dio del creato ed è più forte delle potenze naturali, che spesso si manifestano come potenze ostili, tanto da mettere a repentaglio la vita umana. Il passaggio del Mare Rosso come viene epicamente evocato in Esodo 14-15,  segna un momento decisivo nella fede degli Israeliti. Se Dio può dominare le forze della natura, la spiegazione è una sola: egli ha fatto tutte queste cose e perciò gli obbediscono. Così la natura non è qualcosa di generico ed indistinto, ma è il creato, qualcosa che è stato fatto da chi ne ha il potere, cioè dall’Onnipotente.



1.c.   Dio vide e tutto era molto buono

A questo punto si inserisce in modo del tutto logico il racconto di Genesi 1, che termina con la famosa affermazione:<<Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono>> (1,24). Come sappiamo il racconto del primo capitolo della Genesi è articolato sul periodo di una settimana e termina con il sabato, a cui viene dato tanto rilievo, perché su di esso è basata tutta la vita di Israele, fino ai nostri giorni. In realtà questo riferimento al sabato e questo schema della settimana è un indizio importante dell’origine stessa del racconto biblico e quindi del suo significato.
Il contesto in cui è nato il racconto è la liturgia del tempio di Gerusalemme, scandita sul ritmo della settimana. Questa a sua volta è una fase lunare. In una sola proposizione abbiamo due verità importanti. Il racconto biblico è essenzialmente religioso, di una religiosità che riduce a orologi cosmici le divinità principali del mondo semitico: il sole e la luna. Si tratta dunque di una operazione di grande significato, tanto da costituire una autentica rivoluzione e culturale e religiosa. In essa appaiono nuovamente le note caratteristiche della fede biblica: il suo collegamento agli eventi della storia.



1.d. La liturgia come contesto del racconto biblico

Che il racconto della creazione si svolga in un contesto liturgico offre degli spunti interessanti. L’opera di Dio è la prima liturgia, il primo lavoro in favore dell’uomo. Infatti il racconto di Genesi 1 è contrassegnato al termine di ogni giorno con l’espressione: <<E Dio vide che era buono>>. Il lavoro di Dio, nella creazione è cosa buona ed è in favore degli uomini. Ma il lavoro di Dio diventa l’ispirazione del lavoro degli uomini. La liturgia divina diventa liturgia umana. In essa si coglie la bontà della creazione, perché questa, nel nostro mondo così com’è storicamente, non è tanto evidente. Ma dove la creazione è vissuta come liturgia e quindi come lode, là non ci sono dubbi sulla bontà della creazione: sulla bontà iniziale e sulla bontà finale.
Su questo punto c’è un’altra osservazione da fare. Il racconto biblico è religioso, quindi non ha nessuna intenzione scientifica, nel senso univoco che oggi ha assunto. Esula dalla intenzione biblica, la quale invece ha un’altra finalità molto più rilevante. Quando si dice racconto religioso, si vuole mettere in risalto un dato fondamentale: il mondo è tutto relativo a Dio e nel rapporto con lui trova consistenza e comprensione. L’aspetto religioso non è un’aggiunta alla realtà, ma è la verità profonda della realtà stessa. E non è neanche una diminuzione della libertà e dell’autonomia del creato, perché relazione non vuol dire limitazione, ma possibilità e concretezza stessa di vita.


1.e.   Religione e libertà

In verità, questo ultimo aspetto è fra i più delicati ed i più contestati nella cultura contemporanea, come se il rapporto con Dio fosse il principio di ogni limite e di ogni privazione della libertà. Al contrario, per la Bibbia proprio il rapporto con Dio costituisce il punto massimo della libertà, perché il rapporto con Dio è l’incontro con la libertà infinita. Dunque, la visione religiosa della Bibbia è affermazione eccezionale della dignità dell’uomo e del fondamento della sua libertà. In questa linea si impone nuovamente l’affermazione della bontà della creazione.
Inoltre, se il racconto della creazione è caratterizzato dal contesto  liturgico, ne consegue che la liturgia fondamentale per le creature umane sarà proprio la vita. Ed a ragion veduta. Il racconto di Genesi 1 raggiunge il suo vertice con la creazione dell’uomo e della donna. Essi sono l’immagine vivente di Dio e partecipano della sua signoria, tanto dominando da signori il mondo, quanto servendo la vita con la fecondità della loro unione. Inserendo in quest’opera tutte le altre opere umane, abbiamo l’indicazione di che cosa significhi fondamentalmente questa liturgia e di come essa sia legata alla vita, che qui si manifesta in tutta la sua bontà.



1.f.  Fede, estetica e contemplazione artistica

Infine, una annotazione sulla conclusione del racconto, che nella divisione attuale viene collocato all’inizio del secondo capitolo, ma in realtà fa parte del primo. Si tratta dell’origine del sabato. La storia tanto degli Ebrei come dei Cristiani, ne ha fatto una specie di tabù, per motivi chiaramente legati alla cultura del tempo passato. Non discutiamo di essa, ma cerchiamo di cogliere qualcosa di diverso. Il sabato può essere visto come il giorno della contemplazione estetica, il giorno della meraviglia, della ammirazione per quanto si è fatto. È dunque il giorno liberato dal ritmo di un lavoro che può opprimere ed è dedicato invece alla gratuità dell’estetica, dell’arte, della bellezza, della sensibilità. Non un giorno in cui è proibito qualcosa, ma un giorno in cui si pregusta la libertà definitiva, nella quale la dimensione della bellezza avrà una parte significativa. Anche questo si inserisce nel quadro della bontà della creazione, laddove si arriva alla contemplazione estetica, là si celebra la bontà del creato, della vita, dell’esistenza in tutti i suoi aspetti.

Il concetto di Dio
dopo Auschwitz
a cura di Chiara Omassi

 

Scheda introduttiva all'opera Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas (1).

 

Hans Jonas (1903-1993) ebreo tedesco, filosofo e storico delle religioni, studia filosofia e teologia seguendo i corsi di Husserl, Heidegger e Bultmann. Rifugiatosi in Inghilterra con l'avvento del nazismo, emigra nel 1935 in Palestina, insegnando in Israele, Canada, Stati Uniti.

Spiritualità Marista 
di Padre Franco Gioannetti 


   



Ventiquattresima parte


Infatti, e questo ha un suo fascino ed una sua attualità, secondo il progetto primitivo, la Società di Maria, nella molteplicità di appartenenza dei suoi membri, se da un lato, secondo Colin, deve imitare la Chiesa delle origini evitando di cercare degli altri modelli, per un altro è molto vicina, in una visione veramente profetica, alla realtà ecclesiale che stiamo vivendo.


Seguendo questo stile bisognerà dunque che i membri della Società si amino come gli apostoli ed i membri della Chiesa primitiva che erano "un cuore solo ed un'anima sola" (Atti 4, 32). Ciò che deve caratterizzare infatti la Società è il vivere la "vita apostolica" cioè una vita che ricalchi quella degli apostoli, dove si intrecciano armoniosamente AZIONE E CONTEMPLAZIONE (Atti 6, 4); dove si abbia come prima preoccupazione quella di vivere alla presenza di Dio; dove la carità ispiri od unifichi tutte le azioni della vita comune; dove la preghiera sia l'occupazione essenziale della vita dei suoi membri; dove la vita comune sia, come lo era per gli apostoli, il segno, la prova e la prima conseguenza della carità di Dio che lo Spirito Santo effonde nei cuori, la carità interiore che è poi l'elemento essenziale che si evidenzia dal racconto di Luca, perché essa è il principio e la condizione di ogni vita perfetta.


Scrive D. J. Leclerq:


"Vivere in comune imitando la maniera di vivere degli apostoli è un mezzo di tendere alla perfezione perché obbliga ad uno sforzo costante per mantenere l'unanimità".

Spiritualità Marista 
di Padre Franco Gioannetti 


   



Ventitreesima parte


Le intuizioni, la spiritualità, i progetti del P. Colin, così incentrati sul ruolo di Maria, guidano la Società da lui fondata guardando alla famiglia di Nazareth perché questa è il modello della Società stessa. Il motivo è evidente: li è possibile scoprire la pienezza dell'ideale della Società: essere, nel nascondimento, fermento come la Chiesa primitiva.


Quando infatti P. Colin preparava le Costituzioni non aveva con sé altro che il Vangelo, si poneva così, come se fosse nella casa di Nazareth e vi vedeva Maria lontana dal mondo, nel periodo più oscuro della sua vita ma già all'opera con suo Figlio, per la salvezza della umanità.


Nazareth è dunque l'inizio della Chiesa o è la Chiesa nascente e lo Spirito della Società, per P. Colin, è da ricercarsi soprattutto a Nazareth.


La Società di Maria infatti è pensata agli inizi come una microchiesa avente in sé tutte le componenti del Popolo di Dio, con uno spiritualità caratterizzata dalle due componenti della Chiesa (contemplazione e azione); essa ha cominciato come la Chiesa e questa è il suo modello, comunque la si veda, sia per quanto riguarda la vita degli apostoli di cui gli Atti raccontano i viaggi, sia per la vita della comunità locale di cui gli Atti danno un'immagine ideale (Atti 2, 42-47; Atti 4, 32-35).


Questo progetto, pensato ma in pratica mai realizzato, non si discosta certo molto dalla tendenza attuale della Chiesa; quella di andare verso nuove forme ecclesiali di testimonianza su cui lo Spirito Santo non ha detto indubbiamente l'ultima parola. Molto di ciò che si muove ecclesialmente intorno a noi ci dà l'impressione che lo Spirito ci porti attualmente verso un tipo di micro-chiese, indubbiamente più conformi del passato alla condizione laicale del cristiano, ma che in ogni caso saranno una nuova manifestazione delle "meraviglie di Dio".


Una intuizione quella coliniana di estrema attualità, che richiede da parte dei religiosi e delle religiose che si rifanno a P. Colin un forte impegno per uscire dagli schemi delle tradizioni che sono state sovrapposte e che non hanno un vero riferimento a quanto pensato dal fondatore.


Che sia questo un momento propizio per iniziare la realizzazione del progetto originario?

Spiritualità Marista 
di Padre Franco Gioannetti 


   



Ventiduesima parte


Ma perché l’attenzione a Nazareth? Il pensiero del P. Colin va a ritroso dalla Pentecoste, egli ritorna ai momenti fontali e li scopre nella "vita nascosta" di Nazareth: lì accanto a Gesù ci sono i primi due credenti del "nuovo" popolo di Dio: Maria e Giuseppe. Superando il pensiero dei teologi soui contemporanei, P. Colin scopre che nel villaggio di Nazareth, anzi nella piccola casa di due tra i maggiori protagonisti della storia della salvezza, ha effettivo inizio la realizzazione del mistero di Cristo attraverso le fasi dell’incarnazione e dell'infanzia di Gesù. In questa piccola casa è presente la prima "cellula" di quel popolo che avrebbe creduto e sperato nel mistero della salvezza.


Belley (un petit trou) era, per il P. Colin, come Nazareth e i primi maristi, con la loro scarsa istruzione, come gli apostoli. Ancora una volta "nascondimento" e "missione" si accompagnano nella manifestazione del mistero di Cristo al mondo.


Indubbiamente le realtà "Nazareth e Chiesa apostolica" non erano, né sono, intercambiabili, ma ognuna, con una speciale valenza esprime le stesse virtù nascoste che assicurano coesione e durata ad una comunità Cristiana. Resta comunque il fatto che, in ambedue entrano in gioco la piccolezza materiale, la povertà dell'ambiente e quella dei mezzi. La caratteristica di fondo della Società di Maria sarà giusta: comunque, nel nascondimento o nell'apostolato, essa dovrà praticare le virtù di Nazareth: umiltà, obbedienza, carità e distacco, che sono come il preludio di quelle della Chiesa nascente.

Spiritualità Marista 
di Padre Franco Gioannetti 


   



Ventunesima parte


Riprendiamo, dopo lo scritto di Don Morandin, la conoscenza e nostro approfondimento della spiritualità marista.


LA FAMIGLIA DI NAZARETH


Gli anni della vita di Gesù di Nazareth hanno un solo riscontro nei testi neotestamentari: il capitolo 2° di Luca. I Padri lo hanno ripetutamente commentato e le loro osservazioni mettono in rilievo quelle che sono state le prime reazioni cristiane alla "vita nascosta" del Salvatore da lui condotta per oltre trent'anni. L'attenzione del Padri è riposta principalmente nell'"abbassamento" - "Kénosis" del Verbo di Dio. Essi sono preoccupati dalle controversie teologiche del tempo, quelle trinitario-cristologiche. Dal un punto di vista spirituale, la teologia dell'"abbassamento" conduce ovviamente ad una lezione di obbedienza e di sottomissione ai genitori. Questa visione è l’esplicito riferimento a quale deve essere la condotta di vita del cristiano ed è parziale conseguenza delle grandi dispute teologiche allora in pieno corso. Il mistero della "Kénosis" attira la nostra attenzione per l'importanza che esso riveste all'interno della vita marista e di esso si è già parlato negli articoli precedenti.


Qual è il pensiero di P. Colin in relazione alla Famiglia di Nazareth?


Il suo modo di immaginare la vita della S. Famiglia a Nazareth presenta una evoluzione progressiva; P. Colin passa dal silenzio dei suoi primi testi (1816-1836) a formulare, sul tema negli anni più tardi, una riflessione esplicitamente indirizzata ai fratelli dell’Hermitage (1838).


È l'epoca nella quale fratelli coadiutori e fratelli maristi conducono vita comune ed all'Hermitage, in particolare , molti fratelli erano occupati in lavori manuali; questo ruolo umile, tipico delle famiglie povere, in cui il sostentamento proveniva dal proprio lavoro, suggerì al P. Colin il paragone con la vita di Gesù e di Maria nel piccolo villaggio di Nazareth. Ma questo paragone non rimase chiuso in se stesso; la spinta missionaria di P. Colin non può chiudere il suo spirito e quello dei suoi confratelli nella umiltà del solo lavoro manuale. A distanza di pochi mesi, in un ulteriore scritto, frutto delle sue successive riflessioni sulla vita nazaretana della S. Famiglia, egli compierà un'unione tra il ruolo di Maria a Nazareth e la sua posizione all'interno della Chiesa nascente, dopo l'Ascensione. Più avanti la crescita interiore del Padre subirà una nuova evoluzione: Gesù a Nazareth, Gesù "nascosto" sarà il modello dei maristi in formazione; la Chiesa nascente (la realtà di fede e di carità, il comportamento degli apostoli, il ruolo di Maria) costituirà il modello fondamentale per la Società.

Spiritualità Marista 
di Padre Franco Gioannetti 


   



Ventesima parte


Se è legittima la scelta, nella imitazione del Modello, di un aspetto della sua vita è, d'altra parte, pericoloso renderlo esclusivo. La partecipazione personale e comunitaria, nello stile di vita assunto, vale a dire in quello che è il carisma proprio di un Istituto religioso, ad un momento particolare della vita di Cristo, non può separarsi dall'unità del suo mistero. Un tipo di visione esclusivamente particolare della totalità di esso può essere la causa di una certa carenza nella spiritualità del passato, fino al punto da condurre i diversi Istituti religiosi a contendersi le specializzazioni.


I movimenti biblico e liturgico di questo secolo e, particolarmente oggi quello sacramentario, offrono alla vita religiosa maggiori possibilità di un'impostazione più armonica ed unitaria per l'espletamento del loro carisma sotto l'aspetto specifico dell'imitazione di Cristo, le cui "fasi" storiche, cioè della sua vita in questo mondo, sono governate dal principio basilare dell'unica rivelazione divina e dell'unità di tutta l'economia della salvezza.


(fine della riflessione di Don Morandin)

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