Vita nello Spirito

Lunedì, 07 Febbraio 2011 23:12

Riconciliazione e consolazione (Alberto Cravero)

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Non puoi percepire Lui se non percepisci te stesso. Offri al Signore anche i tuoi lati oscuri ed allora una corrente fluirà tra te ed il Signore

 

Si tratta di alcuni spunti, con una visione antropologica che parte dall’uomo, dal suo corpo e dalla sua anima. Sottolineature ed impressioni di laico, su un argomento già ampiamente e rigorosamente trattato da mons. Renato Corti, nella Lettera Pastorale alla diocesi di Novara per l’anno 1998/99: “Tornerò da mio Padre” e molto ben svolto nel sussidio per la Lega Sacerdotale Mariana per l’anno pastorale 2007/08: “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Vi sono alcuni aspetti della stagione vissuta dalla Chiesa che meritano di essere segnalati, usiamo un vocabolario rinnovato, che preferisce il nome di riconciliazione a quello di penitenza o confessione, così come il verbo riconciliarsi è preferito a pentirsi, anche se la struttura fondamentale del Sacramento rimane identica.

È però sotto gli occhi di tutti un declino “quotidiano” nell’accostarsi dei fedeli al sacramento della riconciliazione. Probabilmente vi è una “reattività” ed insofferenza ad esternare comportamenti “intimi” che il mondo ha banalizzato o anche esaltato. Talora potrebbe esserci un’insufficiente preparazione del clero, di fronte a problemi di coscienza che scavano la psicologia del profondo. Non è mia intenzione disquisire sull’azione spirituale e psicoterapeutica della riconciliazione o delle proposte di confessione comunitaria, ma mi rivolgo, come ho promesso, ai turbamenti dell’uomo ed alla bellezza di sentirsi un “tutto di amore” con Dio.

Il nucleo: l’essenza della riconciliazione è la riconciliazione con se stesso. Non possiamo sfuggire alla nostra ombra perché, anche se aumentiamo la velocità del nostro procedere, l’ombra ci seguirà sempre. Il primo passo verso la riconciliazione è quindi l’accettare e consentire a noi stessi che ciò da cui preferiremmo fuggire rimanga in noi, non rinunciando a valutarlo. Il secondo passo è quello di rivolgersi amorevolmente a quello che noi rifiutiamo. Il terzo passo è il riconoscere il desiderio di infinito che abita in noi: l’impronta che Dio ha sepolto nel nostro cuore per ricordarci di Lui. Lamentarsi è, oggi, all’ordine del giorno; la vita quotidiana offre spunto alle lamentele, ma dentro di noi c’è uno spazio in cui i problemi di tutti i giorni non hanno accesso, uno spazio libero dall’ira e dalla paura, dalle delusioni e dai rimproveri, in cui non dobbiamo combattere contro le nostre debolezze ed i dubbi. Diamo valore a questo spazio per incontrare l’io, “me stesso”.

Incontrare se stesso è quindi uno dei compiti più importanti per chi è in marcia nel cammino interiore. Solo chi affronta in tutta tranquillità la propria inquietudine, chi ne considera le cause e cerca le vie per giungere all’armonia con sé, con gli altri e con Dio, trova la quiete, la speranza e la consolazione a cui anela.

L’esercizio, raffinato e virtuoso, è quello di scoprire la forma autentica che il Signore ci ha attribuito, scoprire il nostro vero volto, la parte di noi stessi che ci piace e quella che non ci piace.

Dobbiamo riconoscere il nostro volto autentico attraverso il volto di Gesù: allora la forza risanatrice si irradia all’ambiente che ci circonda, ed impareremo a conoscere in ogni persona il volto di Gesù.

Risvegliamoci dal sonno, come ci esorta san Paolo nella lettera ai Romani, per guardare dentro di noi, nella nostra anima e comportiamoci verso di noi con misericordia, non intenti a giustificarsi sempre senza vedere i nostri errori, ma ben coscienti di essere fallibili.

Dice padre Anselm Grün: “Se Dio ti perdona, anche tu puoi perdonarti. Abbi misericordia di te. Se qualcuno mi racconta di non riuscire a sentire la presenza di Dio, gli chiedo: Ma tu percepisci te stesso?

Non puoi percepire Lui se non percepisci te stesso. Offri al Signore anche i tuoi lati oscuri ed allora una corrente fluirà tra te ed il Signore. Se offro a Dio ogni parte di me potrò fare esperienza di essere amato incondizionatamente. Sperimento una presenza risanatrice e piena d’amore che mi avvolge... Se riverso l’amore di Dio sulle mie piaghe, invece di rigirarvi continuamente il coltello, esse potranno guarire.”

Non dobbiamo pensare ad esercizi o azioni difficoltose e comunque fuori dall’ordinario. La vita quotidiana, le consuetudini di ogni giorno, ci conducono all’essenziale e, quando queste diventano luogo di incontro con il divino, si trasfigurano. Quando siamo nell’attimo, quando lavoriamo, quando ammiriamo, quando facciamo festa, l’eternità allora irrompe nel tempo. Ognuno di noi ha provato momenti in cui si è interamente nel presente, momenti in cui il tempo si ferma... L’attimo, il tempo sono mistero. Non si vuole avvertire il tempo, perché con il tempo si percepisce anche la finitezza ed attraverso di essa, sbuca la morte, affacciandosi nel momento in cui viviamo. È lei il vero limite, ma solo chi affronta la morte vive il tempo con consapevolezza. Vivere con la morte significa vivere consapevolmente nel presente, avvertire che la vita è un dono.

L’anno liturgico è straordinario per dare forza alla guarigione dell’animo ferito con la “domenica interiore” delle feste. Pensiamo solo alla settimana santa, che ci libera dall’illusione di poter vivere senza malattia, ma ci mostra anche la via per considerarla in modo diverso, ci rende coscienti del nostro limite, ci rivela che abbiamo bisogno degli altri, ci fa ritornare un po’ bambini, riscoprendo la bellezza di essere amati.

In noi, dice la dottrina mistica, esiste già un luogo in cui regna il silenzio perfetto, in cui Dio è già in noi. Eppure siamo separati da questo. luogo dalle mura di tutte le sovrastrutture del mondo. Solo la preghiera è in grado di perforare questo strato di cemento per giungere allo spazio interiore, là dove Dio dimora in noi.

In modo apparentemente paradossale, san Francesco di Sales diceva: “Riservati ogni giorno mezz’ora per la preghiera, eccetto quando hai molto da fare. Allora risérvati un’ora”. In questo modo, riconciliati con noi stessi, ci mettiamo nella condizione di riconciliarci con gli altri e perdonare chi ci ha offeso. Non pensiamo che questo sia scontato.

Molti cristiani infatti., sentono come un peso il dover perdonare e per loro il perdono assume un retrogusto di rassegnazione: sono cristiano e devo perdonare, non posso infuriarmi, non posso tenere rancore. Non è questa però l’idea del perdono, che è sempre espressione di forza e non di debolezza. Posso perdonare quando mi distacco interiormente dall’altro e mando via quello che mi ha fatto, perché non sia più di peso sul mio cuore, affinché possa cercare di capirlo. Allora il perdono non è più solo un obbedire al comandamento di Gesù, ma diventa un atto di liberazione. Il perdono mi libera, mi apre la strada alla forza interiore, alla chiarezza ed alla libertà.

Molte volte, sicuramente, si sono rivolte ai sacerdoti persone precedentemente mute, che iniziano a parlare se vengono toccate da una parola, spalancando poi il loro cuore. Altre, forse, dilaniate dai sensi di colpa hanno sperimentato il perdono. Sono questi i miracoli che si verificano, perché il Signore torna sempre a servirsi di ciascuno di noi e dei sacerdoti in particolare.

La nostra consolazione è Dio. Qualunque uomo “ragionevole” scopre lo struggimento che si nasconde dietro i nostri desideri ed i nostri malanni fisici, dietro le speranze e la voglia di infinito, dietro il compimento di tutto ciò che siamo e viviamo. Facciamo l’esperienza del nostro valore ultimo solo in Dio. In ogni amore, anche il più piccolo, anche nell’amore sessuale, si nasconde la sete di Amore Assoluto, la sete di Dio (come espresso da Benedetto XVI nella sua prima Enciclica “Deus Caritas est”). Abbiamo bisogno di affettività, di amore, di amicizia, di dialogo, di ascolto e di conforto. Abbiamo bisogno di solidarietà e dobbiamo donare solidarietà. Non sia però la solidarietà come un “attaccapanni”, una parola ove ognuno attacca la propria immagine, ma uno stile, una scelta, un modo di vita. Non sia poi solo la virtù di qualcuno, ma di tutti.

C’è, infatti, un livello che appartiene a tutti: non siamo nati solo per noi stessi, ma dobbiamo farci moltiplicatori di solidarietà che ciascuno metterà in atto a seconda della propria sensibilità personale.

Padre Bruno Maggioni, commentando la parabola del fariseo e del pubblicano, conclude dicendo: “L’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio - nella preghiera ed ancora prima nella vita - è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Le opere buone le dobbiamo fare, ma non è il caso di vantarsene, come non è il caso di fare confronti con gli altri”.

Alberto Cravero

(da L’Ancora, 1/2, 2008)

 

Letto 4783 volte Ultima modifica il Mercoledì, 26 Febbraio 2014 18:24
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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