Tra le tante voci che risuonano nel cuore della vita quella di Cristo rimane quasi sempre la meno ascoltata, la più respinta, la pietra scartata dai costruttori. Eppure su di essa e per mezzo di essa viene promossa e attuata la Redenzione.
A noi cristiani che ci consideriamo i costruttori del nuovo tempio, il testo di Gv 10, 11-18 pone una ben precisa domanda: ascoltiamo la voce del Buon Pastore, ci riconosciamo in essa?
Il Buon Pastore chiama per nome le sue pecorelle, e queste rispondono alla sua voce. Ciascuna risponde al nome che il Buon Pastore le ha dato, nessuna risponde per un’altra, e a nessuna è stato dato l’incarico di nominare le altre.
Questo fatto rivela il profondo tessuto della nuova umanità redenta: il Buon Pastore, quale madre per i propri figli, ha dato la vita alle e per le sue pecorelle, le ha concepite nell’Eternità, le ha nominate col loro nome essenziale, le ha fatte nascere nel tempo, e Lui solo le può nominare con il loro vero nome, che non è quello delle anagrafi. Le pecorelle, sentendosi chiamare con il loro nome, lo seguono, perché in esso scoprono il proprio mistero personale, il loro insostituibile compito nella vita. Il nome gridato dal Buon Pastore risveglia l’io immortale di ciascuna, ne accende l’essenza e le apre la via, senza violentarla, verso l’ovile ove ciascuna sarà se stessa e, insieme alle altre, danzerà la gioia della ritrovata unità in Dio.
Il tessuto esteriore della nuova umanità che nasce da Cristo non può che essere una trama ordita da un rispetto amoroso per i singoli fili, ognuno dei quali viene percepito, nell’esperienza profonda, come voluto e creato dal Buon Pastore.
Osservando invece l’ordito storico della cristianità, vediamo che alla voce del Buon Pastore e ai nomi da lui gridati si sono sostituite altre voci, altri nomi e in conseguenza la stoffa si è dilacerata. Perché le interpretazioni umane della voce di Cristo, le ideologie che attorno vi sono state costruite, le forme che affermano di trasmetterne il contenuto, sono l’opera di altre voci che spesso rendono incomprensibile la voce del Buon Pastore che chiama.
Guardando bene gli orditi della veste inconsutile di Cristo, vediamo che essi non sono intessuti da fili formati dalla mano del Buon Pastore. Tutti o quasi si dicono pecorelle fedeli e seguaci di Lui, protestano di non voler riconoscere altro pastore che Lui, ma in quanti sentono e ascoltano la sua Voce? Quale voce sentiamo e ascoltiamo realmente nel nostro cuore, noi cristiani tutti, dal primo all’ultimo? È la domanda che ci interroga nel brano riportato dal vangelo di Giovanni attraverso la metafora del Buon Pastore.
Tra il piacere e il dovere, tra la facile soddisfazione e il sacrificio per il rispetto dell’altro, tra la sete di potere che reclama tutto per sé, anche il possesso esclusivo di Dio e del suo Cristo, e l’amore umile e rispettoso che tutto dona e nulla vuole, quale preferiamo, amiamo e seguiamo? Quante volte preferiamo per ambizione, per debolezza, per cedimento al modo di pensare del gran numero, le voci umane a quella del Buon Pastore?
Eppure sentiamo, nei momenti più gravi della vita, l’inanità delle altre voci, nessuna esclusa. Sentiamo per un infallibile senso del divino, che ogni luce, veramente grande e feconda, di vita si è accesa solamente là dove la voce del Buon Pastore è stata accolta e seguita, che nessuna grandezza è comparabile a quella che la voce del Buon Pastore indica e costruisce.
Solamente chi pienamente e veramente vive può udire la voce del Buon Pastore; mentre la nostra vita, ordinariamente, è mutilata di ciò che le è assolutamente necessario: è un’energia che si disperde non avendo in sé la sorgente che la nutre e la rinnova. In noi c’è una profonda disarmonia, per cui le varie forze si elidono e paralizzano a vicenda. In alcuni vivono i sensi e lo spirito dorme; in altri lavora e domina l’intelletto e svolge la sua tela sull’astratto, non vibra sull’intensità piena e concreta del pensiero che si accende in sentimento e diviene volontà, attiva ed efficace; altri operano indefessamente, ma non sono illuminati dal pensiero, non sorretti dalla volontà nutrita di conoscenze profonde, e l’azione è più distruzione che costruzione e rinnovamento.
Accettiamo una formula, una definizione, una direttiva e in essi chiudiamo l’immenso universo di Dio, che da nessuna mente è concepibile, da nessuna formula esprimibile nella sua vastità. Poi neghiamo ogni formula o comportamento che non siano precisamente i nostri, o quelli che per imposizione accettiamo; respingiamo i nomi delle altre pecorelle perché non conformi a quelli che attribuiamo al Buon Pastore.
Siamo simili a chi dissolva il raggio solare nelle sue varie vibrazioni e affermi che il sole intero è contenuto in una sola di esse, a chi analizzi e disciolga un organismo nelle sue componenti e pretenda di trovare l’intero organismo vivente in una di esse.
Cristo è l’unità, la vita nella sua infinita e ricca complessità, l’Espressione, la Parola, la Voce di Dio Uno. La sua voce è voce dell’unità: come intenderla, raccoglierla, realizzarla se rimaniamo nella nostra falsità di separazione e di morte?
Facciamo in noi l’unità, dentro non fuori; viviamo con umile amore l’unità reale con tutti i nomi delle altre pecorelle. Cristo ha le sue pecorelle in tutti i monti, sotto tutte le bandiere, dentro tutte le più divergenti ideologie. Le ideologie, i sistemi sono frutti della mente umana, il nome delle singole pecorelle viene dal pensiero, dall’amore, dalla volontà di Dio, ed esso, anche quando è differente dal nostro personale, viene sempre da Dio e non possiamo alterarlo senza uscire dall’unico ovile. Allora sentiremo la sua Voce di amore e di sacrificio che tutto e tutti chiama all’unico ovile del Padre, e vivremo!
Giovanni Vannucci
(in Verso la luce, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte, ed. CENS, Milano 1984, pp. 78-81)