Il peggior servizio che si possa rendere a una persona, interiormente divisa in una dozzina di compartimenti, è quello di delimitarle un ulteriore scomparto, indicandoglielo come il più importante e invitandola a impegnarsi per custodirlo accuratamente separato da tutti gli altri. È quanto rischia di accadere quando la contemplazione è inculcata in modo poco sapiente, senza mettere in guardia dal disorientamento e dalla distrazione dell’uomo occidentale. Le tradizioni orientali hanno il vantaggio di disporre la persona alla contemplazione in modo più naturale. La prima cosa che devi fare, prima di cominciare a pensare a una realtà come la contemplazione, è cercare di scoprire la tua fondamentale unità naturale, di reintegrare il tuo essere diviso in scomparti in un tutto coordinato e semplice, e di imparare a vivere come una persona unificata. Ciò significa che devi ricomporre i frammenti della tua esistenza distratta in modo tale che quando dici "io" ci sia veramente una persona reale a sostenere il pronome che hai pronunciato. Rifletti, qualche volta, sul fatto inquietante che la maggior parte delle tue esternazioni di opinioni, gusti, azioni, desideri, speranze e timori sono affermazioni su qualcuno che in realtà non è presente. Quando dici "io penso", spesso non sei tu che pensi, bensì "loro", è l’autorità anonima della collettività che parla attraverso la tua maschera. Quando dici "voglio", a volte non stai facendo altro che un gesto automatico di accettazione, pagando per giunta per ciò che ti viene imposto. Vale a dire, tu cerchi di ottenere quello che sei stato indotto a volere. Chi è questo "io" che tu immagini di essere? Una branca facile e pragmatica del pensiero psicologico ti dirà che se tu sei in grado di agganciare il tuo pronome al tuo nome proprio, e di dichiarare che sei tu il detentore di questo nome, tu sai chi sei. Tu sei "consapevole di te stesso come persona". Forse in questo c’è un inizio di verità. Ma è per l’appunto soltanto un inizio. Poiché quando una persona mostra di conoscere il proprio nome, non è ancora detto che sia consapevole del fatto che il nome rappresenta una persona vera. Al contrario, può essere il nome di un personaggio fittizio molto impegnato nell’impersonare se stesso nel mondo degli affari, della politica, della ricerca scientifica o della religione. Ma questo non è l’"io" che può stare alla presenza di Dio ed essere consapevole di lui come di un "tu". Forse per questo "io" non esiste nessun "tu" chiaramente definito. Forse persino le altre persone sono semplici estensioni dell’"io", riflessi di questo "io", sue modificazioni, suoi aspetti. Forse per questo "io" non esiste una distinzione netta fra se stesso e altri oggetti: può trovarsi immerso nel mondo degli oggetti e aver perso la propria soggettività, anche se dice "io" con apparente consapevolezza e persino con determinazione aggressiva. Se un "io" siffatto un giorno sentirà parlare di contemplazione forse deciderà di diventare un contemplativo. Vale a dire, desidererà ammirare in sé quella cosa che è detta contemplazione. E per vederla, rifletterà sul suo io alienato. Farà a se stesso facce contemplative come un bambino di fronte allo specchio. Coltiverà il look contemplativo che gli sembrerà appropriato e che gli piacerà vedere in se stesso. E il fatto che il suo narcisismo indaffarato si sia orientato verso l’interno e si nutra di sé nella quiete e nell’amore segreto, gli farà credere che la sua esperienza di se stesso sia esperienza di Dio. Ma l’"io" esteriore, l’"io" di progetti, di finalità temporali, l’"io" che manipola oggetti per impossessarsene, è estraneo all’"io" interiore, nascosto, che non ha progetti e non cerca di realizzare nulla, nemmeno la contemplazione. L’"io interiore" cerca soltanto di essere e – dinamico com’è – di muoversi secondo le leggi segrete di questo suo essere e gli impulsi di una libertà superiore (vale a dire di Dio), piuttosto che di progettare e realizzare ciò che ha pianificato secondo i propri desideri. Sarebbe davvero strano se l’io esteriore mettesse le mani su qualcosa che è dentro di lui, e scaltramente la manipolasse come per volersi impossessare di qualche interiore segreto contemplativo, immaginando che tale manipolazione possa in qualche modo condurre all’insorgere dell’io interiore. L’io interiore è proprio quell’io che non può essere ingannato o manipolato da chicchessia, nemmeno dal diavolo. È come un animale selvatico molto timido, che non si fa mai vedere quando avverte la presenza di altri ed esce fuori soltanto quando tutto è perfettamente in pace, in silenzio, quando egli è imperturbato e solo. Non può essere allettato da nessuno e da nessuna cosa, perché non reagisce ad alcun allettamento che non sia quello della libertà divina. È triste il caso di quell’io esteriore che s’immagina d’essere contemplativo e cerca di conseguire la contemplazione come frutto di uno sforzo ben programmato e dell’ambizione spirituale. Assumerà diversi atteggiamenti, mediterà sul significato interiore delle sue pose e cercherà di fabbricare per se stesso un’identità contemplativa; e tutto questo perché lì non c’è nessuno. C’è soltanto un "io" illusorio, fittizio, che cerca se stesso dal nulla, che è conservato dalla sua stessa compulsione, e che è prigioniero della sua illusione privata. La chiamata alla contemplazione non è e non può essere rivolta a un "io" siffatto.
(Testo tratto da Thomas Merton, La contemplazione cristiana, Qiqajon)