Di fronte all'al di là, come di fronte alla morte, l'uomo si trova solo a ragionare con se stesso. Testimonianze di questa paurosa solitudine sono i due monologhi dell'Amleto scespiriano e dell'Innominato manzoniano. «Essere, o non essere: questo è il problema; s'egli sia più nobile soffrire nell'animo le frombole e i dardi dell'oltraggiosa Fortuna, o prendere armi contro un mare di guai, e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire... nient'altro; e con un sonno dire che noi poniam fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne; è un epilogo da desiderare devotamente, morire e dormire! Dormire, forse sognare, sì, lì è l'intoppo; perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo imbroglio terreno, deve farci
riflettere; questa è la considerazione che dà alla sventura una sì lunga vita; perché chi sopporterebbe le sferzate e gl'insulti del mondo, l'ingiustizia dell'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gli spasimi dell'amore disprezzato, l'indugio delle leggi, l'insolenza di chi è investito d'una carica, e gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portare fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita,
se non che il timore di qualche cosa dopo la morte (...) confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo?» (Atto III, 1).
L'Innominato...
«Si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza; ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine... quando gli balenò in mente un altro pensiero.
«Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se t'osse cosa sicura; se quella vita non c'è; se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos' importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra vita...! A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppure con la morte» (I promessi sposi, Cap. 21). Il terrore dell'al di là è una viltà che ci fa saggi: ci fa sospendere certe risoluzioni avventate richiamandoci all'immortalità del nostro spirito contro il quale nulla possono i mali della vita e la stessa morte. Ci dice che la nostra paura della morte è di origine morale, in quanto sappiamo che "non dovremmo" morire, perché questo era il nostro destino originario. Che con la morte non finisce tutto, ma comincia il Tutto: la pienezza dell'essere, senza ombra di imperfezioni.
La pienezza dell'essere
Si deve però passare attraverso il Giudizio... «Il giudizio dopo la morte», scrive Fulton Sheen, «è un qualcosa come essere fermati dalla polizia stradale (...). Dio ci domanda soltanto: "Hai guidato bene? Hai osservato le norme?". Alla morte lasciamo dietro a noi i nostri veicoli, cioè le nostre emozioni, pregiudizi, sentimenti, la nostra condizione di vita, i nostri vantaggi, le accidentalità del talento, della bellezza, dell' intelligenza e della posizione. Perciò non avrà importanza presso Dio se siamo stati disgraziati, ignoranti o detestati dal mondo. Il nostro giudizio sarà basato non sulle nostre disposizioni psicologiche o sulla posizione sociale; ma sul modo in cui a-vremo vissuto, sulle scelte che avremo fatto e se avremo obbedito alla legge» (Vi presento la religione, 109).
Ci spaventa l'idea della condanna. Non pensiamo, invece, che al Giudice appartiene anche assolvere, sancire il premio. Lassù c'è una "Giuria" che darà solenne riconoscimento alle sofferenze sostenute e ai relativi meriti acquisiti nel tempo e che troppo spesso gli uomini non hanno saputo scoprire o voluto riconoscere.
L'Amore che oggi ci salva, si trasformerà in Giustizia che premia, così l’al di là da fonte di terrore diventa motivo di sollievo.
Antonino Rosso
(tratto da Missione Salute, n. 2, 2010, p. 79)