Vita nello Spirito

Domenica, 31 Gennaio 2016 10:06

Cum-memorare. Riaprire il senso nella polvere (Alessandro Vetuli)

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Insegnare, nell’indistinta massa semiotica del presente, a cercare una parola inobliata (venuta dal passato) che doni dignità e sottragga noi uomini alla morsa dell’abbandono. Trovare infine, non per tenere ma per comunicare.

Nella cenere, nell’inesauribile polvere che tutto trascina, l’uomo si trovò dilacerato nella suprema aporia della storia chiamata Shoah. Limite invalicabile, annichilito esso stesso nei fili spinati, d’impossibilità di linguaggio o ulteriore barlume di senso; la parola ormai dissolta, come fertilizzante nel terreno, non era altro che Sabbia delle urne (P. Celan, Der Sand aus den Urnen, 1948) secondo la sentenza di Th. W. Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile.», «Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.» (Dialettica negativa, 1966).

Il popolo ebraico per la prima volta, vide inverarsi il tremendum del libro di Giobbe e un libro sul male, venne consegnato al Novecento come unica testimonianza del nostro essere umani: ««Il libro di Giobbe, secondo me, […] è un libro enorme, è il libro dell’uomo. Se l’umanità avesse scritto solo quel libro, l’umanità avrebbe testimoniato sé stessa essenzialmente. Tutta la nostra letteratura potrebbe anche essere ignorata o potrebbe andare perduta, ma quel libro è il libro dell’uomo.» (M. Luzi, Bibbia e poesia nel ‘900). Così l’inenarrabile fu racchiuso in un tripudio di macerie, croci e telegrafi, anche da Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti e David Maria Turoldo: «Giobbe, sei la nostra ragione appesa al Legno» (Assiso tra canto e canto); mentre la filosofia, ‘riscattata’ in seguito dal genio di Hannah Arendt, consegnava ai campi di concentramento l’ardore di Etty Hillesum e la fiamma mistica di Edith Stein.

Eppure, entro quest’enciclopedia di silenzi, chiusa dalla mano che volle tentare di cancellare un’intera etnia, la poesia decise di riaprire i petali della nominazione: «Noi un Nulla / fummo, siamo, reste- / remo, fiorendo: / la rosa del Nulla, la rosa di Nessuno. [die Nichts -, die / Niemandrose]» (P. Celan, Psalm); nella grande flora di tenebre che fu il Novecento, questa «rosa», metafora assoluta della memoria, il nostro secolo riceve ed affida a coloro che debbono coltivare la propria. Dalla «Candida rosa» di Dante, alla «rosa senza perché» di Silesius, fino allo schiudersi delle rose di Rilke e di Luzi, in questo compattarsi di emblemi, emerge il compito di una generazione chiamata a cum-memorare (‘ricordare insieme’) rivivificando l’umanità.

Tale vocazione hanno le humanae litterae e gli educatori, di qualsiasi tipo essi siano; insegnare, nell’indistinta massa semiotica del presente, a cercare una parola inobliata (venuta dal passato) che doni dignità e sottragga noi uomini alla morsa dell’abbandono. Trovare infine, non per tenere ma per comunicare (nella communio e alla communitas). Poter dire ancora una volta, nel vasto coro umano, un verso o un nome: «Si chiamava / […]», e proprio per questo «forse io solo / so ancora / che visse.» (G. Ungaretti, In memoria).

Alessandro Vetuli

 

 

Letto 1701 volte Ultima modifica il Lunedì, 01 Febbraio 2016 11:36
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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