Nella cenere, nell’inesauribile polvere che tutto trascina, l’uomo si trovò dilacerato nella suprema aporia della storia chiamata Shoah. Limite invalicabile, annichilito esso stesso nei fili spinati, d’impossibilità di linguaggio o ulteriore barlume di senso; la parola ormai dissolta, come fertilizzante nel terreno, non era altro che Sabbia delle urne (P. Celan, Der Sand aus den Urnen, 1948) secondo la sentenza di Th. W. Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile.», «Auschwitz conferma la norma filosofica della pura identità come morte.» (Dialettica negativa, 1966).
Il popolo ebraico per la prima volta, vide inverarsi il tremendum del libro di Giobbe e un libro sul male, venne consegnato al Novecento come unica testimonianza del nostro essere umani: ««Il libro di Giobbe, secondo me, […] è un libro enorme, è il libro dell’uomo. Se l’umanità avesse scritto solo quel libro, l’umanità avrebbe testimoniato sé stessa essenzialmente. Tutta la nostra letteratura potrebbe anche essere ignorata o potrebbe andare perduta, ma quel libro è il libro dell’uomo.» (M. Luzi, Bibbia e poesia nel ‘900). Così l’inenarrabile fu racchiuso in un tripudio di macerie, croci e telegrafi, anche da Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti e David Maria Turoldo: «Giobbe, sei la nostra ragione appesa al Legno» (Assiso tra canto e canto); mentre la filosofia, ‘riscattata’ in seguito dal genio di Hannah Arendt, consegnava ai campi di concentramento l’ardore di Etty Hillesum e la fiamma mistica di Edith Stein.
Eppure, entro quest’enciclopedia di silenzi, chiusa dalla mano che volle tentare di cancellare un’intera etnia, la poesia decise di riaprire i petali della nominazione: «Noi un Nulla / fummo, siamo, reste- / remo, fiorendo: / la rosa del Nulla, la rosa di Nessuno. [die Nichts -, die / Niemandrose]» (P. Celan, Psalm); nella grande flora di tenebre che fu il Novecento, questa «rosa», metafora assoluta della memoria, il nostro secolo riceve ed affida a coloro che debbono coltivare la propria. Dalla «Candida rosa» di Dante, alla «rosa senza perché» di Silesius, fino allo schiudersi delle rose di Rilke e di Luzi, in questo compattarsi di emblemi, emerge il compito di una generazione chiamata a cum-memorare (‘ricordare insieme’) rivivificando l’umanità.
Tale vocazione hanno le humanae litterae e gli educatori, di qualsiasi tipo essi siano; insegnare, nell’indistinta massa semiotica del presente, a cercare una parola inobliata (venuta dal passato) che doni dignità e sottragga noi uomini alla morsa dell’abbandono. Trovare infine, non per tenere ma per comunicare (nella communio e alla communitas). Poter dire ancora una volta, nel vasto coro umano, un verso o un nome: «Si chiamava / […]», e proprio per questo «forse io solo / so ancora / che visse.» (G. Ungaretti, In memoria).
Alessandro Vetuli