I salmi dei malati
di Luciano Manicardi
All'interno del Salterio vi sono alcuni Salmi pronunciati da uomini malati. Vi possiamo annoverare almeno i Salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri Salmi (p. es., Sal 107, 17-22) e, ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per "dirci nella malattia", per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dar forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza.
Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di "linguaggi della sofferenza", estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell'afasia, nell'incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l'uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in Sal 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso Salmo 88), è protesta che chiede conto a Dio («Perché?»: Sal 22,2; «Fino a quando?»: Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (Sal 5,2), è pianto (Sal 6,7-9). Coinvolgendo tutte le fibre dell'uomo, il pianto è un linguaggio particolarmente efficace e veridico. Dice un testo rabbinico: «La preghiera è fatta in silenzio, il grido ad alta voce, ma lacrime sorpassano tutto».
Chi prega, infatti, nei Salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo stesso. L'esperienza di malattia costringe l'uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l'orante dei Salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all'orizzontalità che anticipa la morte. Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l'orante che si sente privato dell'integrità della vita.
L'orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell'angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell'aridità di chi soffre la sete. Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l'uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell'energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno. La carne in cui non c e più nulla di sano, i fianchi che ardono infiammati, il ventre torturato dalla pena, le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l'orante cerca di ritrovare davanti a Dio l'unità vitale infranta dalla malattia.
Pregare i Salmi manifesta dunque un aspetto liberante che «consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I Salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter 'parlare' ciò di cui abbiamo preso l'abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale» (Matthieu Collin). E i Salmi ci ricordano che è l'orante è un corpo orante: «Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all'anima, ma al contrario, perché l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di "mormorio", "sussurro". Il corpo è il luogo dell'anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: "Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?" (Sal 35,10)» (Paul Beauchamp).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l'orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: in Sal 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto il tempo di Dio, colui «i cui anni non hanno fine» e a cui egli si rivolge chiedendo che «presto» intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere... Le notti insonni, l'alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l'angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il Salmista nella sua malattia.
Nei Salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l'orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell'esistenza di un uomo. Là dove c'è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi Salmi l'orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cfr. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di "morte nella vita". La supplica, dunque, linguaggio dell'uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita («Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore»: Sal 115,17-18).
Ma forse, l'elemento che più colpisce all'interno dei Salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso.
Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l'orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei Salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all'interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose.
Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l'uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimessa nella mani del Signore della vita e recuperata al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All'orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i Salmi, «perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie» (Sal 103,3).
(da l'Ancora, 11, 2003)