In ricordo di P. Franco

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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:45

LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

LIBIA / RETROSCENA DELLA LIBERAZIONE DELLE INFERMIERE BULGARE
LE ARMI DELLA DIPLOMAZIA

di Alessandro Farina
Nigrizia/Settembre 2007

E’ ufficiale: Gheddafi è diventato buono. È diventato così buono agli occhi occidentali che, per prodigio, si sono rotte le dighe che arginavano il riarmo di Tripoli. Lo ha candidamente ammesso il ministro della difesa francese Hervé Morin: «Non esiste più l’embargo internazionale sulla vendita di armi alla Libia. Se non gliele vendiamo noi, saranno altri a farlo: italiani, russi, inglesi».

Una precisazione giunta il 3 agosto, dopo lo scoppio sulla stampa dello scandalo sull’ipotetico legame tra la liberazione delle 5 infermiere bulgare e del medico palestinese (avvenuta a Tripoli il 24 luglio) e la fornitura francese di armi a Tripoli. A lanciare il sasso era stato il figlio di Gheddafi, Saif Al-Islam, che in un’intervista a Le Monde ammise che a convincere i libici a liberare infermiere e medico — detenuti da 8 anni a Tripoli con l’accusa di aver infettato 438 bambini con il virus dell’aids — era stato un accordo militare con la Francia. Paese che si era speso molto (vedi la doppia visita a Tripoli di Cécilia Sarkozy e la passerella del marito con Gheddafi a liberazione avvenuta) per una soluzione positiva della vicenda. I giorni successivi all’intervista sono stati affollati di smentite. Il potente Claude Guéant, braccio destro del presidente francese, ha lanciato la proposta di convocare una commissione d’inchiesta parlamentare per dipanare le nuvole sull’eventuale scambio “armi-infermiere”. Lo stesso Nicolas Sarkozy, giorni dopo, ha negato l’esistenza di un memorandum — firmato con la Libia a fine luglio, secondo Le Parisien — per la vendita di un potente reattore nucleare a Tripoli, da usare per la desalinizzazione dell’acqua del mare.

Tra precisazioni e polemiche, le uniche cose certe sono che l’Mbda, società missilistica europea controllata dal gruppo franco-tedesco Eads (ma il 25% delle azioni sono anche dell’italiana Finmeccanica), ha in essere un contratto per la vendita a Tripoli di missili anticarro Milan. Contratto da 168 milioni di euro. Non solo. Esiste un secondo contratto, in fase di avanzata negoziazione, per la fornitura da parte dell’Eads alla Libia di un sistema Tetra di comunicazioni radio. Valore: 128 milioni di euro. Insomma, il gruppo franco-tedesco, con contratti per 296 milioni di euro, si è messo in prima fila nella corsa al ricco mercato della difesa libico, diventato un eldorado dalla fine dell’embargo, nel 2004. Mercato definito dalla stessa Defence Exports Services Organization (struttura inglese che si occupa, presso il ministero della difesa, della promozione e della vendita di armi costruite in Gran Bretagna) «il più promettente tra i mercati militari emergenti». Tanto che Londra si è offerta di addestrare l’esercito di Gheddafi. E anche l’Italia, in passato fornitore privilegiato della Libia, cerca di non perdere colpi. Il 3 agosto, ad esempio, Alenia Aermacchi ha annunciato un contratto di 3 milioni di euro per rimettere in condizioni di volo 12 addestratori ad elica libici SF-260.

La fine di un tabù. E un rientro da protagonista nello scacchiere internazionale per l’uomo forte di Tripoli, isolato per anni dalla comunità internazionale. La bomba diplomatica, disinnescata da Gheddafi con la liberazione delle infermiere, ha portato, poi, altri frutti. Raccolti dall’albero europeo. Bruxelles, infatti, ha pagato 500 milioni di euro a Tripoli come risarcimento danni per la morte dei bambini. Il Colonnello ha ottenuto poi la garanzia di disposizioni di favore per l’esportazione in Europa di prodotti libici e l’impegno a finanziare una serie di progetti nei settori delle infrastrutture stradali. Dalla Bulgaria, infine, è arrivato il condono del debito, pari a 57 milioni di dollari.

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PER GIORGIO LA COERENZA È TUTTO, MA VUOLE DIVENTARE CONSULENTE

Di Ettore Sutti
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007

Giorgio ha quasi 50 anni e la faccia di uno che sa esattamente quello che vuole. Lui è fatto così. E non lo manda a dire. «Mai lavorato in vita mia — spiega -, non ho nemmeno una marchetta da lavoratore dipendente. Perché la coerenza è tutto. Il mio lavoro era la rapina: dentro e fuori le carceri, sperando sempre di fare il colpo che ti sistema. Però, alla fine, è la vita che ti sistema. E ti concia anche per le feste. Ora sono qui, alla mia età, che cerco di costruirmi un futuro».

La bocca di Giorgio si increspa in qualcosa che assomiglia vagamente a un sorriso. L’aria da duro gli è rimasta, anche perché dopo quattro anni passati in carcere a Milano — tre gli sono stati condonati grazie all’indulto — diventa difficile lasciarsi andare completamente. Il sorriso è quello di una persona che ci sta provando davvero, a rifarsi una vita normale, lasciandosi alle spalle l’ingombrante passato. «Una volta uscito — racconta — il vero problema era trovare un posto dove dormire. Dopo quattro anni passati dentro e senza una famiglia è difficile trovare qualcuno che ancora si ricorda di te». Dopo alcuni giorni presso amici, Giorgio si è rivolto a Spin (Sportello di orientamento e counselling, attivato dall’Ufficio di esecuzione penale esterno, in collaborazione con diverse associazioni del territorio), che lo ha indirizzato al progetto di accoglienza abitativa temporanea e di accompagnamento socio-educativo “Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi”, che vede protagonista anche Caritas Ambrosiana.

«In tempi normali - spiegano gli operatori di un “Un tetto per tutti” - impostiamo un approfondito screening delle persone indirizzateci, per capire se possiedono le caratteristiche per prendere parte a un progetto che, oltre alla condivisione degli spazi in alcuni appartamenti, prevede la presenza costante di un tutor a cui appoggiarsi, ma anche a cui rendere conto. In seguito all’emergenza post-indulto, abbiamo dovuto accelerare i tempi». Perché l’indulto ha sì svuotato le carceri, ma ha rischiato di lasciare sulla strada, abbandonate a se stesse, migliaia di persone. A Milano, per fortuna, la mobilitazione comune di enti locali e privato sociale ha consentito di potenziare o partorire progetti di accoglienza, che hanno funzionato da rete protettiva per molti “indultati”.

Una ripulita, una bella cravatta

Quanto a Giorgio, quando ha avuto accesso al progetto, non solo aveva già attivato tutti i canali di assistenza esistenti a Milano, ma addirittura era riuscito a trovarsi un lavoro tagliato su misura per lui. «Mi è sempre piaciuto stare in mezzo alla gente - racconta - e non ho difficoltà a farmi nuove amicizie. Quando ho scoperto che cercavano venditori per servizi alla persona, lavoro che prevede il contatto umano, mi sono presentato subito. Una ripulita, una bella cravatta, tanta faccia tosta e il lavoro era mio. Nessuna sicurezza, provvigioni basse ma, almeno, avevo la possibilità di dimostrare che qualcosa valgo ancora».

Dopo qualche tempo però, Giorgio, d’accordo con il tutor di “Un tetto per tutti” e quello del Celav, centro per l’inserimento lavorativo del comune di Milano, ha deciso di lasciare l’incarico per lavorare su stesso. «Sono tornato a scuola — conclude Giorgio — per poter diventare davvero autonomo. Sto sgobbando parecchio per diventare un vero consulente. Ho fatto richiesta per una casa popolare, se non succederanno terremoti in graduatoria il prossimo anno potrei avere un “buco” tutto mio. E pensare che fino allo scorso settembre ero ancora chiuso in un cella...».

Muri Contro” foto dentro

“Muri Contro” è il titolo della mostra organizzata ad aprile dalla Sesta Opera San Fedele e dalla Fondazione culturale San Fedele di Milano. Nata attorno al corso di fotografia tenutosi a settembre-ottobre 2006 nel carcere milanese di San Vittore da Gigliola Foschi, storico e critico della fotografia, e da Andrea Dall’Asta, la mostra ha permesso a un piccolo gruppo di detenuti di riflettere su come i diversi conflitti che li abitano possano prendere corpo nella forma di un muro.

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Reportage dal paese centroamericano
BANCHE E TRAFFICI NEL PAESE DEL CANALE

di Claudia CaramantiMC Luglio Agosto 2007

Abbondanza di farfalle, alberi e fiori: questo il significato di Panamá, nome indigeno del piccolo paese situato in posizione strategica tra il nord e il sud America. Un luogo speciale, dove è avvenuto l’incontro non soltanto di culture indigene ma anche di specie animali e vegetali.

La popolazione di Panamá comprende, oltre alla maggioranza di mestizos, un 10% di origine cinese, una comunità nera che vive sulla costa caraibica e alcune tribù indie.

La capitale, che è stata la prima città fondata da europei sull’oceano Pacifico, si presenta come una moderna metropoli con un grosso nucleo di alti edifici in cemento, parchi, monumenti e chiese. Famoso centro finanziario internazionale, accoglie circa 400 banche, dove pare venga riciclato il denaro proveniente dal traffico della droga. I colombiani sono coinvolti in numerose attività, dagli alberghi ai casinò, ma soprattutto nell’impresa edile, in forte espansione in città e anche sulle coste del pacifico, dove sorgono centri turistici per i nordamericani in vacanza.

Tutti i complessi di lusso sono protetti da muri e guardie armate, ma il filo spinato e le inferriate alle finestre le notiamo anche sulle modeste case dei quartieri poveri. Questa è una costante nei paesi dell’America Latina, che dimostra quanto gravi siano i problemi della violenza metropolitana.

Dell’antica città fondata dagli spagnoli nel 1519 (come avamposto per i traffici con le ricche colonie del Pacifico) rimane un complesso di ruderi circondato dalla foresta e dal mare, che durante la marea si ritira lasciando un vasto spazio fangoso. I vascelli carichi dell’oro peruviano si fermavano al largo e il prezioso carico veniva immagazzinato sull’isola di Perico, una delle 4 che chiudono il golfo e che ora sono unite da una strada costruita con il materiale estratto dal canale. La città, ricca di palazzi e conventi ma non protetta da mura,  venne rasa al suolo dal pirata Morgan nel secolo successivo. Gli spagnoli ricostruirono la città dall’altra parte della baia, in posizione più difendibile e oggi è un gioiello di architettura coloniale, in via di restauro. In uno dei palazzi più belli, costruito dai francesi a fine ‘800, visiteremo il museo del Canale di Panamá, dedicato alla sua tormentata storia, dai primi progetti fatti dai francesi, fino alla sua realizzazione da parte degli statunitensi, avvenuta tra il 1903 e il 1914, anno dell’apertura.

Il canale delle Americhe: una risorsa contesa

Ci imbarchiamo sul battello che da Gamboa percorre il canale e attraversa le chiuse che permettono alle navi di scendere dal lago Gatun, un invaso artificiale riempito dalle acque del rio Chagres, al livello del Pacifico. Navighiamo seguiti da un grosso bastimento, in un contesto naturale di fitte foreste. I lavori di mantenimento e allargamento del canale continuano senza sosta per rendere più agevole il passaggio delle navi, che a volte devono attendere giorni per passare. ll nuovo progetto di allargamento del canale, del costo di 5,25 miliardi di dollari, sarà anche finanziato dai cinesi, interessati all’espansione del loro commercio. Una terza corsia sarà costruita con chiuse più grandi, in grado di contenere i giganteschi cargo da 12.000 containers, che superano le misure Panamax (con questa sigla si indicano le navi le cui dimensioni permettono il passaggio attraverso le chiuse del canale di Panamá, ndr).

Prima di uscire in mare aperto passiamo sotto il ponte delle due Americhe, percorso dalla Panamericana (la strada che parte dall’Alaska e corre per migliaia di chilometri fino a raggiungere i fiordi cileni) presso il quale i cinesi hanno costruito un monumento in memoria dei connazionali morti durante i lavori di costruzione del canale. La metà dei 45.000 lavoratori, reclutati in tutto il mondo, anche tra i neri delle colonie caraibiche, morirono per incidenti e malattie, febbre gialla e malaria.

Gli emberá del Darién: da cacciatori a guide

A Panamá la Panamericana si ferma davanti a una foresta impenetrabile. Una regione selvaggia, il Darién, percorsa da canali, paludi, montagne, fiumi e cascate, abitata dagli indigeni e conosciuta solo da narcotrafficanti e guerriglieri colombiani. Il Tapòn del Darién è un tappo che chiude ogni comunicazione via terra tra nord e sud America. Chi vuole  raggiungere la Colombia, deve prendere l’aereo. Il Darién è anche una preziosa riserva della biosfera, la più vasta area protetta del Centro America con una biodiversità eccezionale. Alcune tribù di indigeni emberá, che vivevano isolati in questa regione (conducendo una vita durissima, data l’impossibilità di commerciare i loro prodotti) una trentina di anni fa chiesero di essere trasferiti a Panamá. La difficoltà di inserimento in un contesto urbano spinse il loro capo (cachique) a chiedere al governo di potersi installare nella regione del fiume Chagres, ricca di foreste e acqua, lo stesso fiume che fornisce l’acqua al canale. Gli emberá continuarono a condurre così la loro vita di cacciatori, con arco e frecce, vivendo anche grazie alla pesca, alla semina di yucca, fagioli e mais e a qualche animale da cortile. Da quando il Chagres è diventato parco protetto tutto questo è interdetto, per cui sono stati aiutati dal governo a prepararsi ad accogliere i turisti curiosi di avvicinare le popolazioni indigene.

Ora la loro vita sta cambiando, hanno scuole primarie e sanità, ma cercano di mantenere il più possibile le tradizioni. Anche noi facciamo l’esperienza emberá, risalendo il fiume sulle loro primitive imbarcazioni, guidate da uomini seminudi, col perizoma rosso. Veniamo ospitati in un villaggio di case costruite su palafitte, condividendo il pranzo con le loro famiglie. Parlando col capo villaggio, vengo a sapere che suo nonno era quell’Emiliano che lasciò il Darién per lavorare nel cantiere del Canale. La sua storia sta scritta nel museo di Panamá: era uno degli indigeni che lavorò alla costruzione delle canoe espandé (a un solo albero) usate durante i lavori. Fu lui che negli anni ‘70 scelse di trasferire la tribù in questa regione, sul sito dove sorgeva una base scientifica americana. Morì in questo villaggio a 96 anni.

L’artigianato che viene offerto in vendita è molto raffinato. Si tratta di lavori in un legno pregiato, il cocobolo, preziosi intagli in avorio vegetale, dato dalla noce di una specie di palma. Lavorando una rafia molto soffice e lucida, tinta con colori vegetali, gli emberá fanno un tipo di cesteria e di maschere molto belle. Queste sono usate dagli chamán (il personaggio più importante, che sovrintende alla salute della tribù) per le guarigioni. Nel villaggio vi è la scuola, costruita dagli indigeni sulla base della struttura donata dal governo. Nascoste dagli alberi sono due chiese protestanti, frequentate dagli abitanti, che comunque rimangono animisti. Nella foresta dove tutto è sacro si trovano cibo e medicamenti e il botanico è un personaggio importante, di supporto allo chamán.

La nomina a chamán viene fatta nei primissimi anni di vita di un bambino. Segni premonitori lo indicano come il futuro chamán del villaggio, sin dalla nascita. La luna piena, un terremoto, un avvenimento speciale durante la gestazione, il modo in cui è venuto alla luce, i primi movimenti. Sovente il fanciullo tenta di rifiutare questo ruolo impegnativo, vorrebbe essere un bambino normale, come tutti. Dopo una lunga, impegnativa preparazione, a 15 anni viene mandato nella foresta, dove dovrà passare 5 anni solo e nudo. Si unirà profondamente alla natura, utilizzando le conoscenze acquisite dagli anziani, approfondendole e vivendo in stretta comunicazione con il mondo selvaggio.

I kuna di San Blas: una società patriarcale

Hanno dovuto fare guerra al governo, negli anni ’20, per ottenere l’autonomia della loro Comarca (distretto). I kuna sono indigeni  provenienti dalla Colombia che trovarono rifugio nei secoli scorsi sulla sottile striscia di terra che si affaccia sul mare dei Caraibi e sulle isole che gli spagnoli chiamarono di San Blas.

Piccoli di statura ma molto forti e determinati, hanno un loro governo autonomo e cercano con fermezza di mantenere i loro costumi e le tradizioni. La società dei kuna è matriarcale, anche l’eredità passa per via femminile. Quando una ragazza si sposa è il marito a trasferirsi nella casa dei suoceri e in caso di divorzio deve andarsene. Le donne sono molto laboriose e forti come i loro uomini e oggi riescono a guadagnare denaro dalla vendita dei molas, ricami tradizionali usati per decorare le loro camicette. Sono intagli e applicazioni in stoffa colorata, dal disegno naturalistico ma anche geometrico, molto raffinato, stilizzato e simile a un labirinto, in cui si riescono ad identificare forme di uccelli, animali, angeli...

Le isole abitate sono solo 40 su circa 400. Ogni villaggio ha il suo sahila, eletto dal popolo, che dirime le controversie, convoca le assemblee e in alcuni giorni chiama all’alba gli uomini al lavoro nei campi di terraferma. I kuna si sono finora difesi molto bene dall’aggressione del turismo di massa. La terra non si vende, gli operatori stranieri non sono accettati e chi vuole godere della magnifica natura delle loro isole  deve pagare una tassa alla famiglia che li ospita e adattarsi ad abitare strutture molto semplici. Ci fermiamo alcuni giorni in un’isola abitata da circa trecento persone e dormiamo nell’unico albergo, una modesta capanna, uguale alle loro, fatta di legno e bambù, con leggeri tramezzi che separano le camere.

Con una imbarcazione scavata nel tronco di un albero e munita di motore ogni mattina raggiungiamo altre isole, piccole lingue di sabbia corallina coperte da palmeti. Alcune disabitate, altre abitate da una sola famiglia, cui dobbiamo un dollaro per il permesso di sostare, bagnarsi e ammirare i coralli e i pesci colorati.

Durante questo soggiorno, a stretto contatto con la gente dell’isola, abbiamo tempo per capire che le cose stanno lentamente cambiando anche per i kuna.

Le paure (giustificate) del pastore Attilio

Ne abbiamo conferma parlando con Attilio, pastore della Iglesia de Christo che mi riceve nella sua chiesa, una tettoia con vista mare, con le panche e il leggio, accanto alla capanna della scuola biblica e al recinto dove grugniscono i maiali coi loro piccoli. Attilio è nato qui, 42 anni fa. Da ragazzino era rimasto affascinato dal racconto delle scritture fatto dai missionari americani giunti sull’isola. Nella loro tradizione religiosa, i kuna hanno sempre creduto in un unico Dio creatore e in un profeta inviato per annunciare la buona novella, per cui la parola del Vangelo venne accolta bene.

Era un ragazzo studioso e dopo le elementari fu mandato a Panamá a frequentare il liceo, poi in seminario per approfondire lo studio che più lo interessava. La sua chiesa lo inviò poi in alcune regioni del paese (Bocas del Toro, Chiriguì, Veraguas) per un periodo di formazione durato un anno e mezzo.

Da 19 anni Attilio regge questa parrocchia, abita una casa come le altre, una capanna con il tetto di paglia, dove si trovano il fornello e le amache per dormire. La moglie è una donna bella e gentile, di cui posso ammirare il lavoro preciso e raffinato del ricamo delle sue camicette, ben superiore come qualità ai pezzi che ho visto in vendita presso altre case del villaggio.

«I giovani non hanno più voglia di lavorare - ci spiega Attilio -. Un tempo le barche andavano solo a remi o a vela e gli uomini lavoravano la terra che abbiamo sulla costa, piantavano manioca, yucca, fagioli e banane. Oggi a lavorare sono rimasti solo i più anziani, tra i quali è comune il vizio dell’alcool». Attilio crede che molti si avvicinino alla chiesa solo per farsi aiutare, specialmente con i missionari battisti, arrivati da due anni dagli Usa con molto denaro. «Noi della Iglesia de Christo ci aiutiamo in caso di bisogno, ma io ci tengo ad avere fedeli con una fede sincera», insiste Attilio. Pare che anche la figura del sahila si sia sbiadita. Nessuno vuole avere la responsabilità che comporta la posizione di capo villaggio. «Abbiamo dovuto ripiegare su una persona di poco valore, che ama troppo bere e la vita comoda. D’altra parte nessuno voleva accettare l’incarico».

Oggi gli studenti migliori delle elementari sono mandati a studiare a Città di Panamá, dove trovano alloggio in casa di parenti, nelle periferie della capitale, pericolose per la delinquenza.

Passeggiando per la via Central, la più commerciale e animata, avevamo notato molte donne kuna in costume, con le braccia e le gambe fasciate da file di perline colorate, il fazzoletto rosso e giallo in capo e l’anello d’oro al naso. Vengono in città per comprare i tessuti per i loro «molas», ma anche per guadagnare qualcosa in più e mantenere i figli agli studi.

Anche Attilio ha due dei suoi 4 figli a Panamá e deve ammettere che il suo mondo, quello che ha sempre cercato di preservare e difendere, è destinato prima o poi a scomparire.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 18 Gennaio 2008 18:56

Per non perdere la bussola - SERVE PROFEZIA

Per non perdere la bussola
SERVE PROFEZIA

di Alex Zanotelli
Dossier Nigrizia / ottobre 2007

Nel suo libro, Il sogno europeo, l’economista statunitense Jeremy Rifkin scrive: «L’Europa è diventata la nuova «città sulla collina»: il mondo sta guardando a questo nuovo esperimento di governo transnazionale, sperando che offra quell’indicazione così necessaria riguardo alla direzione che l’umanità globalizzata deve prendere. Il sogno europeo, con l’accento che pone sull’inclusività, la diversità, la qualità della vita, la sostenibilità, i diritti umani universali, i diritti della natura e la pace, è sempre più affascinante per una generazione ansiosa di essere connessa globalmente e, nello stesso tempo, radicata localmente. È mia convinzione che l’Europa si trovi ottimamente posizionata tra i due estremi dell’individualismo americano e dell’eccessivo collettivismo asiatico, per fare da battistrada verso la nuova era». Ma è questa l’Europa?

L’”esperimento Europa” è iniziato in chiave economica ed è rimasto tale. L’Ue è l’Europa dei mercati, dove pesano le lobby, cioè i gruppi d’interesse. Si calcola che a Bruxelles ci siano 2.600 lobby, con 15miIa dipendenti, che fanno sistematica pressione sulle istituzioni Ue. Secondo l’Osservatorio europeo delle imprese, il 70% di questi lobbisti rappresenta la grande industria.

Realizzato il mercato unico, il Trattato di Maastricht ha fornito le modalità e i criteri per la politica monetaria e la moneta unica, in applicazione del neoliberismo di Reagan e della Thatcher: innalzare i profitti, contenendo i salari; rendere il mercato del lavoro più flessibile per stimolare la produzione. Dunque, Maastricht struttura l’Europa dei mercati.

Con la caduta del muro di Berlino (‘89), sono entrati in gioco, del tutto imprevisti, i paesi dell’Est europeo. Una grande opportunità per l’industria Ue: acquisizioni di aziende sottocosto, delocalizzazione della produzione più tradizionale in aree a basso costo di manodopera e un nuovo mercato di oltre cento milioni di persone. Di qui, le pressioni sull’Ue perché agganci questi paesi.

E non va dimenticato che Washington ha spinto i paesi dell’Est a entrare nell’Ue, perché così potevano essere ammessi alla Nato. Per quella via, gli Usa speravano di rilanciare la propria industria bellica, modernizzando gli obsoleti arsenali del Patto di Varsavia. Questa politica ha reso l’Ue prigioniera della Nato, che da organizzazione di difesa è diventata di offesa. Dal 1999 (vertice di Washington) la Nato interviene ovunque gli interessi vitali occidentali siano minacciati; dal 2002 (vertice di Praga) sposa la guerra preventiva.

Traiamo alcune conclusioni: a) l’Europa è stata costruita con un approccio orientato a una scelta economica di natura ideologica; b) si basa sulla crescita del Pil come motore di sviluppo; c) si presenta con disuguaglianze sempre crescenti; d) non è in grado di ripudiare la guerra.

Si potrebbe dire con Jean-Paul Fitoussi, direttore del Rapporto annuale sullo stato dell’Ue, che «oggi in Europa abbiamo un governo delle regole ispirato ai principi del mercato di cui sono custodi la Banca centrale europea, il Patto di stabilità e la Direzione per la concorrenza; non abbiamo, invece, un governo delle scelte su cui possono pronunciarsi i cittadini».

COMPETERE E INTEGRARE

Questa tendenza diventa ancora più evidente con la Strategia di Lisbona e il Processo di Barcellona. Con il vertice di Lisbona (2000), la crescita della competitività e del dinamismo economico è l’obiettivo dell’Ue. Ciò scaturisce dalla necessità di recuperare il divario degli anni ‘90 tra la forte crescita dell’economia americana, più flessibile e competitiva, e la quasi stagnante economia europea.

Ma un sistema economico-politico che fa della stabilità uno dei propri punti di forza ha interesse a ritrovare la stessa stabilità alle frontiere. Di qui, la necessità di favorire lo sviluppo e la stabilità delle regioni limitrofe, che agiscono da vere e proprie zone cuscinetto alle frontiere dell’Ue. E il Processo di Barcellona, inaugurato nel 1995, coinvolgendo Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Palestinese, Libano, Siria, Turchia, Malta e Cipro. È la cosiddetta politica di prossimità. Gli obiettivi sono: la collaborazione in campo politico e in materia di sicurezza; un sostegno economico e finanziario dell’Ue che porti alla creazione progressiva di un’area di libero scambio; la cooperazione in campo culturale, sociale e umanitario.

Se esaminiamo le condizioni che i paesi mediterranei devono rispettare,per beneficiare degli aiuti comunitari, appare chiaro che viene chiesto loro di adottare integralmente il modello di funzionamento dell’Ue, con la rinuncia definitiva a una propria via allo sviluppo. Le conseguenze sono molto gravi: si sottovalutano le differenze culturali e si considerano quei popoli incapaci di esprimere una società altra da quella occidentale.

E ancora più dura sarà la nuova politica Ue verso l’Africa subsahariana, espressa fino a oggi da un rapporto di preferenza commerciale e di cooperazione (Convenzione di Cotonou, già di Lomé). Finora, sotto la copertura di “buonismo” internazionale, l’Ue ha fatto i suoi affari. Ma dal 2008 li farà ancora meglio con gli Accordi di partenariato economico regionale (Ape/Epa), che puntano al libero scambio commerciale. Gli stati africani non potranno più imporre dazi doganali sulle esportazioni europee in Africa: ciò determinerà una caduta delle entrate fiscali dal 10% al 60%, e le merci importate butteranno fuori mercato i prodotti locali.

Esempio. L’Africa non può competere con i prodotti agricoli europei sostenuti a suon di euro: 50 miliardi l’anno. Il settore agricolo costituisce il 70% dell’economia africana, è fonte privilegiata di entrate in valuta ma assisterà impotente all’invasione di prodotti agricoli sovvenzionati.

E LA DEMOCRAZIA?

Cosa pensare di questa Ue? Che prevale l’aspetto economico-finanziario su quello democratico. E il fallimento delle proposta di costituzione comune ne è la riprova. La Convenzione costituente, - un’assemblea di 105 membri, in rappresentanza dei parlamenti europeo e nazionali e della Commissione - ha terminato il suo lavoro nel 2004. Ha lavorato con il metodo, molto discutibile, del “consenso” e la società civile è stata tenuta del tutto fuori dal processo decisionale.

Intellettuali e osservatori politici hanno criticato questo modo di agire. Raniero la Valle: «Nell’Ue non vi è una comunità che si fa ordinamento, ma un regime economico che diventa ordinamento». L’Ue rischia di non rappresentare altro che l’opzione per un modello di sviluppo economico elevato a supernorma, che mette tra parentesi il principio di uguaglianza sostanziale e i diritti sociali sanciti nelle varie costituzioni degli stati europei.

Questo spiega in gran parte il rigetto, nel 2005, da parte di Francia, e Olanda della proposta di-Trattato costituzionale. È stato un “no” all’Europa dei mercati, che ; avrebbe smantellato lo stato sociale

Un altro aspetto grave — sancito dall’Accordo di Schengen del 1995 — è che le frontiere, abolite dentro l’Ue, sono state spostate al limitare della “fortezza Europa”. Dunque, un’Ue aperta al suo interno, ma impermeabile dall’esterno.

E l’Africa ne paga lo scotto. Al di là dei proclami, non c’è nessuna politica di prossimità o di buon vicinato. Anzi, buona parte dell’aiuto pubblico che prima andava all’Africa oggi va all’Est europeo. Intanto, le difficoltà economiche, i conflitti e i regimi oppressivi spingono numerosi africani a tentare l’approdo in Europa. Un flusso migratorio, spesso gestito dalle mafie, che lascia dietro di sé una scia di morte.

Oggi l’Ue è un gigante economico-finanziario, parte essenziale del grande sistema che regge il pianeta. Un sistema che permette a pochi (20% della popolazione mondiale) di controllare l’83% delle risorse a spese di molti diseredati: 854 milioni di affamati, 50 milioni di morti per fame ogni anno, 3 miliardi che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Per difendere i nostri privilegi spendiamo oltre 1.000 miliardi di dollari l’anno in armi, con uno sperpero di energie e di risorse che pesa sull’eco- sistema a tal punto da far dire agli scienziati che siamo sull’orlo del collasso del pianeta.

MISSIONE AL BIVIO

Tutto questo chiama in causa i cristiani: viviamo dentro strutture di peccato e di morte. Le Chiese riformate, riunite ad Accra (Ghana) nel 2004, hanno fotografato la situazione: «La globalizzazione economica neo-liberista è basata sulla competitività sfrenata, il consumismo, la proprietà privata priva di qualsiasi obbligo sociale, la speculazione finanziaria, la liberalizzazione e la deregolamentazione del mercato, la privatizzazione dei servizi pubblici e delle risorse nazionali. Con la promessa che ciò produrrà ricchezza per tutti. Avanza la falsa promessa di essere in grado di salvare il mondo per mezzo della creazione di ricchezza e prosperità, pretendendo di avere la signoria sulla vita ed esigendo una devozione totale, che equivale a idolatria».

Sono parole forti ma profondamente bibliche e cristiane. Come missionari comboniani, siamo sfidati a fare nostro questo giudizio, partendo dal cuore della tradizione biblica: “Il grande sogno di Dio”. Dobbiamo essere consapevoli che poteri economici, culturali, politici e militari costituiscono un sistema di dominio — “l’impero” — messo in campo da nazioni potenti per difendere i loro interessi. L’Ue è una delle colonne portanti di questo sistema di peccato.

Il dramma è che l’Europa non è cosciente di vivere in stato di peccato. È compito nostro di missionari proclamare come Giona ai niniviti: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta». Il Dio della vita, che si è rivelato in Cristo Gesù, non vuole vittime, non vuole crocefissi, non vuole morte. Per questo, l’attuale assetto del mondo — l’impero del denaro costruito su un’economia finanziarizzata e militarizzata — è per noi missionari un sistema di morte, un sistema di peccato. Ci tocca profondamente, perché è la negazione radicale del sogno di quel Dio/Abbà.

Questo Dio della vita, che noi missionari annunciamo, vuole che tutti i suoi figli vivano in pienezza. Al Sud (camminando con le vittime del sistema) come al Nord (con gli oppressori, i carnefici) abbiamo oggi un’unica missione globale: l’annuncio del Dio della vita, la denuncia di ogni sistema di morte e l’impegno concreto perché vinca la vita. Si tratta dello status confessionis, direbbe oggi Dietrich Bonhoeffer. Il quale ricordava alle chiese tedesche sotto il nazismo che non potevano proclamare la fede semplicemente recitando il Credo in chiesa, ma rivelando da che parte stavano: se dalla parte di Hitler o dalla parte delle vittime del nazismo.

Penso che oggi questo sia ancora più vero per noi. Noi cristiani dobbiamo proclamare il nostro status confessionis, dichiarando da che parte stiamo in questo sistema di morte. Se stiamo dalla parte del sistema, dobbiamo renderci conto che adoriamo l’idolo del denaro. Se invece vogliamo proclamare il Dio della vita, dobbiamo schierarci dalla parte delle vittime. È’ su questo che la missione oggi sopravvive o cade. È una missione globale che ci porta a contestare un sistema che uccide per fame, uccide per guerra; uccide il pianeta e ci uccide dentro. Per questo, la missione nel cuore del sistema, denunciandolo e contestandolo è missione tanto quanto l’annuncio della Buona Novella ai poveri del sud del mondo e a tutte le vittime del sistema. Su questo la missione oggi si gioca tutto. Io mi sento in missione. In Europa.

Rischio povertà

Secondo la Relazione congiunta sulla protezione sociale e l’inclusione sociale 2007, predisposta, all’inizio dell’anno, dalla Commissione europea, «il 16% degli europei è a rischio di povertà e il 10% vive in famiglie senza lavoro». In Europa c’è uno scarto di 3 anni tra la speranza di vita massima e quella minima per gli uomini, e le spese per l’assistenza sanitaria e le cure di lunga durata variano tra il 5 e l’11% del prodotto interno lordo.

Nell’Ue il 19% dei bambini è a rischio di povertà e la disoccupazione tra i giovani è un dato particolarmente inquietante: nel 2004 era del 18,7%, ossia il doppio del tasso medio di disoccupazione; inoltre, il 15% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni risultava aver lasciato la scuola prematuramente, circostanza che accresce il rischio di esclusione sociale.

Secondo i dati diffusi da Eurostat, il tasso di disoccupazione dell’area euro è rimasto stabile al 6,9% a giugno 2007, rispetto al mese precedente; a giugno 2006 era del 7,9%. Anche per l’Ue dei 27 il tasso di disoccupazione è del 6,9%, contro il 7% di maggio. A giugno 2007 i tassi più bassi sono stati registrati in Olanda (3,3%), in Danimarca (3,5%), a Cipro (3,9%) e in Irlanda (4,0%); i più elevati, in Slovacchia (10,7%) e in Polonia (10,2%). A giugno, erano 16,1 milioni gli uomini e le donne disoccupati nell’Ue allargata a 27, di cui 10,4 milioni nella zona dell’euro. Secondo un recente Eurobarometro, la paura di perdere il posto i lavoro e di cadere in povertà sono le preoccupazioni più sentite dai cittadini europei, e l’aumento dei flussi migratori a causa dell’apertura dei confini è vista come una minaccia, anziché come un’opportunità. Esistono forti disparità anche nel campo dell’assistenza sanitaria: la speranza di vita varia per gli uomini da 65,4 anni in Lituania a 78,4 anni in Svezia; per le donne, da 75,4 anni in Romania a 83,9 anni in Spagna.

Oltre a valutare i progressi realizzati dagli stati membri e a stabilire priorità per le azioni future, la Relazione congiunta individua esempi di buone pratiche e di approcci innovativi già adottati sul piano nazionale. Ad esempio, il Regno Unito — dove il problema della povertà infantile è relativamente preoccupante — applica tutta una serie di misure per cercare di porvi rimedio, mettendo l’accento sull’apprendimento precoce e l’assistenza all’infanzia. L’Austria ha adottato programmi per risolvere il problema dei senza casa, limitando gli sfratti, e la Polonia sostiene l’economia sociale come mezzo per promuovere l’inclusione attiva.

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Tuareg / Rivolte in Mali e in Niger
LA NAZIONE CHE NON C’È, C’È!

Angelo Turco
Nigrizia/Novembre 2007

I venti della ribellione spazzano il deserto. Temust n imajeghan, il paese dei tuareg, è di nuovo in fiamme. Parecchie cancellerie sono in allerta. E si capisce. La regione è sensibile e ogni faccenda che riguarda i nomadi, per la loro grande mobilità transfrontaliera, si trasforma in un problema internazionale. Le armi crepitano. In Mali la dissidenza è guidata da Ibrahim Ag Bahanga, cui si è aggiunto di recente il colonnello Hasan Fagaga: la rivolta va avanti da più di un anno, sia pure in fasi che alternano tregua e violenza.

In Niger i combattimenti sono iniziati in febbraio, sotto le bandiere del Movimento nigerino per la giustizia (Mnj), guidato da Agaly Alambo. Il profilo securitario degli eventi non sfugge a nessuno. E però, da Algeri a Tripoli, da Ouagadougou a Nouakchott, da Niamey a Bamako, da Washington a Parigi, da New York a Bruxelles e ad Addis Abeba, andando in giro per le diverse capitali che pure dovrebbero essere interessate, per un motivo o per l’altro, a quel che capita nel cuore del Sahara, si ha l’impressione, ancora una volta, che una “questione tuareg” non esista e non sia mai esistita.

Eppure, a fine agosto viene annunciata la saldatura dei movimenti insurrezionali, con la creazione di un’Alleanza tuareg Niger-Mali (Atnm), mentre il 19 settembre è addirittura promulgato, via internet, l’atto di fondazione della Repubblica Toumoujgha, «con la città storica di Agadez come capitale politica».

Intossicazione mediatica? Forse. Certo è che la gestione politica di questa crisi sembra del tutto inadeguata, a cominciare dal volo piatto dell’Unione africana, pur presieduta da un rispettabile uomo di stato maliano come Alpha Oumar Konaré. Del resto, il grande pubblico continua a filtrare i problemi degli imajeghan – così i tuareg chiamano sé stessi in tamajeq, la loro lingua – con la trama delle retoriche sugli “uomini velati”, gli “uomini blu”, avvolti nel mistero delle loro remote origini, mischiate ai ricordi di vecchi film sulla legione straniera impegnata in epiche gesta per la pacificazione del Sahara.

Eppure, i tuareg combattono da 130 anni per veder riconosciuta la propria dignità di popolo. Dapprima contro i colonizzatori francesi, a partire dalla famosa missione Flatters, schiacciata nel 1881 a In-Uwahen. Quindi, contro gli stati indipendenti, che ereditano dalla Francia il sistema delle frontiere coloniali e, con esso, il principio dell’inesistenza di una nazione tuareg. Secondo la ricostruzione del geografo Edmond Bernus, grande specialista del mondo tuareg, Temust n imajeghan si estende su sette stati sahelo-sahariani (Niger, Mali, Burkina, Algeria, Libia, Mauritania, Nigeria), senza contare le diaspore (Ciad, Sudan). Tuttavia, gli imajeghan vivono per metà in Niger e per un altro terzo almeno in Mali.

Il sogno dell’unità politica tramonta nel 1919, con l’annientamento delle armate di Kaosen. Nel 1957 fallisce il tentativo di dar corpo all’Organizzazione comune delle regioni sahariane (Ocrs), del tutto strumentale agli interessi petroliferi della Francia. Di fatto, nell’ultimo mezzo secolo i tuareg hanno continuato a battersi per preservare la loro cultura e il loro patrimonio identitario. Da tempo, in Niger e in Mali soprattutto, gli antichi irredentisti chiedono solo il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza, alla pari con gli altri popoli che vivono in quegli stati.

Da tempo dismessi gli abiti della secessione, i tuareg si ostinano a domandare l’autonomia amministrativa per le loro terre ancestrali nell’ambito degli ordinamenti statali. In risposta, una sconcertante sequenza di spedizioni militari, repressioni, promesse non mantenute, intese sancite internazionalmente ma non rispettate. Ultimo, l’accordo di Algeri dello scorso anno, firmato dal governo maliano e dalla ribellione, ma poi quasi ignorato da Bamako.

Gheddafi in campo

Intanto, sulla trama della dissidenza tuareg sono andati aggrumandosi altri e preoccupanti motivi di tensione. Nella fascia sahelo-sahariana un attivo banditismo transfrontaliero alimenta traffici d’ogni tipo: armi, esseri umani, droga. La penetrazione jihadista, particolarmente del gruppo Al-Qaida per il Maghreb islamico, viene segnalata da più parti. E non è un caso, forse, se proprio in queste settimane si registra una ripresa degli attentati nel nord algerino. Val la pena tuttavia sottolineare che i rapporti della ribellione tuareg con le bande del terrore – qaidisti o salafisti – sono costellati di frizioni e scontri aperti. Insomma, per niente tranquilli.

Tutto ciò allarma l’Algeria, sollecita nell’aiuto logistico alle truppe regolari maliane impegnate nella repressione anti-tuareg. Ma allarma ancor più gli americani, che hanno individuato in questa zona uno dei fronti caldi della lotta al terrorismo. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente il Mali nelle operazioni miranti a dare sicurezza al nord; la stessa ambasciata americana a Bamako ha ammesso che un aereo militare, fatto bersaglio dai tiri della ribellione, è tornato integro alla base.

Dopo il Corno d’Africa, questa è la regione dove militarmente gli Usa sono più impegnati nel continente. Le esercitazioni antiterroristiche si susseguono, nel quadro di programmi pluriennali che coinvolgono una decina di paesi. Questa, del resto, è una delle aree in cui il Pentagono medita di installare il comando militare unificato per l’Africa (Africom), ma deve fare i conti con l’opposizione sia dell’Algeria che della Libia.

Per quanto ambiguo come al solito, Gheddafi ha un ruolo importante nella partita che si sta giocando. Molti credono che sia lui a soffiare sul fuoco della dissidenza tamajeq, infiammando le passioni irredentiste, con il miraggio del “Grande Sahara”, uno spazio politico per i popoli del deserto. Gli osservatori notano che il braccio armato della dissidenza è passato attraverso i campi di addestramento libici, formandosi nei ranghi della “Legione verde”, il corpo d’élite costituito alla fine degli anni ’80 e impiegato di preferenza nelle operazioni all’estero.

Sollecitato dal presidente nigerino, Mamadou Tandja, a fare da mediatore nel conflitto, il colonnello avrebbe posto come precondizione il riconoscimento dell’Mnj. La “Guida” non ama che lo si menzioni a proposito della dissidenza tuareg. A questo riguardo, ha inaugurato una strategia destinata probabilmente a fare scuola. Denuncia, infatti, per calunnia i giornali che fanno cenno alla sua posizione e alle sue presunte responsabilità. Nell’impossibilità di esibire prove giuridicamente valide in tribunale, gli organi di stampa rischiano condanne pecuniarie elevate, al punto da metterne in forse la sopravvivenza.

Porte chiuse a Niamey

A complicare enormemente il quadro c’è l’uranio, in cima alle esportazioni del Niger, che è il terzo produttore mondiale e di gran lunga il primo dei paesi africani. La Francia si trova da sempre in posizione di monopolio nello sfruttamento del minerale nigerino, iniziato nel 1971 sul sito di Arlit, nell’estremo nord.

Da molti mesi, Tandja è impegnato nella rinegoziazione del prezzo dell’uranio con l’Areva, gigante francese dell’industria nucleare. Il 1° agosto, un risultato importante: l’aumento di quasi il 50% del prezzo, passato a 40.000 franchi cfa al kg, con effetto retroattivo al 1° gennaio 2007. Risorse aggiuntive preziose per uno dei paesi più poveri del mondo. Il fatto è che l’uranio è un minerale strategico per la Francia, e ogni negoziato si pone nel quadro degli accordi di cooperazione militare franco-nigerini. In più, a fine anno i permessi di sfruttamento decadono e sarà necessario un riassetto complessivo del dossier minerario.

È in questa prospettiva che entrano in scena altre multinazionali del settore: canadesi, australiane e soprattutto cinesi. Attraverso la China Nuclear Engineering and Construction Corporation (Cnec), il dragone asiatico avrebbe incamerato una decina di permessi di prospezione, qualcosa come la metà di quelli complessivamente in gioco. In questo quadro s’iscrive l’attacco dell’Mnj in aprile al sito di Imuraren, uno dei più ricchi dell’Areva. E se, da una parte, Nicolas Sarkozy moltiplica le dichiarazioni di simpatia e di amicizia nei confronti del Niger, dall’altra non sono pochi nella capitale Niamey coloro che pensano che l’Areva abbia qualcosa a che fare con la ribellione, al fine di dissuadere i concorrenti cinesi.

Il fardello sociale di questo ginepraio si fa sentire nei due principali paesi interessati. Un sentimento di malessere si diffonde in Mali, dove i combattenti tuareg sempre più vengono accostati ai terroristi, per i loro metodi di violenza indiscriminata a causa della disseminazione nella zona di mine antiuomo. Tanto più apprezzabile, quindi, è l’apertura del governo. Grazie agli sforzi del presidente Amadou Toumani Touré, l’Algeria ha offerto le risorse finanziarie per rimettere in moto il processo di attuazione degli accordi di Algeri.

L’atteggiamento nigerino, viceversa, è di chiusura. Amnesty International, con le associazioni umanitarie nigerine, denuncia l’emanazione dello “stato di attenzione”, che sospende i diritti fondamentali ed è all’origine degli arresti e torture della popolazione civile. L’intimidazione della stampa è all’ordine del giorno.

Moussa Kaka, direttore della radio privata Saraouniya e corrispondente di Rfi e di Rsf, viene arrestato a Niamey il 20 settembre, con l’accusa di «attentato all’autorità dello stato». È tuttora in prigione.

Per quanto tempo ancora il presidente Tandja potrà ignorare le aspirazioni degli imajeghan e considerare la dissidenza tuareg come un’orda di banditi?

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Mercoledì, 26 Dicembre 2007 13:15

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

di Christian Salmon*

“Le Monde diplomatique” – dicembre 2007

(abstract)

In un articolo del “New York Times” pubblicato alcuni giorni prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, editorialista del “Wall Street Journal” dal 1993 al 2000 e in seguito autore di numerose inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò i contenuti di una conversazione da lui avuta nell’estate 2002 con un consigliere di George W. Bush: “Mi ha detto che la gente come me fa parte di quella tipologia di persone ‘che appartengono a ciò che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà’ (“the reality-based community”): questo tipo di persone pensa che le soluzioni emergano dalla loro giudiziosa analisi della realtà osservabile”. Ho fatto cenno di sì, mormorando qualcosa sui principi dell’illuminismo e dell’empirismo. Mi ha bloccato: “Non è più così che funziona realmente il mondo. Oggi noi siamo un impero” – ha proseguito – “e creiamo la nostra propria realtà nel momento in cui agiamo. E mentre voi studiate questa realtà, nel modo ragionevole che ritenete auspicabile, noi ci muoviamo di nuovo, creando altre nuove realtà che voi studierete nella stessa maniera, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia (...). E a voi, a voi tutti, non resta che studiare quello che facciamo”.

Definito “scoop intellettuale” dal “New York Time”, l’articolo di Suskind fece sensazione. Editorialisti e blogghisti s’impadronirono dell’espressione “the reality-based community”, che si diffuse sul Web al punto che il motore di ricerca Google contabilizzava, a luglio 2007, quasi un milione di contatti. Wikipedia le ha dedicato un’intera pagina (...).

Quelle considerazioni a proposito della “comunità basata sulla realtà”, dovute senza dubbio a Karl Rove alcuni mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologico: sembrano tratte più da uno spettacolo teatrale che da un ufficio della Casa Bianca. Non si limitano a riproporre gli antichi dilemmi che agitano da sempre le cancellerie, in cui si scontrano idealisti e pragmatici, moralisti e realisti, pacifisti e bellicisti o, nello specifico del 2002, difensori del diritto internazionale e sostenitori del ricorso alla forza. Propongono invece una nuova concezione dei rapporti tra politica e realtà. I dirigenti della più forte potenza mondiale si sottraggono non solo alla realpolitik, ma anche al semplice realismo, per diventare artefici della propria realtà, maestri di apparenze, rivendicando quel che si potrebbe chiamare una realpolitik della finzione.

L’invasione americana dell’Iraq, nel marzo 2003, ha fornito una spettacolare dimostrazione della volontà della Casa Bianca di “creare la propria realtà”. In quell’occasione, i servizi del Pentagono, non volendo ripetere gli errori commessi durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, sono stati particolarmente attenti alla strategia di comunicazione. Oltre ai 500 giornalisti “embedded” di cui si è tanto parlato, hanno posto una speciale attenzione nell’organizzazione della sala stampa del quartier generale delle forze americane in Qatar: un hangar per stoccaggio convertito – per la modica cifra di 1 milione di dollari – in studio televisivo ultramoderno, con podio, schermi al plasma e tutto il materiale elettronico capace di produrre in tempo reale video di combattimenti, carte geografiche, animazioni e diagrammi...

L’apparato scenico da cui il portavoce dell’US Army, il generale Tommy Franks, si rivolgeva ai giornalisti è costato da solo 200.000 dollari ed è stato realizzato da un designer che aveva lavorato per la Disney, la Metro Goldwyn Mayer e la trasmissione televisiva “Good morning America”. Dal 2001 era stato incaricato dalla Casa Bianca di creare il fondale per i discorsi del presidente; una scelta che non stupisce quando si conoscano i legami tra Pentagono e Hollywood. Più sorprendente, invece, la decisione del Pentagono di reclutare per questi lavori di scenografia David Blaine, un mago molto noto negli USA per il suo show televisivo e i giochi di prestigio in cui si affranca dalle leggi fisiche levitando o restando chiuso per giorni, senza cibo, in una gabbia. In un libro pubblicato nel 2002, colui che si definisce il “Michael Jordan della magia” rivendica l’eredità di Jean-Eugène Robert-Houdin, il leggendario mago francese che nel XIX secolo accettò di recarsi in Algeria per aiutare il governo a sedare una sommossa dando dimostrazione del fatto che le sue arti magiche erano superiori a quelle dei ribelli. Non sappiamo se è questo che il Pentagono si aspettasse da Blaine, ma il fatto che sia stato reclutato e inviato in Qatar suggerisce che i suoi talenti d’illusionista siano stati usati per qualche trucco o effetto speciale...

Scott Sforza, un ex produttore di Abc che lavorava per la propaganda repubblicana, ha creato molti degli sfondi sui quali Bush ha fatto le più importanti dichiarazioni dei suoi due mandati. È a lui che si deve la scenografia del 1° maggio 2003, in cui il presidente, sulla portaerei Abraham Lincoln, davanti a uno striscione con su scritto “Mission accomplished” dichiarava: “Le grandi operazioni di guerra in Iraq sono terminate. Nella battaglia in Iraq, gli USA e i loro alleati hanno vinto”.

Ma la messa in scena non finiva lì. Il presidente era atterrato sulla portaerei a bordo di un aereo da caccia ribattezzato per l’occasione Navy One e sul quale era scritto “George Bush, commander in chief”. Lo si vide uscire dal cockpit, vestito da aviatore, col casco in mano, come se tornasse da una missione, in un grandioso remake di “Top Gun”, il film prodotto da Jerry Bruckheimer, un habitué delle operazioni congiunte Hollywood-Pentagono, autore di “Profiles from the front line”, una trasmissione di tele-realtà sulla guerra in Afghanistan. Il commentatore di Fox News aveva visto giusto nell’esclamare, in segno di ammirazione: “È stato fantastico, come a teatro”. David Broder del “Washington Post” fu affascinato dalla “postura fisica” del presidente. Sforza aveva dovuto inquadrare la scena con grande attenzione, per evitare che all’orizzonte si vedesse la città di San Diego, distante una sessantina di chilometri: la portaerei, in realtà, avrebbe dovuto navigare in mare aperto, nella zona dei combattimenti.

Ma l’inquadratura di un discorso presidenziale non è mai stata così suggestiva come il 15 agosto 2002, quando il presidente degli USA si pronunciò solennemente sulla sicurezza nazionale davanti alla celebre falesia del monte Rushmore, dove sono scolpiti i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosvelt e Abraham Lincoln. Durante il discorso, le telecamere furono posizionate in modo da filmare Bush di profilo, con il volto che si sovrapponeva a quello dei suoi illustri predecessori...

(...) Secondo Ira Chernus, professore all’università del Colorado, Rove ha praticato, durante i due mandati di Bush, una “strategia alla Sherazade”: “Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie, storie così favolose, così accattivanti, così avvincenti che il re (o in questo caso i cittadini americani, che in teoria governano il nostro paese) dimenticherà la condanna capitale. (Rove) gioca con il senso di insicurezza degli americani, i quali hanno l’impressione che la vita gli sfugga”. La cosa gli è riuscita particolarmente bene nel 2004, al momento della rielezione di Bush, quando ha sviato l’attenzione degli elettori dal bilancio della guerra, chiamando a raccolta i grandi miti collettivi dell’immaginario americano: “Karl Rove” – spiega Chernus – “ha scommesso che gli elettori sarebbero rimasti ipnotizzati da storie stile John Wayne, con ‘uomini veri’ che combattono il diavolo alla frontiera, così da evitare la sentenza di morte che gli elettori medesimi possono pronunciare contro un partito che ci ha condotto al disastro in Iraq. Rove continua a inventare storie di buoni e cattivi a uso dei candidati repubblicani. Punta a trasformare ogni elezione in teatro morale, in un conflitto che oppone il rigore dei repubblicani alla confusione dei democratici. (...) La strategia alla Sherazade è una grande truffa, costruita sull’illusione che semplici storie moralizzanti ci possano trasmettere un senso di sicurezza, indipendentemente da quanto succede nel mondo. Rove vuole che ogni voto a favore dei repubblicani sia una presa di posizione simbolica”. Costretto alle dimissioni dai membri democratici del Congresso nell’agosto 2007, Rove ha annunciato la sua decisione con questa confessione, che equivale a una firma apposta in calce a tutta la sua opera: “Io sono Moby Dick, e loro mi inseguono!”.

*Scrittore, membro del “Centre de recherches sur les arts et le langage”. Ha appena pubblicato “Storytelling, la machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits”, La Découverte, Parigi, 2007.

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Venerdì, 16 Novembre 2007 19:44

L’ODISSEA DI ABRAHAM

L’ODISSEA DI ABRAHAM

di Gabriele Del Grande
da Mondo e Missione / Ottobre 2007

«Avevo il numero di telefono di un poliziotto a Tripoli; è lui che mi ha messo in contatto con il commissariato di Zuwarah. Quando ho chiamato, mi hanno fatto parlare un paio di minuti con mia moglie, ma non siamo riusciti a dirci niente, non faceva altro che piangere. Almeno però sapevo che erano vivi. Poi il silenzio per quattro mesi. Ogni giorno controllavo la mail, ma non c’era nessuna novità. Avevo paura che li avessero deportati nel deserto o che li avessero ammazzati. La Libia è un inferno».

Si chiama Abraham, ha 27 anni; è fuggito dall’Eritrea, nel 2000. Lo incontro a Tor Vergata, periferia est di Roma. A due passi dal grande raccordo anulare, la vecchia sede dell’Università Roma 2 specchia sui vetri neri delle finestre la luce del sole di un pomeriggio d’estate. Il palazzo è occupato da un paio d’anni da circa 300 giovani, in maggioranza eritrei, etiopi, somali e sudanesi. Abraham mi aspetta al terzo piano. Tre settimane fa la moglie Anna è arrivata in Sicilia con il piccolo Daniel. Il viaggio è durato sei anni, eppure alle porte di Roma, senza documenti e lavoro, la terra promessa sembra ancora lontana.

Insieme con un’intera generazione, Abraham è fuggito dalla coscrizione militare obbligatoria imposta dal presidente Isaias Afwerki. Per l’indipendenza dall’Etiopia le truppe eritree hanno combattuto trent’anni, dal 1961 al 1991, e il conflitto è riesploso tra il 1998 e il 2000 per l’assegnazione dei confini. Tuttavia, ancora oggi, la pace è lontana. Compiuta la maggiore età, uomini e donne sono chiamati a impugnare le armi per sorvegliare la frontiera militarizzata con il gigante vicino, l’Etiopia. Quattro milioni di eritrei contro 75 milioni di etiopi, ovvero un popolo contro un esercito. A togliere l’uniforme prima dei 40 anni sono autorizzate solo le donne incinte, i malati e gli studenti universitari. Per tutti gli altri il mandato è a tempo indeterminato. Ad Asmara non rimangono che vecchi e bambini. Intanto al fronte un numero crescente di ventenni rifiuta di gettare via gli anni migliori abbracciati a un fucile. Sfidano l’accusa di alto tradimento e lasciano il Paese, sognando l’Europa. Nel 2006 in Sicilia ne sono arrivati 2.859, tra cui 308 donne e 116 bambini; nel 2005 erano stati 1.974. Abraham è uno di loro.

La sua prima tappa è stata Khartoum, in Sudan, dove uno zio era emigrato molti anni prima. Lì è sbocciato l’amore con Anna, anche lei eritrea ma nata e cresciuta in Sudan, e dopo un paio d’anni è arrivato Daniel. Un bambino prodigio, visto che a soli 15 giorni di vita ha attraversato i mille chilometri di deserto del Sahara, avvolto in un turbante nero per proteggerlo dal sole e dalla sabbia, stretto tra le braccia di mamma e papà. Sul fuoristrada pick-up erano in 32. La macchina girava di giorno, tra le dune e le buche, sotto l’arsura del sole. Ogni sera i motori si spegnevano, per un po’ di riposo, stretti gli uni sugli altri, per cercare un minimo di tepore nelle gelide notti del Sahara, ma soprattutto per non mostrare la luce dei fari ai posti militari della frontiera. Alla fine, dopo un numero imprecisato di giorni, l’alba ha mostrato lontana, bagnata da un miraggio, la città di Kufrah, il primo avamposto libico sul lungo cammino verso il Mediterraneo.

L’impresa non ha fatto entrare Daniel nel guinness dei primati, ma in Europa sì. Prima, però, ha dovuto sfidare due volte le acque del canale di Sicilia.

Luglio 2005, il primo viaggio. Sessantaquattro persone su un vecchio legno, che imbarca acqua dalle fessure tra le tavole dello scafo. I crampi alle gambe, la nausea e il rumore assordante del motore tengono svegli nel buio. Ognuno con delle bottiglie di plastica tagliate raccoglie l’acqua tra i piedi, sul fondo, per poi gettarla in mare. Sperare.

All’alba il motore va in panne. Silenzio tra le onde. Mentre qualcuno svita a casaccio con una maledetta pinza di ferro, arrivano i soccorsi degli operai di una piattaforma petrolifera nella zona. L’equipaggio prende a bordo solo donne e bambini, per poi lasciare alla deriva gli altri passeggeri, intercettati due giorni dopo da un elicottero italiano.

Abraham è salvo. Al centro di accoglienza di Lampedusa, il primo pensiero va alla moglie e al piccolino. Disperato, cerca di denunciarne la scomparsa. Inutile: non viene ascoltato. «Noi non possiamo fare niente».

Nelle stesse ore, dall’altro lato del Canale, Anna viene rimpatriata in Libia e arrestata. Il suo telefono rimane spento per quattro mesi.

«Mi ero trasferito a Milano, lavoravo alla fiera di Rho. In città era appena arrivata Suzi, una delle donne che era con noi sulla barca a luglio. Fu lei a raccontarmi cos’era accaduto a mia moglie».

Un camion parcheggia davanti al commissariato di Zuwarah. Una decina di donne con i rispettivi bambini, di pochi anni o neonati, sono fatte salire, insieme ad altre 60 persone, dentro un container di ferro caricato sull’autorimorchio. I motori sono già accesi. Le porte si chiudono sul carico umano. Fa buio. Si parte: direzione Kufrah, 1.500 chilometri più a sud, al confine col Sudan.

Presto sotto il sole di luglio il container diventa un forno, l’aria si fa pesante, non si vede a un palmo dal naso. I bambini piangono. Il viaggio dura due giorni. A bordo non c’è niente da bere né da mangiare. Presto l’odore diventa insopportabile: vomito, feci, urine, gasolio e sudore. La morsa del sole non si allenta, la gente boccheggia. La gola brucia dalla sete, chi ha una bottiglietta raccoglie le urine per berle. Finché, finalmente, stremati dal viaggio, i portelloni si aprono sulla notte di un paesaggio desertico, di fronte al carcere dell’ultima città libica prima della frontiera con il Sudan, Kufrah.

I deportati attraversano i cancelli, derisi dai militari. Molti conoscono già le grate di ferro di Kufrah. Ricordi di lividi, fame e ferite. Vengono perquisiti. Soldi, telefonini e braccialetti se li prendono gli agenti. Le celle si chiudono. Tre mesi dopo, alle luci dell’alba, senza nessun preavviso, un camion verde militare carica una sessantina di persone a bordo. Sono state condannate all’espulsione in Sudan. Tra loro ci sono anche Anna e il piccolo Daniel, sei mesi.

Il camion si avvia tra le buche di una pista di terra tra le dune del deserto. Li aspetta un viaggio lunghissimo, ma i motori si fermano circa un paio d’ore dopo. L’autista fa scendere tutti. Il sole del mattino già inizia a bruciare, e un orizzonte di sabbia e miraggi blocca sul nascere qualsiasi idea di fuga. Le opzioni sono due, spiegano in arabo i militari a un ragazzo che fa da interprete: «Duecento dollari a testa e vi riportiamo in città. Oppure proseguiamo».

La polizia sa di giocarsi un carico d’oro. Nel giro di un’ora di trattative si trova l’accordo. Molti sono riusciti a nascondere i soldi al momento dell’arresto, cuciti addosso nell’orlo dei pantaloni o dentro le scarpe. Chi ha più dollari paga la quota per le donne e i bambini rimasti senza un centesimo. Raggiunta la periferia di Kufrah, gli stessi militari li mettono in contatto con dei passeur amici. Chi ha altri soldi parte subito sui fuoristrada diretti a Benghasi, al nord. Anna e il piccolo sono salvi.

Appena Abraham ha notizie della moglie, le versa con un Western Union i due ultimi stipendi per pagare l’affitto a Tripoli e comprare un altro viaggio in barca. «Certo che avevo paura per il bambino. Ma era l’unica soluzione. In Libia, ogni giorno rischiava d’essere arrestata e mandata di nuovo a morire nel deserto. Tornare in aereo era impossibile: se si fosse presentata all’ambasciata eritrea, l’avrebbero arrestata immediatamente. Se dovevano morire, meglio che morissero in mare, piuttosto che in mezzo al deserto o in un carcere».

Tre mesi dopo, luglio 2006, la moglie e il bambino sbarcano a Lampedusa. Abraham li aspetta da un anno.

Niente di speciale. La loro è una storia come tante; basterebbe chiedere a uno dei 19.099 uomini, delle 1.037 donne o dei 1.264 bambini sbarcati in Sicilia nel 2006. Ognuno di loro ricorda un inferno. La traversata negli ultimi dieci anni è costata la vita ad almeno 2.216 persone. Ma tutto questo il piccolo Daniel non lo sa. Nella sua affollata cameretta con vista sull’autostrada romana gioca a far scontrare due macchinette colorate, mentre Anna mi offre un tè in un bicchiere di plastica. Qui non c’è il deserto, né le sbarre di una galera, divise che strillano e voci che piangono in camerate di gente ammucchiata, e non ci sono nemmeno le onde del mare la notte o il rumore assordante del motore per ore e ore. A due anni Daniel è già un piccolo ometto, e presto saprà abituarsi anche alla normalità.

Il 27 agosto 2004 un aereo venne dirottato dai deportati eritrei a Khartoum, in Sudan. Lì, 60 dei 75 passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. In patria avrebbero fatto la fine dei 223 deportati da Malta tra settembre e ottobre del 2002. Tornati in Eritrea, furono detenuti e torturati. Lo hanno testimoniato ad Amnesty International i pochi riusciti a evadere, che oggi sono rifugiati politici nel Nord America e nei Paesi scandinavi. Trattenuti prima nella prigione di Adi Abeito e poi, in seguito a un tentativo di fuga, nel carcere di massima sicurezza di Dahlak Kebir, molti di loro sono stati uccisi.

Anche questo spinge a buttarsi nel Mediterraneo, costi quel che costi. «Una volta in Libia non puoi più tornare indietro - dice Abraham, mentre rimette nel portafogli il permesso di soggiorno per motivi umanitari -. Restare a Tripoli è un inferno, ma la via del ritorno passa di nuovo da Kufrah e dal deserto. Se proprio devi morire, meglio continuare il viaggio».





Una generazione dispersa tra deserto e mare


Quella di Abraham è l’odissea comune a migliaia e migliaia di persone. Arrivano ogni estate, da anni, su vecchie barche e gommoni affidati alle correnti del mare. Occupano lo spazio di una breve notizia sulle pagine di cronaca dei quotidiani, e poi spariscono. Sono i clandestini, figli di una generazione tagliata fuori dal diritto alla mobilità oppure in fuga da guerre e persecuzioni, attraverso viaggi che sono vere e proprie odissee. Il mare è soltanto l’ultimo degli ostacoli. Prima c’è da attraversare il deserto. Le piste transahariane sono disseminate degli scheletri dei clandestini.

Il Sahara è un passaggio obbligato. E più pericoloso del mare. Il grande deserto separa l’Africa occidentale e il Corno d’Africa dai Paesi del Mediterraneo, da dove è facile imbarcarsi clandestinamente per l’Italia e la Spagna. Si attraversa su camion e fuoristrada che battono le piste tra Sudan, Chad, Niger e Mali da un lato, Libia e Algeria dall’altro.

Una ricerca firmata Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com), basata sulle notizie documentate dalla stampa internazionale, parla di almeno 1.069 morti sotto il sole del deserto del Sahara dal ’96 al 2006. E chi scampa alle settimane di viaggio tra le dune deve solo sperare di non essere arrestato a Tripoli dalla polizia del colonnello Muammar al-Qaddafi, ultimo gendarme del cortile europeo, alle soglie di un mare, il Mediterraneo, che ormai è diventato una fossa comune.

Nella più totale indifferenza internazionale, dal 1988 ad oggi, dice Fortress Europe, almeno 9.229 persone hanno perso la vita sulle rotte dell’immigrazione clandestina.

Soltanto il canale di Sicilia ha inghiottito almeno 2.216 persone.
Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 16 Novembre 2007 19:39

Guardare il creato con gli occhi di Dio

Guardare il creato con gli occhi di Dio

di Gerolamo Fazzini
da Mondo e Missione/Agosto-Settembre 2007

Il tema della vita è stato uno di quelli sottolineati con maggior forza nel corso della quinta Conferenza generale degli episcopati dell’America Latina e dei Caraibi ad Aparecida, nel maggio scorso. La vita minacciata, offesa, negata in mille modi: dalle guerre all’aborto, passando per lo sfruttamento sessuale e la violenza diffusa. Si è parlato di «ecologia umana», con un obiettivo privilegiato: l’Amazzonia.

La domanda è: come immaginare uno sviluppo umano nel segno di una fedeltà al Vangelo? La dottrina sociale della Chiesa suggerisce due aggettivi: «integrale» (ossia attento a tutte le dimensioni dell’umano, a cominciare dall’apertura alla trascendenza) e «sostenibile», cioè preoccupato delle ripercussioni sul futuro e sulle nuove generazioni.

La Giornata del creato, che da qualche anno si celebra il primo settembre, è un’occasione privilegiata per una riflessione - che sia preludio a un impegno di cambiamento - su questo tema così cruciale. «Giornata del creato» dice in partenza l’orizzonte che noi cristiani adottiamo nell’affrontare la questione ecologica. Da un lato, siamo chiamati a riconoscere che il mondo, la natura, sono stati fatti da un Altro e rappresentano un immenso dono. Dall’altro, sappiamo che il Creatore ha affidato alle donne e agli uomini la salvaguardia del creato, consegnando loro una signoria responsabile sulla natura. All’uomo è chiesto di esercitare un difficile equilibrio, dal momento che, come sa sfruttare al meglio scienza e tecnologia, è capace - purtroppo - di operare scelte disastrose. Per se stesso, per gli altri e per il pianeta.

Salvaguardia dell’ambiente in senso cristiano significa, allora, non già una tutela passiva della natura, bensì prendere sul serio la questione ecologica. Che non è una moda passeggera, ma rappresenta un’autentica emergenza e una sfida per tutti i credenti: non a caso anche l’imminente assemblea ecumenica europea di Sibiu - come già le precedenti di Basilea e Graz - se ne occuperà. Questi criteri dovrebbero guidarci anche nell’affrontare il dibattito, oggi infuocato, sui cambiamenti climatici. L’incontro di studio e confronto fra esperti di varie scuole - tenutosi in Vaticano qualche mese fa per iniziativa del Pontificio consiglio giustizia e pace - ha offerto moti spunti che possono essere interpretati come altrettante bussole per un discernimento serio.

Li ricapitoliamo in sintesi. Innanzitutto. il dibattito scientifico su origine e motivi dei cambiamenti climatici non è chiuso, dal momento che esistono posizioni differenziate. La Chiesa incoraggia la scienza ad andare avanti nella ricerca e nel confronto.

Inoltre, ciò che sta a cuore alla Chiesa è lo sviluppo dei Paesi poveri, ragion per cui le politiche sul clima devono tenere conto di questa priorità. Ciò significa che come cristiani non possiamo condividere politiche ambientali che siano pretesto per impedire uno sviluppo armonico dei Paesi poveri o, peggio ancora, per promuovere un controllo forzato delle nascite. Infine, i cambiamenti climatici non sono in sé causa di povertà, ma aggravano problemi là dove c’è maggiore vulnerabilità, a causa del sottosviluppo. Per questo sono importanti politiche che promuovano uno sviluppo a misura d’uomo e di ambiente, in un quadro più ampio di adattamento ai cambiamenti.

In sintesi: la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. I problemi ambientali nascono dalla negazione del Creatore, che conduce a un doppio esito, in entrambi i casi pericoloso: lo sfruttamento selvaggio delle risorse («dominio dispotico e dissennato») o la divinizzazione della natura, che porta a considerare l’attività umana come male in sé. Per uscire da questa doppia trappola (l’egoismo consumista che aggredisce la natura o l’ambientalismo che la idolatra, a danno dell’uomo) una via c’è: tornare a guardare a quanto ci circonda con gli occhi di Dio.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 16 Novembre 2007 19:37

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

UN PROBLEMA, MA ANCHE UNA RISORSA

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Il nostro Paese sta cambiando: i volti delle persone che incontriamo per le strade sono diversi, le lingue che sentiamo parlare risuonano estranee, gli odori che provengono dalle case vicine ci sono sconosciuti, eppure siamo sempre nello stesso luogo, sempre in Italia, seppur trasformata, plurale, vale a dire multietnica, multiculturale e multireligiosa. Chi sono queste nuove persone? Da dove provengono? Vogliono restare o ripartire? E se rimanessero, saprebbero accettare e rispettare i valori della nostra Costituzione? Potremmo considerarli cittadini italiani soltanto dopo cinque anni?

In occasione della Giornata mondiale del migrante, Benedetto XVI ha preso a esempio la Famiglia di Nazaret per mostrare come, attraverso il suo peregrinare, è possibile intravedere la dolorosa condizione di tanti migranti, specialmente dei rifugiati, de- gli esuli, degli sfollati, dei profughi, dei perseguitati che si trovano ad affrontare numerosi disagi, ristrettezze economiche, diffidenze e notevoli fragilità psicologiche, nella difficile ricerca di un nuovo luogo in cui vivere. Il Papa ha sottolineato che nel vasto campo delle migrazioni la persona umana dev’essere sempre al centro: «Soltanto il rispetto della dignità umana di tutti i migranti, da un lato, e il riconoscimento da parte dei migranti stessi dei valori della società che li ospita, dall’altro, rendono possibile la giusta integrazione delle famiglie nei sistemi sociali, economici e politici dei Paesi di accoglienza1». Solo così questo fenomeno non costituirà soltanto un problema, ma anche e soprattutto una risorsa per l’umanità.

Immigrazione: alla ricerca delle giuste regole

Eppure i migranti restano, sotto certi punti di vista, uno degli elementi negativi delle nostre società, la parte oscura e ignota, quella da cui ci si vuole salvaguardare, quella che si teme perché sconosciuta, diversa, a volte clandestina. Per questo è necessario in primo luogo tutelarli: sia attraverso opportuni presidi legislativi, giuridici e amministrativi specifici, sia mediante una rete di servizi, di punti di ascolto, di strutture di assistenza che ne permettano la conoscenza e l’inserimento nei diversi contesti sociali. Di fatto, nel trattare dell’immigrazione è fondamentale, come scrive Johan Ketelers, segretario generale dell’Icmc (International catholic migration commission), considerare anzitutto i diritti umani e «l’ulteriore sviluppo di un sistema legale internazionale, volto a proteggere gli immigrati, che sia accettato, ratificato e applicato da tutti i Paesi »2, senza tralasciare però i doveri e gli obblighi degli stessi immigrati, e le ragionevoli aspettative che i Paesi di arrivo nutrono a tale riguardo.

Per questo tutti i protagonisti della vita pubblica, inclusi gli immigrati e le loro organizzazioni, devono contribuire a formulare regole serie e trasparenti, che permettano lo sviluppo del processo d’integrazione e di un fondamentale cambio di mentalità, volto al rinnovamento della convivenza civile. Il presidente Napolitano, in uno dei tanti suoi interventi sul tema, dopo aver sostenuto l’importanza e la valenza positiva del fenomeno immigrazione nell’Italia di oggi - per sopperire alla carenza di mano d’opera in vari settori, per combattere il decremento delle nascite; per una modernizzazione sociale e culturale -, ha aggiunto: «La strada dell’integrazione è ancora lunga e va affrontata con coerenza e rigore. A tal fine è anzitutto necessario che gli ingressi avvengano per via legale. Gli immigrati non devono più avere la paura di vivere in condizione irregolare e di sopportare le conseguenze dell’emarginazione che all’irregolarità si associa. È soprattutto cruciale evitare i gravissimi rischi collegati agli ingressi clandestini. Dare certezze al percorso migratorio fin dai Paesi d’origine, con regole che tutti devono rispettare, significa far rientrare nella normalità un fenomeno che ormai contrassegna questo secolo»3.

Un’occasione per testare le nostre capacità di accoglienza e la chiara applicazione delle regole è arrivata il 1° gennaio, con l’estensione della cittadinanza europea a bulgari e rumeni. Secondo quanto stabilito dall’articolo 18 del Trattato istitutivo della Comunità europea, è riconosciuto loro il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio di tutti gli Stati membri e, per quel che riguarda l’Italia, non saranno più sottoposti alla disciplina normativa prevista dalla Bossi-Fini(d.l. 1998,n. 286). Pertanto i cittadini rumeni e bulgari già esentati dall’obbligo del visto per soggiorni turistici, non dovranno munirsene nemmeno per altri motivi di ingresso - lavoro, famiglia, studio -, ma basterà il possesso di un normale documento di identità o di un passaporto4. Temendo ripercussioni in ambito lavorativo, il Governo italiano nel Consiglio dei ministri del 27 gennaio 2007; analogamente a quanto previsto in altri Paesi dell’Ue, ha deciso di avvalersi di un “regime transitorio” (durata un anno), prima della completa liberalizzazione dell’accesso al lavoro subordinato, lasciando invece senza alcuna restrizione il lavoro autonomo.

Se a marzo dello scorso anno si poteva parlare di 400.000 unità per i rumeni presenti in Italia e di 30.000 per i bulgari, queste cifre hanno ovviamente subito un incremento in seguito all’apertura delle frontiere che, per quanto non ancora quantificabile, ha vieppiù alimentato la già alta diffidenza verso i Rom5, minoranza etnica in Romania, dove costituiscono circa il 10% dei 23 milioni di quella popolazione. I Rom, proprio per il loro stile di vita nomade, sono fortemente discriminati in Romania, ottenendo presso quel Parlamento un solo rappresentante, nonostante le 40 comunità presenti nel Paese. Ebbene, questa situazione negativa in patria, unita al diritto alla libera circolazione acquisito il 1° gennaio, ha fatto temere un’invasione delle nostre città da parte dei Rom i quali, solitamente ghettizzati nelle periferie italiane, rischiano ancora una volta di diventare il “capro espiatorio” e di essere cacciati, quando invece - proprio per la loro mobilità -, sono i meno desiderosi di trattenersi in un Paese.

Va invece rilevato che, a. partire dal 1992, proprio i rumeni (non Rom) hanno decuplicato la loro presenza in Italia - sono oggi quasi tre milioni -, pur non avendo casa o residenza comunale, e rimanendo sprovvisti di iscrizione alle anagrafi comunali. Come, sottolinea la Caritas italiana, «l’andamento degli ultimi anni può far pensare a una pressione migratoria di 60.000 lavoratori». Anche la “questione nomadi” - rispetto alla quale la Caritas è molto impegnata a livello sia dell’accoglienza, sia del confronto istituzionale - evidenzia aspetti complessi, che richiedono di considerare attentamente le disposizioni europee, ricordando che l’applicazione delle leggi e la sicurezza sono valori condivisi anche dalla maggior parte degli immigrati, tanto più che in Italia, nel 2006, il 23,3% delle assunzioni, secondo i dati della Camera di commercio di Milano, è stato appannaggio di immigrati - particolarmente nel settore dei servizi, immobiliare, del noleggio, delle pulizie e della vigilanza, ma con presenze anche nella sanità, nell’istruzione, nella ristorazione e nel commercio -, evidenziando come il flusso extracomunitario, se gestito con razionalità, può diventare una preziosa, risorsa per lo sviluppo nazionale6.

Cittadinanza e integrazione. Quali i tempi?

Ma quanti sono gli immigrati in Italia? Secondo i dati Istat, forniti dal Ministero dell’Interno, al 1° gennaio 2006 i cittadini stranieri residenti in Italia erano 2.670.514, cifra alla quale vanno aggiunti sia i minori residenti, sia gli irregolari: il Rapporto Eurispes parla di 800 mila persone, arrivando così a più di 3 milioni7 . Naturalmente in crescita, visti i nuovi arrivi - nel mese di marzo 2006 sono state presentate 485.000 domande di assunzione - e le nascite dei figli di cittadini stranieri. Inoltre, il nostro Paese si conferma primo, tra i Paesi europei, per numero - assoluto e relativo - degli immigrati irregolari8, e presenta la più alta percentuale di extracomunitari sul totale degli immigrati, oltre che di immigrati disoccupati o sottoccupati. Se nell’arco di dodici anni, dal 1992 al 2004, si è passati da 650 mila permessi di soggiorno a più di due milioni, oggi siamo arrivati a parlare di cittadinanza agli stranieri dopo cinque anni di permanenza in Italia.

Nel progetto della nuova legge sulla cittadinanza, all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, si legge che due sono gli aspetti su cui poggia il testo unificato: la concezione della cittadinanza come strumento volto a favorire l’integrazione; la concezione della cittadinanza come, atto di volontà individuale che, in presenza di determinate condizioni, impegna lo Stato. Inoltre gli elementi costitutivi della nuova disciplina consistono nello ius soli, nell’appartenenza fisica e sociale alla comunità, nell’adesione ai principi costituzionali e nella possibilità della doppia cittadinanza. Quindi: cittadinanza dopo cinque anni di residenza regolare e continua nel Paese per gli adulti; cittadinanza per i bambini che nascono in Italia, a patto che almeno uno dei due genitori risieda legalmente da almeno cinque anni senza interruzioni; cittadinanza per i ragazzi che non nascono qui ma che, da almeno cinque anni, studiano o lavorano e hanno almeno uno dei due genitori nella stessa condizione.

L’art. 5 della legge recita: «L’attribuzione della cittadinanza è condizionata dalla conoscenza della lingua italiana equivalente al livello del terzo anno della scuola primaria»9, ma è necessario chiedersi: se la cittadinanza è la forma giuridica di un contenuto alto, che dovrebbe certificare l’appartenenza a una comunità e la condivisione di una serie di valori fondanti, basteranno cinque anni di residenza e la minima conoscenza della nostra lingua per fare di uno straniero un cittadino nel senso pieno del termine? La riduzione drastica dei tempi favorirà il processo di integrazione, o aiuterà persone che vogliono soltanto sfruttare i vantaggi derivanti dall’acquisizione di certi diritti, senza la sottomissione ai relativi doveri? E infine, siamo certi che i valori della nostra democrazia, il conseguente rispetto della dignità umana, le libertà civili e religiose, il primato della legge, saranno considerati sacri e inviolabili dai nuovi cittadini, compresi quelli di religione islamica?

Non va dimenticato infatti che nel nostro Paese, al 31 dicembre 2006, gli immigrati musulmani con regolare permesso di soggiorno erano un milione e che l’Islam è la seconda religione in Italia, con il 33,2% di praticanti; senza tener conto degli irregolari, la cui presenza - elevata in alcune zone e in alcuni periodi dell’anno - non è ben quantificabile, a causa della grande mobilità e del continuo ricambio di persone. Com’è noto, esistono più forme di Islam riconducibili a tre differenti atteggiamenti: il primo rappresentato da una fede vissuta interiormente da musulmani moderati, pacifici coabitatori tra noi, che tendono a integrarsi, pur mantenendo salde le proprie radici; il secondo caratterizzato da un’indifferenza verso i legami con la tradizione di provenienza e incurante di ogni espressione di religiosità; il terzo, apparentemente il più forte e aggressivo, non solo pretende dallo Stato italiano di finanziare le istituzioni islamiche - scuole coraniche e moschee10 -, ma anche si oppone vivacemente a concedere alternative nelle scelte personali dei corregionali, come dimostrano le vicissitudini della Carta dei valori e dei principi, in cui l’Ucoii ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante11.

Al di là della complessa “questione islamica”, ancora pressoché irrisolta, va sottolineato che un documento, sia passaporto o carta d’identità, non determina il sentirsi parte di uno Stato, né la cittadinanza può essere considerata un punto di partenza per una futura integrazione. Essa è semmai il punto di arrivo di un processo molto lungo, che inizia dalla conoscenza della lingua, della storia, delle tradizioni, dei principi giuridici fondamentali del nostro Paese, per passare poi dall’estraneità all’accettazione sincera, dall’ostilità al sentirsi a casa, dal multiculturalismo alla piena integrazione socioculturale e politica. Ciò non significa pretendere una coincidenza tra nazionalità e cittadinanza, ma semplicemente l’accettazione piena e consapevole da parte del migrante - pur nel rispetto delle sue diversità culturali e religiose -, dei fondamenti costituzionali e dell’ordinamento giuridico del nostro Stato: dopo averlo effettivamente conosciuto. Solo così sarà possibile una convivenza in cui, se da un lato la nostra tradizione saprà arricchirsi con nuovi contributi, diverse realtà, altre culture con essa compatibili - senza mostrare alcun timore di perdere la propria identità -, dall’altro i cittadini “acquisiti” potranno sentirsi parte di questa nazione.

Note

(1) Migranti-press, anno XXIX, n. 3, p. 1. Proprio in relazione a quanto detto, e per mantener vive le parole del suo predecessore Giovanni Paolo II – “L’uomo che soffre ci appartiene” -, Benedetto XVI ha personalmente visitato la mensa di Colle Oppio una delle tante gestite dalla Caritas romana, definendola “un luogo significativo della città di Roma, ricco di umanità. In questa mensa è possibile toccare con mano la presenza di Cristo nel fratello che ha fame e in colui che gli offre da mangiare. Qui si può sperimentare che, quando amiamo il prossimo, conosciamo meglio Dio”. Ricordiamo che i pasti serviti dalla mensa di Colle Oppio – a Roma e Ostia ce ne sono altre tre -, nel 2005 sono stati 122.000 e, su un totale di 4.573 ospiti, il 73% erano stranieri, provenienti da 98 Paesi diversi.

(2) Migranti-press, anno XXIX, n. 4, p. 2.

(3) Migranti-press, anno XXVIII, n. 51, p. 9.

(4) In caso di provenienza diretta dalla Romania o Bulgaria, i soggetti verranno sottoposti a controlli minimi alla frontiera, tipo: accertamento dell’identità della persona e verifica della validità e autenticità dei documenti di viaggio. Il diritto di ingresso può essere limitato solo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza.

(5) Migranti-press, anno XXIX, n. 13, p. 3. A tal proposito è intervenuto monsignor Piero Gabella, responsabile della Fondazione Cei Migrantes, sostenendo che “gli allarmismi fanno nascere paure nella gente, che poi interpreta i fatti in modo poco cristiano. Occorre abbassare i toni e vedere cosa accade realmente, senza pregiudizi”. Innegabilmente, però, la “questione zingari” – nella sua formulazione più vaga – coinvolge negativamente presso l’opinione pubblica i Rom (e altri gruppi di nomadi), come visto nel paginone de La Stampa, 18 aprile 2007, “Ho visto gli zingari rubare i bambini”, dove si evoca il rapimento della piccola Denise.

(6) Cf ivi, p. 5. Secondo un’inchiesta di Repubblica, 11 aprile 2007, il settore edile è quello in cui maggiormente sono presenti gli immigrati, spesso con garanzie e tutele minime, il 45% su 1.200.000 operai. Di questi 600.000 sono in nero e, quindi a rischio di gravi infortuni, perché di solito costretti a lavorare senza alcuna attrezzatura di sicurezza.

(7) Secondo Caritas-Migrantes, Immigrazione, Dossier Statistico 2006. XVI Rapporto, Centro Studi e Ricerche Idos, Roma 2006, gli stranieri in Italia sarebbero 3.035.144. il Dossier è un progetto di ricerca e sensibilizzazione che fa capo alla Caritas italiana, alla Fondazione Migrantes e alla Caritas diocesana di Roma. Per un’approfondita analisi delle cifre ivi riportate cf Simone M., Il Dossier sull’immigrazione , in Civiltà Cattolica 2006 IV, pp. 490-499.

(8) Vanno ricordati i continui sbarchi di clandestini nell’isola di Lampedusa, con non pochi incidenti, oltre che nel resto delle coste italiane. Secondo il Corriere della Sera, 12 aprile 2007, è al vaglio del Consiglio dei Ministri la nuova legge sull’immigrazione Amato-Ferrero che, sostituendo la Bossi-Fini, intende rendere più flessibile l’incontro tra offerta e domanda di lavoro. Tra l’altro, l’ultima relazione di Palazzo Chigi sui servizi segreti conferma che la maggior parte dei clandestini (64%) sono stranieri col permesso di soggiorno scaduto, overstayers che magari lavorano in nero, mentre sono più ridotte le quote di chi varca “fraudolentemente” le frontiere terrestri (23%) e di chi sbarca sulle coste italiane (13%). Tra i 700.000 senza documenti, molti sono gli extracomunitari che hanno chiesto il permesso di soggiorno grazie ai decreti flussi 2006: e su questo fronte, assicura Amato, «il 68% delle 400.000 domande risulta ormai definito. A Milano, su 33.665 domande ne sono state definite 18.660 (di cui 8.980 respinte)». Davanti a questi numeri, il ministro Ferrero non esclude una regolarizzazione «tale e quale a quella fatta dalla Cdl», che sanò la posizione di 700.000 persone. Il Giornale, 12 aprile 2007, riferisce che la nuova legge sull’immigrazione vorrebbe ridurre l’irregolarità e potrebbe permettere a un milione e mezzo di immigrati di votare alle elezioni amministrative o di essere eletti nei Comuni – da sottolineare il fatto che il 20% degli iscritti alla Cgil è extracomunitario -, con l’unico requisito di avere la carta di soggiorno, che viene consegnata a chi risiede nel nostro Paese da almeno cinque anni e ne fa richiesta.

(9) Per una lettura di tutti gli articoli del nuovo testo unico riguardante le «Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza», e che riduce da 10 a 5 gli anni necessari per ottenere la cittadinanza italiana, cf Migranti -press, anno XXIX, n. 10, p. 8.

(10) Il Giornale, 12 aprile 2007. In 7 anni, le scuole coraniche e le moschee, presenti in Italia, sono aumentate del 50%, grazie ai finanziamenti dello Stato per le organizzazioni assistenziali e religiose.

(11) L’Ucoii (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli Musulmani - un movimento fondamentalista e radicale -,è salita ai vertici delle cronache nazionali per essere l’interlocutore principale con cui il ministero dell’Interno, fin dai tempi di Pisanu, ha dato vita a una Consulta islamica, organo composto di 16 membri, col compito di favorire l’integrazione degli islamici in Italia. L’8 febbraio 2007 Hamza Piccardo e Mohamed Nour Dachan, rispettivamente presidente e portavoce dell’Ucoii sono stati indagati - dopo mesi di indagini - dalla Procura di Roma per l’ipotesi di reato di istigazione all’odio razziale, in seguito ad alcune dichiarazioni nelle quali era scritto «ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano», con l’evidente intento di paragonare le stragi naziste a quelle in Libano. Per ulteriori approfondimenti cf Vanzan P. - Scatena M., “L Islam tra noi, da Regensburg alla Carta dei valori”, in Studium settembre/ottobre 2006, pp. 651-667, e Vanzan P., Nota politica, in VP 6/2007.

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Potenza nucleare nel Medio Oriente - LA BOMBA DI PULCINELLA

Angela Lano, giornalista e scrittrice, è direttore del sito www.infopal.it 
da MC Maggio 2007

Il segreto di Pulcinella è stato infin svelato:lsraele è una potenza nucleare. Come tutti sapevano già dalle rivelazioni del tecnico nucleare Mordechai Vanunu,vent’anni fa (leggi: Missioni Consolata, luglio-agosto 2004, ndr). A togliere gli ultimi dubbi, semmai ce ne fossero ancora in giro, è stato lo stesso premier israeliano Ehud Olmert che, l’11 dicembre scorso,durante un’intervista alla tv tedesca Sat1, ha dichiarato: «L’Iran, apertamente, esplicitamente e pubblicamente minaccia di spazzare via Israele dalla mappa. Potete affermare che ciò rappresenti lo stesso livello, quando essi aspirano ad avere armi nucleari come America, Francia, Israele,Russia? ».Già,armi nucleari «come Israele».

Mordechai, l’Iran e i media mondiali

Mordechai Vanunu,che ha passato 18 anni in prigione dopo che nel 1986 aveva reso pubblico il programma nucleare israeliano, ha dichiarato all’agenzia France Press (www.afp.com): «Le affermazioni di Olmert non sono nulla di nuovo, ma è una buona cosa che Israele abbia deciso di renderle pubbliche. Il mondo, ora, non dovrebbe solo parlare dell’Iran, ma anche di Israele come minaccia nucleare con cui avere a che fare, in modo da creare un Medio Oriente libero dal nucleare e portare la pace». Tuttavia, l’attenzione internazionale è concentrata sull’Iran. Non passa giorno senza che i nostri e gli altri media ci avvertano del «pericolo atomico iraniano», nella lenta, inesorabile,devastante preparazione del «consenso» alla nuova guerra di Bush &compagnia.

Israele è l’unica potenza atomica del Vicino e Medio Oriente,e ha invaso il Libano, l’estate scorsa, e massacra da decenni il popolo palestinese.

All’inizio di gennaio, la rivista militare Genus riferiva quanto riportato da esperti militari:è probabile che Israele possieda circa 150-200 testate nucleari,chiamate «Yeriho» (Gerico), e missili in grado di portare testate a lunga gittata. La testimonianza arriverebbe da “foto satellitari”, secondo le quali, le stazioni di lancio dei missili si troverebbero nell’area di Zechariya, vicino a Beit Shemesh, a ovest di Gerusalemme.

Il 13 novembre scorso,durante la visita a Washington, Olmert aveva per la prima volta fatto cenno a un’azione militare contro l’Iran per «bloccarne il programma militare»:«l’Iran accetterà una soluzione di compromesso sulla questione nucleare solo se avrà motivo dì aver paura»

Quelle bombe nucleari in attesa...

Il 17 gennaio, il quotidiano inglese Sunday Times pubblicava un articolo dal titolo «Rivelazione: Israele pianifica un attacco nucleare contro l’Iran»: «Due squadriglie aeree israeliane si stanno addestrando per far saltare un’installazione iraniana usando bombe a testata nucleare. (...) L’attacco sarebbe il primo con armi nucleari dal 1945,quando gli Stati Uniti hanno lanciato bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le bombe israeliane avrebbero ognuna una forza equivalente a 1/15 della bomba di Hiroshima. Bombe convenzionali con laser apriranno dei tunnel dentro gli obiettivi. “Mini bombe nucleari” verrebbero immediatamente sparate dentro un impianto a Natanz, esplodendo in profondità per ridurre il rischio della ricaduta radioattiva. “Non appena verrà data luce verde, ci sarà una missione, un colpo e il progetto nucleare sarà distrutto ha dichiarato una delle fonti. (.. .) Il governo israeliano ha più volte minacciato che non lascerà mai che armi nucleari vengano costruite in Iran,il cui presidente Mahmoud Ahmadinejad, ha dichiarato che “Israele deve essere spazzato via dalla mappa geografica”(...).Scienziati hanno calcolato che, sebbene la contaminazione dal bunker potrebbe essere limitata , tonnellate di sostanze a base di uranio radioattivo verrebbero rilasciate».

Arsenali Usa in Israele

Il 12 dicembre dello scorso anno, l’agenzia israeliana Ynetnews (www.y netnews.com) appartenente al gruppo Yedioth, ha reso noto che «il senato e la camera dei rappresentanti Usa hanno approvato il raddoppio degli arsenali statunitensi in Israele». In questi depositi, ha scritto il giornalista Manlio Dinucci, il Pentagono conserva armi e altri equipaggiamenti militari, del valore di 100 milioni di dollari, da usare in Medio Oriente «in caso di emergenza». Ma,«in caso di emergenza, anche Israele è autorizzato a usare questi arsenali».Ora essi saranno raddoppiati come capacità e, grazie a un finanziamento di 200 milioni di dollari, «riempiti di nuovo».Perché riempiti di nuovo? Perché “gran parte delle armi e degli equipaggiamentistatunitensi depositati in Israele l’anno scorso è stata usata questa estate per combattere la guerra in Libano”.

Questo raddoppio tira in ballo anche il nostro Paese: “Come documenta l’organizzazione statunitense Global Security (www.globalsecurity.org) – scrive ancora Dinucci -, il 31° squadrone munizioni che opera a Camp Darby”, la base logistica dell’esercito Usa tra Pisa e Livorno, è responsabile del maggior e più disseminato arsenale di munizioni convenzionali delle forze aeree Usa in Europa, consistente in 21mila tonnellate collocate in Italia, e di due depositi classificati, situati in Israele. Questi e altri arsenali statunitensi in lsraele, gran parte dei quali è stata usata per la guerra contro il Libano, sono dunque una sorta di succursale di Camp Darby.(..) E, poiché ora il raddoppio e il riempimento degli arsenali Usa in Israele saranno effettuati dal 31° squadrone munizioni, sarà sempre questa base Usa in Italia a svolgere un ruolo chiave.

Un po’ di … preistoria atomica israeliana

La farsa del lapsus-fuga di notizie sull’arsenale nucleare israeliano, di cui il premier Olmert si è reso (consapevole?) strumento, copre una verità indiscussa e ben precedente anche alle ormai datate rivelazioni di Vanunu.

Il piano nucleare israeliano ha non solo una storia, ma anche una preistoria, registrata su documenti, libri, ecc. Nel numero del 24 dicembre scorso la rivista Jeune Afrique ripercorre la «preistoria» nucleare di Israele attraverso il libro del giornalista israeliano Michael Karpin,«The bomb in the Basement»:«L’autore fa risalire la “preistoria dell’armamento nucleare israeliano”al 1930, precisamente alla rivolta araba del 1935-1939 in Palestina contro la potenza mandataria britannica e contro la colonizzazione sionista. È da allora, dunque, prima della shoah, che David Ben Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica e che diventerà il primo capo di governo israeliano, si convince che i suoi correligionari sarebbero stati sterminati dagli Arabi, se non fossero stati protetti da un esercito più potente dell’insieme delle forze della regione. Questa “dottrina Ben Gurion” comprenderà, a partire dal 1945, la volontà di acquisire un arsenale atomico e impedire ai vicini di israele di entrare in competizione su questo terreno.

Dalla fine della Guerra mondiale, il movimento sionista ricerca e ottiene l’appoggio degli Stati Uniti e, singolarmente,di un gruppo di 17 ricchi ebrei americani,che finanziano l’acquisto e il trasporto delle armi, delle munizioni e delle macchine belliche, Questo comitato, Sonneborn, dal nome di uno dei 17 membri,apporterà ancora un importante contributo, nel 1956-1957,al progetto nucleare franco-israeliano.

Questo orientamento al nucleare, voluto da Ben Gurion, è evidenziato dopo la creazione dello Stato, nel 1948, da un dipartimento di ricerca nucleare”.

Israele, partner militare dell’Italia

Il governo israeliano è nostro partner militare: il 17 maggio 2005, il governo Berlusconi vara la Legge n. 94, dove viene istituzionalizzata un’intesa per la cooperazione militare con Israele siglata nel 2003 (www.italgiure.giustizi.it). «Essa prevede - prosegue Dinucci - una serie di attività congiunte, tra cui “importazione, esportazione e transito di materiali militari ”organizzazione delle forze armate ”scambio di dati tecnici, informazioni e hardware”militari. In tal modo l’Italia contribuisce, con ricerche e alte tecnologie, anche al potenziamento dell’arsenale nucleare israeliano, l’unico in Medio Oriente». Proprio una bella equivicinanza!

Un accordo firmato a ottobre del 2006 prevede la partecipazione della flotta navale israeliana alla campagna militare Nato “Activ eEndeavour” (www.afsputh.nato.int) finalizzata a combattere il “terrorismo nel Mediterraneo”. La squadra navale Nato è comandata da un ufficiale italiano agli ordini statunitensi.

«In questi ultimi mesi - scrive Seymour Hersh su The New Yorker (riportiamo la traduzione pubblicata su Internazionale del 9 marzo2007, ndr) - con il progressivo deteriorarsi della situazione in Iraq, l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisa alla sua strategia in Medio Oriente, sia nella diplomazia ufficiale sia nelle operazioni clandestine. Questa “sterzata”- così la definiscono alcuni alla Casa Bianca - ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel sempre più acceso conflitto tra musulmani sciiti e sunniti in atto nella regione.

Per contrastare l’Iran, paese a prevalenza sciita, la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush - in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita - conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire l-Iezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran».

Di tale pericoloso scenario di «guerra infinita» parla ormai quasi quotidianamente un illustre personaggio ebreo canadese, il prof. Michel Chossudovsky nel suo interessante e documentato sito di ricerca (www.globalresearch.ca): «Il mondo è al crocevia della più grave crisi della storia moderna - scrive in L’impensabile. La guerra nucleare statunitense-israeliana contro l’Iran .Gli Stati Uniti si sono imbarcati in un’avventura militare,una “lunga guerra” che minaccia il futuro dell’umanità. In nessun momento, da quando la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, il 6 agosto 1945, l’umanità è stata più vicina all’impensabile, a un olocausto nucleare che potrebbe potenzialmente diffondersi, in termini di contaminazione radioattiva,su una larga parte del Medio Oriente. Ci sono prove crescenti che l’amministrazione Bush,in accordo con Israele e la Nato, sta pianificando una guerra nucleare contro l’Iran, ironicamente, in rappresaglia per il suo programma atomico inesistente. L’operazione militare statunitense-israeliana è annunciata come “in un avanzato stato di preparazione”. Se tale piano stesse per essere lanciato, la guerra mondiale si intensificherebbe e probabilmente coinvolgerebbe l’intera area mediorientale e centrasiatica. La guerra potrebbe estendersi oltre la regione e, come alcuni analisti hanno suggerito, alla fine condurrebbe alla Terza guerra mondiale».

I media: amplificatori di menzogne

«L’Iran possiede un avanzato sistema aereo e la capacità di colpire le postazioni Usa e alleate in Iraq e negli Stati del Golfo, come ha dimostrato nei recenti esercizi militari» afferma Chossudovsky, sottolineando che, per rovesciare la minaccia della guerra,c’è bisogno di una campagna di informazione internazionale capillare sui «danni della guerra propagandata dagli Usa che prevede l’uso delle armi nucleari. Il messaggio deve essere forte e chiaro: non è solo l’Iran che costituisce una minaccia alla sicurezza globale, ma anche Stati Uniti d’America e Israele». Non possiamo che sperare, insieme al prof. Chossudovsky, ad analisti, studiosi, uomini e donne di pace che questa nuova guerra per cui la propaganda mediatica statunitense, israeliana ed europea sta lavorando da un paio di anni, non diventi realtà. Possiamo augurarci che i media, italiani compresi, smettano di fare i banditori di menzogne, gli amplificatori di balle planetarie e contro la vita sul pianeta, e rivelino, come alcuni stanno già facendo, i retroscena dell’ennesima impostura dei «signori delle guerre». Il mondo, gli esseri umani, non potrebbero permettersi una guerra nucleare.

«Bisogna rompere la cospirazione del silenzio - sottolinea Chossudovsky - mettere in luce le menzogne dei mezzi di informazione e le loro distorsioni, affrontare la natura criminale dell’amministrazione Usa e di quei governi che la sostengono, la sua agenda di guerra e la cosiddetta «Agenda della sicurezza nazionale», che ha già definito i contorni di uno stato di polizia. È fondamentale portare il progetto di guerra di Usa e Israele di fronte al dibattito politico, soprattutto nel Nordamerica, nell’Europa occidentale e in Israele. Politici e cittadini devono assumere una posizione contro la guerra». Quella imminente contro l’Iran. E contro tutte le altre attualmente in corso.

Due tesi che fanno discutere

Due libri diversi stanno facendo discutere e riempire le pagine culturali e politiche di riviste e quotidiani italiani: l’uno, Israele siamo noi (Edizione Rizzoli), scritto dalla pasdaran del conflitto israelo-palestinese, Fiamma Nierenstein; l’altro, Obiettivo Iran (Fazi), dell’ex capo delle ispezioni Onu per gli armamenti nucleari.

Il libro della Nierenstein critica duramente il pacifismo ebraico e sostiene l’inesistenza dell’apartheid israeliano attuato contro la popolazione palestinese. Check-point, barriere elettroniche sofisticatissime, muro di separazione, omicidi mirati di militanti e leader delle brigate della resistenza palestinese, occupazione, botte, torture, prigioni stracolme di palestinesi, proposta dei partiti religiosi di destra israeliani di «espellere gli arabi israeliani» dal paese, pulizia etnica, ecc, sono tutte invenzioni della propaganda antisemita. Fandonie, insomma, propinate da gente in malafede; propaganda che arriva anche dagli stessi Israeliani pacifisti e da movimenti ebraici occidentali; una congiura contro Israele, l’unica «democrazia-laboratorio del Medio Oriente».

La tesi della Nierenstein è questa: «Israele è un modello positivo di convivenza civile, proprio perché è fondato su un’ideologia - il sionismo - che propone un modo di vita insieme laico e carico di valori, attento ai bisogni della collettività e alla libertà degli individui, fondato sulla pace e sul progresso, alieno per sua natura dalla violenza». Israele e tutti i suoi abitanti, sia ebrei sia arabi, sarebbero dunque «direttamente minacciati di estinzione da parte del terrorismo suicida» e, in particolare, dall’Iran di Ahmadinejad, Hizbollah libanesi e Hamas palestinese.

In sintesi, quindi, Israele siamo noi, perché «la minaccia che lo sovrasta incombe su tutta la nostra civiltà occidentale, attaccata dall’estremismo islamico». Si tratta, in fondo, della tesi ormai imperante dello scontro tra civiltà, tra Oriente e Occidente.

Obiettivo Iran, di Scott Ritter, spiega perché Washington mira a far crollare il regime di Mahmoud Alimadinejad, anche a costo di «forzare la mano» all’Europa. L’autore «prospetta un’ipotesi in contro- tendenza rispetto al rnainstream dell’informazione: basandosi su un’attenta ricostruzione delle indagini condotte dalla Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) in Iran, dimostra che lo spettro del nucleare paventato dagli americani è stato ingigantito ad arte per giustificare un nuovo intervento in Medioriente. E che il programma di arricchimento dell’uranio è stato potenziato soprattutto a scopo energetico, non bellico.

Ma alla luce di questi elementi, la posizione dell’America appare sempre più strumentale: un altro tassello si aggiunge così al complesso quadro della strategia mistificatoria del governo Bush, già utilizzata per convincere l’opinione pubblica della necessità della guerra in Iraq. La Casa Bianca non è l’unica ad avere degli interessi in un nuovo disastroso conflitto: dopo le provocazioni di Ahmadinejad, Israele considera l’Iran il suo nemico pubblico n. 1 e teme un attacco missilistico. Ma in gioco ci sono pure gli accordi commerciali fra Iran e Cina per le risorse energetiche e gli investimenti della Russia».

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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