In ricordo di P. Franco

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LA STRADA È LUNGA
Costa D’Avorio / Il dopo Accordi di Ouagadougou

di Andrea Anselmi
da Nigrizia/Giugno 2007

Il “dialogo diretto” tra il governo di Abidjan e gli ex ribelli sembra offrire dei risultati insperati. Gli accordi di Ouagadougou del 4 marzo hanno messo in moto dinamiche inaspettate, soprattutto alla luce delle difficoltà incontrate, da quasi cinque anni, per trovare una soluzione alla crisi.

Come previsto dalle disposizioni dell’accordo, il 29 marzo Guillaume Soro, già capo delle forze ribelli, è stato nominato primo ministro e ha formato un governo con l’obbiettivo principale di riportare la calma nel paese e organizzare al meglio la tenuta di nuove elezioni.

La formazione governativa comprende, al momento, undici ministri del partito del presidente Laurent Gbagbo, il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), sette delle Forze Nuove, e cinque a testa per i maggiori partiti di opposizione: il Raggruppamento dei Repubblicani (Rdr), di Alassane Ouattara, e il Partito democratico della Costa d’Avorio, di Henri Konan Bédié.

Da metà aprile, inoltre, Gbagbo ha annunciato l’inizio dello smantellamento della “zona di fiducia” (zone de confiance), che divide il nord e il sud del paese dal settembre 2002. Le forze internazionali di interposizione saranno gradualmente sostituite (una riduzione di metà ogni due mesi, fino al completo ritiro) da brigate miste di soldati dell’esercito ivoriano e di forze ribelli, sotto la tutela del Centro di comando integrato (Cci), struttura paritaria composta dagli stati maggiore delle due ex formazioni avversarie.

La fine della zona cuscinetto” dovrebbe permettere la ripresa di scambi regolari tra le due metà della Costa d’Avorio e potrebbe segnare un passo decisivo verso la riunificazione del paese. Inoltre, visti i progressi delle ultime settimane, diverse istituzioni sembrano aver ripreso fiducia nel possibile consolidamento del processo di pace ivoriano. Per esempio, a fine aprile il ministro ivoriano dell’economia e delle finanze, Charles Koffi Diby, è riuscito a trovare un accordo con la Banca mondiale per la ripresa dei prestiti.

Tali progressi erano impensabili fino a qualche mese fa. Dall’autunno scorso, il dialogo e le possibilità di un miglioramento concreto della situazione ivoriana sembravano, infatti, essersi arenati per l’ennesima volta. Le elezioni di ottobre erano state nuovamente posticipate per problemi legati al disarmo dei contendenti, all’identificazione e alla registrazione degli elettori.

A novembre, la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite pareva aver definitivamente messo alle corde Gbagbo, al quale era concesso ancora un anno di tempo prima che la legittimità del suo mandato presidenziale venisse revocata.

I mesi seguenti sono stati costellati da una serie di manifestazioni anti-Gbagbo, spesso duramente represse dall’intervento delle forze dell’ordine. Questo clima di tensione sembra, tuttavia, aver cominciato a dissiparsi con l’inizio delle contrattazioni tra il presidente ivoriano e il capo dei ribelli, Soro. Le negoziazioni iniziate nel febbraio scorso - al cospetto del capo di stato burkinabé, Blaise Compaoré - hanno portato alla firma degli accordi di Ouagadougou. Oltre allo smantellamento della zone de confiance, sostituita da una “linea verde” temporanea, questi patti prevedono una semplificazione del processo di identificazione e rilascio dei documenti necessari al voto, un quadro permanente di concertazione tra i quattro leader principali del paese (Gbagbo, Soro, Bédié e Ouattara) e la previsione di giungere a elezioni entro dieci mesi.

L’accordo trovato tra le due parti esclude, di fatto, qualsiasi mediazione internazionale (da parte dell’Onu o della Francia) e appare particolarmente favorevole al capo dello stato. Il presidente ivoriano sembra aver completamente svuotato d’importanza la risoluzione 1721 delle Nazioni Unite. Si è sottratto agli obblighi del Gruppo di lavoro internazionale (che aveva il compito di seguire gli avanzamenti del processo di pace) e non si è ancora precluso nessun margine d’azione rispetto a Soro. La mancanza di compromessi specifici nella ripartizione di ruoli tra presidente e primo ministro si associa, inoltre, alla flessibilità delle scadenze fissate per la messa in pratica delle riforme previste.

Nonostante i concreti avanzamenti e la speranza nel raggiungimento degli obiettivi previsti, numerosi dubbi e preoccupazioni circondano la realtà ivoriana.

Fa discutere, per esempio, l’approvazione, alla quasi unanimità, di una legge di amnistia che copre tutti i delitti «contro la sicurezza dello stato» dal settembre 2000 (elezioni di Gbagbo) a oggi. Inoltre, se da un lato si temono possibili ricadute di violenza con la progressiva partenza dei contingenti internazionali, dall’altra ci si chiede quali possano essere le possibilità concrete di portare a pieno compimento tutti i propositi sviluppati negli accordi di pace.

Per quanto riguarda il primo punto, la scomparsa di una zona tampone di controllo potrebbe aumentare il rischio di eventuali azioni militari da parte di uno dei due schieramenti, eliminazioni mirate e abusi (omicidi, rapimenti, furti, violenze sessuali) nella “zona cuscinetto”, a opera di individui o milizie armate. A questo proposito, Francia e Nazioni Unite hanno confermato la loro intenzione di mantenere una presenza militare in Costa d’Avorio (che ora conta 11mila uomini, di cui circa 3.500 francesi).

Il nodo della questione sarà capire quali sono le vere intenzioni di Gbagbo e di Soro. Se si tratta, in definitiva, di un’ennesima spartizione a tempo indefinito della torta ivoriana o se l’obiettivo è quello di porre definitivamente fine alla crisi del paese. Allontanati, almeno per il momento, gli attori internazionali, la risoluzione della crisi è profondamente dipendente dalla buona volontà di cooperazione delle parti. L’impressione è che, nelle loro attività congiunte, Gbagbo e Soro mescolino rispetto e sfiducia reciproca. Oltre a questi scogli di ordine psicologico, tuttavia, gli impedimenti tecnici rimangono seri: disarmo, censimento della popolazione, registrazione degli elettori e revisione delle liste elettorali restano al centro della questione ivoriana.

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Lunedì, 12 Novembre 2007 19:01

IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

 IL TRATTO IDENTITARIO DI UN ISLAM ITALIANO

di Piersandro Vanzan
da Vita Pastorale n. 6/2007

Già in VF 12/2006, pp. 52-53, abbiamo presentato l’impegno del ministro dell’interno, Giuliano Amato, per realizzare l’integrazione dei musulmani nel tessuto sociale e politico italiano, coinvolgendo le varie organizzazioni islamiche presenti tra noi in una Carta dei valori condivisibile anche da loro1. Tra le 16 organizzazioni che rappresentano l’arcipelago islamico presente tra noi, spicca l’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), nata nel 1990 e ideologicamente legata ai Fratelli musulmani, movimento fondamentalista radicale. Questa organizzazione è salita ai vertici delle cronache nazionali nell’agosto 2006, quando - in seguito alla guerra nel Libano - fece pubblicare affermazioni, tipo: «Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane: Marzabotto = Gaza, Fosse Ardeatine = Libano». Deciso a contrastare tali farneticazioni, Amato aveva immediatamente convocato la Consulta senza però riuscire – nonostante l’appoggio della maggioranza - a ottenere le scuse di Mohamed Nour Dachan, presidente dell’Ucoii.

Glissiamo sulle alterne vicende dei mesi successivi, con le varie redazioni di quella Carta, e veniamo ai contenuti della nuova Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, che il ministro Amato ha presentato il 23 aprile2. Nel presentare questa nuova redazione alla Consulta islamica e ai rappresentanti italiani di tutte le altre confessioni, il responsabile del Viminale ha detto: «Ora si vedrà chi intende aderire e concorrere quindi alla sua diffusione e all’approfondimento dei temi trattati», ma non ha voluto pronunciarsi sulle conseguenze di un eventuale rifiuto da parte di alcuni organismi islamici, mentre Cardia ha ammesso che «nelle audizioni ci sono stati elementi più sfumati. Può darsi che queste riserve si sciolgano oppure che portino queste organizzazioni a fare un passo indietro dalla Consulta islamica».

La Carta, purtroppo, ha un valore puramente simbolico, visto che «non può essere adottata come atto pubblico e quindi imposta ai cittadini». Tuttavia costituisce «una fonte di ispirazione per l’azione dello stesso ministero e accompagna il processo d’integrazione degli immigrati e il percorso verso la cittadinanza italiana». In particolare ha detto Amato, «può concorrere a consolidare il tratto identitario di un islam italiano e a creare la premessa per un’intesa con lo Stato». Tre i principi fondamentali che la ispirano: «La centralità della persona umana e la sua dignità; l’uguaglianza dei diritti fra uomo e donna; il diritto alla libertà religiosa che sta alla base della laicità dello Stato e della scuola. Su questi valori e sull’ancoraggio totale alla Costituzione non ci sono zone franche, coni d’ombra o riconoscimento di poteri alternativi». Suddivisa in sette paragrafi, la Carta riguarda in particolare: le radici culturali, la dignità della persona, i diritti sociali, l’istruzione, la famiglia, la laicità e la libertà religiosa, l’impegno internazionale dell’Italia4.

Nell’incipit, dopo aver dichiarato che «l’Italia riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», viene condannata sia la poligamia, «contraria ai diritti della donna», sia ogni forma di coercizione e di violenza, dentro e fuori le mura domestiche, sia i matrimoni forzati o tra bambini, sia ogni forma di razzismo: dall’antisemitismo all’islamofobia. Souad Sbai, rappresentante delle donne marocchine in Italia, ha dichiarato: «Il documento ha chiarito alcuni punti che a noi donne stavano particolarmente a cuore, come il riconoscimento dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna, e dunque il godimento di pari diritti tra coniugi, il “no” alla poligamia, la necessità della conoscenza della lingua italiana per l’ottenimento della cittadinanza italiana. E ancora, la condanna di ogni discriminazione razziale, sessuale e religiosa, il riconoscimento all’interno della coppia di pari potestà educativa, ferma restando la libertà di pensiero dei figli e la libera scelta religiosa per qualsiasi individuo. Tuttavia consideriamo questo risultato non come un punto di arrivo, ma come la partenza per ottenere ulteriori traguardi»5.

La Carta inoltre puntualizza che «l’Italia è uno dei Paesi più antichi d’Europa che affonda le radici nella cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell’orizzonte del cristianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l’ebraismo, ha preparato l’apertura verso la modernità e i principi di libertà e di giustizia. I valori su cui si fonda la società italiana sono frutto dell’impegno di generazioni di uomini e di donne di diversi orientamenti, laici e religiosi, e sono scritti nella Costituzione del 1947. Essa rappresenta lo spartiacque nei confronti del totalitarismo e dell’antisemitismo, che ha avvelenato l’Europa del secolo XX e perseguitato il popolo ebraico e la sua cultura. La Costituzione è fondata sul rispetto della dignità umana ed è ispirata ai principi di libertà e uguaglianza, validi per chiunque si trovi a vivere sul territorio italiano».

Inoltre: «L’Italia è impegnata perché ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali. Al tempo stesso, ogni persona che vive in Italia deve rispettare i valori su cui poggia la società, i diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi. Alle condizioni previste dalla legge, l’Italia offre asilo e protezione a quanti, nei propri Paesi, sono perseguitati o impediti nell’esercizio delle libertà fondamentali. Nel prevedere parità di diritti e di doveri per tutti, la legge offre il suo sostegno a chi subisce discriminazioni, o vive in stato di bisogno, in particolare alle donne e ai minori, rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. I diritti di libertà, e i diritti sociali, che il nostro ordinamento ha maturato nel tempo devono estendersi a tutti gli immigrati»6.

Questi, a grandi linee, i contenuti della Carta, e benché siano previsti nuovi contrasti prima di giungere alla sua piena ratifica, è chiara la nostra apertura verso l’islam. Ma inevitabile fa capolino la domanda: i musulmani residenti tra noi accetteranno i principi contenuti nella nostra Costituzione, anche se contrari alla loro fede? La risposta è ardua, come s’è visto nel travagliato iter della Carta, perché, se noi sappiamo distinguere la sfera religiosa da quella civile e politica, per l’islam fideista esse fanno tutt’uno, regolato dalla religione rivelata da Allah nel Corano a Maometto, «cosicché non c’è distinzione né tanto meno separazione tra vita religiosa e sociale, tra sfera civile e sfera religiosa, tra legge civile e legge religiosa, ma questa codificata nella sharìa, è l’unica legge civile. In tal modo l’ordine politico e giuridico ha la sua fonte nella rivelazione coranica e non può quindi costituirsi in maniera autonoma, indipendentemente da questa, ma deve seguire i precetti, che, essendo “divini”, sono immutabili, a differenza delle leggi “umane” le quali, essendo fatte dagli uomini, possono essere modificate o abolite da essi»7

Eppure, secondo Adnane Mokrani, dell’Università gregoriana, un tema chiave per l’integrazione dei musulmani tra noi è il concetto di “laicità”, perché se nella storia del pensiero islamico la laicità è stata spesso presentata in modo sbagliato - come separazione tra religione e Stato, tra etica e religione, identificandosi con l’incoraggiamento alla corruzione -, sembra giunto il momento di farla conoscere «in modo positivo, come garanzia di uguaglianza e di giustizia, che sono due principi fondamentali nella teologia islamica». Dello stesso parere è Carlo Cardia: «Di fronte alla questione islamica, e del multiculturalismo, l’Occidente avrebbe una grande occasione storica. Quella di mostrare il volto migliore della laicità, che sa distinguere, accogliere e tutelare il patrimonio di spiritualità e di umanesimo presente nell’islam (come in altre religioni), e sa respingere pratiche e fenomeni di arretratezza civile e culturale che anche nelle terre cristiane sono esistiti in passato».

«La laicità potrebbe svolgere verso l’islam quella stessa funzione di stimolo anche critico che ha svolto verso altre confessioni, e favorire un’evoluzione, che ne esalti la religiosità e ne emargini le scorie del passato, soprattutto per ciò che riguarda la libertà religiosa e i principi di eguaglianza tra uomo e donna»8. Soltanto uno Stato fedele alla propria identità laica e accogliente, ma anche severo verso gli estremismi, non deluderà le aspettative di quegli immigrati che, una volta giunti nel nostro Paese, sperano di poter fruire dei diritti umani - uguaglianza, libertà, dignità - che vengono loro negati altrove, né degli italiani, che esigono chiarezza e regole per una convivenza civile e pacifica.

Note

  1. L’iniziativa era partita già dal ministro Pisanu, che aveva dato vita a una Consulta islamica, con 16 membri, rappresentanti di altrettante organizzazioni di musulmani presenti in Italia.

  2. www.osservatoriosullalegalità.org. Il Comitato scientifico, cui si deve quest’ultima redazione, era presieduto dal prof. Carlo Cardia (Università Roma Tre), e comprendeva i proff. Roberta Aluffi Beck Peccoz (Università di Torino), Khaled Fouad Allam (Università di Trieste), Adnane Mokrani (Università gregoriana di Roma), Francesco Zannini (Pontificio istituto di studi arabi e islamistica di Roma). Inoltre, hanno partecipato ai lavori del Comitato il prefetto Franco Testa e il vice prefetto Maria Patrizia Paba.

  3. Avvenire, 24 aprile 2007.

  4. Acide le critiche de Il Manifesto, 24 aprile 2007: «Nel tentativo di tutelare i valori acquisiti nel nostro Paese e minacciati invece da posizioni tradizionaliste, spesso maggioritarie in alcune popolazioni immigrate, la Carta rischia di essere arretrata rispetto alle nuove istanze poste oggi dalla società italiana, come avviene nel capitolo sulla famiglia, istituzione mummificata nella sua declinazione eterosessuale e monogamica. Nessun riferimento alle nuove famiglie allargate, su cui da mesi si discute, né tanto meno alle unioni omosessuali, cosa che ci si sarebbe aspettati almeno da un documento che non ha alcun valore giuridico, ma ha invece il fine di costruire una cultura del rispetto reciproco».

  5. Avvenire, 24 aprile 2007. Ha poi aggiunto: «Le opposizioni in merito all’approvazione del testo – all’interno della Consulta - ci sono e continueranno a esserci ma il fatto che, una volta per tutte, questi e altri temi fondamentali siano stati messi nero su bianco, e precisati in un testo ufficiale, è di estrema importanza, soprattutto per quelle donne, marocchine e no, che quotidianamente vivono l’inferno dei matrimoni poligamici imposti e della totale assenza di diritti. La Carta dei valori dà nuovamente coraggio alle donne che lo avevano perso, a tutte coloro che si ritrovano in balia di un illegale potere patriarcale e che avevano bisogno di una decisa presa di posizione da parte delle Istituzioni italiane».

  6. www.osservatoriosullalegalità.org.

  7. De Rosa G., Islam e Occidente, LDC-La Civiltà Cattolica 2004, Torino-Roma, pp. 233s.

  8. Cf rispettivamente Jesus, gennaio 2007, p. 49 e Cardia C., Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, San Paolo 2007, Cinisello Balsamo (Mi) 2007, p. 27.

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Mercoledì, 26 Settembre 2007 21:33

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ
Intervista a Noam Chomsky* - da “Le Monde diplomatique”, settembre 2007

(abstract)

Le Monde diplomatique
Cominciamo con la questione dei media. In Francia, nel maggio 2005, all’epoca del referendum sul trattato della Costituzione europea, la maggior parte degli organi di stampa sosteneva il “sì”, e tuttavia il 55% dei francesi ha votato “no”. Il potere di manipolazione dei media non sembra dunque assoluto.

Noam Chomsky
Il lavoro sulla manipolazione mediatica o sulla fabbrica del consenso fatto da Edward Herman e da me (Edward Herman e Noam Chomsky, “Manufacturing Consent”, Pantheon, New York, 2002) non affronta la questione dell’influenza dei media sul pubblico. È un argomento complicato, ma le poche ricerche approfondite sul tema suggeriscono che, in realtà, questa influenza sia più forte sulla parte istruita della popolazione. A livello di massa l’opinione pubblica sembra, invece, meno dipendente dal discorso dei media. Prendiamo, ad esempio, l’eventualità di una guerra contro l’Iran: il 75% degli americani ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero cessare le minacce militari e privilegiare la ricerca di un accordo diplomatico. Varie inchieste condotte da istituti occidentali affermano che l’opinione pubblica iraniana e americana convergono anche su alcuni aspetti riguardanti la questione nucleare: la stragrande maggioranza della popolazione di entrambi i paesi pensa che la zona che si estende da Israele all’Iran dovrebbe essere interamente liberata dalle armi nucleari, comprese quelle in dotazione alle truppe americane della regione. Ora, per trovare questo tipo di informazione nei media bisogna cercare col lanternino. Peraltro, nessuno dei principali partiti politici dei due paesi difende questo punto di vista. Se l’Iran e gli Stati Uniti fossero autentiche democrazie, all’interno delle quali la maggioranza determina realmente le scelte politiche, l’attuale scontro sul nucleare sarebbe senza dubbio già risolto. Ci sono altri casi del genere. Rispetto, ad esempio, al budget federale degli USA, la maggioranza degli americani auspica una riduzione delle spese militari e un aumento, invece, delle spese sociali, dei crediti versati alle Nazioni unite, dell’aiuto economico e umanitario internazionale, e infine la cancellazione delle riduzioni di imposta decise dal presidente George W. Bush a favore dei contribuenti più ricchi. Su tutti questi temi la politica della casa bianca è totalmente contraria alle richieste dell’opinione pubblica. Ma le inchieste che mostrano questa persistente opposizione pubblica raramente trovano spazio sui media. Cosicché i cittadini non solo sono allontanati dai centri di decisione politica, ma sono anche tenuti all’oscuro del reale stato d’animo dell’opinione pubblica. A livello internazionale si registra preoccupazione per l’abissale “doppio deficit” degli Stati Uniti: il deficit commerciale e quello di bilancio. Ma questi esistono solo in stretta relazione con un terzo deficit: quello democratico, che continua ad ampliarsi non solo negli USA, ma più in generale in tutto il mondo occidentale.

L.M.d.
Ogni volta che si chiede a un giornalista di grido o a qualche presentatore di un grande telegiornale se subiscono pressioni, se gli capita di essere censurato, questi risponde che è assolutamente libero e che esprime le proprie convinzioni. Sappiamo come funziona il controllo del pensiero nelle dittature, ma come si attua in una societò democratica?

N.C.
Quando i giornalisti sono chiamati in causa, rispondono immediatamente: “Nessuno ha fatto pressioni su di me, scrivo ciò che voglio”. È vero. Solo che, se esprimessero opinioni contrarie alla posizione dominante, non scriverebbero più i loro editoriali. La regola non è assoluta, certo; capita anche a me di essere pubblicato dalla stampa americana, neppure gli Stati Uniti sono un paese totalitario. Ma chiunque non soddisfi certe esigenze minime non ha alcuna possibilità di entrare nel novero dei commentatori di primo piano. D’altronde questa è una delle grandi differenze tra il sistema di propaganda di uno stato totalitario e il modo di procedere delle società democratiche. Esagerando un po’, si può dire che nei paesi totalitari lo stato decide la linea da seguire e tutti devono poi conformarvisi. Le società democratiche operano in modo diverso. La linea non è mai enunciata come tale, è sottintesa. Si procede, in qualche modo, a un “lavaggio di cervelli in libertà”. E anche i dibattiti appassionati nei grandi media si svolgono nel quadro dei parametri impliciti consentiti, tenendo al margine molti punti di vista contrari. Il sistema di controllo delle società democratiche è molto efficace; insinua la linea direttrice come l’aria che si respira. Non ce ne accorgiamo, tanto che a volte ci sembra di assistere a un dibattito particolarmente vivace. In fondo è infinitamente più efficace dei sistemi totalitari. Prendiamo, per esempio, il caso della Germania all’inizio degli anni ’30. Si tende a dimenticarlo, ma allora era il paese più avanzato d’Europa, all’avanguardia in campo artistico, scientifico, tecnico, nella letteratura e nella filosofia. Poi, in un brevissimo lasso di tempo si è prodotto un capovolgimento totale, e la Germania è diventata lo stato più sanguinario, più barbaro della storia umana. Tutto questo è stato possibile instillando la paura: paura dei bolscevichi, degli ebrei, degli americani, degli zingari, in breve di tutti coloro che, secondo i nazisti, minacciavano il cuore della civiltà europea, cioè gli “eredi diretti della civiltà greca”. In ogni caso, è quanto scriveva il filosofo Martin Heidegger nel 1935. Ora, la maggior parte dei media tedeschi che ha bombardato la popolazione con questo tipo di messaggi ha utilizzato le tecniche di marketing messe a punto... dai pubblicitari americani. Non dimentichiamo che un’ideologia viene imposta sempre nello stesso modo. Per dominare, la violenza non basta: ci vuole una giustificazione di altra natura. Così, quando una persona esercita il suo potere su un’altra – che sia un dittatore, un colonialista, un burocrate, un marito o un padrone – ha bisogno di un’ideologia giustificatrice, sempre la stessa: la dominazione è fatta “per il bene” del dominato. In altri termini, il potere si presenta sempre come altruista, disinteressato, generoso. (...).

* Docente di linguistica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, Stati Uniti.

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E WAL-MART TENTA I CATTOLICI CON LE BAMBOLE DELLA BIBBIA

di Matteo Alviti – da “Il manifesto”, 15 agosto 2007

(abstract)

Ancora pochi giorni e gli scaffali del settore giocattoli di Wal-Mart si illumineranno di luce divina. Il 18 agosto la One2believe lancerà sul mercato statunitense la prima linea di bambole parlanti ispirata ai personaggi della Bibbia. Gesù, Noè, i muscolosissimi Davide e Sansone, che ricordano un po’ i pupazzi della saga di He-man. E poi Mosè, che ripete i comandamenti con voce cupa e metallica: “Non devi commettere adulterio. Non devi rubare...”. Trenta centimetri di bambola biblica, e ce n’è per tutti i gusti. “Siamo la One2believe”, si legge sul sito dell’azienda californiana, “creatori della linea di giocattoli Tales of glory”. L’operazione commerciale concordata con il colosso statunitense della vendita al dettaglio si limiterà in un primo periodo alle 425 filiali Wal-Mart della cosiddetta bible belt, tra il sud e gli stati del Midwest – là dove il sentimento religioso si ammanta spesso di miope fondamentalismo – oltre che in alcuni negozi della California e della Pennsylvania. David Socha, fondatore e amministratore delegato dell’azienda, è un giovane dalla faccia pulita e dal carattere determinato. Socha è consapevole che in ballo c’è un mercato potenzialmente enorme: “So che, se potessero scegliere, il 90% degli americani comprerebbero i nostri personaggi invece dei giochi violenti attualmente sul mercato”. Vista come un baluardo contro l’assuefazione alla violenza in tenera età, l’idea potrebbe riscuotere anche simpatia. Ma le dichiarazioni di Socha ne rivelano la natura commercial-fondamentalista. Per il fondatore dell’azienda californiana si tratta di una lotta “per le menti dei bambini”: il bene contro le manifestazioni del male in formato giocattolo “che glorificano la morte e le uccisioni”. E visto che si tratta di una sperimentazione che terminerà a gennaio, dopo le feste natalizie, in bilico tra il sacro e il profano Socha chiama l’armata di Dio alla guerra giusta, quella santa. “Questo progetto rappresenta un’occasione immensa per la comunità della fede. È una chance per far sapere che noi, come comunità cristiana, siamo preoccupati per i giocattoli con cui giocano i nostri bambini. Siamo consapevoli dell’influenza che questi hanno sulle loro menti impressionabili e vogliamo vedere più opzioni che onorino Dio”. È una battaglia, dice Socha, contro i produttori di giocattoli senza Dio. Anche la Barbie, ha chiesto preoccupato un reporter della Abc? “No, no, la Barbie va bene”. Ironia della sorte, o del capitalismo, i pupazzi destinati a un pubblico tendenzialmente conservatore sono prodotti in quel che resta della Cina comunista. Per la One2believe, che finora ha venduto i suoi prodotti direttamente attraverso chiese e Internet, la multinazionale di Bentonville, Arkansas, rappresenta un’occasione unica. “Con Wal-Mart – il più grande rivenditore di giocattoli statunitense – il mercato è illimitato, grazie a Dio”, si lascia scappare David Socha. In fondo non sembra altro che una conferma della teoria weberiana sulle assonanze tra lo sfaccettato spirito del protestantesimo – in questo caso nella sua variante evangelica – e quello capitalista. (...). In un video promozionale una bambola della One2believe viene presentata a una bambina. La piccola ascolta incuriosita il promotore che spiega il senso divino dell’oggetto. “Ma parla anche?”. “Certo!” E il pupazzo: “Dio ama il mondo così tanto che ha mandato il suo unico figlio a pagare per il peccato. Così chi crede in lui non può essere punito”. La bambina sorride: “That’s cool!”.

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L’ITALIA DEI NUOVI SCHIAVI . I MILLE VOLTI DELLA TRATTA

Tratta di esseri umani: un concetto associato, in questi anni, alle vittime dello sfruttamento sessuale a fini di prostituzione. In realtà il tema della tratta sempre più si collega, nei fatti, anche ai fenomeni dell’immigrazione irregolare, al lavoro nero (in casa, in azienda, nei campi, negli alberghi, nell’edilizia, nella pesca), alle vicende dei minori sfruttati per accattonaggio, al commercio illegale di organi e di minori per adozioni. Il volto della tratta e delle cosiddette “nuove schiavitù”, nell’Italia e nel mondo contemporanei, si va ampliando e diventa multiforme.

È possibile, in ogni caso, mettere a fuoco alcuni punti fermi. Lo consentono alcune ricerche promosse da Caritas Italiana, ma anche l’ormai decennale lavoro svolto dal Coordinamento nazionale contro la tratta, avviato e promosso da Caritas Italiana. Fatta salva la distinzione tra “traffico” e “tratta” (in base ad alcune norme nazionali ed europee, il primo concetto si riferisce a flussi illegali e a forme di sfruttamento, il secondo presuppone anche una coercizione della libertà e l’uso della violenza nei confronti della persona trafficata), è dunque possibile affermare che negli ultimi quattro anni in Italia sono state trafficate 170 mila persone; di esse, 55 mila sono state oggetto di tratta, 50 mila a scopo sessuale, le restanti 5 mila a scopo lavorativo (dato che riguarda soprattutto persone cinesi che vivono nella regioni del centro Italia, in particolare la Toscana).

A partire da questi dati e incrociandoli con altre ricerche, sì può ritenere inoltre che le vittime di sfruttamento sessuale in Italia siano in media 25-30 mila all’anno, di cui almeno 1.500 minori. Difficile, invece, fare una stima delle vittime di sfruttamento sul lavoro, anche perché tra i fenomeni dell’immigrazione irregolare per lavoro, del lavoro nero e dello sfruttamento lavorativo vi sono confini piuttosto incerti. In sintesi, comunque, in Italia le persone “trattate” presentano tre volti prevalenti: quello di chi è prostituito a scopo sessuale, quello del lavoratore sfruttato, quello del minore sfruttato.

Ogni tragitto, una violenza

Per quanto grave e multiforme, il fenomeno della tratta può essere aggredito. A patto di cambiare alcuni atteggiamenti, da parte sia della politica che dei soggetti sociali. Tra le operazioni che bisogna attuare o intensificare, occorre anzitutto vigilare sui tragitti battuti dagli organizzatori della tratta. Dal loro studio si ricavano elementi di conoscenza, interessanti. il tragitto Ucraina-Chioggia, per esempio, è molto pesante, per chi lo compie, sul piano economico e dello sfruttamento: dietro c’è un debito contratto nel paese di origine, anche dal nucleo familiare. La tratta Marocco-Crotone si caratterizza soprattutto per i danni che possono derivare alle famiglie delle persone trafficate: se gli emigranti non riescono a pagare, i trafficanti confiscano le case o addirittura uccidono i famigliari. La tratta Marocco- Varese è fondata sull’indebitamento delle famiglie nei confronti degli strozzini, la tratta Pakistan-Crotone è legata ancora una volta al debito delle famiglie, la tratta Ecuador- Ventimiglia è legata fortemente allo strozzinaggio, la tratta Cina-Trieste è sovente un viaggio pagato verso l’occidente da un imprenditore che ha lasciato il suo paese da tempo e ha fatto fortuna. E’ necessario, in proposito, che la politica apra gli occhi, dedicando un’attenzione particolare al tema della mobilità delle persone, oltre che a quello della difesa della libertà e dei diritti.

In secondo luogo, è opportuno rafforzare la protezione sociale. Nel caso della tratta per scopi sessuali, negli ultimi cinque anni almeno 40 mila persone hanno chiesto aiuto al numero verde e alle reti che lavorano per la protezione sociale delle donne vittime di tratta I progetti, anche finanziati attraverso il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del consiglio, sono stati in grado di accoglierne circa 11.500. Di queste, solo 700 hanno abbandonato il progetto. Bisogna dunque operare per rafforzare i progetti e la rete che li attua, attraverso un riconoscimento pubblico e la dotazione di risorse, anche da parte dei piani sociali locali.

In tempi di riforma della legge sull’immigrazione, la battaglia politica più importante è quella per la protezione sociale delle vittime. Bisogna modificare il meccanismo previsto dall’articolo 18, che in sei anni ha consentito la concessione di 5.500 permessi di soggiorno (su 11.500 persone accolte) alle vittime di tratta, di cui il 70% premiali (per chi collabora denunciando sfruttatori e “protettori”) e solo il 30% sociali (per le vittime più esposte, anche in caso di ritorno in patria): occorre che l’articolo 18 diventi sempre più una misura sociale e uno strumento per recuperare dignità e libertà, oltre che per colpire le reti criminali.

Lavorare dentro e fuori

Oggi la mobilità degli essere umani attraverso le frontiere molto spesso è regolata dai meccanismi del “traffico”. Sulla base di questa constatazione, in Italia appare necessario rivedere la legge sull’immigrazione, la cosiddetta Bossi-Fini, per ritornare alla figura dello sponsor e alla concessione di permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, e per istituzionalizzare la “prova lavoro”: legalità e visibilità degli ingressi sono i primi presupposti per la tutela di ogni persona. Quanto alla politica sociale, occorre che non si proceda secondo tre livelli di dignità: della persona, del cittadino, del residente. In caso contrario, si finirebbe per negare diritti fondamentali, magari solo perché una persona non è cittadino né residente. E’ molto importante, al contrario, proseguire lungo la strada intrapresa da alcuni comuni per dare la cittadinanza sociale ai soggetti che hanno bisogno di essere difesi rispetto ad alcuni diritti fondamentali. Questo aspetto è rilevante sul piano legislativo: oggi i comuni sono i soggetti fondamentali e centrali nel campo della difesa dei diritti della persona, dunque devono essere messi in grado di operare in questa direzione.

Da ultimo, sul fronte internazionale c’è bisogno di maggiore programmazione. La cooperazione è fondamentale nella lotta alla tratta: è molto importante creare un continuum tra i progetti avviati nel territorio italiano e i progetti che si conducono in Europa e nel mondo. Sulla stessa persona, il cittadino rumeno o il cittadino nigeriano che a un certo punto della loro parabola vengono trafficati in Italia, deve interagire uno stesso progetto da due punti di vista: l’attenzione alla tutela della persona e della sua famiglia, per risultare efficace e non dispersiva, deve essere unitaria.

di Giancarlo Perego
Italia Caritas / Marzo 2007




Undicimila persone assistite, migliaia indagati per vari traffici

L’osservatorio nazionale sulla tratta degli esseri umani ha esposto a fine gennaio, in un convegno tenutosi a San Benedetto del Tronto, i dati salienti sul fenomeno, ottenuti confrontando informazioni provenienti da diverse fonti ufficiali: ministeri della giustizia e dell’interno, Direzione nazionale antimafia e Dipartimento per i diritti e le pari opportunità. Si tratta dei primi risultati di un progetto Equal di cui è titolare e promotrice l’associazione “On the road”. Spesso le cifre, in questo ambito, risultano impossibili da sovrapporre, perché raccolte in base alle competenze di ciascun ente, con sistemi differenti di rilevazione. I dati riguardano comunque il fenomeno emerso, cioè tutti i casi venuti a conoscenza degli operatori sociali o della giustizia.

Tra marzo 2000 e giugno 2006, 11226 persone vittime di violenza e grave sfruttamento sono state inserite nel Programma di assistenza e inclusione sociale (previsto dall’articolo 18 della legge sull’immigrazione); 619 erano minori, mentre 5.495 sono stati i permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari. Dai dati della Direzione nazionale antimafia risulta invece che 993 persone, tra il 2003 e il 2005, hanno subito reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 86 nel 2003, 428 nel 2004, 479 nel 2005. Inoltre da settembre 2003 al 2005 sono stati 2.136 gli indagati per reati di tratta e riduzioni in schiavitù: 828 nel 2005, 1.044 nel 2004. Secondo il ministero dell’interno, sono stati invece 3.201 nel 2004 e 3.215 nel 2005 gli indagati per tratta, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e della prostituzione minorile, sfruttamento dei minori nell’accattonaggio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

(fonte: Redattore sociale)

Protezione sociale: l’articolo 18 va applicato in modo omogeneo

Il Coordinamento nazionale contro la tratta degli esseri umani promosso da Caritas Italiana, di cui fanno parte anche Migrantes e il Gruppo Abele, ha sollecitato più volte negli ultimi anni il ripristino del Tavolo interministeriale di coordinamento per l’applicazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, raccomandando la presenza di rappresentanti di enti e associazioni che lavorano sul campo. L’articolo 18 permette il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale anche alle vittime di tratta che non sporgono denuncia né hanno alcun tipo di collaborazione con la polizia o l’autorità giudiziaria. Purtroppo, l’applicazione non è risultata omogenea sul territorio nazionale. Un valido aiuto sulle modalità di applicazione della normativa può essere dato, in termini di consulenza a enti e associazioni, dallo sportello giuridico InTi, istituito dal Gruppo Abele, dall’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e sostenuto da sempre dalla regione Piemonte.

Percorsi di dignità oltre la schiavitù «Ma dovremmo lavorare sui clienti»

Sono molte le Caritas diocesane che assistono donne uscite dai giri della prostituzione. Però il recupero andrebbe esteso anche a chi compra i loro servizi...

Piccoli orizzonti di dignità. Ricostruiti, giorno dopo giorno, sulle macerie di esistenze sfregiate dalla violenza, persino dalla schiavitù. Molte Caritas diocesane, in Italia, si battono a favore delle vittime della tratta di esseri umani. La Caritas di Roma lo fa sin dal 1994. «Nella nostra esperienza quotidiana, grazie anche al lavoro dei centri d’ascolto, incontriamo donne giovani che cerchiamo di proteggere nelle case di accoglienza, gli istituti delle suore di Nostra Signora degli Apostoli e delle suore Adoratrici del Santissimo sacramento e della carità. Noi li chiamiamo “punti di appoggio”,». Suor Erma Marinelli è referente del progetto Roxanne per la Caritas diocesana della capitale, e conosce bene l’odissea, anche interiore, cui va incontro una vittima di tratta, dopo essersi (o essere stata) sottratta a certi “giri”. «Mentre aspettano i documenti per tornare in patria volontariamente, le ragazze vivono al sicuro un periodo di discernimento sulla loro vita, provano a capire cosa realmente desiderano per ricominciare a vivere. Nel caso vogliano rimanere in Italia, c’è l’opportunità di imparare meglio la nostra lingua ed essere aiutate nella ricerca di un alloggio e un lavoro. La collaborazione con enti locali e privati sta dando risultati; è importante lavorare in rete per rispondere a più bisogni. Per favorire l’integrazione nei quartieri della città, svolgiamo attività di sensibilizzazione nelle parrocchie. Ci sarebbe da lavorare molto anche sui “clienti”. In più di dieci anni ho ascoltato e parlato con uomini molto giovani o con i capelli bianchi, dovremmo prevedere sostegni psicologici e percorsi di recupero anche per loro...».

Il comune di Roma ha realizzato una rete per l’accoglienza delle donne vittime della tratta e della prostituzione. Dal 2000 è stato appunto avviato il progetto Roxanne, che prevede attività di prevenzione, aiuto e invio ai servizi di persone vittime della tratta sessuale. Sono stati attivati ambulatori per la prevenzione e la cura della salute, unità di strada con sportelli diurni per informazioni, ascolto e consulenza, strutture di accoglienza protetta, corsi di apprendistato e formazione lavorativa.

Utenti” molto giovani

In altri contesti, il lavoro dei soggetti sociali sorge dall’attenta lettura del territorio. «Negli ultimi anni, da noi, il fenomeno della prostituzione è aumentato in modo proporzionale all’aumento della presenza di persone immigrate. Dal 2000 in poi, sulle nostre strade abbiamo visto crescere il numero delle ragazze di colore, spesso provenienti dalla Nigeria. E siamo a conoscenza del fatto che da tempo donne rumene si prostituiscono in casa». Don Mimmo Francavilla, direttore della Caritas diocesana di Andria, ricorda gli inizi di un intervento coraggioso. «Nel 2005, dopo aver ricevuto un invito dalla prefettura di Bari, alcuni operatori hanno partecipato a un corso sugli aspetti legali, sanitari e sociali della tratta di esseri umani. Ciò ha motivato ulteriormente il nostro desiderio di elaborare risposte. Eravamo e siamo consapevoli di come questo triste fenomeno ponga seri rischi sul versante educativo, sanitario, della stabilità delle famiglie e del contrasto della criminalità. Abbiamo deciso di venire allo scoperto, cominciando a impostare il nostro progetto su due cardini: offrire l’opportunità di un’accoglienza protetta, promuovere attività di sensibilizzazione negli ambiti ecclesiali e civili. Lavoriamo in rete con la Comunità San Francesco Oasi 2 di Trani, dove le ragazze vittime di tratta vengono ospitate per avere la possibilità di tornare a integrarsi nella società. Oltre all’impegno nelle parrocchie, abbiamo un occhio di riguardo per le scuole medie e superiori, dove proponiamo e svolgiamo corsi di educazione all’affettività. Anche perché, grazie a una ricerca basata su 524 questionari, abbiamo rilevato che non di rado l’età dei clienti delle prostitute, nel nostro territorio, è molto bassa...».




di Pietro Cava



Italia Caritas- Marzo 2007

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UNA STORIA PER LEUROPA, LA VERITÀ DAI RICORDI. PURIFICATI

di Domenico RosatiItalia Caritas/Aprile 2007

La costruzione dell’Europa ristagna, la Costituzione ha avuto l’infarto e non si sa come rianimarla, l’Euro solleva problemi più che risolverli, i Trattati di Roma compiono cinquant’anni e li dimostrano tutti: per commemorarli non s’è trovato di meglio che dar fondo alle risorse dell’ottimismo, ponendo il quesito “Serve ancora l’Europa?”. I motivi per rispondere positivamente sono tanti. Ma ce n’è uno apparentemente minore, finora neppure registrato dagli osservatori politici, a conferma della famosa sentenza di Aldo Moro per cui “il bene non fa notizia, ma esiste”.

Ecco: il “bene europeo” da segnalare sta in un libro di storia per i licei. Ma non un manuale qualsiasi. Titolo in due lingue (Histoire/Geschichte), su di esso studiano, già nel presente anno scolastico, i ragazzi di Francia e Germania. Il manuale è stato pensato e redatto da un gruppo di storici dei due paesi, secondo un progetto varato nel 2003 dal presidente Chirac e dal cancelliere Schröder. li primo volume, già in uso, riguarda “L’Europa e il mondo dopo il 1945” (gli altri due copriranno i periodi dall’antichità al Romanticismo e dal 1800 al 1945): copertina rossa, è pubblicato dall’editore Klett in Germania e da Nathan in Francia. Molte illustrazioni, grafici, tabelle, letture e documenti: assai geometrico e bilanciato. Sulla sua validità didattica si esprimeranno gli esperti, gli storici sul suo valore scientifico. Ma l’apparizione di quest’opera merita il riguardo riservato alla “cosa che accade per la prima volta”. Mai, infatti, di qua e di là del Reno si era sviluppata una riflessione comune sul passato di due popoli che non sono stati, nel tempo, un modello di buon vicinato. E il fatto non sarebbe inimmaginabile, se non all’interno di un processo di convergenza, per quanto debole e intermittente, come quello della costruzione europea.

Una realtà, due approcci

Anche la rappresentazione degli eventi è interessante. Emerge, infatti, non il tentativo di costruire una “storia comune”, ma l’intenzione di tematizzare le differenze rispetto a un’unica realtà. D’altra parte sarebbe stato impossibile... piallare contraddizioni sedimentate da secoli di conflitti. Non dunque una lettura franco-tedesca della storia, ma un uso dei contrasti storici per superare molti tabù politici.

Così, della seconda guerra mondiale si scrive non con il riflesso del “culto della vittoria”, ma con l’ispirazione del “dovere della memoria”. E se pare scontato il richiamo all’orrore della shoah, è da segnalare che Parigi riconosce che il fenomeno di Vichy (la collaborazione con gli occupanti tedeschi) era stato occultato per non inficiare il mito di una Francia “unanimemente resistente”.

Non sembrano operazioni di aggiramento diplomatico, ma di autentica “purificazione” del ricordo, in nome di una ricerca della verità che, quando è sincera, amplia gli orizonti

e consente “estensioni tematiche” altrimenti impossibili. Così i ragazzi tedeschi scoprono la decolonizzazione, mentre i loro colleghi francesi si confrontano con le “questioni religiose” fino a oggi bandite dal programmi della “repubblica laica”. E si comprende che ciò é possibile perché ci si colloca nella prospettiva di un’Europa che cerca se stessa in un mondo globalizzato.

Domanda spontanea: perché la “cosa buona” dovrebbe essere riservata solo ai ragazzi francesi e tedeschi? Il recente attrito tra Italia e Croazia suggerirebbe un’attenzione verso i Balcani. Ma tutti i popoli della vecchia Europa hanno un passato da condividere con altri, invece di coltivarlo in solitudine. Una “storia degli europei”? È dimostrato: non è impossibile.

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Colombia/Le miniere di smeraldi del Boyacà occidentaleLACRIME VERDI POLVERE BIANCA

di Viviana Peretti da Otanche - Colombia

Mondo e Missione/Aprile 2007

Racconta la leggenda che la principessa Tena pianse per l’abbandono di un cacique e le sue lacrime si congelarono nelle montagne sotto forma di verdi smeraldi, pietre preziose che quotidianamente «stregano» migliaia di persone nel mondo. In Colombia, la sfortunata principessa ha fatto la fortuna della gente del Boyacà occidentale, una delle più belle e fertili regioni di questo strano Paese sudamericano. Nonché delle più ricche di «gocce verdi».

Da Bogotà si arriva ad Otanche dopo sei ore di jeep, due su una «comoda» provinciale, il resto su una pista sterrata che si snoda tra colline di banani e caffé. Otanche è famosa per il complesso smeraldifero di Coscuez, che da sempre compete con Muzo, altro centro boyacense i cui smeraldi sono apprezzati d esportati in tutti i mercati del mondo. Secondo Jean Claude Michelou, direttore dell’Associazione internazionale delle gemme colorate, «le miniere di Muzo e Coscuez producono il 45 per cento degli smeraldi presenti sul mercato mondiale». Tuttavia, attualmente, il settore conosce una profonda crisi e le esportazioni sono inaspettatamente crollate. Tra le molteplici ragioni, la principale è rappresentata dal fatto che molti commercianti colombiani sono soliti iniettare delle resine all’interno delle pietre, alfine di correggerne gli errori e aumentarne così il valore. Ma con il tempo gli smeraldi ritoccati svelano l’inganno... C’è da dire però che il mercato nero continua ancora a foraggiare abbondantemente il settore.

Il complesso minerario circonda il villaggio di Otanche e sfama le dodicimila anime che ci vivono. Quasi tutta l’economia legale della regione, infatti, ruota intorno all’estrazione delle pietre, che vengono successivamente tagliate e commercializzate a Bogotà. In parallelo, però, fiorisce anche la coltivazione della coca. Secondo le Nazioni Unite, nella regione ci sono 359 ettari seminati con la planta maldita. Il governo ha promesso incentivi ai campesinos affinché piantino cacao, ma sinora si è trattato solo di promesse.

Tutta la zona è controllata dai patrones, concessionari delle miniere che sostituiscono lo Stato su tutti i fronti. Con i loro eserciti privati garantiscono la sicurezza e per riciclare i dollari del narcotraffico costruiscono case, scuole, chiese e ambulatori... Qualunque problema d’ordine pubblico si gestisce come se fosse un affare privato. Dal 1946 lo Stato colombiano si limita solo a concedere gli appalti per lo sfruttamento delle miniere, senza esercitare nessun tipo d’autorità nella regione. Nel villaggio esiste una stazione di polizia, ma in giro non si vede neppure l’ombra di un poliziotto. Si vocifera che siano barricati nel commissariato.

I politici colombiani arrivano da queste parti solo in periodo d’elezioni. Vengono a stringere mani e a dare pacche sulle spalle. Arrivano in cerca di voti o, meglio ancora, a comprare voti. «Sbarcano e organizzano pranzi pubblici, macellando vacche nella piazza principale, affinché le persone si ricordino di loro nelle urne», racconta David, giovane minatore nato ad Otanche. E aggiunge: «Arrivano su fuoristrada tappezzati di manifesti e carichi di sacchi di riso e zucchero». Promettono alla gente d’investire in infrastrutture e ai pezzi grossi locali di continuare a chiudere un occhio sui loro traffici illegali. Ma solo nel secondo caso mantengono le promesse. Così questi signorotti continuano a spadroneggiare nell’assoluta latitanza di uno Stato che continua a definirsi la più antica democrazia latinoamericana.

Otanche è il feudo di Vìctor Carranza, conosciuto a livello internazionale come lo «zar degli smeraldi», e accusato dalla giustizia colombiana di paramilitarismo e sequestro estorsivo nella Costa Atlantica e negli Llanos, le immense pianure orientali al confine col Venezuela. Secondo l’accusa, tra il 1984 e il 1989, Carranza ha formato e finanziato gruppi paramilitari nelle regioni di Muzo e Coscuez. L’idea di don Vìctor, come lo chiamano i suoi uomini, era impedire all’estinto cartello della droga di Medellìn d’impadronirsi dei migliori giacimenti smeraldiferi del Paese. Pablo Escobar, infatti, aveva messo gli occhi sull’affare degli smeraldi per poter riciclare i dollari che provenivano dalla vendita della cocaina. Lo «zar» ha vinto la battaglia e nel 1990 è stato incluso nell’esclusiva lista di miliardari che pubblica la rivista Forbes, con una fortuna stimata in mille milioni di dollari.

Dal 1998 Carranza ha affrontato tre processi, dai quali è sempre uscito vittorioso. L’ultimo gli è costato tre anni di carcere ma, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria, è stato assolto ancora una volta. Oggi vive nella zona e, oltre a frequentare le miniere di sua proprietà per scegliere le pietre migliori da vendere all’estero, si dedica alla promozione turistica della regione, organizzando, tra le altre cose, un concorso di bellezza che assegna l’altisonante titolo di Miss Esmeraldas. Ennesimo inno all’ipocrisia e alla frivolezza in un territorio dove il 72 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Triste primato uguagliato solo dalla regione più povera della Colombia: il Chocò, sulla costa pacifica.

Quando Carranza è alle prese con tribunali e centri penitenziari, a farne le veci è il suo luogotenente, don Darìo, un quarantenne molto disponibile che somiglia sfacciatamente a Pablo Escobar: stessa stazza, stesso sorriso assassino, stessi baffetti insignificanti e undici figli sparsi nella regione, oltre a una fedina penale che farebbe impallidire anche il killer più sanguinario. Ha in gestione alcune miniere e, in più, secondo molti, controlla la produzione ed esportazione della polvere bianca.

I «mammasantissima» e le loro guardie del corpo, detti pàjaros (picciotti), vanno in giro con tanto di pistola e due caricatori alla cintola. Nella zona tutti hanno il ferro (la rivoltella) e lo usano al calar delle tenebre. La colonna sonora di Otanche, infatti, non è la salsa come nel resto del Paese, bensì il rumore di spari e raffiche di mitra che profanano la pace notturna. Così può capitare di alzarsi all’alba e incontrare la proprietaria dell’albergo che toglie le macchie di sangue dalla soglia di casa. Lo fa come se spolverasse, con una naturalezza che lascia senza parole. Gli spari, però, non sono una prerogativa solo notturna. Spesso, infatti, jeep e Bmw blindati attraversano le polverose strade del villaggio, smuovendo l’afa pomeridiana con colpi in aria per celebrare l’arrivo a destinazione di un carico di cocaina. Se non fosse così verdeggiante e non mancassero stivali e speroni, potrebbe sembrare il Far West, con omaccioni cinti da cinturoni portati con falsa disinvoltura su pantaloncini da mercatino delle pulci e ciabatte da mare. Su tutti spicca per eleganza «EI Divino», un giovane che da anni gestisce diverse miniere e sfoggia i suoi gioielli anche in piscina. infatti, non è raro vederlo a bordo vasca, con addosso la fondina impermeabile, dove ripone la sua Browning con impugnatura di madreperla e due immancabili caricatori. Pare che abbia fatto fortuna come minatore. E uno dei pochi a poter raccontare il mistero e la magia d’iniziare come umile picconatore per poi trovarsi a gestire miniere e mercato della droga. La stessa parabola di Vìctor Carranza: inizi da minatore di Guateque, piccolo villaggio boyacense, per arrivare ad essere lo «zar degli smeraldi».

La maggior parte di coloro che scendono anche duemila metri sotto terra per dodici lunghe ore, alle prese con dinamite e temperature superiori ai quaranta gradi, sono i poveri, i tanti disperati figli del pueblo colombiano. Ciascuno sopporta, abbassa la testa e tira avanti come può nella speranza d’arrivare un giorno a incontrare la pietra che cambierà la propria sorte e quella della propria famiglia. Una famiglia spesso lontana, dalla quale si ritorna più spesso malati che vincitori. O che a volte vive nelle tante piccole baraccopoli che circondano le miniere, catapecchie sospese in aria sui pendii delle montagne. E così i figli finiscono col fare il lavoro dei padri, accarezzando il sogno che prima o poi arrivi la suerte, la fortuna, mentre le mogli si danno da fare, setacciando il materiale portato in superficie, nella speranza di recuperare qualche briciola verde, qualche morrallita, come vengono chiamate le lacrime di poco valore. Anche se può sembrare assurdo, per molti essere minatore è un privilegio e bisogna lottare per diventarlo. «Qui è molto difficile entrare e ci si riesce solo con la raccomandazione di un patròn, senza la quale è impossibile anche solo avvicinarsi a una miniera», spiega Agustìn Mendoza, mentre confessa che il suo incubo ricorrente è di perdere il lavoro.

A Otanche l’attività di scavo non s’interrompe mai e la montagna non sa cosa sia il riposo, così come non lo sanno i tanti minatori e guaqueros che s’alternano durante l’intera giornata, con turni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, in condizioni di lavoro estreme, con calore e umidità folli, respirando continuamente polvere. Quella maledetta polvere che s’attacca ai polmoni e li fa invecchiare rapidamente, quando non provoca la morte per tumore o silicosi.

Rolando è uno dei tanti sopravvissuti a questo destino di sofferenza e morte. Ha 28 anni e non appena maggiorenne ha deciso di lasciare la sua città natale, Chiquinquirà, a quattro ore dalle miniere, per tentare la sorte e magari rientrare da vincitore. E’ quasi scappato di casa inseguendo il sogno delle miniere e della ricchezza facile e veloce. Una volta a Otanche, però, si è scontrato con le dure condizioni di lavoro nelle miniere, con turni che sembravano non finire mai, con la stanchezza fisica e mentale e con l’assenza di prospettive. «Ho provato la fame e la disperazione di non poter mangiare nient’altro che pane e acqua zuccherata perché spesso, dopo dodici ore di lavoro, non avevo neppure tremila pesos (circa un euro - ndr) per un pasto», dice senza nostalgia. Si è scontrato anche con l’avidità degli appaltatori dei tunnel, ai quali vanno tutte le pietre estratte, se non si fa in tempo ad ingoiarle prima. Finché un giorno un’infezione gli ha provocato piaghe immonde che non si rimarginavano mai e per curarsi ha dovuto - provvidenzialmente - lasciare la vita da minatore... Oggi è avvocato: «Devo la vita alla malattia e ai miei che mi hanno riaccolto senza troppe domande», riconosce Rolando con un nodo in gola.

Secondo monsignor Luis Felipe Sànchez, vescovo di Chiquinquirà, «i contadini preferiscono lavorare anni nelle miniere, convinti che prima o poi diventeranno ricchi, invece di coltivare la terra fertile. E se si dedicano all’agricoltura in genere coltivano coca, perché i e tradizionali prodotti locali - arance e banane - permettono guadagni irrisori, mentre la coca rende molto di più». Negli anni Ottanta, l’apparente tranquillità della regione si è rotta. Mentre le miniere producevano a pieno ritmo, qualcosa che oggi è soltanto un ricordo, è scoppiato uno scontro tra faide senza precedenti, conosciuto come Guerra verde, che ha lasciato sul terreno 3.500 vittime. Le ritorsioni sono arrivate sino al mercato bogotano degli smeraldi, dove si sparava come sul set di un film western. La guerra è finita nel 1990 con un accordo di pace promosso dalla Chiesa e firmato da Carranza e altri leader degli smeraldi.

Una minaccia oggi è rappresentata dai guerriglieri delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), che da diversi anni cercano d’infiltrarsi nella regione per mettere le mani sul mercato delle pietre e sul più redditizio traffico della droga.

E’ come essere sempre in attesa che la polveriera sulla quale ci si trova seduti esploda.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 29 Giugno 2007 19:34

I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ

I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ

di Attilio Giordano
L’Ancora aprile 2007

Il rapimento e la liberazione del collega Daniele Mastrogiacomo è stato l’ultimo episodio che invita a riflettere su queste nuove guerre al terrorismo, ma pure sullo spaesamento dei giornalisti, sempre più stretti tra il dovere di raccontare quello che accade e il nuovo ruolo di merce di scambio.

Comprensibilmente, in seguito all’ennesimo rapimento - che in tutti noi evoca orrore e terrori - si riapre una questione apparentemente estranea: è giusto stare in Afghanistan con i nostri soldati? È giusto stare nelle altre venti e più missioni militari nel mondo? Nel confuso e ideologico dibattito in corso si dimenticano un paio di cose che chi ha visto l’Afghanistan dal vero sa benissimo.

La prima: l’Italia è a Kabul e a Herat con una missione che le Nazioni Unite hanno affidato alla Nato. L’Italia può uscirne solo teoricamente. O meglio: può uscirne praticamente, ma mettendo a repentaglio non i suoi rapporti con l’America, ma con le Nazioni Unite. Secondo: anche ammettendo - ed io lo credo - che i bombardamenti americani in Afghanistan siano stati dettati da ragioni diverse da quelle dichiarate, non si può scordare che a Kabul, fino al novembre 2001, c’era un regime molto vicino al terrorismo che fece crollare il World Trade Center e colpì altri obiettivi negli Stati Uniti.

Se Saddam Hussein non c’entrava affatto, ed è pacifico, non lo stesso si può dire dei Taliban che ospitavano Bin Laden. E comunque: se oggi le forze dell’Onu abbandonassero l’Afghanistan non verrebbero meno a un’arrogante invasione.

Semplicemente, lascerebbero quel Paese in mano a bande criminali e selvagge che ne farebbero un campo di battaglia.

La posizione bellicosa americana - e di parte della politica italiana - è assurda quanto quella strenuamente pacifista che ci vorrebbe fuori dalle regole dell’Onu e cinici rispetto alla sorte dei poveri afgani.

L’aspetto più fastidioso - magari mentre un collega rischia la vita - è proprio questo dell’approccio di parte della nostra politica: così indifferente e faziosa, così ignorante della realtà, aggrappata a strumenti ideologici vecchi e irritanti. Si può discutere di queste cose avendo mente solo a un governo da mettere in difficoltà o a elettori da accontentare nei loro sentimenti più irrazionali?

In Afghanistan la libertà non è l’addio degli occidentali. Perché prima, durante decenni di storia, lasciati liberi, gli afgani, quelli tra loro che hanno armi e fanatismo da vendere, gestivano una Società enormemente ingiusta, priva di pietà, dove si uccidevano le donne con poco più rispetto di quanto non se ne usasse per gli animali, dove l’istruzione equivaleva al peccato, dove i poveri erano miseri e i contadini miserrimi schiavi dei signori della guerra e del loro oppio. Non c’era molto di buono in quella società guastata già dai tempi dell’invasione sovietica, quando gli americani finanziavano i “gloriosi taliban” contro il nemico comunista.

In questo pantano, in un certo senso, l’errore americano (e tanti morti che ha determinato) è stato entrare in un meccanismo senza uscita: si possono - adesso - lasciare le cose come le si è trovate? Si può abbandonare tutto all’ingiustizia dopo aver sprecato fiumi di parole sulla democrazia importata? Il Grande Gioco dei grandi strateghi è andato a picchiare in qualcosa di ostile e sconosciuto, in nessun modo gestibile. Una trappola. Dentro, c’è finito anche un giornalista onesto che ha fatto il suo lavoro a dispetto di tante difficoltà, con il rischio della vita, ma pure di diventare un’arma impropria.

E due disgraziati afgani, con i quali ho passato un mese anch’io, interprete e autista, che avevo ereditato proprio da Daniele Mastrogiacomo.

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RD CONGOIL’ANALISI DI PADRE MARTIN EKWA - TRE LEVE PER LO SVILUPPO

François Misser da Kinshasa
Nigrizia/Maggio 2007

Padre Martin Ekwa, vicino all’arcivescovo di Kisangani, mons. Laurent Monsengwo, è un gesuita che ha dedicato gran parte della sua lunga vita alla formazione spirituale e professionale della classe dirigente congolese. E lo ha fatto sempre con un ruolo di primo piano: responsabile dell’insegnamento cattolico dal 1960; dal 1984 alla testa del Centro cristiano d’azione per i dirigenti e i quadri d’impresa nella Repubblica democratica del Congo (Cadicec). Uomini politici, imprenditori, diplomatici e religiosi considerano questo ottuagenario, ancora in gamba, come un saggio e un osservatore accorto, benevolo ma anche esigente nei confronti della storia del paese e del suo sviluppo.

Sorprendentemente, relativizza la parola “crisi”. «Invece di parlare di crisi, mi chiedo se non si debba parlare di evoluzione, di tentativi infruttuosi», esordisce padre Ekwa, sottolineando che all’indipendenza (30 giugno 1960) c’erano ben pochi quadri dirigenti congolesi. Non c’era un solo medico o un avvocato. Lo stesso primo ministro del primo governo congolese, Patrice Lumumba, aveva fatto solo due anni di scuola secondaria superiore. E questo stato di cose non ha facilitato il rapporto con i belgi nella fase post-coloniale. Dopo l’assassinio di Lumumba, Mobutu Sese Seko, prima capo di stato maggiore dell’esercito e poi presidente, ha monopolizzato il potere per un trentennio. Mobutu ha potuto beneficiare di una grande indulgenza, sia all’interno che all’esterno del paese, essendo considerato, in piena guerra fredda, un bastione contro l’espansione del comunismo in Africa. «Io stesso ero d’accordo con questa impostazione», riconosce il gesuita.

Detto ciò, dall’indipendenza il paese ha vissuto un declino continuo. Sono stati formati dirigenti ma non imprenditori. Del resto, mancava l’idea stessa di impresa: padre Ekwa ricorda che il primo direttore della fabbrica di birra Bralima è stato un fattorino.

Nel 1972 arrivò la “zairizzazione”, voluta da Mobutu. Una scelta che comportò anche la nazionalizzazione delle imprese straniere e le cui conseguenze si fanno sentire anche oggi. Analizza Ekwa: «Non siamo stati saggi. Abbiamo detto ai belgi: “Andatevene. Siamo in grado di fare tutto da soli”. Non era così... Sono state messe a condurre le imprese persone con una formazione universitaria, ma prive del sostegno di qualcuno con un’esperienza consolidata. Il sistema politico era dittatoriale e anarchico, nel senso che nessuno comandava. Quello che contava non era la competenza, ma essere in buoni rapporti con i capi politici o appartenere alla loro etnia. Così il sistema si è avvitato su sé stesso».

E ancora: «Si è soffocata l’università per paura che potesse diventare un pericolo per il potere. A dirigerla sono state nominate solo persone fedeli a Mobutu. Perfino nell’università cattolica si è seguito questo criterio, come spiego nel libro L’École trahie (“La scuola tradita”, Cadicec, Kinshasa, 2004). Così Mobutu ha, di fatto, statalizzato tutto il sistema scolastico, lo stato si è dichiarato proprietario di ogni scuola e si è assunto il compito di nominare anche i direttori dei collegi. Più tardi, di fronte a una reazione dei genitori, sono sorte le scuole convenzionate. Ma c’è voluta una capacità di resistenza straordinaria per salvaguardare l’autonomia dei collegi cattolici. Da parte dei protestanti, la resistenza è stata più debole, ma bisogna dire che quest’ultimi erano attivi soprattutto in ambito ospedaliero».

Come spiega che Mobutu, che pure aveva studiato, non. avesse compreso che era un errore affidare la direzione di imprese a quadri senza esperienza?

Ci si può anche chiedere perché il Belgio abbia atteso così a lungo prima di dare un’adeguata formazione ai congolesi. Poi, quando si è deciso, l’ha fatto senza convinzione. E perché non c’erano contatti umani tra colonizzati e colonizzatori? A Kinshasa, dalle 18.00, nessun nero poteva attraversare il Boulevard 30 Giugno. Le due comunità erano del tutto separate.

Oggi gli imprenditori sembrano darle ragione, quando parlano di fallimento del sistema formativo-educativo. Si lamentano che molti giovani diplomati arrivano senza competenze sul mercato del lavoro. Ci sono stati molti “anni bianchi”, cioè con le scuole chiuse, e talvolta i professori per sopravvivere fanno commercio di diplomi...

È chiaro che in un sistema scolastico così malconcio solo i più brillanti se la possono cavare e uscire con qualche competenza. Però mi chiedo: dove sono le imprese che prendono i giovani e insegnano loro un mestiere? Questo paese ha 60 milioni di abitanti. Si è fortunati, se si trovano 100mila persone con una discreta formazione intellettuale. La massa è enorme e coloro che devono far da locomotiva sono pochi.

Gli uomini d’affari congolesi sembrano essere più commercianti che veri imprenditori che trasformano il prodotto. Manca un’etica del lavoro e del profitto. Com’è l’homo oeconomicus congolese?

I nostri avi non avevano idea di che cosa fosse un’impresa. E ciò è valido per l’insieme dei paesi africani. Anche oggi, il più delle volte, chi lavora ha la mentalità del funzionario, dell’impiegato, non è integrato nell’economia moderna. Certo poi bisogna anche interrogarsi sull’etica d’impresa di certi stranieri che sbarcano qui da noi.

Insisto. I congolesi sembrano non possedere il senso del risparmio. Ciò è dovuto al clima, al fatto che non c’è mai freddo e dunque non ci sono granai, come sostengono alcuni sociologi?

Non bisogna generalizzate. Sono originario della regione di Idiofa, a 140 km da Kikwit, e li ci sono i granai. E’ vero che la gente della foresta, per esempio, nell’Equateur, vive di raccolta e di caccia. Ma sono altre le questioni da prendere in considerazione. Abbiamo degli avvocati e dei medici intellettualmente preparati e brillanti che però, spesso, non sono in grado di gestire compiutamente un ufficio o un ambulatorio. Ecco: ci sarebbe bisogno di formazione in questo campo. Del resto, il paese è sempre stato fuori dai circuiti dell’economia moderna.

Non nascondo che questa situazione ci crea molti problemi. Guardiamo al sistema bancario. Dove sono le banche nell’Rd Congo? Dove sono i congolesi esperti di questo settore? Si dirà che lo stato deve mettere ordine, ma è un giro di parole. Da dove viene lo stato?

Tuttavia, sembra esserci un disordine tipicamente congolese, anche se l’Rd Congo non è stata la sola a essere colonizzata...

Ci sono storie diverse. Kenya e Nigeria, per esempio, hanno avuto contatti con l’Occidente ben prima di noi. L’Università MerleauPonty a Dakar è stata creata nel 1932, quella di Kinshasa nel 1954. I primi collaboratori delle piantagioni della Unilever (multinazionale anglo-olandese) sono stati nigeriani e ghaneani. In definitiva, tra belgi e congolesi non c’è ma stata una transizione, un passaggio di consegne. Ma può anche darsi che, all’indomani dell’indipendenza, se il Congo fosse stato diviso in sei paesi, oggi vivremmo una situazione molto migliore.

In ogni caso, ho fiducia nel futuro: abbiamo istituzioni legittime, espresse dal popolo, e questo è fantastico; al governo ci sono giovani e politici di lungo corso. La corruzione non mi preoccupa. L’importante è che, per esercitare il potere, si debba essere eletti e non nominati. Dopo queste elezioni, c’è stato chi ha ricevuto una bella lezione di umiltà.

Le elezioni hanno visto emergere nuove personalità, ma ancora molti dei soliti noti gestiscono Io stato. Com’è possibile fare una nuova politica in queste condizioni?

Mobutu ha preso il potere trentenne. Oggi il presidente Kabila e Kamitatu, uno dei ministri di punta, hanno più o meno quell’età. Nello stesso tempo, ci sono sulla scena uomini che hanno una certa esperienza nell’ambito delle attività economiche, gli stessi che negli anni ‘90 contestarono a Mobutu la sua gestione dello stato e dell’economia. E c’è, è vero, un primo ministro, Antoine Gizenga, un po’ avanti con gli anni. Ma sulla sua onestà e capacità sono pronto a scommettere.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 29 Giugno 2007 19:26

LAICITÀ NELL’ISLAM

LAICITÀ NELL’ISLAM

di Mostafa EI Ayoubi
Giornalista
Nigrizia/Aprile 2007

In una realtà multiculturale, multietnica e multireligiosa come quella europea, la laicità occupa una posizione centrale nel dibattito politico e culturale. Ma laicità è una nozione che si presta a interpretazioni diverse e, a volte, anche approssimative. Spesso si fa confusione tra laicità e laicismo: la prima fa riferimento alla separazione tra la sfera religiosa e quella politica; il secondo è una forma di ideologia che nega alla religione una sua importante funzione socio-culturale.

Nell’odierna Europa, la distinzione tra il politico e il religioso, tra il razionale e il dogmatico, tra lo stato e la chiesa, è più che mai fondamentale per garantire la realizzazione di un modello di società equa e solidale in cui lo stato laico svolge un ruolo di “facilitatore” dei rapporti tra i diversi gruppi sociali che condividono lo spazio pubblico e di “vigile” nell’assicurare uguali diritti e doveri per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di genere, di religione e di cultura.

In Italia vivono 3,5 milioni di immigrati, che costituiscono ormai diverse minoranze religiose e culturali. Ciononostante, pare che nell’ambito del mondo politico non si abbia la consapevolezza che la laicità sia un elemento determinante per costruire una società plurale rispettosa delle varie tradizioni religiose. La laicità dello stato viene sbandierata solo quando un sikh pretende di non portare il casco per guidare il motorino, perché usa il turbante (considerato un simbolo religioso), o quando una donna musulmana pretende d’indossare il burka per strada. Ma quando si tratta di disparità di trattamento tra cittadini che professano fedi diverse — ricordiamo che il rapporto tra lo stato e le minoranze religiose fa riferimento alla legge del 1929 sui culti ammessi —, la bandiera della laicità viene spesso abbassata.

Ovviamente, la laicità rimane una questione aperta non solo per lo stato italiano, ma anche per le minoranze religiose, che, a nome della laicità, rivendicano il diritto di professare liberamente la loro fede, a volte in maniera pretestuosa, come nei casi del sikh e della musulmana sopraindicati.

Che rapporto hanno, ad esempio, i musulmani che vivono in Europa con il principio della laicità? Cosa pensano circa la separazione tra la sfera religiosa e quella politica?

Spesso viene chiesto ai musulmani: «Com’è che voi venite in Europa a rivendicare la laicità dello stato, mentre da voi non vi è una separazione tra stato e chiesa?». A questa domanda — posta male — molti rispondono in modo errato: «Noi siamo laici, perché non abbiamo né chiesa né clero».

Per cercare di decifrare il rapporto che i musulmani hanno con la laicità, bisogna tornare indietro nella storia. I primi contatti risalgono all’epoca del colonialismo: attraverso la colonizzazione dei paesi islamici il concetto della laicità entrò nel dibattito islamico e fu recepito come un modello mediante il quale gli occidentali intendevano delegittimare l’islam. In seguito, nel periodo post-indipendenza, il riferimento a un certo tipo di secolarizzazione e laicità non fu un’esperienza fondamentalmente democratica. In paesi come la Turchia, la Siria, l’Iraq e la Tunisia, l’organizzazione del potere era basata sulla separazione della sfera politica da quella religiosa. Eppure, l’esperienza dell’applicazione della laicità in questi paesi islamici non ha portato alla loro democratizzazione. Di conseguenza, nell’immaginario collettivo islamico prevale una rappresentazione negativa del concetto di laicità. Ciò vale anche per molti immigrati musulmani di prima generazione che oggi vivono in Occidente.

Ad ogni modo, l’approccio alla laicità cambia da una realtà islamica a un’altra: vi sono musulmani che la rifiutano, altri che si adattano e altri che, in un ambito secolarizzato, cercano di rileggere le proprie fonti religiose e interpretarle in un contesto laico.

Tra i più ostili alla laicità vi sono i salafìti, una corrente fondamentalista che non fa nessuna distinzione tra religione e stato. Il loro approccio al Corano è esclusivamente letteralista: «Siate obbedienti a Dio, al suo profeta e a coloro, tra di voi, che hanno autorità». I più rappresentativi di questa corrente sono i wahabiti (Arabia Saudita), che, in sostanza, dicono che non si fa politica e non si contesta un potere islamico.

Vi è un altro movimento salafìta che cerca di ricavare dalla religione tutto ciò che è politico. Sono i jihadisti: per loro il Corano è la fonte di organizzazione del potere politico e, quindi, non ci può essere una distinzione tra la sfera religiosa e quella politica.

Nell’ambito delle realtà riformiste islamiche, la laicità è generalmente accettata. Molti dicono che per vivere in un contesto politico e culturale che impone la laicità bisogna “conformarsi” attraverso una rilettura del Corano e della Sunna (consuetudine, modo di comportarsi, regola di interpretazione e di comportamento che i musulmani traggono dalle tradizioni relative a Maometto). Tuttavia, l’affacciarsi sulla scena socio-politica europea di musulmani di terza e quarta generazione sembra favorire la nascita di una nuova scuola di pensiero riformista, che vuole interagire con la laicità non in maniera passiva (cioè adattandosi), ma costruendo un dialogo critico dinamico di fecondazione reciproca. Ciò potrebbe favorire la nascita di un islam europeo, che riconosca alla laicità il suo valore e la sua importanza.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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