In ricordo di P. Franco

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Venerdì, 29 Giugno 2007 19:25

VERSO UNO STATO DI POLIZIA

 VERSO UNO STATO DI POLIZIAdi Carlo StellaNigrizia/Maggio 2007

I risultati ufficiali del referendum costituzionale del 26 marzo dicono che i “sì” hanno ottenuto il 75,9% e che ha votato il 27,1% degli aventi diritto. Dato, questo secondo, contestato da molti osservatori e da due importanti organizzazioni non governative, che hanno parlato di una partecipazione al voto non superiore al 5% dell’elettorato.

Tutto è stato fatto molto in fretta. È del dicembre scorso il primo annuncio da parte del presidente Hosni Mubarak dell’intenzione di riformare la costituzione del 1971. È seguito un breve dibattito in parlamento, boicottato dalle opposizioni. Una settimana dopo la chiusura del dibattito, si è andati a votare. A nulla sono valse le proteste e le manifestazioni di molti cittadini, né la cauta presa di distanza del Dipartimento di stato americano. Il rais ha preferito incassare quanto prima la garanzia di poter governare con poteri sempre più forti, senza più contravvenire alla costituzione.

Mubarak ha giustificato il suo progetto — e la sua fretta — parlando dell’assoluta necessità di «favorire la partecipazione popolare» e di «porre fine a ogni riferimento all’era “socialista”», di nasseriana memoria, già morta e sepolta da tempo.

La verità è che, con i 34 articoli modificati, è stata ridisegnata la mappa del potere, con nuovi ed estesi limiti alle libertà politiche e civili. È stata, innanzitutto, introdotta la proibizione di qualunque partito e di qualunque attività politica a contenuto religioso. Inoltre, solo i partiti politici con almeno il 3% dei seggi in parlamento hanno il diritto di esprimere un proprio candidato alla presidenza della repubblica. Due disposizioni unanimemente lette come misure contro i Fratelli Musulmani, la più radicata forza politica e il maggior schieramento di opposizione in parlamento (con 88 candidati indipendenti, sparsi nei diversi partiti). In pratica, i Fratelli non potranno mai avere quel riconoscimento ufficiale che aspettano da decenni; in particolare, non potranno avanzare una loro candidatura alla presidenza, quando il rais deciderà di andare in pensione. Le presidenziali sono nel 2011, ma non è scontato che Mubarak (79 anni), al potere dal 1981, esca di scena.

In ogni caso, non si ripeterà più il caso (avvertito dal regime come “scandalo”) di giudici che, nel corso di scrutini elettorali, osano denunciare irregolarità: una delle modifiche apportate al testo costituzionale trasferisce il compito di sorvegliare la regolarità delle operazioni di voto dai giudici a una commissione indipendente, nominata dal governo.

Nella storia egiziana, le elezioni non sono mai state trasparenti. D’ora in poi, la loro “opacità”, ai fini di perpetuare il regime, è assicurata. E questo attenua di molto la portata degli emendamenti che trasferiscono una modesta parte dei poteri del presidente al primo ministro e alle due camere del parlamento. In mancanza di trasparenza, in caso di elezione, tutto si risolverà in una ridistribuzione di funzioni all’interno del medesimo sistema di potere.

L’aspetto più preoccupante della riforma è la sospensione di alcune garanzie individuali e l’estensione dei poteri del presidente in caso di minacce di terrorismo (art. 179). Il rais potrà deferire a tribunali (anche militari) qualunque civile sospettato di questo crimine. Come già in buona parte dei paesi occidentali, anche in Egitto la lotta al terrorismo diventa il grimaldello con cui scardinare le libertà individuali. Libertà che già godono una pessima salute nel paese, anche grazie allo stato di emergenza che Mubarak mantiene ininterrottamente dal 1981.

Dunque, si prevedono ulteriori giri di vite e, forse, la trasformazione dell’Egitto in uno stato di polizia.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 11 Maggio 2007 23:25

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

di Ivan Carozzi

da Carta n° 13 – 14/20 aprile 2007

(abstract)

“Che alcuni sacerdoti siano ‘merletto di giorno e cuoio di notte’ è un’espressione che avrei voluto inventare io”: queste parole sono tratte da “Fede oltre il risentimento”, saggio di teologia con un tocco di sensibilità “queer” appena uscito per Transeuropa Edizioni. L’autore è James Alison, sacerdote e teologo inglese (cattolico) dichiaratamente omosessuale, che nel libro indaga sul rapporto tra amore diverso e sacre scritture. Lo fa riferendosi al pensiero del filosofo e antropologo René Girard, pensatore francese che ha riletto la storia dell’umanità alla luce delle categorie di “vittima” e “capro espiatorio”. Alison ha fatto parte dell’ordine domenicano dal 1983 al 1995, fino a quando, cioè, non è stato fatto oggetto di persecuzioni a causa della sua dichiarata omosessualità. Da allora si è reinventato pastore itinerante, organizzando seminari e ritiri spirituali per sacerdoti. Osservatore attento e coraggioso dei rapporti tra società, Chiesa e mondo gay, Alison segue con passione anche quanto sta accadendo nel nostro paese a proposito del progetto di legge sulle unioni civili. A James Alison, Carta ha rivolto alcune domande.

Carta
Che opinione si è fatto dei Dico?


James Alison

Confesso di preferire ai Dico quelle forme di unioni civili giuridicamente omologhe al matrimonio. La soluzione spagnola e canadese mi sembra la migliore.

C.
Per quale ragione?

J. A.
Per ragioni sia teologiche sia pratiche. In accordo con Benedetto XVI ritengo che all’unione fra due individui vadano riconosciuti tutta la forza e gli strumenti necessari perché si faccia vera testimonianza di fede ed espressione divina. Non sono però d’accordo con il Papa quando afferma che tale possibilità debba concedersi solo a individui di sesso opposto. Sulle questioni pratiche, e che riguardano la sfera del diritto, credo sarebbe più utile servirsi di termini come “coniugi” e “conviventi”, ignorando ogni riferimento al sesso. È una scelta lessicale che semplificherebbe il percorso di legge, evitando questioni tortuose che spesso sono fonte di speculazioni arbitrarie.

C.
Quando è avvenuto il suo “coming out”?

J. A.
A 18 anni. Mi sembrò doveroso per onestà verso il prossimo e verso me stesso.

C.
Lei sostiene che da una lettura approfondita delle sacre scritture è possibile ricavare un atteggiamento sereno nei confronti dell’amore omosessuale.

J. A.
Certo, e in accordo con le interpretazioni più recenti della Bibbia. La categoria dell’omosessualità è un’invenzione del diciannovesimo secolo, di cui non si ha notizia nella Bibbia. Gli episodi biblici che vengono usati contro i gay appartengono alle antiche culture mediterranee. Sono episodi di umiliazione sessuale, di stupro di gruppo, che riguardano entrambi i sessi e che ricordano gli abusi praticati nel carcere di Abu Ghraib. Spesso ci accostiamo alla Bibbia cercando ciò che ci torna più utile. Se volessimo usarla come manuale per odiare qualcuno, probabilmente ci riusciremmo. Ma mi sembrano un approccio e una lettura del tutto strumentali.

C.
La Chiesa teme che una legge sulle unioni civili possa trasformare radicalmente le fondamenta della nostra civiltà. Perché tanta paura?

J. A.
Forse non sono la persona più adatta a esprimermi su quanto sta accadendo in Italia, tuttavia credo che ogni volta che si profila la possibilità di un grande cambiamento sociale le forze conservatrici tendono istintivamente a irrigidirsi. In seguito, quando quel cambiamento si è ormai consolidato, quelle stesse forze cominciano a familiarizzare con il nuovo contesto sociale, scoprendo che non ha avuto quell’impatto distruttivo di cui temevano. In un articolo apparso su www.noi.it viene rilevato come le parrocchie e le piccole diocesi abbiano un atteggiamento disteso verso la questione delle unioni civili, a differenza degli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Non mi sorprende. È la prova che la realtà si trova sempre un po’ più avanti di quanto si creda.

C.
La cultura gay è penetrata a fondo nella moda, nell’arte, nello spettacolo. Eppure, appena si parla di diritti civili per i gay riaffiorano antiche ostilità.

J. A.
È una situazione paradossale. Il vero momento di rottura si verifica piuttosto quando in un determinato paese i leader della destra diventano consapevoli che la questione gay non può ridursi a materia ideologica, a qualcosa che serva a marcare la differenza fra destra e sinistra. Quando realizzano che si tratta di una questione che può riguardare i loro stessi membri ed elettori. A quel punto le loro precedenti posizioni cominciano a sembrargli stupide e imbarazzanti. È accaduto tra i tory inglesi, nel partito popolare spagnolo e accadrà fra i repubblicani negli Usa, anche a causa degli scandali che li hanno investiti. In questi paesi la Chiesa ha l’opportunità di mutare atteggiamento proprio grazie a tali cambiamenti politici e culturali.

C.
Molti leader politici dichiarano di non nutrire nessun sentimento di discriminazione nei confronti dei gay. Ci si limita a dire che l’attribuzione dei diritti civili agli omosessuali potrebbe minacciare l’istituzione del matrimonio.

J. A.
Se questa affermazione non deriva dal pregiudizio, allora deve basarsi su di un qualche tipo di prova. Una prova che non esiste. Non dimentichiamo che i gay rappresentano una modestissima percentuale della popolazione, circa il 4%. Chi avversa le unioni civili afferma che potrebbero alla lunga cancellare l’istituzione del matrimonio. Ma è forse accaduto questo in Olanda, in Spagna, in Canada, nel Massachussets?

C.
Si dice anche che le unioni civili potrebbero rivelarsi un cavallo di Troia per arrivare a una legge sulle adozioni per le coppie omosessuali.

J. A.
Se la gente vuole una nuova legge sulle adozioni, allora sarà una questione che verrà a porsi pubblicamente, senza sotterfugi. In molti paesi dell’Ue e del Sud America gay e lesbiche possono già adottare, a condizione che uno dei partner abbia legami di parentela col bambino. A meno che per cavallo di Troia non si debba intendere che dietro le adozioni per le coppie omosessuali si nasconda una qualche sinistra intenzione, come se in ogni omosessuale dovesse nascondersi un pedofilo. Si tratta di un altro pregiudizio, smentito da molte ricerche che attestano come non esista nessun specifico legame tra omosessualità e pedofilia. Tanto meno ci sono motivi per ritenere che un bimbo cresciuto da una coppia gay non possa avere la stessa possibilità di crescere di un qualsiasi altro bambino.

C.
Lei vive e lavora in Gran Bretagna, dove le “civil partnership” hanno raggiunto un anno e mezzo di vita.

J. A.
Le “civil partnership” hanno trovato il generoso supporto dei parenti e degli amici dei congiunti, per i quali avevano senso e razionalità. Personalmente ho partecipato a due cerimonie, una a Londra, l’altra a Leicester, e confesso di averle trovate piuttosto toccanti.

C.
Che ruolo ha avuto il pensiero di Girard nel suo lavoro?

J. A.
Mi è stato essenziale per la comprensione del cristianesimo. Il suo punto di vista sul desiderio è decisamente liberatorio. Per Girard non esistono differenze tra i vari orientamenti sessuali, dal momento che ognuno di essi è governato dal medesimo impulso mimetico e competitivo. E dal momento che gay ed etero possono positivamente trasformarsi abbracciando un modo di amare non competitivo. È stata infine risolutiva, anche per la mia stessa esistenza, l’idea girardiana di capro espiatorio.

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UNA CIVILTÀ IN CRISI CHE SEMBRA DESTINATA ALL’ECLISSI - €uropa dove sei?

Vita Pastorale n. 2 2007


            La civiltà europea è in declino e ne nasce un’altra. Fiorisce un nuovo mondo cui gli Europei diventano estranei. Qual è la ragione di questa crisi che sembra inarrestabile e pare destinata a cancellare una civiltà e una cultura durate almeno tremila anni?

Anzitutto, declina l’etica che aveva guidato gli Europei nel lungo itinerario della loro storia, ma è in crisi anche la giustizia, insieme a un diritto che ha orientato la storia del mondo almeno dai tempi di Giustiniano. Ma l’Europa mostra la sua crisi anche attraverso la diffusione capillare della pornografia e di altri fattori di disgregazione sociale, come la crisi della famiglia e l’impoverimento psicologico e ideale delle classi giovanili. Tutto questo e legato al tramonto di un’immagine del mondo a cominciare dall’identità cristiana che si trasferisce in altri continenti. La scuola non aiuta a rispondere a queste sfide e si trasforma in una specie di sistema di diseducazione obbligatoria. Insomma, non prepara i ragazzi alla vita, mentre l’università contribuisce al collasso dell’identità europea.

Ma assistiamo anche alla crisi dell’identità economica, al tramonto dell’imprenditorialità e del binomio religione e sviluppo, mentre un massiccio flusso migratorio – d’altronde necessario – favorisce la perdita di identità. Contribuiscono anche il consumismo, il declino dei sindacati, la diffusione della cultura del rifiuto del lavoro e delle ferie. La politica coagula e gestisce il declino perchè l’Europa usa una politica antica inadatta a un mondo così diverso; inoltre la cosiddetta cultura progressista non - esiste quasi più. Ma l’Europa - declina anche perché logorata da altri fattori che la distinguono dal passato: i media;il rumore assordante da cui è dominata giorno e notte, la nuova immagine della morte, la nuova moda, l’artificio di una cultura lontana dall’individuo medio. Di qui una sorta di auto-genocidio, espressione anche del declino delle natalità e della diffusione di una marea di anziani che preparano il collasso o forse la fine dell’Europa. Ma come fare per superare tutto questo?

Anzitutto sarebbe necessario accelerare l’unificazione economica e politica, per rendere compatta un’economia che sarebbe ancora ,la maggiore del pianeta; bisognerebbe dare un colpo d’ala alla natalità, perché senza natalità è difficile che si abbiano sviluppo e conservazione dell’identità europea. E’ anche necessario un sistema di valori e di ideali che garantirono il primato dell’Europa per molti secoli. E’ anche necessario orientare la produzione industriale a livelli tecnologici e di qualità più elevati e riformare radicalmente la scuola. Ma come può un’Europa senza valori, laici o religiosi, senza identità, raccogliere la sfida del resto del mondo, visto che la civiltà europea ha avuto, come le altre, una nascita, una gioventù, una maturità, dopo di che è appassita e forse sta morendo? E’ possibile che sia vicina l’ora della nostra scomparsa dallo scenario mondiale o forse l’Europa può dare vita a un’altra civiltà diversa da quella che sta morendo? Per l’Europa è ormai la ventiquattresima ora, ma possiamo ancora salvarci prendendo coscienza della catastrofe che ci minaccia.

Lei ha dato a un suo libro di molti anni fa il titolo L’eclissi del sacro nella società industriale,e ora intitola questo ultimo libro, L’eclissi dell’Europa. Perché?

“Credo che quell’eclissi dei valori, della religione, dei principi morali su cui si reggeva l’Europa abbia preparato questa eclissi. Di qui, l’analogia nel titolo.

Ma queste due considerazioni sono abbastanza generiche. In pratica, in concreto, quali sono i fattori che secondo lei provocano questa grande eclissi dell’identità europea?

“L’Europa è stata per secoli il centro del mondo. Gli europei avevano dei grandi ideali e le diverse regioni dell’Europa, allora dette Stati nazionali, hanno dato vita alle grandi rivoluzioni culturali, alla nascita delle nuove civiltà, come ad esempio è accaduto con la fine dell’impero romano e l’avvento del cristianesimo, con il Rinascimento, con la rivoluzione liberale e la rivoluzione industriale. In seguito, la crisi morale e soprattutto due guerre mondiali hanno messo in crisi l’Europa. Mi pare fosse lord Mountbatten che, firmando l’indipendenza dell’India, disse: “Questa è la fine del primato dell’uomo bianco”. Difatti, in pochi decenni, sono spariti gli imperi coloniali che avevano permesso all’Europa di dominare il mondo».

Ma in concreto?

«In concreto le guerre, il progresso tecnico-scientifico si sono accompagnati alla crisi della scuola, a quella del cristianesimo che in questi ultimi decenni è emigrato fuori dell’Europa, un continente ormai scettico, edonista, senza ideali, impegnato nel vivere il suo piccolo mondo giorno dopo giorno».

Le conseguenze di tutto questo?

“Questo continente di spensierati edonisti, forse condotti su nuovi sentieri della vita delle grandi guerre, ha visto il collasso della famiglia, la crisi della natalità, e si è visto, quindi, travolto dall’impeto delle più giovani generazioni di Paesi come l’India e la Cina. In questo periodo, mentre la presenza demografica del nostro continente declina, anche il primato economico viene messo in crisi dal trasferirsi in Asia del centro del mondo”.

Che è accaduto dei valori un tempo dominanti in questo continente?

«Le chiese, un tempo affollate, si sono svuotate. Si è verificata quella che molti chiamano la rivoluzione pornografica, che ha visto la penetrazione capillare della pornografia nella società e nella cultura europea. Parlo della famosa pornonotte che vede nudi femminili, e ultimamente anche maschili, e legioni di lesbiche esibirsi in una miriade di televisioni, trasformando lentamente, anche da questo punto di vista, la società europea. Inoltre, il consumismo capillare, che consente d’altronde il funzionamento del sistema, perché chi guadagna consuma e permette al sistema di produrre, distrugge il complesso dei valori, trasformando gli europei in pigri consumatori di beni, servizi, messaggi culturali, ecc. Come ha detto a suo tempo Oscar Wilde: “Noi ormai conosciamo il prezzo di tutto e il valore di niente”».

In conclusione?

«Stiamo dunque assistendo alla drammatica eclissi di una civiltà, di un popolo, di quel popolo europeo che è stato il principale artefice della storia del mondo. Oggi l’Europa è un continente in declino, assediato da decine di milioni di individui che probabilmente, dato che tra l’altro ne abbiamo bisogno, finiranno per travolgerci».

La sua visione è catastrofica. Ma c’è qualche speranza?

“Nel mio libro alla fine faccio alcune considerazioni, su cui non mi soffermo, che danno un profilo di quello che gli europei dovrebbero fare per ritrovare se stessi, per ridare all’Europa il primato perduto persino nel mondo scientifico. Infatti non dimentichiamo che un secolo fa i premi Nobel erano quasi tutti europei e ora quasi nessuno. Dobbiamo dunque, ripensare la maniera di vivere. di lavorare. di dare un significato alla vita. E’ un’impresa quasi impossibile, ma io ho ancora qualche speranza e per questa ragione, parlo di eclissi e non di fine. Mi sostiene l’ottimismo della volontà pur nel pessimismo della ragione”.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 21 Marzo 2007 19:59

Poligamia, questione aperta

Poligamia, questione aperta

di Mostafa El Ayoubi
Nigrizia marzo 2007


Ogni volta che si parla del diritto alla libertà di culto per i musulmani in Italia, scatta l’allarme poligamia. Ed è quello che è avvenuto, puntualmente, all’inizio di quest’anno, quando la Commissione affari costituzionali ha iniziato una serie di audizioni con esperti ed esponenti delle comunità di fedi, per sentire il loro parere sulla proposta di legge Boato-Spini, sulla libertà religiosa. Gli scettici dicono che questa legge, se venisse approvata, favorirebbe la diffusione della poligamia: i musulmani che vivono nel nostro paese potrebbero, grazie a essa, ricorrere al matrimonio religioso invece che a quello civile. E siccome quello islamico consente la poligamia, un musulmano, anche in Italia, potrebbe avere quattro mogli, cosa assolutamente inammissibile.

I media spesso riportano dichiarazioni di esperti e di uomini politici che affermano che i musulmani rivendicano, in nome della libertà religiosa, il diritto di essere poligami e invitano quindi lo stato alla prudenza e a non dispensare diritti religiosi e a stipulare facili Intese. Tuttavia, bisogna riconoscere, a prescindere dal caso islam, che in Italia ci si basa ancora sulla legge “facciata” del 1929/30, relativa ai “culti ammessi”, per regolamentare le attività culturali delle minoranze religiose. Una legge obsoleta, che non tiene conto del radicale cambiamento dell’assetto culturale e religioso del paese dove convivono comunità di fedi di origine immigrata diverse (induisti, buddhisti, sikh, ortodossi, bahai, etc); una legge quadro, quindi, è diventata indispensabile per i nuovi cittadini, che potranno praticare liberamente le loro fedi, nel rispetto della legge, ovviamente.

In Italia la poligamia è vietata, questo lo sanno molto bene anche i musulmani. Infatti, nelle bozze d’Intesa, presentate in passato da alcune organizzazioni islamiche (Ucoii e Coreis), non vi è alcun accenno a questa prassi.

Ora, al di là dell’uso strumentale che si fa di tale questione, rimane il fatto che il matrimonio poligamico è una realtà che non può essere sottaciuta da chi pratica la fede islamica. Cosa pensano realmente i musulmani che vivono in Italia della poligamia? Quando si dice, «Noi non rivendichiamo il diritto alla poligamia», significa un semplice adeguarsi alla legge oppure si è ormai convinti che si tratti di una prassi che discrimina le donne e come tale vada abolita?

Polemiche ideologiche sterili a parte, il dibattito aperto sulla questione poligamia è comunque salutare per la comunità islamica, che ha il dovere di interrogare la propria tradizione religiosa e reinterpretare le sue fonti per rendere giustizia al mondo femminile, oggi fortemente discriminato.

Lo spirito della norma sulla poligamia, quando fu istituita più di 1.400 anni fa, fu quello di fornire una soluzione etica, pratica e umana per le vedove e gli orfani in seguito a eventi imprevisti che la comunità deve affrontare, come ad esempio la guerra. Ciò spiega perché il versetto che parla della poligamia fu rivelato subito dopo la battaglia di Uhud, scatenata dai potenti della Mecca contro la nascente comunità islamica, durante la quale molti musulmani persero la vita, lasciando nel bisogno moglie e figli.

Il matrimonio poligamico, tuttavia, è vincolato da condizioni chiare: la donna non può essere obbligata a diventare la seconda moglie; la prima moglie che non accetta la poligamia ha il diritto di chiedere il divorzio.

Ciò nonostante, l’approccio letterale agli insegnamenti del Corano, adottato dai teologi in alcune culture islamiche conservatrici (per esempio, il divieto di guidare la macchina per le donne in Arabia Saudita), riflette l’influenza di alcune culture tradizionaliste conservatrici e non corrisponde allo spirito delle norme religiose.

È vero che la religione interviene nei modelli che regolano i rapporti uomini-donne. Ma è altresì vero che essa evolve anche in funzione di questi rapporti. Ovvero, i dogmi religiosi s’interpretano e si vivono in funzione dei rapporti uomo-donna.

I musulmani devono aprire una riflessione seria sul concetto di poligamia e sulla questione femminile nell’islam. Tra di loro c’è ancora chi ritiene che la poligamia sia un dogma immutabile. Nonostante il radicale cambiamento sociale e culturale delle società islamiche, ancora oggi l’uomo, in teoria, può sposare quattro mogli (salvo in alcuni paesi islamici) e può anche ripudiarle a suo piacimento. Ciò avviene, ahimè, anche in Europa, dove si verificano regolarmente casi di matrimoni non conformi alle leggi in vigore ed episodi di ripudio da parte del marito, consentiti paradossalmente dallo stato.

In Francia, ad esempio, sono previste convenzioni con l’Algeria (1964) e il Marocco (1981) in materia di matrimonio, per le quali un matrimonio tra coppie marocchine o algerine, anche se vivono stabilmente in Francia, è regolato da leggi dei loro paesi di origine, cosicché un algerino che vuole divorziare va in Algeria, ripudia la moglie, consegna il certificato di divorzio alle autorità competenti francesi e il gioco è fatto!

Quindi, forse, è anche il caso che l’Europa s’interroghi su tali questioni e dia delle risposte che tengano conto delle pari opportunità e della tutela della donna ed evitare di barattare i loro diritti in cambio di concessioni economiche e geopolitiche.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 07 Marzo 2007 19:51

CHI COMANDA IN INTERNET?

CHI COMANDA IN INTERNET?

di GianMarco Schiesaro
MC febbraio 2007

Il mito dell’anarchia di internet

È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo, «governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una periferia. Ma l'idea di un'internet egalitaria nella struttura, capace di sfuggire a controlli e pressioni esterne, non è che un mito. In realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di potere.

Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete, capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio privo di confini nazionali.

Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che, ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento. Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello politico - economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.

Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali, altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.

Tutto il potere di «Icann»

Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali. Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) è l'istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano perfino l’esistenza.

Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella California, formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte chiuse.

Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa Icann, mentre in Europa e nell'America del Nord, dove il dibattito attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano l'istituzione nel caos più completo.

Nelle mani degli Stati Uniti

Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po' più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense, preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann, parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro, un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare l'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione, tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa essere più snella e meno burocratica dell'attuale Icann. Dall’altra vi è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria rete internet.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 07 Marzo 2007 19:39

PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO

PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO

di GianMarco Schiesaro
MC Febbraio 2007

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre (Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai riflettori della modernità e scorre sui binari tranquilli della tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà, tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto il proprio ingresso nella società dell’informazione.

Questa commistione di tradizione e modernità non deve stupire: internet sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale, circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura di monitorare le risorse forestali del mondo intero.

Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli standard stabiliti dalle organizzazioni internazionali.

Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di cataclismi naturali.

SE LA SALUTE VIAGGIA SU INTERNET

È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato. Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti: la salute, per esempio.

Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro diagnosi.

La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989, offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30 paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali servizi si tratta.

In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.

Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese. Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina - sostiene Maria - è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO

I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa. Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni, fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è valida ancora oggi.

Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus, inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale, solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani. La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata. Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale, molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.

Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.

L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO

Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org) trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.

La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.

È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di oralità della cultura africana.

Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti, che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET

Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet... Ci sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè...».

Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Internet) serve a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cooperative locali, che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi: dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé del mercato mondiale.

Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione. Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che, grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO

Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo strumento tecnologico.

Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in una qualsiasi realtà del Sud del mondo.

Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di utenti contemporaneamente. Perché - è la domanda ricorrente - non incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?

Il ragionamento spiana la strada all'ingresso in massa del mondo del business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti», destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente) a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività delle loro attività.

Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di retorica e da un'assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto sulle fasce più deboli della popolazione.

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Opportunità e pericoli per l'«homo technologicus»

di Paolo MoviolaDossier MC febbraio 2007

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica, un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/). Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente, non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo confesso, nessuno mi crede.

Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista (convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono superati da altri più aggiornati e di cui - come ci fanno credere pubblicità martellanti ed invadenti - sembra non si possa fare a meno. Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori, stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce 20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni) cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa, dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà. Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist (http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo, non hai elettricità e non sai leggere. (...) La telefonia mobile è la tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).

Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni. Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e macchina perde sempre l’uomo».

Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo termine la sua scomparsa. (...) Non c’è analogia più bella, per illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com), sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena concluso.

La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché «L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale». L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e della pericolosità di una loro adozione acritica.

Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo ingiustificabile e insostenibile?

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Venerdì, 26 Gennaio 2007 18:38

GIAPPONE, UNA LEGGE CONTRO LA PIAGA DEL SUICIDIO

 GIAPPONE, UNA LEGGE CONTRO LA PIAGA DEL SUICIDIO

di Andrea Fontana

Popoli/Agosto-Settembre 2006

 
Il Giappone è deciso a perdere il primato del numero di suicidi tra i Paesi più industrializzati, con 24 casi ogni 100mila abitanti. A metà giugno il parlamento di Tokyo ha approvato all’unanimità una proposta di legge che intende attuare una più efficace politica di prevenzione. Obiettivo: ridurre nel giro di un decennio a meno di 25mila il numero dei suicidi all’anno (nel 2005 ha superato quota 30mila per l’ottava volta consecutiva). Secondo le statistiche della polizia, lo scorso anno è stato il peggiore dopo il 1978, con 32.552 suicidi e una significativa crescita di morti tra i trentenni e i ventenni. Su dieci giapponesi che si tolgono la vita, sette sono uomini e più della metà ha tra i 50 e i 60 anni, anche se in queste fasce di età si è registrata una flessione. Più morti tra i giovani e meno tra le persone in età matura dunque: una diagnosi che, oltre ai disagi legati alla vita scolastica e universitaria o alla difficoltà di trovare lavoro, si spiega anche con l’impressionante aumento dei cosiddetti «patti della morte», i suicidi di gruppo decisi dai ragazzi che si conoscono attraverso internet. Nel 2005 questi casi sono quasi triplicati, passando da 36 a 91. Ma le cause più diffuse che spingono le persone a togliersi la vita rimangono i problemi di salute, i debiti e i guai finanziari (anche se la migliore situazione economica ha fatto diminuire l’incidenza di questi fattori) e le difficoltà a livello familiare. Inoltre, secondo i sociologi, l’assenza di una repulsione verso il suicidio basata su motivazioni religiose è uno dei fattori decisivi per la diffusione del fenomeno in Giappone.

La legge approvata dal parlamento chiede al governo Koizumi di intensificare l’attività di prevenzione del suicidio, di aumentare il numero di centri per l’assistenza medica e psicologica e di promuovere forme di sostegno alle famiglie colpite da questi lutti. L’esecutivo dovrà riferire ogni anno al parlamento sulla situazione dei suicidi e sulle politiche attuate. Secondo le statistiche diffuse dall’organizzazione mondiale della sanità, li Giappone, per numero di casi in rapporto alla popolazione, è secondo nel mondo solo all’Ungheria e ai Paesi dell’ex Unione Sovietica.

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Giovedì, 23 Novembre 2006 19:27

SPERANZE “leggere”

SPERANZE “leggere”di Gianni Ballarini
da Nigrizia/Settembre 2006

La sorpresa sta nel vedere il suo nome nell’elenco di chi vuole inserire il capitolo armi leggere nella 185 del 1990, la legge che disciplina il controllo sull’esportazione e importazione dei materiali di armamento. Proprio così: il generale Luigi Ramponi - ex presidente della commissione difesa del Senato e uomo di punta in Parlamento dell’ala militarista di Alleanza nazionale - ha dichiarato pubblicamente il suo appoggio alla proposta d’integrare l’attuale normativa con una regolamentazione delle operazioni legate alle armi leggere. E’ successo il 6 luglio scorso, in commissione difesa del Senato, dove, per la prima volta dopo 15 anni, si è discussa la 185. Relatrice, la diessina Silvana Pisa.

Ad ascoltare in aula la confessione di Ramponi, il sottosegretario alla difesa Lorenzo Forcieri, uomo di collegamento della Quercia con il mondo militare e già presidente dei parlamentari italiani nel gruppo Nato. In commissione, il sottosegretario ha confermato come l’esecutivo di centrosinistra «non abbia alcuna intenzione di stravolgere lo spirito della 185, che può tuttavia essere migliorata, attesi i profondi mutamenti che dal 1990 sono intervenuti in materia di commercio di armamenti». Frase buttata lì, che avrebbe potuto alimentare paure e interrogativi autunnali in chi teme ulteriori svuotamenti della normativa. L’esponente diessino fornisce a Nigrizia l’esegesi delle sue parole: «Non sono all’ordine del giorno di questo governo stravolgimenti peggiorativi della 185, in fatto di trasparenza. Si potrebbe intervenire solo per semplificare alcune norme. E penso che questa legge, se non viene vista ideologicamente come un totem intoccabile, possa essere migliorata, in particolare sul tema delle armi leggere, capitolo da introdurre nella normativa. Sarebbe un intervento assai utile e per nulla impossibile. Aziende del nostro paese esportano armi leggere, dopo aver vinto legittime gare internazionali. Perché non rendere questi passaggi assolutamente trasparenti? Se invece, come la storia recente ci ha insegnato, queste armi imboccano percorsi più oscuri e ce le ritroviamo “riciclate” in qualche paese in conflitto, è giusto un controllo rigoroso. Sono situazioni da regolarizzare».

Ma il sottosegretario sa che le sue parole camminano sul ghiaccio. «E’ una materia estremamente delicata e che irrita la sensibilità di molti. Ci vuole cautela nell’affrontarla».

E già in commissione difesa del Senato c’è stato chi ha alzato le antenne, come lo stesso presidente Sergio De Gregorio, espressione della maggioranza (senatore dell’Italia dei Valori), ma da sempre custode fedele degli interessi dei militari e delle aziende di settore. La cui lobby, sul tema, ha costruito le barricate. Sono altre le richieste che ha avanzato al governo Prodi: a) riportare le spese per la difesa sopra l’11% del Prodotto interno lordo (PiI); b) ristrutturare l’apparato militare, tagliando le spese che toccano organismi, sedi e personale, per potenziare la ricerca e lo sviluppo; c) continuare l’impegno nelle missioni militari all’estero; d) maggiore attenzione al processo di costruzione dell’Europa della difesa.

Ma è soprattutto sul primo punto che aziende e lobbysti non vogliono fare sconti. A sostegno della loro causa, portano il recente Rendiconto generale dello Stato, preparato dalla Corte dei Conti e dedicato all’esercizio finanziario 2005. I fondi destinati al ministero della difesa, già in diminuzione rispetto all’esercizio precedente, risultano essere stati decurtati anche in corso d’opera: lo stanziamento definitivo di 17.782 milioni è inferiore di 1.717 milioni rispetto a quello iniziale. E anche nei prossimi 3 anni la situazione, ascoltando le ragioni del clan “armiero”, non appare rosea. Nel Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), discusso alle Camere, i tagli di bilancio per la difesa si aggirano attorno ai 412 milioni di euro.

AFFARI MILITARI

Un pianto militare che dura da anni. E che mal si concilia con la classifica che il Sipri, l’istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, pubblica sulle spese militari. Anche nel 2005, l’Italia ha mantenuto la settima posizione, con 25,1 miliardi di dollari. Lo stesso ministro della difesa, Arturo Parisi, non disarma. Appena letto dei tagli, è partita una sua controffensiva. E ha annunciato che il governo ha previsto, per il 2006, uno stanziamento di 400 milioni di euro per la difesa. Senza trascurare le nuove risorse per la missione in Libano.

E pure le aziende di settore galleggiano nell’oro. La Finmeccanica controlla quasi per intero il mercato italiano. Nella lista delle 100 aziende top della difesa stilate da Defense News nel 2005, il colosso presieduto da Pier Francesco Guarguaglini è in quarta posizione in Europa, con ricavi pari a 7.670 milioni di dollari. Nel 2005 Finmeccanica ha registrato un incremento del 45% degli ordini del gruppo (da 10,5 a 15,4 miliardi di euro) e un più 25% di valore della produzione, portata a 11,4 miliardi di euro.

Una holding che spesso opera borderline. Sul confine. Con i vincoli posti dalla 185 che, talvolta, si scansano per lasciarla passare. Degli esempi? L’articolo 1 della legge del 1990 vieta il trasferimento di armi a paesi coinvolti in conflitti e responsabili di violazioni di convenzioni internazionali sui diritti umani. Una norma successiva nega il commercio “militare” con i paesi che risultano beneficiari di aiuti per la cooperazione.

In realtà, il 12 luglio scorso Alenia Aermacchi, società Finmeccanica, ha firmato un contratto con il ministero della difesa nigeriano per la manutenzione e l’aggiornamento di 12 velicoli MB-339. Valore dell’appalto: 84 milioni di dollari. Eppure, la Nigeria ha non solo problemi di gravi violazioni dei diritti, ma anche una situazione conflittuale nel Delta del Niger. E l’Italia, alla fine del 2005, ha cancellato ad Abuja quasi 900 milioni di euro di debito.

E’ passata quasi sotto silenzio, inoltre, l’intesa raggiunta a gennaio da Finmeccanica con la Libia. Il gruppo di Guarguaglini, Augusta Westland (sempre legata al colosso italiano) e la Libyan Company for Aviation Industry hanno sottoscritto un accordo per costituire una joint venture, denominata Liatec (Libyan Italian Advanced Tecnology Company), con sede a Tripoli, e che ha come compito quello di rimettere in efficienza le flotte di elicotteri e aerei libici. L’Augusta Westland, in concomitanza con l’annuncio della firma, ha ottenuto dalla Libia la commessa per 10 elicotteri A 109E Power, per un contratto il cui valore s’aggira sugli 80 milioni di euro.

Ma l’affare è ben più ampio di quanto possa apparire. E ha riflessi assai rilevanti per il business Finmeccanica in Africa. Infatti, la neo società beneficerà di diritti commerciali per la vendita di elicotteri, assemblati localmente, in un certo numero di paesi del continente. La Liatec, poi, sarà in grado di rifornire molti paesi dell’area di sistemi elettronici e terrestri, oltre all’assistenza tecnica, la manutenzione e le parti di ricambio. Segno che il gruppo italiano punta diritto anche sul mercato africano.

Il controllo in Italia

In Italia non esiste un quadro giuridico univoco e coerente in materia di armi leggere e di piccolo calibro (cfr. Le armi dei Bel Paese, di Elisa Lagrasta, per Ediesse Archivio Disarmo, 2005). La legislazione si articola in due settori: armi da guerra e armi comuni da sparo. Il primo è disciplinato dalla legge 185 del 1990; il secondo, dalla 110 del 1975. Le armi che non rientrano nell’elenco posto sotto osservazione dalla 185 sono le cosiddette armi civili, ossia pistole, revolver, carabine e fucili concepiti per la caccia, lo sport o la difesa personale, e le munizioni comuni da sparo. La 110 indica il ministero dell’interno come responsabile del rilascio delle autorizzazioni per le esportazioni di queste armi.

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 LA POLITICA: POTERE FORTE O STRUMENTO DEI POTERI FORTI?

di Lino Duilio
da Rivista Servire/gennaio-marzo 2006

La questione del rapporto tra potere politico e potere economico è questione nuova eppure antica, nel senso che la loro è una relazione problematica, che esiste da sempre e che risulta ancora più specifica a partire dalla nascita dell’epoca moderna, quando economia e politica si costituirono, insieme alla scienza, al diritto e ad altre sfere dell’agire umano, come sfere dotate di una propria autonomia, svincolate da un preciso riferimento ad un fondamento morale di origine trascendente.

La complessità di quel rapporto viene dunque da lontano e, per le caratteristiche quantitative e qualitative che gli intrecci sono andati assumendo nel tempo, affonda le sue radici, oltre che nelle dinamiche proprie del mondo degli affari e del fallibile comportamento umano, nei caratteri peculiari della scienza economica moderna.

Le continue, reciproche interferenze tra potere economico e potere politico si realizzano, in modo aperto o in modo subdolo, su un terreno che ha assunto progressivamente una dimensione di valore che va ben al di là della funzione specifica che ne aveva segnato l’origine: stiamo parlando del “mercato” o del “sistema di mercato”. Il quale oggi detta legge, fornisce orientamenti, indirizza previsioni, costruisce “visioni”: il suo funzionamento, in nome della cosiddetta “sovranità del consumatore”, evoca continui e nobili richiami a questioni eminenti come la libertà, la giustizia, la distribuzione della ricchezza, l’equità.

Ma a ben vedere, con lo sviluppo sempre più sofisticato del modello capitalistico di produzione, il sistema di mercato mostra alcuni limiti e, se non adeguatamente regolamentato, produce eventi che ripropongono la domanda di quale debba essere lo spazio di autonomia assegnato all’economia nel più complessivo equilibrio sociale e nei riguardi del potere politico.

La domanda appare giustificata da alcune palesi “contraddizioni” che risultano comprensibili ad ogni normale intelligenza.

Per un verso infatti, con il passare del tempo,assistiamo al plateale rovesciamento di alcune di quelle che erano considerate tradizionali “virtù”: i comportamenti speculativi ad esempio, più che essere condannati, tendono progressivamente ad essere apprezzati come opera dell’ingegno; il mercato stesso viene sempre più idealizzato e percepito come unico e sicuro rimedio a tutti i mali del mondo; la stessa guerra comincia ad essere vissuta come strumento utile all’affermazione della democrazia. Sul piano più fattuale, per altro verso, le distorsioni emergono dallo spettacolo presente quotidianamente sotto i nostri occhi, sia a livello di sviluppo economico del pianeta che di più specifiche dinamiche interne ai cosiddetti paesi sviluppati. Fame, miseria, differenze abissali di status tra i cittadini del mondo, forme estreme di benessere e di povertà, sovralimentazione e sottoalimentazione, rapporti commerciali non proprio paritari tra stati, questi ed altri sono gli elementi di conoscenza offerti dalla concreta situazione del mondo. E se si volge lo sguardo ai contesti a noi più familiari, non vi è chi non veda come forme di capitalismo “selvaggio” e di familismo amorale, intreccio tra politica ed affari, assenza di regole nella trama dei rapporti economici siano all’ordine del giorno.


Il sopravvento dell’economia

Provando a guardare dietro la facciata, sembra emergere la realtà di un potere che è molto più visibile ma molto meno effettivo nella sfera politica, mentre è molto meno apparente ma molto più sostanziale nella sfera economica. Con la conseguenza di un connubio tra politica ed affari vissuto come antidoto o come convenienza, con la politica che finisce comunque nelle braccia dell’economia e della finanza, e con la sostituzione, a scapito dell’interesse generale, delle corporazioni di interesse, di natura economica, industriale e finanziaria, sulle istituzioni, da sempre concepite come presidio di tutela del bene comune per tutti i cittadini.

In definitiva, la realtà empirica è lì a dimostrare che un mercato evoluto non rappresenta lo spontaneo prodotto dell’azione umana ma il tutto di regole e di principi che sono andati progressivamente affinandosi, anche a seguito dei numerosi fallimenti che si sono verificati nel tempo.

In assenza di tutto questo, non disponendo di una propria autosufficienza sul piano etico, l’economia sembra sviluppare una genetica inclinazione al disordine ed alla sopraffazione, sedimentando distorsioni che si rivelano dannose per lo stesso processo di crescita della libertà. Del resto, che essa fosse incline a prendere il sopravvento su tutto il resto era ben chiaro già nella fase della nascita dell’economia politica come scienza. Lo ricorda Ernst F. Schumacher, un economista tedesco di nascita ma angloamericano di formazione, in un aureo libretto pubblicato a Londra nel 1973, dal titolo “Piccolo è bello”. Dove si legge che “Tornando insieme nella storia possiamo ricordare che quando si discuteva a Oxford 150 anni fa sull’opportunità di istituire una cattedra di economia politica erano in molti a non essere lieti di questa prospettiva. Edward Copleston, il grande Rettore dell’Oriel College non voleva ammettere nel curriculum dell’Università una scienza “così incline a usurpare tutto il resto” anche Henry Drummond di Albury Park, che aveva sovvenzionato la cattedra nel 1825, sentì la necessità di chiarire che si aspettava che l’Università tenesse al proprio posto la nuova scienza”.

E la politica? Come ha reagito la politica dinanzi ad una tale inclinazione?

La politica ha teso ad instaurare un rapporto con l’economia all’insegna di un condizionamento possibile ai fini della tutela dell’interesse generale. In ciò assumendo la tesi che l’economia in sé tutela interessi parziali, e che è necessario introdurre regole di comportamento che non favoriscano prevaricazione ed ingiustizia. Questa preoccupazione è diventata a volte eccessiva ed invadente, come nel caso dei sistemi ad economia pianificata. Con risultati, come è unanimemente riconosciuto, del tutto fallimentari.

Il problema del rapporto problematico tra economia e politica, però, resta tuttora aperto. Ed oggi ancora più intricato per lo scarto che esiste, nella cosiddetta “società globale”, tra il luogo delle decisioni, sempre più sovranazionale, e gli effetti di queste decisioni, che ricadono tuttora all’interno degli stati nazionali.

Per il ritorno della politica

Come si può uscire da questa situazione? Come è possibile affrontare i problemi inediti che emergono in questa società postindustriale? Come è evitabile la sudditanza, anche culturale, della politica nei riguardi dell’economia?

Per contrastare efficacemente la piega che le cose stanno prendendo, credo che occorra innanzitutto reagire al disincanto ed allo scetticismo che pervadono i nostri comportamenti, e riaffermare con convinzione il primato della politica sull’economia. Un primato che definirei “debole” più che forte, nel senso che sia capace di mettersi sempre in discussione, ad evitare l’eccesso di una politica che imbrigli la libertà economica dentro pastoie che costituirebbero il classico rimedio peggiore del male.

Per ottenere un tale risultato, è necessario pensare all’introduzione di regole in grado di favorire una vera concorrenza tra gli attori economici, evitando che, in modo aperto o malcelato, si formino concentrazioni in grado di dettare esse le regole del gioco. Perché regole vere possano essere pensate è necessario agire per “un più di politica” rispetto alla situazione attuale, intendendo per politica evidentemente quella con la “P” maiuscola, che punta all’interesse generale ed esalta il ruolo delle istituzioni, da intendere come “luogo” che preserva lo spazio delle libertà.

Fondamentale per un simile obiettivo è la crescita della coscienza civica e la conseguente possibilità di avere una pubblica opinione non facilmente condizionabile da messaggi lesivi delle fondamentali regole in materia di bene comune e di trasparenza dei comportamenti pubblici e privati. È questione - quest’ultima - oggi ancor più rilevante se si pensa che di frequente il potere economico e finanziario si trasforma in potere mediatico, in grado di condizionare pesantemente la formazione dei consenso sociale e dunque la libertà del cittadino.

Volendo concludere, il rischio della società moderna, e della società italiana ancor più in particolare, è che la politica, anziché essere un potere autorevole e forte, nel senso spiegato, diventi essa stessa uno strumento dei poteri forti. È un rischio del quale essere consapevoli e che occorre assolutamente contrastare. Non si tratta, evidentemente, di un compito facile, anche perché man mano che si procede verso una società della conoscenza a livello globale risulta ancora poco chiaro qual è lo spazio delle decisioni rilevanti che restano assegnate alle politica: a questo fine, mancano istituzioni adeguate, difettano le procedure, tardano a venire le necessarie riforme nei rapporti tra stati.

In ogni caso, anche se molto cammino resta ancora da fare, una cosa sembra sempre più chiara: in futuro, se si vorrà costruire una prospettiva possibile di libertà, di giustizia e di pace, avremo bisogno di una politica più forte, che sia in grado di ridimensionare questa pretesa onnivora dell’economia, che si manifesta sia a livello culturale che di pratiche individuali e di performance più complessive.

Perché uno scenario di tal fatta divenga probabile, è necessario ricreare le condizioni, ai diversi livelli, perché le istituzioni recuperino la loro intrinseca dimensione etica, grazie a nuove regole che andranno introdotte ed alla formazione di libere coscienze di uomini e donne di fortissima tempra spirituale che, con buona volontà, si ridedichino alla politica con passione e con rigore.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico

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