In ricordo di P. Franco

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Il dodicesimo gradino si ha quando il monaco non solo nel cuore, ma anche con lo stesso atteggiamento del corpo, manifesta sempre l’umiltà a chi lo vede.

La musica e la morte
Commento a Blok
di Vladimir Zelinskij

I

La presenza di Blok dentro di me prende le mosse da una fortuita nota puškiniana, dall'eco di un “nome lieto” (1) o dal ritmo che casualmente si ridesta nella memoria e nel respiro. L'armonia, in ciò che ha di fondamentale, sembra essere elastica e inscindibile, e ciò che in essa è più arcano è sempre ciò che è poi più vicino. Il destino e il motivo di un poeta possono rifrangersi nelle risonanze di un altro, come se riemergessero dalle profondità dell'armonia. Spesso tento di sorprenderli in qualche motivo che mi investe.

“Non voglia Iddio ch'io perda la ragione.
No, meglio la bisaccia ed il bordone,
la fatica e la fame.
Non perch'io faccia un alto apprezzamento
della ragione e non sarei contento
di spezzarne il legame:
se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!
E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante turbina nella testa.
Oppure presterei ascolto all'onda
e volgerei lo sguardo alla profonda
e vuota volta del cielo.
Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano
portando lo sfacelo.
Ma, ahi, se un dì perdessi la ragione,
come la peste orribile, in prigione
sarei, stolto, rinchiuso,
e a guardarmi verrebbero, attraverso
la grata, come belva, e a farmi il verso
e a ridermi sul muso.
E non udrei dell'usignolo il lieto
gorgheggio nella notte e del querceto
il brusio sordo e iene,
ma il grido disperato degli insani
miei compagni e le ingiurie dei guardiani
e il suon delle catene”. (2)

Nella poesia di Puškin e forse solo in essa sussiste questa compiuta, indivisibile armonia degli elementi che l'hanno generata. Tra quella regione dove i versi permangono ancora allo stadio di magma, non ancora dischiusi, e quella dove essi s'incarnano nel fluire della parola, dove l'arte li erige perché si cementino nella cultura, non solo non ci sono opposizioni, ma neppure crepe e connessure. Non si ritroveranno qui dei limiti che conducono all'intangibile, o all'opera di mano umana; e, ovunque si vada, al cosmo o al logos, incontreremo piuttosto ciò che si chiama armonia e che è segno dell'umanità incarnata. Nel pensiero di Blok l'armonia raccoglie in sé elementi eterogenei - parole e suoni - che solo per un miracolo possono fondersi totalmente. Ma il miracolo resta comunque un fatto unico; più spesso le onde sonore non trovano le parole giuste, alle parole manca la linfa sonora, pare che radici e significati non sappiano attingere alla corrente sotterranea della musica; la loro stessa perfezione risulta tediosa e muta. In Blok non è così: i suoi versi sono ancora fin troppo aderenti al “fiammeggiante delirio”, sembra non si siano ancora del tutto staccati da quella musica che li ha condotti alla parola; portano ancora incrostate inflessioni di un linguaggio non terreno, sono popolati da quegli esseri nebbiosi-palustri-antelucani che così strani appaiono nel mondo umano. Cukovskij, nel Libro su Aleksandr Blok, dice: “Il suo verso non fu un macigno ma la scorrevole fluidità di vocali”. E lo stesso critico non può che riprendere le parole di Shakespeare: i versi “son di quella stessa materia di cui son fatti i sogni”.

Questi sogni sono fissati dal poeta nell'istante della loro massima luminosità, quando è assoluto il loro potere sull'anima. Essi vengono svelati ed espressi nel verso, in questo asilo della lingua russa la cui protezione ci siamo ormai abituati a utilizzare, casualmente, sentimentalmente, senza il benché minimo pensiero di ringraziamento. La stessa vita del poeta è uno di questi asili, reso abitabile, così, alla buona, nella fantasia dei vari lettori. La vita e la poesia di Blok stanno spalancate di fronte a noi:

“Qui il ristorante è chiaro come i templi,
e il tempio è aperto come un ristorante”. (3)

La vita di ogni poesia è sempre accessibile e nello stesso tempo inattingibile, “come il mistero di una porta socchiusa, nel tempio di un sogno dorato”(4). Tentiamo, seguendo gli sfaccendati, i pellegrini, i solerti impiegati dei musei poetici, di accostarci ancora una volta a questo mistero, di trovare i suoi riflessi nella parola puškiniana...

Il Blok che più mi è caro non è assolutamente il Blok mistico, ricercato, pietroburghese, il Blok dei ristoranti e dei violini o, come diceva Bunin, il Blok “col volto statuario del bell'uomo e del poeta”, ma quello che sembra ormai trapassato: “il Blok che ha dimenticato come si scrive in versi”, che ha già scritto tutto quello che era essenziale, che ha già capito ogni cosa, il Blok condannato, stordito, incatenato alla “assurdità delle riunioni”, “imprigionato in una ragnatela” (come affermano i testimoni oculari), il Blok che desidera soltanto la morte e che ha esitato di fronte a essa solo per potersi liberamente accomiatare, alla fine, dall'arte, da Puškin, dalla Russia e da se stesso.

Ed è proprio con questo famoso addio che vogliamo iniziare il nostro cammino verso Blok.

II

Il suo discorso su “La missione del poeta”, che venne pronunciato nell'ultimo anno di vita e fu dedicato a Puškin, è evidentemente pieno di nostalgia. Già tempo addietro Blok aveva presentito la rovina del suo universo patrio. Questo presentimento si avvera: in lui va ormai morendo la sua patria sonora. Sempre gli stessi abissi e gli stessi spettri sono evocati da questo discorso (il caos, il cosmo, l'anarchica nebbia, l'ordinata armonia) e ancora la stessa aspra schiettezza blokiana nel modo di raccontare. Ma Blok non è più là. Egli vede il proprio mondo come se stesse già su un'altra riva, per contrasto con ciò che ormai e abbandonato. E le sue parole sono chiare e coraggiose.

“Nelle profondità insondabili dello spirito, là dove l'uomo cessa d'essere uomo, nelle profondità inaccessibili allo stato e alla società, creati dalla civiltà, si susseguono le onde dei suoni, simili alle onde dell'etere che abbracciano l'universo; si succedono ritmiche oscillazioni, simili ai processi che formano le montagne, i venti, le correnti marine, il mondo vegetale e animale.

“Questa profondità dello spirito è nascosta dai fenomeni del mondo esterno. Puškin dice che, forse, più che agli altri uomini è nascosta al poeta [...]. (5)

E ora questa profondità è nascosta anche a lui.

“Una pessima fisica, ma che audace poesia”, dice Puškin: “essa ha le sue scaturigini proprio in quelle onde che abbracciano l'universo, innalzano i monti, governano la vita del mondo che “consiste in una incessante creazione di nuove specie, di nuove razze [...]”. (6)

“Il poeta è figlio dell'armonia; e gli è stato assegnato un ruolo particolare nella cultura mondiale. A lui sono affidati tre compiti: anzitutto liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi; in secondo luogo condurre quei suoni all'armonia, dar loro forma; in terzo luogo, portare quell'armonia nel mondo esterno.” (7)

Nel suo primo compito il poeta è un medium, un veggente;
nel secondo è l'artista, l'artigiano del proprio talento;
nel terzo è il letterato, circondato dalla plebe.

La plebe infatti domina questo mondo esterno nel quale si inserisce l'armonia. Essa, come è ovvio, si preoccupa solo di ciò che è utile. Raramente il discorso sulla poesia può esser fatto salvo dagli insulti contro una certa plebe. Essa viene disprezzata secondo lo spirito del classicismo: il poeta suona distrattamente sulla propria lira, ma l'ottuso volgo pretende da lui solo ciò che gli può essere utile e può fargli da ammaestramento. Essa è sprezzata dal punto di vista romantico: l'anima, affascinata dalle stelle, non desidera sapere quello che tutt'intorno “sull'auro o sul pane gridano possenti le masse”(8). Essa ancora viene sferzata da un punto di vista sociologico e morale, e per Blok, che segue ormai una tradizione democratica ben collaudata e disinteressata, qualsiasi plebe è necessariamente “mondana”: è fatta a esempio di “buontemponi coi tubini”, di “stalloni della guardia”, di burocrati di un qualche organo poliziesco censorio. Ma comunque veda il poeta la sua plebe e dovunque la collochi, egli la intende sempre come qualcosa di opposto alla poesia. Il mondo esterno, nel quale il poeta, in base ai compiti che gli sono affidati dalla plebe, deve “illuminare i cuori dei confratelli” o “spazzare le strade” (9), è sempre infinitamente lontano dall'anarchico “caos nativo” dal quale gli vengono le onde sonore...

“se mi lasciasser libero, sarei
così vivo e felice: me ne andrei
nella nera foresta!” (10)

Ma il poeta non si limita allo struggente progetto di una fuga simbolica dalla plebe e non sempre si strappa via da essa. Di quando in quando, quando monta l'ebbrezza della terra, quando si scatenano le razze, quando le ritmiche oscillazioni, che vengono dalle viscere oscure, si trasmettono alla società e allo stato, al poeta sembra che dalle profondità del caos sia zampillata la poesia stessa. E allora, tra l'orrore degli amici e di chi era iniziato al mistero della sua arte anteriore, egli fraternizza inaspettatamente con la plebe e cerca di condividere con essa i suoi tre compiti fondamentali. Adesso i visibili interpreti delle forze della natura non sono né il bosco né il vento che batte le pianure, ma le strade che la tormenta ha sepolto sotto la neve e gli uomini che le percorrono. Da qui il poeta attinge suoni e parole per trasformarli in armonia.

“L'armonia è accordo delle forze del mondo, ordine della vita del mondo”(11). Per far nascere l'armonia è necessario “racchiudere il suono, estraneo al mondo esterno e suscitato dal profondo, nella forma tangibile e salda della parola”. (12)

Poi l'ebbrezza scema., e il poeta, in modo ancor più netto di prima, comincia a staccarsi dalla plebe che lo circonda. Ma l'armonia, creata in un momento di breve e inebriante fraternità con le forze della natura, resta.

Conosce forse il poeta una qualche misura comune tra la vita delle forze naturali, i suoni che vengono dal profondo e il discorso umano plasmato dall'arte? È proprio un'armonia, un rivestire di carne, con parole, con suoni, con tinte di qualcosa di caotico che ci viene dalla profondità delle onde? Abbiamo il diritto di supporre, seguendo le meditazioni di Blok, che l'orecchio del poeta possa discernere, in queste recondite forze dell'universo, un sistema musicale da noi percepibile e rivolto al mondo umano, e inoltre un qualche progetto che è racchiuso in queste forze della natura e che forse fa loro da guida. Probabilmente, un uomo con il cuore meno musicale, più solidamente preservato dall'influsso delle forze naturali, ma maggiormente sensibile al progetto da loro dettato, sarebbe più preoccupato della sua veridicità, della sua conformità all'Archetipo di ogni senso, ma il poeta è interamente assorbito dalla “tensione dell'ascolto”, dalla sua mediazione tra il caos e il cosmo da esso scaturito. La forza d'attrazione del caos è ineluttabile, il suo potere musicale affascinante, e a chi l'ha provato dentro di sé non deve essere estranea neppure la tentazione di restare con esso per sempre, di dissolversi nelle beate forze della natura, nascosto agli occhi della plebe grazie ai “fenomeni del mondo esterno”.

“E canterei quel mondo affascinante
di sogni che in delirio fiammeggiante
turbina nella testa.” (13)

Il poeta è pronto a riconoscere la seducente lontananza del delirio come proprio paese. La tentazione di tornare là per sempre non lo abbandona mai. Perché solo là egli può pienamente realizzare la sua vocazione. Qui, invece, essa è raggiunta il più delle volte a dispetto della plebe, attraverso la rinunzia alla mediocrità del mondo umano con la sua “utilità” e con la sua volgarità, ed è raggiunta segretamente.

“Segretamente anela alla morte il cuore, vola via, cuore leggero [...]. (14)

Perché “segretamente”? Perché ciò che è più segreto e ineffabile e questo evidentemente il poeta non può non ammetterlo e cioè le forze naturali dei sogni, dei “fiammeggiante delirio”, delle “onde sonore” che si gettano l'una sull'altra, dell'anarchico “caos nativo”, sono forze fatali che attraggono non solo con la musica ma anche con la morte e che inoltre rendono sia l'una che l'altra, la musica e la morte, ugualmente responsabili della nascita dell'armonia...

III

Ogni poeta si volge e guata incessantemente a ciò che fa. Blok, con tutta la sua medianica predisposizione alla percezione delle luci e dei suoni che vengono “di là” (15) (da un paese che per ora resta non detto), era più di ogni altro affascinato dalla fonte della propria poesia. La più precisa, ripetuta e persistente indicazione a proposito di questa fonte fu, nel suo vocabolario, la parola “musica”.

“La musica è la più perfetta di tutte le arti perché essa sa meglio esprimere e riflettere il progetto dell'Architetto[...] Ogni momento orchestrale è la rappresentazione del sistema dei sistemi stellari, con tutta la sua istantanea e fluente varietà [...]

“La musica crea il mondo. Essa è il corpo spirituale del mondo [...] Raggiungendo il proprio culmine, la poesia, probabilmente, si perde nella musica.”

Questi pensieri vennero suscitati dalle riflessioni su un melodramma di Wagner. Un'annotazione del Diario (1909) comincia con le parole: “Wagner a Näuheim: qualcosa di assolutamente indicibile: ricorda l'anamnésis”.

Anamnesis è la parola con cui Platone indica la reminiscenza della verità, di cui un tempo l'uomo era partecipe ma che ha poi perduto. La reminiscenza è data dalla morte, ma può essere data anche dalla filosofia, il cui compito è appunto quello di insegnare a morire. Proprio ciò che Platone intese per filosofia è vicino a quello che noi intendiamo per poesia. Egli annovera la filosofia tra le “arti delle Muse” e nel Fedone chiama i filosofi “baccanti”. La verità si manifesta definitivamente solo nella morte e perciò morire e abbandonarsi alla reminiscenza e alla conoscenza - nella sua sorgente “musica” e musicale - non sono forse una sola e identica cosa?

Una reminiscenza musicale è sottesa dai versi di molte poesie di Blok. Il ritmo che vi è insito raggiunge a pieno la sua forza ammaliante perché porta sino a noi la voce delle forze naturali che ci circondano e che non sono percepite dal nostro udito ma sono sparse dovunque nello spazio. Il poeta, sottomettendovisi, ci mette in comunicazione con loro. Ed è proprio questa sottomissione che crea una benedetta volontà, la sua “segreta libertà”.Egli riveste il “corpo spirituale del mondo” con una armonia tangibile, visibile, sonora. Solo nella “segreta libertà”, (16) che esprime contemporaneamente tanto la sottomissione alle oscure forze naturali quanto la benedetta attuazione dei “progetti dell'Architetto”, si realizza quello che è il suo primo misterioso compito, lo scioglimento dei veli e la liberazione dei suoni, Il disegno ritmico della poesia, quindi, predetermina anche la maturazione dei significati. Il ritmo e il significato in Blok sono i due poli di un unico campo sonoro. Ogni poesia, per lui, dice il Mos'ulskij, “è un velo gettato sulle lame di alcune parole. Queste parole brillano come stelle. Proprio per esse esiste la poesia. Tanto più essa è oscura, tanto più queste parole sono lontane dal testo. Nella poesia più oscura non brillano queste oscure parole, essa non ne è imbevuta, ma è nutrita e saziata da una musica oscura”. (17)

Ma anche là dove le parole sono luminose, dove i loro significati sono solidi e trasparenti, dove essi sono fortificati dalla forza delle realtà terrene, anche là, dietro il testo visibile della poesia, si fa sentire la vicina risacca della “musica oscura”, delle “deliranti” forze della natura, e lo stesso testo e l'opera diffondono le sue onde. E questo non è semplicemente un significato recondito, è quell'intimo sistema sonoro - anamnesis - che ricaccia in superficie i suoi significati, le sue immagini o costringe, inquietamente e imperiosamente, a riconoscerli. Le ispirazioni di Blok, sia quelle che passano di sfuggita, sia quelle che sono portate da qualcuno, pare che chiamino alla luce una remota e segreta musica del mondo, liberandola dalle catene, in modo da esprimere il subitaneo passaggio dal caos all'armonia, e dall'armonia alla catastrofe nel grembo nativo... Ed è proprio per questo che nei versi di Blok il movimento non si inaridisce mai, non tacciono i venti, non scemano le tormente, e nei suoi ristoranti

“i violini, struggendosi e infiacchendosi,
si abbandonano ai furiosi archetti”, (18)

Anche nella lontananza storica - di fronte alla reminiscenza della battaglia contro i tatari sul campo di Kulikovo, reminiscenza che prende lo spunto dal fiume che si distende lentamente e dai tristi pagliai - dal flusso ritmico, dai recessi musicali della poesia scaturisce improvvisamente, balenando fra il sangue e la polvere, “la giumenta delle steppe”(19), e questa sua antica fuga trasmette tutta l'inquietudine, tutto il sistema e lo spirito della memoria sonora blokiana...

Sul campo di Kulikovo Blok è portato dalla memoria musicale della Russia. Ma nel contatto con la storia essa diventa profetica, poiché è rivolta al futuro. Nella battaglia, il cui fragore si è perso nel passato, egli ode l'eco della futura battaglia. Ma già là, nella “Russia lontana” (20), nel profondo della memoria, comincia per Blok a sdoppiarsi l'immagine della Russia, e le sue due diverse voci ora si soffocano a vicenda, ora si fondono in una sola. La patria lo chiama dalla lontananza, “oltre il fiume nebbioso”(21), ma “la freccia tatara dell'antica libertà” (22) ha trapassato la sua anima ed essa soffre per la singolare forza dell'incendio e della catastrofe. Musica e morte, un fuoco opaco e la preghiera si confondono nei suoi versi, e l'urlo dell'“angoscia secolare” (23) soffoca la chiara voce della “lontananza”. Dice Fedotov: “II poeta ha già solidamente unito lo spirito dell'agitazione e della rivolta alle forze tatare. Contro di ciò egli lancia il suo ultimo esorcismo: "Mettiti a pregare! ". Ma sino alla fine resta oscuro: quando giunge l'ora dell'ultima battaglia [...] quale sarà il suo campo, quello russo o quello tataro?”. (24)

Ma ecco un'altra Russia e un altro paesaggio, brutalmente prosastico. I sobborghi di Pietroburgo, l'ippodromo, “la turba delle dame e dei perdigiorno” (25) e, nei loro occhi, l'improvvisa morte del fantino. Un altro ritmo, un altro stile, un'altra corsa, ma lo spirito della musica, l'eco nella memoria del poeta sono gli stessi di prima, antichi. La contiguità di significato tra libertà e morte, la comprensione ritmica delle forze della natura e della catastrofe, la loro unione musicale.

“E’ così bello e facile morire.
Tutta la vita aveva corso, sempre
ansioso di passar primo la meta.
Nel galoppo affannoso la cavalla
era inciampata, senza ormai più forza
di reggere la sella: le leggere
staffe avevan tremato, ed il fantino
rimbalzò nella scarica dell'urto.
La nuca stramazzò sulla nativa,
primaverile ed accogliente terra:
nel cervello in un attimo passarono
gli unici indispensabili pensieri,
poi con gli occhi si spensero. È così bello e facile.”(26).

Blok non guarda a questa morte come uno spettatore disinteressato. Egli vi si sente misteriosamente e appassionatamente coinvolto. Comincia a vedervi l'improvvisa conquista del ritmo che aveva sempre cercato, quel ritmo cui aveva anelato per tutta la vita, e vi vede ancora la luce benedetta portata dalla verità - l'anamnesis - e la repentina fine. E si intuisce - anche se attraverso pensieri sobri e versi misurati - come lo attiri questo abisso che si infiamma per un istante e subito si spegne, come il morirvi musicalmente possa essere “così bello e facile”. E i repentini pensieri, gli “unici indispensabili”, sono forse per Blok il pegno e l'ispirazione della sua ultima poesia, la poesia-morte. E tuttavia, per ora, egli è solo spettatore, sognatore, poeta. La morte-musica fugge via da qualche parte. Egli può solo guardarla da lontano con un “savio sorriso” (27). Finché non sia giunto il tempo, egli può solo aspirare nostalgicamente a essa, vagare e sorridendo struggersi nelle sue prossimità poetiche, “e sciogliere canti! Ed ascoltare il vento nella quiete!” (28)

“Libero e forte come l'uragano
sarei che investe i boschi e scuote il piano [...]” (29)

“Io amo soltanto l'arte, i bambini e la morte”, dice Blok in una lettera alla madre del 1909.

Due anni prima egli scriveva ad Andrej Belyj, dopo il loro mancato duello: “Il dramma della mia concezione del mondo (non sono arrivato fino alla tragedia) sta nel fatto che io sono un lirico. Essere lirico è piacevole e terribile insieme. Dietro l'orrore e la gioia si nasconde un abisso, nel quale si può precipitare senza lasciar traccia. La gioia e l'orrore sono come un velo di sonno. Se non portassi sugli occhi questo velo, non sarei guidato dal Terribile Ignoto, da cui solo mi salva la mia anima, non avrei scritto neppure una poesia di quelle che a voi sembrano valide”.

IV

La critica blokiana raramente ha gettato uno sguardo nell'abisso del poeta: pare che in campo critico non si usi arrischiarsi a viaggi del genere. Ma se, facendo nostra l'ipotesi di Paolo sull'uomo, cercassimo di discernere anche nella produzione artistica un corpo, un'anima e uno spirito, ci accorgeremmo che i nostri comuni giudizi raramente vanno al di là dell'aspetto corporeo dell'opera, al di là della sua carne. Quanto al resto, di solito riusciamo a esprimere, in modo circostanziato o lapidario che sia, solo una verità risaputa, anche se non ancora sbiadita, e cioè che l'anima altrui è tenebra. Sullo spirito, poi, non osiamo neppure azzardare un giudizio, mai. Questa indecisione, però, non esclude certo che si sia liricamente pronti a perdersi in pure chiacchiere su temi mistici, facendo ricorso a tutto l'armamentario del soprannaturale: demoni, serafini ecc. Ma noi, di regola, ci scherniamo di fronte alle parole che implicano una responsabilità, quelle che definiscono in modo preciso la sostanza spirituale delle opere d'arte, e il loro rapporto con la realtà che sta al di là di esse e le supera.

Ecco perché suonano così ardite e graffianti le parole di colui che “ha il potere” di discernere gli spiriti. Ed è questo ciò che risentiamo nella conferenza di padre Pavel Florenskij su Blok, pubblicata in tempi relativamente recenti (30) in forma un po' improvvisata. Nella sostanza questa conferenza è stata un primo tentativo, e quanto radicale, di quella che potremmo definire “teologia dell'arte” applicata a un terreno russo. Ma in questo caso parlare di teologia significa parlare di giudizio. Il sacerdote giudica il poeta, l'uomo di cultura a partire dal culto. E il suo è un giudizio equo, rapido e impietoso. Il suo presupposto è semplice e inflessibile: la cultura può essere rettamente intesa solo nell'ambito di un sistema rigorosamente monistico, competente a valutare la cultura stessa. “Il mondo è scisso dal principio religioso: l'antitesi al marxismo è solo il cristianesimo (cioè l'ortodossia), alla religione dell'uomo-dio si contrappone la religione della divinoumanità.”

Dal punto di vista ortodosso la fonte dei temi culturali va rintracciata nella tematica del culto, cioè nella liturgia. “La creazione di una cultura distaccata dal culto è sostanzialmente parodistica.

“La parodisticità presuppone un mutamento di segni, ferma restando l'identità dei temi.”

“Parodia” dunque: ecco la parola che farà da chiave a tutta la poesia di Blok. Blok è un grande poeta in quanto mistico autentico, giacché è della realtà autentica che egli parla. Perché anche chi “di parole sacrileghe è creatore” è un poeta di valore, giacché le parole sacrileghe sono la non-verità detta a proposito della Verità; il “sacrilegio serio” obbliga a partecipare della profondità, presuppone un radicamento nelle profondità sataniche.

Non resta quindi che scegliere gli esempi.

“C'è nelle tue segrete melodie
un'infausta notizia di rovina.
C'è l'anatema dei precetti sacri,
c'è l'oltraggio della felicità.” (31)

Ciò che un tempo poteva apparire una rivelazione, oggi si riduce spontaneamente quasi a un luogo comune. Così la poesia “Alla Musa” era giudicata condannabile anche nell'articolo di Naum Koržavin “Gioco col diavolo” (32). Ma s'intuisce qui, al di là di un processo in cui si dà la parola al solo pubblico ministero, un'interna lite: tu, sembra dire, mi hai insegnato il male, e io ero giovane, nei dolci suoni bevevo il contenuto venefico. Del resto, in fin dei conti, ogni poeta, per diventare se stesso, deve liberarsi dalla magia dell'altro. E lo può anche fare in modo brusco, ma restano pur sempre anche “le ragioni del cuore”. La condanna di Koržavin è quasi stizzosa, quella di Florenskij quasi gelida. Blok sarebbe l'ambasciatore del diavolo nella poesia russa.

Ma non fu lui stesso a parlare del “nero inferno dell'arte”(33), della “lirica agile, maligna, infida”? (34) Non fu lui a subire gli accessi “di un riso snervante, che inizia con un diabolico, beffardo sorriso provocatore, per finire nella violenza e nel sacrilegio”? (35) Non fu lui a percepire in sé il “trasfondersi di quelle forze demoniache che spiano il poeta per scagliarsi improvvise contro di lui”? (36) E non è forse per questo che è irrealizzabile il sogno di fuggire dall'arte, e di rinunciare del tutto a ogni guadagno letterario? “No, meglio la fatica e la fame [...]”

La condanna, stizzosa o gelida che sia, è dunque giusta al fondo? E la musica che si percepisce nelle abissali profondità dello spirito non sarebbe che una volontà di morte trasformata in armonia? E le onde sonore non portano allora che tentazioni? E la profondità “dove l'uomo cessa d'essere uomo” non sarebbe che un abisso satanico, dove il poeta che sfugge la plebe sprofonda? E lo “spirito della musica”, che con così insolita tenacia Blok invocava negli ultimi anni di vita, non sarebbe che il semplice demone della poesia? Non possiamo trascurare queste considerazioni nel riflettere a fondo sulle idee di padre Florenskij. “Al mondo tutto è ordinato perché è pari.” Il poeta è il sovvertitore del culto, l'istrione, il profanatore. Il messaggero degli inferi. E nient'altro.

La teologia cerca la comprensione dell'uomo e di tutto l'umano alla luce del pensiero religioso, della “preghiera dell'intelligenza”, la teologia pensa secondo le parole di Paolo: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza”(1 Cor. 14, 15); la teologia, ancora, rintraccia la giusta parola su Dio a partire da quanto Egli ha creato, a partire dalla Parola di Dio sugli uomini e le loro opere.

Questo era anche il modo di vedere di Pavel Florenskij. Come mistico ha ragione, e la sua visione e nitida. La cultura è nata dal culto, e il sacerdote, il prete-pensatore aveva non solo il diritto, ma anche la missione di giudicare i frutti della cultura. Tuttavia, nella sua comprensione di Blok, nella sua condanna, ci sono due sostanziali omissioni. Al suo sistema (giacché, nonostante la frammentarietà, la conferenza offre uno sviluppo sistematico del pensiero di padre Pavel) sono sfuggite soprattutto la natura specifica della poesia, e in parte anche la natura degli spiriti cui la poesia blokiana permette piena espressione. Ed è per questo che, per descrivere il fenomeno e persino in parte la sostanza della poesia di Blok, egli ricorre a una citazione di san Massimo:

“Quando lo spirito malvagio della seduzione si accosta all'uomo, disturba la sua mente rendendola selvaggia, inasprisce il suo cuore e lo oscura, ispira timore, paura, orgoglio, corrompe gli occhi, agita il cervello, dà trepidazione a tutto il corpo, pone dinanzi agli occhi una luce illusoria non luminosa e pura ma rosseggiante, rende la mente frenetica e ossessa, le labbra proferiscono parole ribelli e blasfeme”.

Dove e come può sottrarsi alla sfera di queste parole la poesia di Blok, con la sua musica di morte, con la sua vocazione alla rovina? E queste parole avranno almeno pietà di noi, lettori di Blok?

8, 44). Il male, fino a che non è forte abbastanza, si copre con l'inganno. E questa non è una forma ma la sostanza sua stessa. La menzogna e il pathos omicida sono fino a oggi inconfondibile segno della diabolicità. Per questo, dunque, veridico e demoniaco non possono assolutamente convivere tranquillamente nella stessa anima. Come potrebbe infatti un'anima che sfiora i tizzoni infernali conservare in sé la comune onestà e la schiettezza umane?

“Sembra che egli veda il mondo e se stesso in una nudità e semplicità tragiche. Sincerità e semplicità sono per sempre legate in me al ricordo di Blok.” (37) Il tratto fondamentale della sua personalità era uno straordinario coraggio della verità”, dice C'ukovskij. E le testimonianze di questo tipo non si contano.

Non basta: dietro al coraggio pienamente umano si nascondeva dell'altro: ciò che potremmo definire “integrità della parola”, la sincerità del suo stesso linguaggio. La parola blokiana, sia in prosa sia in poesia, non è astuta né teatrale né piena di fronzoli. Essa è estranea persino a quel gioco disinvolto che è tanto naturale nei poeti, soprattutto nei poeti della sua generazione. Scriveva di maschere, ma non nascose mai il proprio volto. Oggi può sembrar strano che un tempo lo si sia definito un decadente anzi, il corifeo dei decadenti: infatti manca in lui ogni stortura decadente. C'era qualcosa di distorto nel periodo blokiano, ma non in Blok stesso. E se i suoi versi ci sono incomprensibili, significa che siamo al di fuori dell'esperienza che narrano. Ma possiamo esser certi che si tratta di un'esperienza autentica, non surrogata da qualche ingenua simulazione mistica o poetica. In un'epoca tanto ricca di finzioni e sostituzioni d'ogni tipo, Blok rimase fedele alla verità che gli perveniva attraverso la musica. Mai ci fu in lui la più innocente bugia, la minima concessione al pittorico.

Alla superficie della vita noi tutti percepiamo le cose in modo distinto: il poeta, il politico, il mistico, l'innamorato. Ma nel profondo sono tutt'uno. Uno “straordinario coraggio della verità” non può fondersi nello stesso cuore né con la falsità poetica né con la malizia artistica. Questo coraggio è inscindibile dalla sincerità e dal coraggio d'ogni singola parola che fa parte della poesia, è inscindibile dall'autenticità di ciò che il poeta serve, dalla veridicità di questo stesso servizio. Il poeta è “l'uomo che chiama tutto per nome”, poiché i nomi veri delle cose sembrano esser celati a noi; è colui che “sottrae l'aroma al vivo fiore” poiché deve trasfonderlo nella. parola e renderlo così eternamente fragrante. Il “coraggio della verità”, la non-malizia della parola, l'autenticità dei nomi di cui il poeta fa dono: tutto ciò è indivisibile e musicale, fragrante e ineguagliabilmente unito.

“[...] forse solo il genio dice il vero; e solo la verità, pur nella sua grevità, è lieve, un "dolce giogo"” (dal Diario).

Questo è il dolce giogo che la poesia blokiana si è assunta; la sua musica è dolce, la sua verità musicale. Solo con la verità e un cuore inerme il poeta può rispondere al giudizio teologico, e a ogni altro giudizio umano. “Restituire la verità, che va scomparendo dalla vita russa, questo è il nostro compito”, annota Blok nello stesso Diario. Questo compito costituisce appunto la sua vocazione, e compone nell'unità lo “scioglimento dei veli”, “l'accoglimento dei suoni nell'anima”, “l'introduzione dell'armonia nel mondo”. Ricondurre la verità al mondo: questa è la missione del poeta.


(continua)


 

1) L'espressione “nome lieto” si trova nella prima frase del discorso di Blok “La missione del poeta”, pronunciato nel febbraio del 1921 in occasione dell' LXXXIVanniversario della morte di Puškin: “La nostra memoria serba fin dalla prima infanzia un nome lieto: Puškin” (tr. it. in A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978, p. 151).

2) A. Puškin, “Non voglia Iddio ch'io perda la ragione” (1833) (tr. it. in A. Puškin, Lirica, Sansoni, Firenze 1968, pp. 417-418).

3) A. Blok, “Guardi negli occhi i limpidi crepuscoli” (1906), poesia del ciclo “Gorod” (La città) (tr. it. in A. Blok, Poesie, Guanda, 1975, pp. 146-147).

4) A. Blok, “Anima mia! Quando ti stancherai di credere?” (1908), poesia del ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini).

5) A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 155.

6) Ibid., p. 153.

7) Ibid.

8) A. Blok, “Tace l'anima. Nel freddo cielo” (1901), poesia del ciclo “Stichi o Prekrasnoj Dame” (Versi sulla Bellissima Dama).

9) “La plebe esige che il poeta serva ciò che essa stessa serve: il mondo esterno; esige da lui "l'utilità", come dice, semplicemente, Puškin; esige che il poeta “spazzi le strade", "illumini i cuori dei confratelli" ecc.” (A. Blok, L'intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 157).

10) Cfr. n. 2.

11) A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p. 152.

12) Ibid., p. 156

13) Cfr. n. 2.

14) A. Blok, “La maschera di neve” (1907).

15) “Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s'impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento,
perché i raggi vengono dal cielo.”
Questi versi di Blok si trovano nella poesia “Tutto muore al mondo, madre e giovinezza” (1909), inserita nel ciclo “Arfy i skripki” (Arpe e violini) (tr. it. in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Mondadori, Milano 1968, p. 334; l'espressione che il Poggioli traduce con “cielo” (ottuda), è stata da noi resa con “di là” per mantenere l'indefinitezza su cui insiste Zelinskij). Ndt

16) “Segreta libertà” è una delle espressioni chiave dell'ultimo vocabolario blokiano, presa a prestito da Puškin:
“Amore e segreta libertà
al cuore dettano un inno schietto”.
(Cfr. A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, ed. cit., p 159).

17) K. Mos'ulskij, Aleksandr Blok.

18) A. Blok, “Là dove echeggia nelle lunghe sale” (1910) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 302-303).

19) A. Blok, “Sul campo di Kulikovo” (1908) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit. pp. 190-191, ecc.).

20) Ibid., pp. 196-197.

21) Ibid.

22) Ibid., pp. 190-191.

23) Ibid., pp. 196-197.

24) G. Fedotov, Na pole Kulikovom (Sul campo di Kulikovo).

25) A Block, “Morte”, poesia del ciclo “Vol'nye mysli” (Liberi pensieri) (tr. it. in R. Poggioli, op. cit., p. 299).

26) Ibid., pp. 300-301.

27) Ibid., pp. 299.

28) Ibid., p. 303.

29) Cfr. n. 2.

30) “Vestnik russkogo christianskogo dviženija” (Messaggero del movimento cristiano russo), n. 114, Parigi.

31) A. Blok, “Alla Musa” (1912) (tr. it. in A. Blok, Poesie, ed. cit., pp. 346-347).

32) N. Koržavin, “Igra s d'javolom”, in “Grani” (Confini).

33) A. Blok, “O sovremennom sostojanii russkogo simvolizma” (Lo stato attuale del simbolismo russo) (1910).

34) A. Blok, “O drame” (Il dramma).

35) A. Blok, “Ironija” (L'ironia).

36) A. Blok, “Sud'ba Apollona Grigor'eva” (Il destino di Apollon Grigor'ev) (1915).

37) V. F. Chodasevi…, Nekropol’.


(Questo testo è stato pubblicato in Russia Cristiana, VI, 1981, 2 (176), pp. 18-33)

 

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Quello che è vicino resta sem pre vicino e, proprio per questo, è reale, esiste. Quello che è lon tano, proprio perché è tale, ci ap pare spesso irreale e insignificante. È terribilmente più fastidioso un vicino di casa che batte sul muro di notte, della notizia di un terre moto o di un'alluvione in qualche Paese lontano.

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Giovedì, 25 Agosto 2005 02:46

Non passare oltre (Timothy Radcliffe op)

«Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico»

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...il giusto mio servo giustificherà molti

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Una terapia d'amore
per una terra sofferente
di Marcelo Barros

L'ONU ha stabilito il 22 aprile come Giorno della Terra. E' il compleanno della Terra. La Terra "nacque" da una esplosione cosmica 4,45 milioni di anni fa. Allora, perché dedichiamo un giorno di venerazione in questi tempi? Perché il nostro pianeta soffre. Proprio l'ONU è garante di questa situazione: se la gente continua a vivere in questo modo da predatori, la vita sulla terra nei prossimi 25 anni sarà sotto rischio. Tutto indica che saranno solo alcuni animali molto resistenti a restare con vita.

E' questo il tempo di salvare la Terra? Come? Prima di tutto conviene curare l'essere più a rischio: l'uomo. In questi ultimi anni, Brasile che aveva 32 milioni di persone sotto il livello della povertà, adesso ha 52 milioni di affamati. Come possiamo preservare la vita se i poveri vedono la loro vita a repentaglio, sotto il peso della fame e della sofferenza provocate dalla miseria?

Certo che di fronte a quest'argomento un indigeno reagirebbe spaventato: "Per amare la Terra, curare le piante, gli animali, non è necessario fare un appello di dovere. La civilizzazione occidentale è arrivata ad un punto in cui per stabilire un rapporto di rispetto con la Terra, c'è bisogno di minacciare! Se uccidete la Terra morirete anche voi! L'umanità dovrebbe curare la natura solo per piacere e per amore. Forse è vero che in campagna un bocciolo non ci commuove ? Forse non ci motiva un bell'albero fiorito piuttosto che degli arbusti secchi! Quand'è stata l'ultima volta che ci siamo fermato davanti ad un fiore, ad un campagna fiorita, ad un cielo stellato, ad un tramonto?

Per la religione degli indigeni e degli afro-brasiliani, ogni essere dell'universo ha una sua particolare energia ed è segno di presenza di Dio. Perciò tutto è sacro, merita rispetto e deve essere trattato con venerazione e con amore. Gli indigeni dicono: tutto ha uno spirito. Gli afro-brasialiani: tutto ha anima.

Chi crede trova Dio in un rapporto amorevole che, come dice la Biblia, Lui fece e si mantiene nel potere della Sua Parola (Eb 1, 1-3). Il salmo 19 canta: "I cieli cantano la presenza di Dio. L'universo esplicita che è stato Dio il suo creatore". Quando si dice che Dio ha creato il mondo si riconosce che Lui è all'inizio di tutto è il principio, il fondamento primogenito, presente in ogni essere dell'universo, in ogni momento della storia. Nell'intimo di ogni essere c'è l'energia creativa come atto d'amore sempre in vigore. Il giudaismo ed il cristianesimo affermano che l'essere umano è stato creato per sorvegliare la Terra e per dare testimonianza di questa presenza amorosa di Dio: nella bellezza dei fiori ad esempio, nei ruscelli, nel suono del vento, ma soprattutto nel volto delle persone, fatto ad immagine e somiglianza divina.

Un documento cristiano del secondo secolo dice: cogli una pietra e lì sotto c'è Dio. Guarda gli altri come fratelli. Lì stai guardando Dio!

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Il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello ?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn. 4, 9-10)

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Domenica, 07 Agosto 2005 21:47

La luce e le tenebre (Giovanni Vannucci)

La luce
e le tenebre
di Giovanni Vannucci




Le parole: "Dio ha così amato il mondo da inviare il Figlio unigenito, non perché giudichi il mondo ma perché sia salvo" (Gv 3, 16-17); "La luce venne nel mondo e gli uomini amarono più le tenebre che la luce" (Gv 1, 5-11), rivelano l'immenso amore di Dio e la tragica presenza nella coscienza umana di una possibilità di rifiuto. Amore sconfinato da una parte, possibilità di non accoglierlo dall'altra: tra questi due poli si svolge la dolorosa vicenda dell'umanità; la via della liberazione è nell'accettare la luce riaccesa dal Figlio nel cuore dell'uomo.

C'è il mondo, c'è Dio; dopo Cristo, il mondo non è più abbandonato a se stesso, nel suo profondo opera l'energia salvifica del Figlio come presenza che plasma e guida la materia amorfa verso le sue origini divine. Quando una coscienza umana l'accoglie, comincia ad amare e a sognare; ad amare le realtà non sottoposte al disfacimento e alla corruzione, a sognare la casa del Padre dalla quale viene e verso la quale è in cammino, e così ritrova la sua vera natura di figlia regale.

Il primo incontro con la luce di Cristo rende consapevole l'anima che la sua avventura, nella carne e nel sangue, è decisiva e definitiva. O riuscirà a fissare in se stessa la luce divina, divenendo in tal modo il veicolo della presenza redentiva del Cristo eterno e immanente; o rifiuterà di lasciarsi fecondare dalla luce, e, allora, si spegnerà come scintilla caduta nel fango. Se accoglierà la luce, sarà nell'onda dello spirito vivente e la sua vicenda nel mondo, pur incontrando un termine nella morte fisica, non si concluderà per questo, ma di ciclo in ciclo continuerà la sua corsa nell'infinito, verso la meta unica e suprema che è Dio stesso. La sua vita nel mondo, nella vita terrena e fisica, assumerà per lei il significato di una necessaria esperienza, che non si conclude nel giro angusto di una vita terrena, in un corpo di carne. «Dio amò il mondo tanto da dargli il Figlio unigenito, perché chi l'accoglie non perisca, ma abbia l’infinita vita". La vita nel mondo è, per ogni anima, determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonistica; essa decide la vita e la morte, poiché le permette la valutazione esatta di tutte le sue possibilità. Se essa, durante l'avventura terrena, si mantiene unita alla sua vera luce mentale, se non perde per sua colpa il contatto con Cristo, luce del mondo, vivrà perché Cristo è infinita vita. Chi invece, con la volontaria ignoranza, con la volontaria adesione alle tenebre del mondo, rifiuta la luce rimane nella morte, non essendo in lui comunicazione di vita e di grazia.

Esiste nell'uomo una presenza di luce che continuamente parla, ammonisce, guida, conforta, illumina, esorta: la cosiddetta voce della coscienza, che è in realtà l'interiore rapporto spirituale che, trasformato in azione psichica, si contrappone a quanto nella materia vorrebbero arrestarne il volo. L'uomo sa ciò che è bene e ciò che è male, nel suo interiore è più che convinto della necessità di non fermare la sua marcia ascensionale. Nel mondo delle forme, nel piano dell'esistenza, niente è così sicuro, così fermo, così stabile come egli sa e sente che sarebbe necessario per rispondere alla sua vera natura. L'uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili e queste realtà labili e perenni cercano in mille modi di fermare, trattenere quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle.

La lotta tra le tenebre e la luce è tutta qui: o l'uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia, allora verrà assunto dalla luce del Figlio donato al mondo da Dio, e in lui sarà confermato illuminandosi, conservando, nella suprema illuminazione, qualcosa di peculiarmente suo: l'individualità; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni e agli inganni della tenebra, allora morirà, disperso nei mille suoi principi costitutivi, distrutto nella sua individuale sostanza, e questa è la permanenza nella tenebra, opposta alla luminosa certezza del possesso interiore del regno di Dio. «Questo è il giudizio: chiunque fa cose vili odia la luce, chi opera nella verità va nella luce".

L'incontro con la luce del Figlio che Dio ha donato per la salvezza del mondo è un evento interiore che si effettua nella carne e che mediante il tempo si afferma nell'eternità. L'uomo da solo ben difficilmente potrebbe riuscirvi, per questo il Figlio è stato mandato, "perché non uno solo si perda di quanti a lui furono dati dal Padre". Gli ostacoli che le tenebre oppongono alla luce sono principalmente tre e tutti di natura mentali: orgoglio e presunzione di sé, in quanto io separato; chiusura egoistica a ogni altra espressione di vita; rifiuto di aderire alla verità conosciuta, in quanto implica una necessità di sacrificio. Su questi tre cardini della cattiva volontà, il potere delle tenebre cerca di agire continuamente per impedire alla luce di manifestarsi nella coscienza, cosicché venga rifiutata dalla sua dimora e l'anima rimanga in balia delle forze nemiche. Quando l'uomo, attraverso lo sforzo di ascesa, l'esercizio affinante della meditazione, perviene a eliminare questi tre ostacoli, la luce si spande liberamente in lui, gli si manifesta in pienezza di conoscimento; alla mente rapita si rivelano le cose occulte; i misteri si schiariscono; si placano, trovandosi risolti, tutti i dubbi.

Quando l'uomo capisce di avere in se stesso la luce divina, viene rivestito da essa, le sue opere diventano luminose, perché "in Dio sono compiute". Sia tale uomo colto o incolto, comunicativo o introverso, abbia in sé la forza che trascina o ne sia privo, quando parlerà tutti lo capiranno, quando tacerà il suo silenzio sarà più forte e più vero delle parole. Chi si abbandona alla luce che è in lui, con umiltà profonda, vive nell'amore col quale Dio ha amato il mondo, non perirà nelle tenebre e vivrà la vita eterna, l'infinita vita divina.

(da Adista, 7 maggio 2005)


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L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole e assennate, senza alzare la voce…

Domenica, 10 Luglio 2005 18:31

I discepoli (Giovanni Vannucci)

I discepoli
di Giovanni Vannucci



Tre cose vengono richieste a chi vuol seguire Gesù Cristo: un amore più grande di quello che naturalmente si porta ai genitori e ai figli; l'assunzione della propria croce; il dono della propria vita (cfr. Mt 10, 37-42).

L'evangelista Luca riproduce il testo più forte: "Se chi vuol seguirmi non odia il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e anche la sua vita, non potrà essere mio díscepolo" (Lc 14, 26). Parole dure, ma vanno intese nella prospettiva che Cristo ci dischiude: il raggiungimento di Dio, il divenire figli di Dio, meta assoluta che non può esser raggiunta se non da un fermo desiderio di allontanarsi da tutto ciò che non è l'Intemporale, per vivere in comunione con l'Io divino che è in ogni uomo, in una partecipazione vitale alla realtà di tutti gli esseri esistenti nel tempo.

Nel versetto trentaquattro del capitolo 10 di Matteo Gesù dice: "Non crediate che sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada". La pace non è l'inerzia, la vita del discepolo di Cristo è combattimento continuo contro se stesso e contro tutti i legami della carne e del sangue, contro le catene dell'egoismo. Egli rinnova la vita, ma la rinnova nell'urto coraggioso, nel coraggioso andare contro corrente.

Certo da quest'angolatura l'insegnamento di Cristo è asociale. La società, in quanto tale, non interessa a Cristo; ogni uomo è solo e deve portare se stesso al Padre. Società indica compromesso, legami, impedimento al raggiungimento del fine supremo che è la perfetta rinuncia, che è in ultima analisi la morte dell'uomo vecchio, dell'uomo nato dalla carne e dal sangue; dell'uomo separato, separante e causa di divisione. L'insegnamento di Cristo non concepisce un ordinamento sociale, basato sulla carne e sul sangue, che rende gli uomini ostili tra di loro, concepisce l'ordinamento sociale basato sulla motivazione della divina paternità, per cui, non la carne e il sangue, ma la carità, e il misterioso amore divino, uniscono i cuori e le coscienze in un'aspirazione comune.

Chi amerà il padre, la madre, i figli più del Cristo, non potrà uscire dal cerchio del sangue né adire alla divina figliolanza. Questa trasformazione dei nostri piccoli amori nell'amore universale dei figli di Dio costituisce la croce sulla quale giorno per giorno il discepolo dovrà salire per morirvi. I presupposti della nuova coscienza che nasce con Cristo rendono necessarie la rottura dei vincoli carnali e la sostanziale mutazione del ritmo naturale dei nostri legami affettivi. Il padre e la madre sono il passato, i figli sono il futuro; ma per il figlio di Dio non esiste passato o futuro, non esistono ricordi o speranze, ma un eterno presente, una realtà immanente e partecipe a tutto il mistero divino caratterizzano la coscienza cristiana.

Il Padre che è nei cieli rende fratelli i figli che sono sopra la terra. Non esiste il ricco o il povero, il colto o l'ignorante, il buono o il cattivo, il libero o lo schiavo: esiste l'Uomo ed esso è il figlio del Padre.

Certamente tutto ciò travolge ogni cosa, rinnova ogni cosa. Sono infranti i vincoli della corruzione, vengono spezzati i legami della separatívità, distrutti i limiti dell'odio, aperti i campi infiniti dell'amore. Nella morte della carne, si assiste al prodigio della nascita dello spirito; tutto ciò non può avvenire senza lotta e senza strazio.

Logico quindi che Cristo sia venuto a portare la spada, logico che Egli sia geloso del possesso assoluto del discepolo, logico che il discepolo che vuol seguirlo porti, come Lui, la croce. Cristo dona se stesso, non trattiene egoisticamente la sua vita, la dà; Egli si dona e prende, si distrugge nel dono di sé e crea, come il pane che vien mangiato, si distrugge e aliinenta la vita. Egli ama e vuole essere amato, esigenza assoluta di vita e di bellezza, più dei padre e della madre, più dei figli, oltre la carne e il sangue, nello spirito; assoluto nell'Assoluto, eterno nell'Eterno.

Nella nuova coscienza di Cristo, nel riconoscimento del Padre comune, nella religiosità del Figlio, la separatività scompare, gli uomini svaniscono, solo l'Uomo resta, i famigliari hanno la loro ragione d'essere nella separatività, non nella coscienza di essere tutti figli di un solo Padre. Il cristiano che rinnegherà la tradizione avita, che rifiuterà di sacrificare alle apparenze, che, cercando la verità suprema, rivelerà l'inganno delle menzogne dei sensi e dei sentimenti, della personalità singola e della personalità collettiva, verrà considerato un pessimo membro della famiglia. Questa è la spada che Cristo ha portato, e insieme la croce su cui deve salire chi vuol essere suo discepolo.

Nonostante questo al cristiano è richiesta una virtù più che umana. Il cristiano è colui che ascolta la parola di Dio e la mette in pratica; è colui che non è da più del maestro, ma è perfetto come il Padre che è nei cieli, che "manda la pioggia e fa spuntare il sole sul giusto e sul peccatore". L'amore che trova nella coscienza nuova di Cristo è un amore pieno e libero; ama, non perché è amato ma perché l'amore è la natura stessa di Dio; chi ama secondo la carne e il sangue non fa nulla di diverso dalle altre creature; chi ama nella nuova coscienza di Cristo, ama come il Padre sa amare. Nel discepolo quindi è richiesta una forza d'animo serena e ferma, che costituisce una vera investitura di generosità.


(Giovanni Vannucci, Il Risveglio della coscienza, già Edizioni Cens, ora Servitium Città aperta edizioni srl / Associazione Emmaus via Conte Ruggero, 73 - 94018 Troina (En) tel. 0935.653530 - Fax 0935.650234; e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; internet: www.servitium.it)


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