In ricordo di P. Franco

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Comunione dei santi,
comunione di ministeri

di Enzo Franchini

Perché non "passa" una sperimentazione più creativa della partecipazione nella chiesa? Perché - in particolare - il ritardo nell'attuazione dei ministeri istituiti? È troppo poco vederne la causa solo nella cattiva comprensione pastorale. È la cattiva spiritualità che inibisce. Ricentrare tutto nell'eucaristia diventa imperativo categorico.

Senza aggressività, come puro rilievo del dato di fatto, sembra di dover cominciare dall’osservazione che dovrà preoccupare le nostre riflessioni: l’eucaristia è troppo clericalizzata, troppo “monasticizzata”. Viene cioè legata prevalentemente alla celebrazione liturgica; a meno non giunga a quella devozione intesa come momento privato, in cui si dà appuntamento a Dio per parlargli della nostra anima.

Ancor più disincarnata ci sembra la proposta della comunione dei santi quale realtà non afferrabile sperimentalmente, vera ma nascosta dietro il velo «mistico» dell’arcano.

L’intenzione delle riflessioni che ci proponiamo è quella di rivendicare la fattibilità visibile di questa comunione: la comunicazione, la partecipazione, la consiliarità, sono infatti già un modo di fare eucarestia; e ancor di più lo sono i miniseri, che sono adempimenti eucaristici per loro natura. Se non fosse per queste tangibilissime realtà, non si attuerebbe il comando: «fate questo in memoria di me». Infatti il “corpo mistico” – realtà conclusive dell’eucarestia – non può essere alienato dalla storia, se Gesù resta con noi fino alla fine dei secoli. Parlare di “corpo mistico” deve significare che proprio di Gesù nato a Maria – e presente nell’eucarestia – dà alla chiesa di costruirsi; così come è la chiesa che fa crescere fino a compiutezza il corpo eucaristico di Gesù, che resterebbe mutilo se non inglobasse anche la nostra realtà presente.

Gesù come comunità

La premessa importante su cui fondare ogni applicazione comunionale è bene espressa nella celebre affermazione di Bonhoeffer: «Lo spazio di Gesù Cristo nel mondo, dopo la sua morte, viene occupato dal suo corpo, la chiesa (...). Alla chiesa si deve pensare come a una Persona fisica (...) l’uomo nuovo è uno, non molti (...). questo uomo nuovo è allo stesso tempo Cristo e la chiesa (...) Cristo è la chiesa (...). l’uomo nuovo non è il singolo (...), ma la comunità, il corpo di Cristo, Cristo» (Sequela pp. 216-218).

La citazione è forse più suggestiva che dimostrativa. E tuttavia essa prende tutto il suo valore una volta che si affermi che Gesù si definisce come persona, nella sua realtà costitutiva, proprio perché si attua come dedizione. Egli realizza la sua vita donandola agli altri: tanto da perdersi negli altri per ritrovarsi vivo in un modo nuovo. Per volontà del Padre, al quale si è abbandonato totalmente. Gesù si offre a noi in modo tale che il suo esistere è relazione con noi, per la nostra salvezza. Gesù è"transitivo" per definizione: perché, per essere se stesso, ha bisogno che qualcuno lo riceva. Gli uomini salvati sono essenziali a Gesù, come l'opera eseguita è necessaria a qualsiasi protagonista se egli vuoi essere riconosciuto capace e responsabile di gestire quell'opera.

Certamente, se non si fosse incarnato, il Verbo di Dio sarebbe stato in grado di dare a noi il suo insegnamento e la sua forza, senza bisogno di fare corpo con noi. Niente ci vieta di pensare che anche senza scendere dal cielo egli avrebbe potuto comunicare agli eletti le sue verità: gli sarebbe bastato comunicare per visione la totalità degli insegnamenti evangelici, come ha fatto coi profeti. C'è una sola cosa - ma questa decisiva per la sua esistenza - che non avrebbe potuto fare restando nel suo cielo: diventare "un solo corpo" con noi: e questo non come unità puramente interiore, realizzata niente più che nell'intimità del pensiero; occorre avere il coraggio di accettare che la sua unione con noi debba definirsi come realtà indubbiamente "fisica". Per realizzare questo impegno salvifico, non aveva altra possibilità che quella di assumere il nostro corpo, così che nessuno potesse più chiamarlo altro che insieme agli uomini con cui esiste in solido: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13).

La verità di questa solidarietà si concreta in modo indubitabile nell'eucaristia. L'eucaristia non è un mistero in più, da aggiungere agli altri articoli di fede elencati nel Credo: piuttosto l’eucaristia è lo strumento con cui quegli stessi articoli di fede diventano veri in ciascuno di noi, nella realtà della loro attuazione. Finché sono dichiarati nell’astrattezza della visione quegli articoli restano esterni all'uomo che li contempla. Ricevi l'eucaristia ed essi diventano invece carne della tua carne. Si inverano, si realizzano di nuovo in te come fatti concreti, salvano davvero tutti e singoli gli uomini che entrano nella comunione con Gesù. Senza l'eucaristia, il Credo conterrebbe la verità astratta - e dunque ancora inefficace - della salvezza. Con l'eucaristia avviene la sintesi tra il progetto ideale e la storia, tra l'ipotesi e la tesi.

La personalità relazionale di Gesù si decide eucaristicamente, perché è l'eucaristia che fa di noi unum corpus, in maniera sponsale così che i due - l'uomo e Cristo – siano una sola persona, e siano compartecipi e coeredi della stessa sostanza. Come Gesù è comunicatore effettivo dei dati elencati nel credo, così chi comunica con lui riceve, in lui, la pienezza del fatto creduto, e non solo la consolazione dell'intuizione: è questa, in sostanza, tutta la teologia dei capp. 14-17 di Giovanni (e non solo di quei capitoli).

Ma questa è dottrina sufficientemente nota, perché si debba insistervi più di tanto. Ciò che non è bastantemente affermato, invece, è che il Corpo mistico non è un’entità gia tutta adempiuta, come se esso non fosse più capace di agire nella storia. Al contrario è un corpo vivo anche su questa terra: è un corpo capace di crescere, di agire, di impegnarsi e sovraimpegnarsi (cf. 2Cor 12,15) per la salvezza delle anime.

Quello che è detto del suo santo corpo ecclesiale, può esser detto anche di Gesù: non è blasfemo parlare di Gesù che resta ancora "viatore" sulla terra, anche se assiso alla destra del Padre: infatti Gesù è nella gloria, ma non ancora del tutto, se egli sopporta in sé tutte le traversie del nostro corpo, che è suo. Gesù continua ad agire di più, e non di meno, di quanto abbia fatto nei giorni della sua carne mortale; solo che egli agisce ormai non senza il suo corpo totale; resta ancora e soltanto lui l’apostolo per eccellenza, ma tramite la sua chiesa.

La potenza della missione (e la dignità dei ministeri) e tutta qui: dopo l’ascensione, Gesù continua a donarsi solo per mezzo della dedizione dei suoi; sono i suoi fratelli che portano a compimento ciò che manca alla pienezza della sua opera salvifica (cf. Col 1,24).

Siamo già all'affermazione da cui si dovrà dedurre tutta la legge dell'apostolato: anche l'apostolato, infatti, con tutte le sue espressioni ministeriali, è in senso stretto un adempimento eucaristico.

L'eucaristia non è un deposito sacro, una presenza arcana da adorare: è una forza viva che fa potente la chiesa che ne è nutrita: chi mangia di lui vive di lui, dunque opera con la sua stessa energia.

Paradossalmente – ma non tanto – si potrà dire, allora: è vero che Gesù è la forza dell’apostolato, ma non è meno vero che anche l’apostolo è la forza di Gesù. Nessuno osi separare ciò che Gesù si è unito, fino a essere “una cosa sola”.

La carità eucaristica

Ma non si deve correre troppo. Prima di parlare direttamente di apostolato e ministeri, occorre fermarsi ancora un poco sulla “vera anima di ogni apostolato”, che è la carità. Un’altra volta, bisognerà dire che solo nell’eucarestia si comprende il valore teologale di ogni forma di carità, compresa la caritas pastoralis di cui parla Presbyterorum ordinis.

Nessuna carità umana può sostituire l’eucarestia: anche se dessi il mio corpo da bruciare a favore dei fratelli, prodigandomi senza sosta nel servizio; e anche se divenissi dolcezza e consolazione all’interno di una comunità tutta dolce e consolata, non per questo io realizzerei quella solidarietà nell’unico corpo che non può che essere quello di Gesù.

Non è la forza della nostra carità che consacra – cioè fa avvenire – l’eucarestia. È Gesù che facendosi nostra pane ci consacra nella sua carità.

D’altra parte, senza la nostra carità, la realtà eucaristica non perdurerebbe oltre il rito. Non serve a nulla il sacramento che non produce realtà, perchè è nella res sacramenti – nella verità dell’esistenza trasformata – che si attua il piano di Dio.

Simone Weil era sconvolta al dover constatare come Dio stesso si auto-limiti per far spazio all’uomo. L’azione di Dio sommata all’azione dell’uomo – osservava – non dà un risultato accresciuto, dà un risultato diminuito; è più una sottrazione che un’addizione. Eppure, supposto il piano creativo, la gloria del sommo Dio si realizza attraverso la debolezza umana: perchè l’amore di Dio è umile fino all’estremo del rispetto.

In modo analogo anche Gesù si auto-limita: egli certamente resta la presenza attiva che incentiva tutto il crescere del Corpo fino alla sua pienezza; ma non lo fa senza trasferirsi e in certo modo insediarsi nella nostra carità. Non si può comprendere la verità ontologica del Corpo mistico, senza credere anche alla sua verità caritativa: «Rimanete nel mio amore», comanda Gesù, così come io rimango nell’amore del Padre. Non meno di una quindicina di volte il Vangelo di Giovanni adopera il verbo “manere” per indicare questo reciproco insediarsi l’uno nell’altro, perfetti nell’unità.

Un’altra volta occorre lamentare l’interpretazione soltanto ontologica – e non soltanto attiva, operosa – della teologia giovannea. Sembrerebbe che, una volta stabiliti nell’amore che è Gesù in noi, si sia arrivati alla perfezione ultimativa, oltre la quale non ci sarebbero sbocchi per creare dell’altro.

Al contrario la comunione è certamente una realtà data ma, insieme, è un realtà tutta da farsi. La formula agostiniana con cui in certe chiese, per un certo tempo, si distribuiva la comunione, non potrebbe essere più eloquente: Ricevi ciò che sei. Diventa quello che già possiedi. Esercita attivamente la comunione, datti da fare, metti in opera quel Gesù che ti ha trasformato in lui: perché, se la comunione è potenza, non può continuare a essere senza l'esercizio attivo della comunionalità solidale con il prossimo.

«Fate questo in memoria di me»: ci si rifletta e si converrà che è questo il vero precetto eucaristico, quello che ci autorizza a continuare noi ciò che Gesù ha fatto per primo: non tanto il rito della cena, quanto l'offerta della vita.

E ancora adesso, quello che Gesù non smette di fare è di donarsi tutte le volte da capo, ogni volta che si attua in noi un sacramento.

Non bisogna esitare nel dire che egli non solo si dona, ma anche ci riceve. Noi ci diamo a lui in comunione. Egli si adempie accettando in sè la nostra vita. È questo che ci permette di pensare la redenzione - che è sicuramente già tutta data, interamente versata - come un fatto che tuttavia è capace di attuarsi di continuo, nella verità del tempo, dello spazio, degli impegni, delle vicissitudini. Per questo l'eucaristia non è mai finita, fino a tanto che i secoli non saranno consumati.

Ma ci tocca andare ancora più avanti: Gesù dona in comunione agli altri se stesso, ma, agli altri, dona anche noi, se facciamo comunione con lui. Quel pane eucaristico - annota il Martelet - è il corpo di Gesù, ma è anche il mio corpo: così che - una volta entrato nella solidarietà eucaristica - io stesso sono dato e mi dono in comunione.

In proposito Fulgenzio di Ruspe ha un lampo di splendida genialità: «Con il dono della carità ci è conferito d’essere (anche noi) in verità ciò che misticamente celebriamo nel sacrificio». E il discepolo di Agostino spiega ampiamente che quello che fa Gesù nel sacrificio eucaristico, lo possiamo fare anche noi: anche noi divenuti sacrificio, dunque anche noi dati in comunione: e questo non solo alla maniera mistica incontrollabile, ma anche nell'esplicazione attiva della nostra esistenza.

Questa è solo la metà della verità: l'altra metà consiste nella certezza che la comunione sta nel ricevere la vita degli altri, insieme a quella di Gesù. Loro sono pane per me. Vivo non senza il loro servizio, se è il loro servizio che mi dà la partecipazione all’unico corpo di Cristo...cosa che sarà anche meglio esplicitata quando, più avanti, si rifletterà sulla forza cristica e cristificante dei ministeri.

Per il momento, converrà insistere ancora sulla carità come attuazione efficace della res dell’eucarestia.

La teologia della liberazione ha spinto forse troppo verso l’eucaristia come simbolo dell'impegno, tanto da sembrare che l'impegno fosse già eucaristia: ed è vero, a patto però che si affermi con più forza che senza l’eucaristia non può darsi forma caritativa sacramentalmente efficace.

In compenso. la consuetudine europea continua a insistere troppo sulla celebrazione liturgica, e liscia la carità sullo sfondo, come possibilità di semplice applicazione etico-ascetica.

Bisognerà concentrarsi infinitamente di più sulla lavanda dei piedi perché qui è la sostanza eucaristica definitiva. La res del sacramento infatti, non è solo il corpo mistico come si continua a insegnare, ma è il corpo mistico in quanto persona attiva che fa servizio, e servizio umile in riconoscimento della presenza eucaristica nell'altro. Finchè siamo nel tempo della storia, l'ontologia si realizza nell'effettiva capacità di operare, così da dare corpo al Corpo perchè non si immagini che, per essere eucaristici, occorra uscire dalla corposità operosa del servizio.

Il servizio della comunione

C'è una concezione per lo meno mutila della comunione dei santi: quella di immaginare uno scambio in certa misura automatico dei "meriti", così come per pura forza di inerzia i vasi comunicanti allineano alla stessa altezza il livello del liquido che li riempie.

E invece la comunione dei santi è anche - e per certi aspetti prima di tutto - comunione di ministeri, tutti visibilissimi e sperimentabili.

È falso immaginare che tutti i servizi siano eguali, purché ci sia la carità; e che tutti i ministeri contino per l'amore che contengono. e non anche per la specificità del servizio prestato.

La nostra non è una comunione di uguali: c'è la fraternità, ma c’è anche la paternità, e, in casi precisi, anche la sponsalità. Ciò che viene dal padre o dallo sposo non è mai la stessa cosa di ciò che viene dal fratello: il «Dio che agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6) ha voluto che il suo Cristo stabilisse «alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 11-12)

Naturalmente sono i ministeri ordinati che comportano uno specificità che è decisiva per la struttura stessa del Corpo; quelli istituiti (e quelli di fatto) variano secondo il variare delle esigenze cui rispondono. Ciò che conta è il convincimento di fede che sia negli uni che negli altri, ogni volta che si agisce nel nome di Gesù, Gesù continua a darsi in comunione.

Questo comporta una prima convinzione di fede, di grandissimo valore: ogni volta che esercito il ministero per cui sono posto, io faccio reale azione eucaristica, Faccio “epiclesi” sui fratelli, do il corpo di Cristo...e insieme do il mio corpo. Per Paolo era indubitabile che l’eucaristia si adempisse non senza quel “culto” (o liturgia) che è l’apostolato (cf. Rm 1,9; soprattutto Ef 4,11-13). Alla maniera di Cristo – e insieme a lui – osa affermare di essere anche lui libagione per il santo sacrificio (Fil 2,17; 2Tm 4,6).

Ma c’è una seconda convinzione, a cui, in particolare i preti, siamo poco abituati: ed è la coscienza che insieme a Gesù, riceviamo gli altri in comunione; e questo ogni volta che essi esercitano un ministero con l’energia ricevuta da Dio (1Pt 4,11). Il ministro in atto – sia ordinato che istituito o di fatto – può santificarmi, con la forza del Corpo di cui è membro attivo. Il suo servizio è un’epiclesi al concreto, che mi “eucaristizza” progressivamente. Convertirsi alla comunione comporta anche tanta fede quanta ne occorre per non dimenticare che Gesù mi contatta tramite l’intervento santificante del fratello che fa corpo con lui.

È per poca abitudine a pensare eucaristicamente – cioè comunionalmente – che ci si trova imbarazzati di fronte alle molteplici presenze con cui Gesù ci attiva. Sappiamo che Gesù è presente nella sua parola, nelle varie celebrazioni liturgiche, nei poveri, e infine quando due o tre sono insieme nel suo nome. Intanto, occorre ricordare che nessuno di questi ambiti è mediatore di Gesù, se non in forza dell’eucaristia data o ricevuta. Gesù non dispensa mai dall’eucaristia, perché è lì che egli si è consegnato una volta per tutte. E inoltre nessuno di questi ambiti è separabile dagli altri, perché tutti sono necessari per creare l’unico Corpo che esse attivano cristianamente.

Comunque, si entra nell’universo mentale eucaristico quando ci si rende conto che Gesù, in forza della sua eucaristia, continua a farci eucaristia tramite il servizio dei fratelli e ai fratelli: è nella concretezza dei molteplici servizi, in tutti i loro aspetti, che si adempie la realtà eucaristica.

Eucaristia e missione

Questi ultimi accenni aprono obbligatoriamente alla missione verso il mondo non ancora credente: perché è per la vita del mondo che Gesù si è consacrato.

Una comunità che si chiudesse nella propria beatitudine cristiana, celebrando una carità eucaristica che non sia, per forza di cose, anche carità sacrificale a favore di chi non fa ancora della chiesa, mutua la verità del sacramento.

Prima ancora che sia il singolo a dedicarsi ai lontani, quasi uscendo dalla comunità e andando come Gesù «fuori dell’accampamento» (Eb 13,12), è la comunità in quanto tale a non avere altro scopo che quello della dedizione all’altro.

Non basta aprirsi all’ospitalità ecclesiale, così da lasciare entrare quelli che sono fuori, invitandoli anzi al convito; in altre parole: non basta fare proselitismo per allargare le nostre tende. Quanti sono già nella tenda non hanno altro impegno che quello di uscire loro verso gli altri, prima di chiedere che gli altri vengano a noi. È così che dobbiamo imparare e volere la totalità della salvezza per tutti.

Sarebbe assurdo affermare, con questo, che tutti debbano andare a servire l’incredulo o il pagano. Le vocazioni interne alla chiesa continueranno probabilmente a prevalere sempre, rispetto a quelle cosiddette missionarie. E però anche chi serve nella sua piccola postazione – anche la vecchietta che stira la biancheria della chiesa o dice il suo rosario – dovrebbe imparare a pensarsi in vista della totalità. Quella vecchietta non è un pezzettino del tutto, non è la classica povera goccia nell’oceano: se è parte del corpo di Cristo, è dedicata come Cristo non meno che alla salvezza di tutti gli uomini, anche se non lo sa. Ma dovrà imparare a saperlo.

Se pensassimo l’eucaristia solo in termini di interiorità ecclesiale, faremmo cessare la verità stessa dell’eucaristia, che è il sacrificio con cui Cristo ricapitola ogni cosa per offrirla al Padre. No meno di Gesù, la chiesa deve versarsi per gli altri: in caso contrario, ci sarebbe contraddizione all’interno dell’unica eucaristia, con Gesù che si offre per tutti e la comunità che si appaga di se stessa. Mai rompere la solidarietà con i fratelli, anche quando sono peccatori: davanti a Dio e per volontà di Dio, noi dobbiamo stare dalla loro parte – come Gesù – per difenderli “dall’ira di Dio” col nostro stesso corpo.

Non resta, allora, che applicare: tutte e singole le comunità cristiane sono lealmente eucaristiche se, nel loro quotidiano concreto, hanno iniziative davvero “estroverse”, centrate cioè su servizi tangibile agli “altri”.

Un’ultima considerazione: queste cose non vano pensate solo per dirle agli altri (che è il servizio tipico del predicatore, che si proietta sempre verso l’insegnamento). Dovremmo cominciare noi a guardare gli operatori cristiani come santi che “mi” impongono le mani, “mi” consacrano, “mi” mettono in grado d’essere a mia volta comunione. Ne deriverebbe subito un capovolgimento di prospettive pastorali che risulterebbe convincente anche per rassicurare gli altri – i ministri istituiti o di fatto – che essi sono veramente azione del corpo mistico di Cristo.

(da Settimana, n. 39, 3 novembre 1996, pp. 8-9)

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 14 Giugno 2007 02:09

Il mistero dell'Incarnazione (Giovanni Tangorra)

Una breve rivisitazione di modelli cristologici a duemila anni dalla nascita di Cristo.

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 03 Maggio 2007 01:07

Le opere di Teilhard de Chardin

LE OPERE




A. FONTI AUTOBIOGRAFICHE

Journal, I Cahiers 1-5 (26 aout 1915 – 4 Janvier 1919). Texte intégral publié par Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Paris (Fayard) 1975, 396p.


B. OPERE SCIENTIFICHE

L’œuvre Scientifique. Textes réunis et édités par N. Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Vol. I-X. Olten-Freiburg (Walter-Verlag) 1971-4634p.


C. OPERE FILOSOFICO-SCIENTIFICHE

Le Phénomène Humain. Paris (Seuil) 1955, 350 p. (Œuvres I).

Il Fenomeno Umano. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 321p.

L’Apparition de l’Homme. Paris (Seuil) 1956. 378 p.(Œuvres II).

L’Apparizione dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1979. 320p.

La Vision du Passé. Paris (Seuil) 1967. 394p. (Oeuvres III).

La Visione del passato. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore) 1973 464p.

Le Milieu Divin. Essai de Vie Intérieure. Paris (Seuil) 1957. 260p. (Oeuvres IV)

L’Ambiente Divino. Saggio di vita interiore. Trad. Aldo Daverio. Revisore Ferdinando Ormea, Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 190p.

L’Avenir de l’Homme. Paris (Seuil) 1959. 408p. (Oeuvres V)

L’Avvenire dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1972. 480p.

L’Energie Humaine. Paris (Seuil) 1962. 224p. (Oeuvres VI)

L’Activation de L’Energie. Paris (Seuil) 1963. 432p. (Oeuvres VII

La Place de l’Homme dans le Nature (Le Groupe Zoologique Humain). Paris (Seuil) 1963. 176p. (Oeuvres VIII)

Il Posto dell’Uomo nella natura. (Il gruppo zoologico umano): Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore 1970. 184p.

Scienze et Christ. Paris (Seuil) 1965. 294p. (Oeuvres IX).

Comment Je Crois. Paris (Seuil) 1969. 294p. (Oeuvres X):

Les Directions de l’Avenir. Paris (Seuil) 1973. 238p. (Oeuvres XI).

Ecrits du Temps de la Guerre. Paris (Seuil) 1976480p. (Oeuvres XII):

La Vita Cosmica (Scritti del tempo di guerra: 1916-1929): Trad. Annette Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore) 1970 536p.

Le Cœur de la Matière. Paris (Seuil) 1976. 256p. (Oeuvres XIII).


D. EPISTOLARIO

Lettres d’Egypte 1905-1908. Paris (Aubier-Montaigne) 1963. 228p.

Lettere dall’Egitto 1905-1908. Trad. Nicoletta Cavalletti. Brescia (Morcelliana) 1966. 282p.

Lettres d’Hastings et de Paris 1908-1914. Paris (Aubier-Montaigne) 1965. 463p.

Lettere da Hastings e da Parigi 1908-1914. Trad. Lucia Pigni Maccia. Brescia (Morcelliana) 11967. 432p.

Genèse d’une pensée. Lettres 1914-1919. Paris (Grasset) 1961. 406p.

Genesi di un pensiero. Lettere dal fronte 1914-1919. Trad. Stefano Majnoni. Milano (Feltrinelli) 1966. 268p.

Lettres de voyage 1923-1939. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1956. 227p.

Lettres de voyage 1939-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1957. 193p.

Lettres de voyage 1923-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1962. 370p

Lettere di viaggio. Trad. Michele Rago e Vincenzo Dominaci. Milano (Feltrinelli) 1962. XXV-317p.

Blondel et Teilhard. Correspondance commentée par Henri de Lubac s.j. Paris (Beauchesne) 1965. 168p.

Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac. Trad. Vincenzo De Mari. Torino (Borla) 1968. 184p.

“Lettres inédites a un savant de ses amis”. Christus. Paris 1967.14. pp.238-258.

Lettere a un amico scienziato. Presentazione e commento di Annette Daverio. Torino (P. Gribaudi) 1969. 74p.

Lettres à Léontine Zanta. Introduction par Robert Garric et Henri de Lubac s.j. Paris (Desclée) 1965. 142p.

Convergere in alto. Lettere a Léontine Zanta. Introduzione di Robert Garric e Henri de Lubac. Presentazione e note di Michel Certeau. Trad. A. Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1969 175p.

Accomplir l’homme. Lettres inédites 1926-1952. Preface du Père d’Ouince s.j. Paris (Grasset) 1968. 288p.

Realizzare l’Uomo (Lettere inedite 1926-1952). Milano (Il Saggiatore) 1974. 348p.

Rivière, Claude. En Chine avec Teilhard 1938-1944 récit suivi de lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin. Preface de Jean de Beer. Paris (Seuil) 1968. 272p.

Lettres intimes à Auguste Valansin, Bruno de Solages, Henri de Lubac, André Ravier (1919-1955). Introduction et notes par Henri de Lubac. Paris (Aubier-Montaigne) 1974. 512p.

Dans le sillage des sinanthropes. Lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin et Jahan Gunnar Andersson 1926-1934. Presentation de Pierre Leroy. Paris (Fayard) 1971. 98p.

Pierre Leroy. Lettres familières de Pierre Teilhard de Chardin mon ami. Les dernieres années 1948-1955. Paris (le Centurion) 1976. 268p.

Pubblicato in Teologia

 LA FINE DI “QUESTO” MONDO NELLE RELIGIONI INDIANE

in Le monde des religions, 16, pp. 36.37

Non si tratta di fine del mondo, ma piuttosto di “fine di un mondo”, della scomparsa di una manifestazione che, come tutto ciò che esiste, è intaccata dall'effimero

            Trasportiamoci mentalmente verso il XXV° secolo: Alla fine di un conflitto terribile l'umanità è quasi ridotta al nulla. Gli uomini sopravvissuti a questa guerra spaventosa sono come animali, rintanati in rifugi sommari, incapaci di qualsiasi pensiero spirituale. La fine del mondo? No, appena un anticipo della fine del nostro mondo. Tale è lo scenario profetico annunciato dall'insegnamento del Kalachakra, o

la Ruota del Tempo, attribuita al Buddha e largamente diffusa nel Tibet.

            Contrariamente alle tre grandi religioni monoteiste, le grandi spiritualità indiane, l'induismo e il buddismo, propongono una lettura del passare del tempo e dell'avvenire del mondo che si iscrive in un quadro relativo, senza vero inizio, né vera fine. Così non esiste Creazione: il principio del mondo si iscrive in una concezione larga, continua, ciclica, fondata sulla credenza nell'esistenza di grandi ere cosmiche, i kalpa. Ugualmente, non esiste un universo, ma una moltitudine di universi, ciascuno con il suo ritmo proprio: a ogni istante ognuno degli universi si trova a una tappa della sua esistenza che gli è specifica.

            La durata attribuita a un ciclo varia da una tradizione all'altra, ma è sempre straordinaria, e si esprime in milioni di generazioni umane. Bisogna ricorrere a metafore o a immagini per tentare di concepirla. Un ciclo completo, cioè “un  giorno e una notte del dio Brahma”, dura più tempo di quel che occorrerebbe a un pezzo di seta di Benares per erodere una roccia gigantesca fino all'ultimo granello di polvere toccandola solo una volta ogni secolo.

Ciclo di degenerazione

            Secondo la tradizione vedica, specialmente nel Visnu Purana, un grande ciclo si divide in 71 periodi, i mahayuga, ognuno diviso in quattro piccoli cicli, gli yuga associati a metalli (oro, argento, rame, ferro) suddivisi a loro volta in cicli più brevi.Questi cicli ritmano l'apparizione dell'universo e poi la sua degenerazione. Non si parla mai di una Apocalisse, nel senso popolare di una fine del mondo; si tratta infatti della “fine di un mondo”, la scomparsa di una manifestazione che è intaccata, come tutto ciò che esiste, dall'effimero.

            Induismo e buddismo si trovano d'accordo ancora per affermare che ci troviamo ora in un ciclo di degenerazione. Il Visnu Purana, che fu probabilmente redatto verso il IV° secolo, sottolinea in maniera profetica che in quel tempo di declino “la legge sarà quella del ricco” e che “la violenza, l'inganno e l'immoralità” saranno la regola comune. Altro segno della decrepitezza del mondo: “le donne saranno ridotte a un oggetto sessuale” e “i vecchi cercheranno di comportarsi come giovani e i giovani perderanno il candore della giovinezza

            Il Kalachakra evoca anch'esso questo tempo degenerato. Nel prolungamento di quel che diceva la tradizione indiana, esso annuncia l'emergenza e poi l'espansione di una religione spiritualmente alienante e la perversione dei valori. Le forze del Bene radunate nel regno invisibile di Shambala, dovranno lottare contro gli eserciti del Male che già regneranno sulla metà del mondo. Una volta stabilita la pace,

la Terra ritroverà la concordia, ma non sarà che una sospensione prima di una nuova degradazione.

            La caduta infatti assomiglia a una lenta ma irresistibile discesa, fatta di alti e bassi. Alla fine arriverà il tempo del caos e dal caos emergerà un nuovo universo mediante un processo che può essere assimilato a una progressiva condensazione dei suoi elementi costitutivi: l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra…

            Secondo le tradizioni spirituali indiane nello scorrere delle tappe del ciclo la durata della vita umana diminuisce, passando dalle varie decine di migliaia di anni a una sola decina di anni prima della sommersione nel caos. Egualmente la statura degli essere umani diminuisce in maniera significativa, per raggiungere una trentina di centimetri. Nel periodo di degenerazione che conosciamo la durata della vita è di 100 anni.

Logica fatalista

            Una lettura filosofica permette di considerare questa percezione dello scorrere del tempo in una maniera più larga. Le età dell'oro sono caratterizzate dalla spiritualità, la dolcezza, la longevità, l'armonia, mentre i periodi di degenerazione si distinguono per la confusione, cioè l'inversione dei valori fondamentali del Bene e del Male, dell'utile e del nocivo. Insomma, le epoche di crescita corrispondono a uno spazio esteriore e interno aperto; al contrario nelle epoche di decadenza aumenta la riduzione fisica, mentale e spirituale man mano che cresce il materialismo. La “fine del mondo” è quindi il risultato di un soffocamento del mondo, ultima tappa di un ripiegamento completo su di sé.

            La diminuzione della statura rimanda a una riduzione dello spazio e quella dell'età a un ristringimento del tempo. L'epoca contemporanea corrisponde a questi dati. Il nostro spazio si riduce, da una parte perché i nostri mezzi tecnici permettono di dominarlo, dall'altra perché l'occupazione umana della Terra non cessa di allargarsi. Se la durata della vita, essa, non cessa di allungarsi, contrariamente a quel che appare nelle tradizioni buddista e induista, la qualità del tempo vissuto diminuisce. Alle società tradizionali che ritmavano il tempo in generazioni, in stagioni, le società moderne oppongono un tempo sezionato, suddiviso, in cui l'unità non è più una vita, ma il secondo. L'umanità moderna perde dunque la distanza con il mondo, perde la visuale offerta dal ritmo lento della vita in cui l'uomo “ha il tempo”.

            L’inversione dei valori segue la stessa logica. Il ciclo di degenerazione che attraversiamo porterà l’uomo a perdere la spiritualità, o almeno ad allontanarsi da una spiritualità liberatrice. Invece le fedi “mondane”, quelle che lasciano libero corso all’attaccamento e al desiderio, non smetteranno di svilupparsi. La percezione del Bene conoscerà una deriva animata da un ripiegamento su di sé che condurrà le persone o le società ad autoproclamarsi i soli detentori del Bene: il Male diverrà così banale da non potersi più distinguere dal Bene, in quanto la confusione si sarà instillata nel corso delle generazioni.

            Se in questa logica ciclica appare un fatalismo sicuro, poiché il nostro universo è irrimediabilmente colpito dalla distruzione, l’interesse spirituale non deve essere trascurato. La degenerazione e il caos derivano dal fatto che l’uomo ha preso in mano il mondo al solo scopo di soddisfare il suo desiderio di dominazione. Dopo i periodi fasti in cui lo spirito era al centro dell’esistenza, la nostra era è quella in cui l’uomo è al centro delle sue preoccupazioni, si percepisce come la pietra angolare del mondo, la vetta di una piramide sostenuta dall’egocentrismo. Ne dimentica la base, non sa più che egli non è che una parte di un Tutto retto da leggi che lo superano, perché sono al di là della sua percezione dello spazio e del tempo.

Laurent Deshayes

Dottore in storia, ricercatore aggregato al CHRIA dell'Università di Nantes, Uscirà in aprile 2006: Découverte au Bouddhisme (Plon).

Pubblicato in Teologia

Queste riflessioni scritte in occasione del Congresso di Nuova York, Scienza e Religione, avevano lo scopo di segnalare il terreno sul quale tutti gli uomini desiderosi di progredire potrebbero incominciare a capirsi e ad aiutarsi reciprocamente prima di universi in una stessa verità.

Pubblicato in Teologia
Martedì, 13 Marzo 2007 01:57

Il Verbo abbreviato (Henri de Lubac)

Il Verbo abbreviato

di Henri de Lubac




In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della «totalità delle Scritture», formava già «l’unica Parola di Dio». [...]

In Lui, i «verba multa» (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre «Verbum unum» (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di «parole umane»; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, «multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est» (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno). [...]

Eccolo, dunque, questo Verbo unico. Eccolo tra noi «che esce da Sion», che ha preso carne nel seno della Vergine. «Omnem Scripturae universitatem, omne verbum suum Deus in utero virginis coadunavit» (tutto l’insieme delle Scritture, ogni sua parola, Dio l’ha riunito nel seno della Vergine). [...]

Eccolo adesso, totale, unico, nella sua unità visibile. Verbo abbreviato, Verbo «concentrato», non soltanto in questo primo senso che Colui che è in sé stesso immenso e incomprensibile, Colui che è infinito nel seno del Padre si racchiude nel seno della Vergine o si riduce alle proporzioni di un bambino nella stalla di Betlemme, come san Bernardo e i suoi figli amavano parlarne, come ripetevano M. Olier in un inno per l’Ufficio della vita interiore di Maria, e, ancor ieri, padre Teilhard de Chardin; ma anche e nello stesso tempo, in questo senso, che il contenuto molteplice delle Scritture sparse lungo i secoli dell’attesa viene tutt’intero ad ammassarsi per compiersi, cioè unificarsi, completarsi, illuminarsi e trascendersi in Lui. Semel locutus est Deus (Dio ha pronunciato una sola parola): Dio pronunzia una sola parola, non solo in sé stesso, nella sua eternità senza vicissitudini, nell’atto immobile con cui genera il Verbo, come sant’Agostino ricordava; ma anche, come insegnava già sant’Ambrogio, nel tempo e tra gli uomini, nell’atto con cui egli invia il suo Verbo ad abitare la nostra terra. «Semel locutus est Deus, quando locutus in Filio est» (Dio ha pronunciato una sola parola, quando ha parlato nel suo Figlio): perché è Lui che dà il senso a tutte le parole che lo annunziavano, tutto si spiega in Lui e solamente in Lui: «Et audita sunt etiam illa quae ante audita non erant ab iis quibus locutus fuerat per prophetas» (e si sono allora capite anche tutte quelle parole che non erano state intese prima da coloro ai quali egli aveva parlato attraverso i profeti). [...]

Sì, Verbo abbreviato, «abbreviatissimo», «brevissimum», ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L’incarnazione del Verbo equivale all’apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il «midollo» unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all’annunzio dell’angelo, la Parola, fin qui soltanto «udibile alle orecchie», è diventata «visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle». Più ancora: essa è diventata «mangiabile». Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: «tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone...». «A più riprese e sotto varie forme» Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità. [...]

Tutta l’essenza della rivelazione è contenuta nel precetto dell’amore; in questa sola parola, «tutta la Legge e i Profeti». Ma questo Vangelo annunziato da Gesù, questa parola pronunziata da Lui, se contiene tutto, è perché non è altro che Gesù stesso. La sua opera, la sua dottrina, la sua rivelazione: è Lui! La perfezione che egli insegna, è la perfezione che egli porta. Christus, plenitudo legis (Cristo, pienezza della legge). È impossibile separare il suo messaggio dalla sua persona, e coloro che ci provarono non tardarono molto ad essere indotti a tradire il messaggio stesso: persona e messaggio, finalmente, non fanno che una cosa sola. Verbum abbreviatum, Verbum coadunatum: Verbo condensato, unificato, perfetto! Verbo vivo e vivificante. Contrariamente alle leggi del linguaggio umano, che diventa chiaro, spiegandolo, esso, da oscuro, diventa manifesto, presentandosi sotto la sua forma abbreviata: Verbo pronunziato dapprima «in abscondito» (nascostamente), e adesso «manifestum in carne» (manifesto nella carne). Verbo abbreviato, Verbo sempre ineffabile in sé stesso, e che tuttavia spiega tutto! [...]

Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti «hanno scritto di lui». Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una «lex scripta» (legge scritta). Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una «religione del Libro»: è la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, «non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo». La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, «in maniera tale che la si vede e la si tocca»: Parola «viva ed efficace», unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è «la religione biblica»: è la religione di Gesù Cristo.

(I brani sono tratti da Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, vol. III, Jaca Book, Milano 1996)

Pubblicato in Teologia
Venerdì, 23 Febbraio 2007 01:24

Il vangelo secondo Las Casas (Serge Lafitte)

Il vangelo secondo Las Casas

di Serge Lafitte


Non contento di difendere gli indiani, Bartolomeo de Las Casas ha riproposto la giustificazione religiosa e politica della loro oppressione. Per Gustavo Gutierrez, padre della teologia della Liberazione, Las Casas ha potuto proporre un nuovo modo di leggere il messaggio evangelico partendo dal punto di vista dei poveri.

“Io permetto che nelle Indie, Gesù Cristo, nostro Dio, sia frustato, martorizzato, schiaffeggiato e crocifisso non una volta , ma mille volte, ogni volta che gli spagnoli spogliano e distruggono queste genti e gli portano via lo spazio della conversione e della penitenza, li privano della vita prima del termine, in modo tale che muoiono senza fede né sacramenti.”

E’ Bartolomeo de Las Casas che parla, in una sua scena del suo racconto, “Storie dell’India”, adesso disponibile in francese in versione integrale.

Monumentale, questa narrazione è meno di un libro di storia come noi lo concepiamo oggi, è la ricapitolazione di una vita sconvolta dai misfatti di una conquista sanguinosa.

Las Casas non fu il solo difensore degli indiani della sua epoca. Altre voci hanno testimoniato un umanesimo molto avanzato rispetto ai tempi.

In compenso il suo discorso e la sua battaglia teologica lo distinguono nettamente dai suoi contemporanei, come mostra l’analisi penetrante che ne fa Gustavo Gutierrez, il padre della teologia della Liberazione latino-americana nel suo libro “Dio e l’oro degli indiani occidentali”.

Se l’ottica di Las Casas è differente - egli nota - “questo è dovuto al fatto che l’approccio segue una via inedita per la sua epoca.Per comprendere ciò che accade nelle Indie, egli cerca di adottare il punto di vista dell’indiano, del povero e dell’oppresso.”

Partendo da questa esperienza, e non da una riflessione puramente speculativa, egli non difende soltanto i diritti degli indiani, ma denuncia il sistema che conduce alla loro eliminazione. E va più lontano, sottolinea Gutierrez, dimostrando “con una perspicacia tutta biblica, l’idolatria di chi considera l’oro come il dio al quale consacrano la loro vita” senza la minima considerazione per quella delle loro vittime.

Buon cattolico e colonizzatore convinto dei benefici della conquista delle Indie, Las Casas non si è convertito in un giorno a questo approccio.

Altri lo hanno preceduto sul cammino della denuncia, soprattutto dei frati domenicani stabilitisi a Saint-Dominique, ai quali egli si avvicina.

Nella sua Storia delle Indie , riferisce il sermone indirizzato da uno di loro, Antonio de Montesinos, ad alcuni coloni sconcertati.

E’ il 30 novembre 1511 e siamo nella chiesa di Saint-Dominique:

“Ditemi dunque quale diritto e quale giustizia vi autorizza a mantenere questi indiani in una condizione di servitù così orribile e crudele?

A nome di quale autorità avete compiuto guerre così detestabili contro queste genti che erano pacate e in pace sulle loro terre, nelle quali voi avete soppresso una così grande quantità di loro con morte o sevizie inaudite?

Perché le tenete così nello scoramento e nell’oppressione, senza dar loro da mangiare né le cure per le malattie causate dal lavoro eccessivo che voi imponete loro e che le fa morire?

Per parlare chiaro, voi le uccidete per prendere ed appropriarvi dell’oro giorno dopo giorno…”

La vita di Las Casas precipita definitivamente, quattro anni più tardi, nel 1514. Allora stabilitosi a Cuba e sempre colono, il prete che era diventato, rilegge i suoi ultimi sermoni e medita sulla Bibbia.

Un passaggio del capitolo 34 de l’Ecclesiaste, lo colpisce: “Sacrificare un bene mal acquisito, non interessa, i doni dei cattivi non sono graditi. Dio non gradisce le offerte degli empi, non è per l’abbondanza delle vittime che perdona i peccati. E’ come immolare un figlio in presenza del padre offrire un sacrificio con i beni dei poveri. Un magro nutrimento, questa è la vita dei poveri, privarne loro è commettere un assassinio.Uccidere il prossimo togliendogli la sussistenza è spargere il sangue come privare il lavoratore del suo dovuto”.

Non è che allora, e dopo molteplici giorni di riflessione, racconta Las Casas, che egli si convince che “tutto ciò che si commette nelle Indie, agli occhi degli indiani è ingiusto e tirannico…”.

Fermamente deciso a consegnare questo messaggio e per rendere credibile la sua predicazione, egli decide di rinunciare alle sue proprietà ed ai suoi indiani.

Il segreto di questa storia è conosciuto. E’ fatta di ombre e di luce, queste ultime sono dovute a quelli che , come Las Casas, si sono sforzati, non completamente invano, di attenuare la miserevole sorte degli indiani.

Ma al di là della sua portata storica, c’è la dimensione teologica della conversione di Las Casas, che dà ai suoi scritti una risonanza sempre attuale. Il suo impegno in effetti, supera la semplice esigenza umanitaria dovuta agli indiani, finalmente riconosciuti come dei veri esseri umani da una Bolla papale promulgata nel 1537.

Come dice Gustavo Gutierrez, Las Casas ha una parte determinante nel confronto tra “due modi opposti di considerare Cristo e il Suo messaggio”.

Il primo, spiega, “fonda la giustificazione teologica della presenza europea sull’idea che le ricchezze delle Indie hanno funzione provvidenziale”. Riassumendo : queste ricchezze sono un dono di Dio agli indiano, perché permettono la loro evangelizzazione. Questo argomento, teologico quanto politico, sarà sviluppato, tra gli altri, da Juan Ginès de Sepulveda, avversario di Las Casas durante la celebre controversia di Valladolid.Se i coloni accettano di correre tanti pericoli, riconosce Sepulveda, è unicamente “per il profitto che essi sperano di ricavare dalle miniere d’oro e d’argento con l’aiuto degli indiani, una volta sottomessi”. C’è da aggiungere che, senza questo, i predicatori non avrebbero i mezzi di effettuare la loro missione di evangelizzazione.

Certamente conoscendo i difensori più illustri di questa ideologia, sarebbe più cristiano trattare meglio gli indiani, ma da qui a riconoscere questo sistema, come chiedono anche La Casas e qualche altro, è più che restituire tutto ciò che è stato rubato…

L’altra prospettiva, riassume Gustavo Gutierrez, “centrata sul Vangelo, vuole, nella storia, sradicare alla povertà gli indiani di questi territori e denunciare come idolatria la prima attitudine”.

Primo, perché questa idolatria è ben più micidiale di quella di cui sono accusati gli indiani.

Gli spagnoli, scrive dunque Las Casas, “hanno sacrificato alla loro tanto amata idea l’avidità,(…) un numero così grande che nello spazio di cento anni non sono stati sacrificati indiani ai loro dei, in tutte le Indie”.

Ma va ancora più in là, per lui questa idolatria condanna e chi la serve e coloro che, a nome della quale, pretendono di giustificare la loro azione, da prevedere la conversione degli indiani al Dio dei cristiani.

E’ “bestemmiare il nome di Cristo”, afferma Las Casas, perché nelle Indie “si stima, si riverisce e si adora più la ricchezza che Dio”.

Per lui, il solo vero comportamento cristiano è liberare gli indiani da una servitù che “è contraria

All’intenzione di Gesù Cristo e contraria all’esperienza della carità che ci ha imposto nel suo Vangelo e contraria a tutti i punti della Sacra Scrittura, se ci si riflette bene”.

Chiave di volta di questa teologia, l’identificazione che opera Las Casas tra Cristo e l’indiano è sicuramente rivoluzionaria per l’epoca. Ma resta.Considera ancora Gustavo Gutierrez “non può essere altrimenti”. Parlare con la voce dei poveri e con loro, ma non soltanto per loro, sarà sempre rimettere in questione gli interessi e i privilegi, così che sussisteranno le ineguaglianze enormi ed ingiuste e l’oppressione che le genera”.


Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 21 Febbraio 2007 01:10

I volti storici di Gesù (Bruno Secondin)

B - I SUOI VOLTI STORICI

di Bruno Secondin

Quale immagine di Cristo è l'autentica?

H. Küng, nel suo noto libro Essere cristiani, ce ne offre una sintesi suggestiva.

"È il giovane imberbe, bonario pastore dell'arte paleocristiana o il barbuto trionfante Imperator o Cosmocrator della tarda iconografia relativa al culto imperiale, aulico-rigido, inaccessibile, minacciosamente maestoso sullo sfondo dorato dell'eternità? E' il Beau-Dieu di Chàrtres o il misterioso Salvatore tedesco? E' il Cristo re e giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e nelle absidi romaniche, o l'uomo dolente raffigurato con crudo realismo nel "Christus in Elend" di Dürer e nell'unica crocifissione superstite di Grünewald? È il protagonista della "Disputa" di Raffaello, dall'impassibile bellezza, o l'umano moribondo di Michelangelo? E' il sublime sofferente di Velàsquez o la figura torturata dagli spasimi di EI Greco? Sono i ritratti salottieri, impregnati di spirito illuministico, di Rosalba Carriera e di un Fritsch, in cui muove un elegante filosofo popolare, o le edulcorate rappresentazioni del cuore di Gesù nel tardo barocco cattolico? E' il Gesù del diciottesimo secolo, il giardiniere o farmacista che somministra la polvere delle virtù o il classicistico Redentore del danese Thorwaldsen. che scandalizzò il suo compatriota Kierkegaard eliminando Io "scandalo della croce?"

È il Gesù umano, mite ed esausto, dei nazareni tedeschi e francesi e dei preraffaelliti inglesi o è il Cristo, calato in ben altre atmosfere, degli artisti del ventesimo secolo, i vari Beckmann, Corinth, Nolde, Maserel, Rouault, Picasso, Barlach, Chagall?

Né meno diverse sono le teologie che sottendono le immagini. Quale cristologia è l'autentica?

È, nell'antichità, il Cristo del vescovo Ireneo di Lione o del suo discepolo Ippolito (antipapa di Callisto), quello del geniale compilatore greco Origene o dell'eloquente giurista latino Tertulliano? E' il Cristo dello storiografo e vescovo costantiniano Eusebio o quello di Antonio, il padre del deserto egiziano; quello di Agostino?

E nel medioevo, il Cristo del neoplatonico Giovanni Scoto Eriugena o quello dell'acuto dialettico Abelardo, quello delle tanto commentate sentenze di Pietro Lombardo o quello delle prediche sul Cantico dei cantici di Bernardo di Clairvaux? E' il Cristo di Tommaso d'Aquino o quello di Francesco d'Assisi, quello del potente Innocenzo III o quello degli eretici valdesi e albigesi da lui combattuti

E', nell'età moderna, il Cristo dei riformatori o quello dei papi romani, quello di Erasmo di Rotterdam o quello di Ignazio di Loyola, quello degli inquisitori spagnoli o quello dei mistici spagnoli da loro perseguitati? È il Cristo dei filosofi-teologi dell'idealismo tedesco, di Fichte, Schelling, Hegel, o quello del teologo-antifilosofo Kierkagaard? E' quello della scuola cattolica, storico-speculativa, di Tübingen o quello dei teologi gesuiti e neoscolastici del Vaticano I, quello dei movimenti di risveglio protestante nel secolo XIX o quello dell'esegesi liberale dei secoli XIX e XX, quello di Romano Guardini o quello di Karl Adam,di Karl Barth o di Rudolf Bultmann, di Paul Tillich, di Teilhard de Chardin o di Billy Graham?

Quante le teste, tante le immagini di Cristo? La devozione continua ancora oggi a fornire le più disparate risposte alla domanda: quale Cristo? Che cosa significa Cristo per me?"



I

Il rischio di deformazioni

Come si vede, in circolazione ne esistono mille diversi volti, a volte addirittura contraddittori. C'è il Cristo semplice della pietà popolare e c'è il Cristo sofisticato degli studiosi; c'è il Cristo tranquillizzante di certo cristianesimo borghese e c'è il Cristo rivoluzionario dei moti di ribellione; c'è il Cristo delle "barricate" e quello "socialista" caro a tanta tradizione popolare italiana, e c'è il Cristo tutto spirituale dei movimenti carismatici. Ognuno lo ha "scritto" o dipinto o scolpito o cantato con volti diversi.

La maggior parte di queste immagini sono legittime, nella misura in cui mettono in luce un aspetto vero di Cristo. Ma c'è anche il rischio di una manipolazione. Soprattutto esiste il rischio che siano i cristiani stessi, nella loro ricerca di Cristo, a manipolarlo o deformarlo, magari anche inconsciamente, con la scusa di attualizzarlo o di modernizzarlo.

Un rischio sempre presente, soprattutto nei momenti di transizione culturale come il nostro: per incarnarlo in nuove culture, rischiamo di snaturarlo o di falsificarlo. Per farne una proiezione di sé, la giustificazione dei nostri progetti e delle nostre opzioni, un ideale ritagliato a nostra misura e per nostro consumo.

Ma nonostante questo rischio di manipolazione, anche la nostra epoca deve "dare il nome" a Gesù (Mt 16,13-16).

Lasciarsi guidare dalle ragioni che dall'alto ci vengono suggerite, ma anche lasciarsi provocare dalle nuove condizioni culturali, che "possono stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda intelligenza della fede. Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini" (GS 62).

II

... I suoi ritorni

Che si stia vivendo una stagione cristologica particolarmente produttiva, forse in parte anche creativa e paragonabile alla stagione dei grandi concili o al tempo della scolastica migliore, sono in molti a sostenerlo. Sintomi ve ne sono tanti, sia sul piano della ricerca teorica, sia nell'ambito dell'esperienza vissuta e perfino anche nell'espressione artistica.

In fondo la nostra epoca, connotata da una profonda transizione culturale, per naturale esigenza comporta un'ulteriore elaborazione di tutte le sintesi teoriche e una nuova ricognizione degli orizzonti di riferimento attraverso il ritorno al fondamento.

Come premessa diciamo anche che una tale "concentrazione cristologica" - dopo qualche anno di enfasi ecclesiologica - potrebbe anche rischiare di mettere in ombra una necessaria attenzione al tema "Dio", a motivo dell'assorbimento del tutto in Gesù Cristo. Un'afasia sul Dio Padre di Gesù Cristo la si nota comunque nella teoria e nella pratica: molti possono essere detti "cristomonisti" puri. Perfino il concilio Vaticano Il è apparso a qualcuno come tendente al "cristomonismo".

Le varie tappe del passato e del presente rappresentano ciascuna uno stadio del divenire e del realizzarsi della spiritualità cristiana, un atteggiamento della coscienza collettiva nel suo prendere posizione davanti al mistero di Cristo.

Il Gesù della nuova "religiosità"

È apparso di recente uno studio molto ampio e documentato del teologo francese J. Vernette sulla presenza di Gesù nelle molteplici forme di ricerca religiosa del nostro tempo che egli chiama con espressione sintetica "nuova religiosità" Questo studio ha evidentemente una prospettiva più che altro europea (e francese in particolare). Ma dimostra bene come di fatto numerose "religioni selvagge" stanno fiorendo all'interno del deperimento delle grandi forme ecclesiali istituzionali.

1.CARATTERISTICHE GENERALI

Possiamo evidenziare, nel quadro d'insieme, alcune figure "cristologiche" emergenti:

- Ritorno delle questione religiosa come centrale nel senso della vita: Gesù e il suo messaggio ri-divengono una referenza per la condotta individuale e sociale;

- L'universalismo delle religioni e nomadismo religioso: Gesù si incontra in ognuna delle tappe dell'itinerario: un Gesù dai molti volti;

- Modificazioni delle strutture istituzionali di certe religioni stabilite, per creare spazi di "accoglienza" per le nuove sensibilità: il discorso dottrinale su Gesù si modifica, si fa meno rigido; la metà dei cattolici europei non crede nella divinità di Gesù;

- Estensione del pluralismo religioso, verso un pensiero aperto e tollerante: Gesù diviene un pezzo mobile e banalizzato che si fa entrare nel puzzle religioso più diverso;

- Apparizioni di "nuove religioni", trasversali rispetto alle tipologie esistenti, in nome della religione universale come esigenza di una nuova era (che sarà quella dell'Acquario).

Qual è la fisionomia dominante di Gesù Cristo in questa deriva del fenomeno religioso? Per Vernette si tratta di due grandi famiglie spirituali, due visioni globali della persona di Gesù.

La prima famiglia è costituita dai dissidenti del tronco biblico e giudeo-cristiano. L'intento è di vivere con decisione e conversione totale per Gesù, "accettare Gesù come salvatore", "dire di sì a Gesù". Chiaramente il registro ascetico è dominante, in atteggiamento anche di contro-cultura verso le tendenze permissive della società e anche della chiesa.

La seconda famiglia ha la tendenza a "leggere" il ruolo di Cristo in Gesù di Nazaret, e quindi ad interpretarlo in prospettiva cosmica, in chiave di interpretazione, di maestro e guida. L'incarnazione di Dio in Gesù non è che un caso particolare: la manifestazione di uno "strato" (incarnazione) del divino cosmico.

Gesù fa parte dell'energia cosmica, dell'unità sostanziale dell'universo. E il linguaggio usato è quello simbolico ed esoterico, con grande importanza all'elemento femminino, ai poteri psichici, di guarigione, medianici.

2.IL JESUS MOVEMENT

Un interessante momento di questa "Gerusalemme selvaggia" può essere considerato il Jesus Movement. E' in America dell'ovest - a San Francisco specialmente, rivelatosi in questi decenni come "laboratorio" del prossimo futuro - che nasce, sulle speranze e i sogni falliti di rivoluzione e libertà istintuale, un nuovo interesse per Gesù. Gli studiosi indicano gli anni di nascita intorno al 1966/1967:, e il momento culminante verso il 1971. Molti "figli dei fiori", delusi dalla droga e dal sesso libero, scoprono in Gesù un nuovo ideale e una maniera originale di vivere liberi e alternativi.

Quello che nel 1971 la rivista internazionale"Time" chiamerà Jesus' revolution, comprende tutti i movimenti giovanili che dal 1967 si diffondono in America dall'ovest all'est e poi passano in Europa: è tutto un arcipelago di movimenti e manifestazioni ambivalenti ed entusiasti, che hanno lo scopo di ritrovare un senso alla vita e di superare nella presentazione di Gesù i vecchi schemi.

3.ALCUNI GRUPPI PIU' NOTI

Il fenomeno è stato studiato e si distinguono alcuni gruppi più significativi:

a. Hippies cristiani. Sono l'ala più dinamica e spettacolare del movimento. Si distinguono: "Jesus people" - "Jesus freaks" - "Street Christians" e altri. Sono fondamentalisti: l'unica via di salvezza è tornare a Gesù e a Dio; entusiasmarsi soprattutto per Gesù, come ce lo presentano i "libri sacri".

b. Straigt People (gente diritta, onesta): è di carattere borghese. Sono giovani inseriti in campus universitari, organizzano grandi manifestazioni, propongono un cambiamento radicale, ma di carattere più che altro intimista.

c. Movimento carismatico: da non confondere con l'attuale "movimento carismatico". E' una frangia che cerca di valorizzare nella vita cristiana il dono dello Spirito santo e il ruolo dei carismi

Possiamo anche aggiungere i Children of God, che deriva dagli hippies, ma è finito in sètta.

4.OSSERVAZIONI

Tutto il fenomeno è interessante, anche se oggi ormai è superato. Si tratta di un Dio sperimentabile in diretta, cosmico, che si può vedere in faccia. I suoi effetti però perdurano, in quanto ha messo in circolazione la "protesta" contro il Cristo "ecclesiale" definito e congelato in schemi intoccabili e monopolizzato dalle chiese.

Sottolineiamo alcuni aspetti peculiari, circa la figura di Gesù, che:

- Appare come simbolo di un senso pieno e totale della vita: come amico, uomo libero, capace di emozioni comuni, controcorrente;

- E segno della gioia di vivere, del primato della prassi sopra gli schemi teorici, della festa e dell'utopia (rimane dimenticato/rimosso il fatto doloroso della sua morte);

- E via per un contatto immediato con il divino: e ciò porta all'entusiasmo, all'attesa collettiva del suo ritorno. Amare Cristo è entrare nell'avventura della sua attesa;

- Appare come profeta in difesa dell'uomo, di tutti gli uomini, specialmente dei socialmente emarginati, di coloro che sono alla deriva sociale.

5. ALCUNI LIMITI

Non mancano però dei problemi che bisogna sottolineare:

  • Indifferenza per la divinità di Gesù;
  • Superamento della relazione tra Cristo e la sua chiesa attraverso gli "strumenti salvifici" l'essere "chiesa" si riduce al fare esperienza "insieme";
  • Prevalenza dell'emotivo, dell'irrazionale, della soddisfazione dei bisogni di gratificazione, ricerca di "consolazione" dopo il crollo dei miti e dei progetti collettivi che si sono rivelati un fallimento (per es. Vietnam, New Deal, ecc.).

Comunque sta di fatto che attraverso questo movimento Gesù è diventato un prodotto di consumo, rompendo il "monopolio religioso/chiesastico" della sua figura e del suo messaggio. Questa dilacerazione dei confini antecedentemente riconosciuti - cioè la proprietà della figura di Cristo riservata alle organizzazioni "costituite" - è una delle matrici dell'attuale fede in Cristo ma non nella chiesa.

III

... Nella cultura

Il nostro secolo è forse uno dei più ricchi di presenza cristologica nella letteratura e nello spettacolo. Basterebbe citare dei nomi come: Mauriac, Papini, Bulgakov, Dostoiewsky, Green, Böll. Bernanos, Dürrenmatt.

Chi non conosce i nomi e le opere famose di Pasternak (Doctor Zivago), Burgess (L'uomo di Nazareth; originale Jesus Christ and the Love Game), Silone (L'avventura di un povero cristiano), Messori (Ipotesi su Gesù)? Oppure Lettere di Nicodemo di Dobraczynski, Una favola di Faulkner, Getsémani di Saviane, Il grande pescatore di Douglas?

Salvo qualche eccezione, non si tratta di opere esplicitamente dedicate a Gesù, ma piuttosto all'esperienza di odissea, di smarrimento, di misterioso viaggio di ritorno alle sorgenti, ai significati primari, alla salvezza oltre il vuoto e il fallimento o la morte. Si definiscono come testimonianze sul Jesus redivivus.

Per un primo orientamento in tutto questo settore ci appare interessante da segnalare la duplice antologia di J. Imbach su Dio e su Gesù Cristo nella letteratura contemporanea. In questo secondo testo egli studia una trentina di autori (romanzieri), riportandone anche dei testi suggestivi, e analizzando il contenuto delle opere secondo sei categorie interpretative: romanzi tradizionali su Gesù, rispecchiamenti, tracce, attualizzazioni, atteggiamenti, istantanee.

Ancora un filone interessante che sarebbe da analizzare nel campo della letteratura è quello dell'epica e del simbolico, come si trova per esempio nelle opere letterarie di E Kafka, Thomas Mann, J.R.R, Tolkien, J. Barth.

Per gli spettacoli e i films: fin dalle origini dell'arte cinematografica si trovano opere su Gesù Cristo: nella linea tradizionale, perché non si osava andare oltre i canoni della religiosità diffusa. Spettacoli tradizionali si sono realizzati anche nei tempi a noi più vicini: esempio Il Re dei re, La tunica, il segno della croce. Ma chi non conosce le opere di Bresson, Au hazard, Balthazar, o Nazarin di Buňuel?

Una menzione a parte meritano alcuni lavori cinematografici:

- Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1965), da leggersi in legame con La ricotta (1962). Gesù è il profeta del sottoproletariato, Pasolini ha in mente il suo Friuli, la religiosità e la mentalità dei friulani dove lui era cresciuto. E' un Gesù rigoroso, tagliente, anti-sistema.

- Il Messia di Rossellini (1975): è un Gesù modesto e comune, dalla parola sapiente; ma non sembra affatto essere il salvatore atteso.

- Gesù di Nazareth di Zeffirelli (1977). Il giudizio su questo lavoro non è unanime. E' certo un Gesù familiare, in cui molti si ritrovano. Predominano delle scene raffinate ed eleganti nelle immagini. Non abbiamo accenti di reazione violenta contro i potenti. Sembra che il mistero sia appiattito e semplificato a livello di romanzo per il grosso pubblico.

Un'osservazione generale: tutti oscillano fra l'introspezione dei sentimenti più genuini di un personaggio così misterioso e la spettacolarità plateale e a volte decadente o kitsch. Al di là delle molte critiche che si possono fare, è certo che tali spettacoli fanno grande effetto sul pubblico. Inoltre si deve sottolineare che spesso le tendenze teologiche o culturali del momento si riscontrano nei prodotti, in maniera spesso fin troppo evidente: così è stata per la polemica antiborghese. per il superman, per l'uomo affascinante e misterioso, per il ribelle contro l'abuso del sacro, ecc.

Un caso a parte è costituito dalla Sindone: le ricerche scientifiche di questi anni, specialmente dopo la sua "esposizione" nel 1977/'78, ne hanno fatto un elemento di spettacolarità del tutto originale. Dobbiamo tener presente che non è tanto in gioco il "mistero" della morte del Signore, quanto la possibilità di poter "ricostruire" la sua immagine, con tutte le risorse tecniche attuali: ciò è molto conforme all'attuale cultura dell'immagine. Anche Dio diviene "immagine" suggestiva e reale, sia attraverso il cinema, che attraverso la traccia della Sindone".

... nei movimenti ecclesiali

Uno dei fenomeni più interessanti e fecondi della vita della chiesa negli ultimi vent'anni è il moltiplicarsi di gruppi, di movimenti, di associazioni: con vari interessi ecclesiali e differenti modalità di approccio all'esperienza religiosa e all'incontro con Cristo. Nella storia della chiesa il fenomeno di questo genere si è ripetuto altre volte: e sempre in situazioni di transizioni culturali, di ripensamento sulle vecchie formule e di creazione di nuove sintesi vitali. In ognuno di questi tornanti storici, questi gruppi e movimenti hanno dovuto anche misurarsi col "volto ereditato di Cristo" e quindi inventare nuove vie di approccio al suo mistero e alla sua sequela. Così è stato nei secoli III e IV, XII e XIII, XV e XVI, XIX e XX.

Molto si parla e anche si discute circa la "funzione ecclesiale" di queste nuove esperienze di apostolato, di evangelizzazione o di spiritualità. Molto meno si studia la differente prospettiva teologica - nel nostro caso cristologica - che li anima. Sarebbe invece un campo molto interessante, anche se molto difficile da esplorare data la reticenza e la "segretezza" che molti fra essi praticano per quanto riguarda lo schema teologico di tutta l'esperienza. Si conosce solo quello che gli stessi movimenti "permettono" che filtri. Quindi non sempre si tratta di elementi oggettivi e sostanziali.

Facciamo qualche accenno alla "cristologia " fenomenologicamente prevalente nei vari gruppi (alcuni solo).

- Rinnovamento carismatico: Gesù è soprattutto il Risorto, il Signore vivente e veniente, suo dono prezioso è lo Spirito con i carismi; egli comunica a noi anche il potere contro il "male". L'assemblea di preghiera (schema centrale) è una esperienza di lode al Signore nella gioia e in clima di attesa dei suoi doni di luce e di grazia.

- Neocatecumenato: il centro dell'annuncio del kerigma è Gesù Cristo, colui che è Parola totale, adempimento delle promesse, padrone della nostra vita. C'è una centralità dell'esperienza pasquale come è stata vissuta dal popolo ebreo e da Cristo stesso: il credente se ne deve appropriare. La croce, la sofferenza, il "servo" sono enfaticamente sottolineati. La "comunità" si riunisce attorno alla Parola e alla pasqua.

- Comunione e liberazione: Gesù Cristo è un "Qualcuno" che si è incontrato, che ci prende per mano, che ci dà la possibilità di una storia nuova. ci "pianta" in una storia nuova. Nella chiesa si vive e si cammina per una conoscenza reciproca in lui e per una presenza specifica caratterizzata e fondata sulla sua presenza . La comunità ecclesiale è sua presenza in mezzo alla storia.

- Comunità ecclesiali di base (CEB): al di là della loro molteplicità e diversità, possiamo notare questi elementi che le caratterizzano come "presenza di Cristo": l'ascolto della Parola, la centralità dell'eucaristia, la sottolineatura dei titoli cristologici: povero, emarginato, servo, paziente, profeta, sapienza del popolo, testimone di pace e giustizia, liberatore.

- Focolarini: sono noti alcuni elementi come: "Gesù in mezzo", Gesù abbandonato, la meditazione della "parola di vita".

- Cursillos de cristiandad: loro scopo è dare all'adulto battezzato la possibilità di riascoltare il lieto annunzio del Vangelo del Signore, e di poterlo vivere in comunità attraverso incontri periodici e verifiche (ultreya, per es.).

- Movimento oasi: si propone di far vivere all'insegna del cristianesimo "senza sconti"; chiede di servire Cristo, essere disponibili per Cristo, consegnarsi a Cristo, rispondere sì a tutto quello che dice, che fa, che chiede, comunque lo chieda; e servire gli altri, tutti gli altri.

- Comunità dell'arche (di J. Vanier): condividere la povertà e l'infelicità del povero e del minorato psichico e fisico, nel quale è presente Gesù.

- Fraternità Charles de Foucauld: privilegiano specialmente alcuni elementi dell'esperienza storica di Gesù di Nazaret: Betlemme, Nazaret, la croce (salvatore nella sofferenza e nell'abbandono). La centralità dell'adorazione eucaristica nella semplicità è un'altra caratteristica nota.

- Gruppi di volontariato (es. in Italia Gruppo Abele, Capodarco, ecc.): Gesù è sentito come l'amico dei poveri e degli esclusi, il "simbolo" di tutti gli ultimi dei senza dignità. La sua dimensione umana concreta (uomo povero, fuori delle sicurezze, affidato a Dio) è molto accentuata. Vi è anche la ricerca di un senso totale della vita al servizio dei suoi "poveri".

Osservazioni: come si può notare, ogni gruppo o movimento - seppure attraverso differenti accentuazioni - persegue un suo approccio all'esperienza di Gesù Cristo. Alcuni sono più a carattere misticheggiante, altri più a carattere sociale: ma tutti fanno asse portante sulla sequela di Cristo, in un contesto di comunità, di evangelismo più o meno fondamentalista, con alcune accentuazioni ecclesiali specifiche, oscillando tra solidarietà con gli ultimi e "comunità calorosa".

Questa ricchezza di esperienze e di itinerari può considerarsi oggi un fenomeno interessante e forse anche una provocazione per tutti gli schemi di spiritualità, che sono accentuatamente individualisti, e mancano più o meno vistosamente della dimensione comunitaria, del riferimento alla dimensione ecclesiale al mistero, dell'attenzione intelligente alla storia, specie la storia dei "senza dignità".

Si può anche notare che delle dimensioni costitutive e permanenti del mistero cristiano (trinitaria - ecclesiale - biblica - dogmatica - storica - antropologica - escatologica) questi movimenti ne mettono in rilievo soprattutto alcune, anche se centrali:

- ecclesiale: tutto ciò che è chiesa è generato dalla forza/presenza di Cristo;

- antropologica: Gesù Cristo rinnova dal profondo l'uomo e lo "spiega" (cf. GS 22);

- storica: ogni approccio a Cristo deve essere "contestuato" per essere vero.

Delle altre dimensioni solo alcuni accentuano quella biblica. Problema, in particolare, ci sembra facciano:

- La mancanza di approfondimento del contesto storico-sociale del Cristo, per cogliere la forza del cambio e il senso "innovativo" di certe sue maniere di fare. Di fatto nei movimenti spesso Cristo è destoricizzato;

- L' eccessiva preoccupazione "ecclesiocentrica": per esigenze di farsi "riconoscere" e ottenere l'approvazione. Pare che la maggiore preoccupazione sia quella di essere "del numero" di quelli che sono lodati e "invitati" nelle occasioni solenni.

Si è trattato sin qui di un universo disorganico, pervaso da fermenti, ma anche da mode, consumista, ma anche tormentato da inquietudini. ricco (di entusiasmi e giovanilismo, ma anche alla ricerca dei significati meno effimeri.

Tuttavia già ci consente di affermare la centralità della figura di Cristo nella nostra stagione culturale ed ecclesiale. E allo stesso tempo tutto ciò postula una verifica, a più ampio raggio, della stessa centralità, attraverso lo studio dei grandi gruppi religiosi, le grandi correnti ideologiche, i principali protagonisti del discorso religioso, in particolare nell'ambito cristiano.

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Riflessioni sul progresso
di Pierre Teilhard de Chardin





Oggi è diventato “di moda” schernire o sospettare tutto ciò che assomiglia a una fede nell’avvenire.

Dubbio mortale, se si fa ben attenzione, poiché tende direttamente ad uccidere, assieme al gusto di vivere, la forza viva dell’umanità.

Ben fondati nella storia generale del mondo, quale la paleontologia ce la fa conoscere, per un intervallo di trecento milioni di anni, noi possiamo, senza smarrirci nei sogni, affermare le due seguenti proposizioni:

a) In primo luogo l’Umanità lascia ancora apparire in sé una riserva, un potenziale formidabile di concentrazione, cioè di progresso. Pensiamo all’immensità delle forze, delle idee, delle persone non ancora scoperte o captate o sintetizzate… “Energeticamente” o biologicamente, il gruppo umano è ancora giovanissimo, freschissimo.

b) La Terra è ben lungi dall’aver terminato la propria evoluzione siderale. Possiamo certamente immaginare ogni sorta di catastrofi capaci d’interrompere bruscamente questo splendido sviluppo. Ma da trecento milioni di anni la vita si eleva paradossalmente nell’improbabile. Non è forse questa un’indicazione che essa progredisce sorretta da una qualche complicità delle forze motrici dell’Universo?….

La vera difficoltà posta dall’Uomo non è di sapere se costui rappresenti la sede di un progresso continuo, ma piuttosto di sapere come questo progresso potrà continuare a lungo alla stessa velocità senza che la vita esploda o faccia esplodere la Terra sulla quale è nata. Il nostro mondo moderno si è fatto in meno di diecimila anni; e in duecento anni è cambiato più rapidamente che durante tutti i millenni precedenti.

Il Progresso, se dovrà continuare, non si farà da solo. L’evoluzione, per lo stesso meccanismo delle sue sintesi, si carica sempre più di liberta.

Quali debbono essere, in pratica, le nostre disposizioni rispetto a questa marcia in avanti?

Io ne vedo due che possono essere riassunte in cinque parole: una grande speranza in comune.

a) Una grande speranza, in primo luogo. Essa deve nascere spontaneamente in ogni anima generosa in presenza dell’opera stessa; e rappresenta anche lo slancio essenziale senza il quale nulla potrà farsi. Un gusto appassionato di crescere, di essere, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Via dunque i pusillanimi e gli scettici, i pessimisti e i tristi, gli stanchi e gli immobilismi!

b) In comune. Anche su questo punto, la storia della Vita parla in modo deciso. Una sola direzione fa salire; quella che conduce a una maggiore sintesi e a una maggiore unità per mezzo di una maggiore organizzazione. Via, quindi, anche qui, i puri individualisti, gli egoisti che ritengono di potersi sviluppare escludendo o diminuendo i loro fratelli, individualmente, razionalmente o razzialmente. La Vita porta verso l’unificazione. La nostra speranza sarà operante solo se si esprimerà in una maggiore coesione e in una maggiore solidarietà umana.

L’avvenire della Terra è nelle nostre mani. Che cosa decideremo? Una scienza comune ravvicina soltanto la punta geometrica della intelligenza. Un interesse comune, per quanto appassionato possa essere, non congiunge gli esseri che in modo indiretto, e in un Impersonale spersonalizzante.

Noi non abbiamo bisogno di un testa a testa o di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore.

Il principio generatore della nostra edificazione non deve essere ricercato, in ultima analisi, nella sola contemplazione di una medesima verità, e neppure nel solo desiderio suscitato da un qualche cosa, ma nell’attrazione comune esercitata da un Qualcuno, identico per tutti.


Estratti di una conferenza tenuta a Pechino, all’Ambasciata di Francia il 3 marzo 1941.

N.B. Questo testo si trova in: L’avvenire dell’Uomo, Opere vol. VI, Milano il Saggiatore 1972, pp. 103-130 passim.

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In una società che tenta disperatamente di esorcizzare il terrore della morte si fa strada una superficiale riscoperta delle filosofie orientali che ignora come la reincarnazione sia in realtà una “disgrazia”. Molti reincarzionisti finiscono per arruolarsi nelle truppe degli gnostici che negano ogni valore alla fede.

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