In ricordo di P. Franco

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Venerdì, 01 Luglio 2005 22:49

La morte accolta (Xavier Léon-Dufour)

La morte accolta
di Xavier Léon-Dufour S.J.

 

E' semplice, anche per chi crede nell'aldilà, accogliere la morte? Sono numerosi quelli che non esitano a proclamarlo (ancora recentemente alla televisione ho sentito dichiarare: " Quando c'è la fede, si guarda la morte in faccia, senza paura"). Permettetemi di dubitare di una tale sicurezza, non solo perché viene da persone lontane dall'avvenimento, ma anche perché contraddice i dati del vangelo e perché tende a fare della morte un problema da risolvere, quando invece essa è un mistero davanti al quale dobbiamo umilmente prostrarci.

Si tratta forse semplicemente di "accettare" la morte come ci si rassegna di fronte ad una fatalità? In tal caso dovrei collocarla tra le realtà della condizione umana nella quale mi trovo: razza, situazione sociale, sesso. Ma questa assimilazione della morte alle realtà precedenti è illusoria, perché solo la morte è universale, riguarda tutti gli uomini, anche se si cerca dl eluderla. E' una legge assoluta alla quale tuffi gli uomini sono soggetti. E' sufficiente rassegnarsi, stoicamente, senza sognare un "altrove" che potrebbe deludere?

La mia esposizione verrà sviluppata in tre punti:

I) La morte, disgregazione del mio corpo.
2) La morte, separazione da quelli che amo.
3) La morte secondo la fede cristiana.

1. La morte, disgregazione del mio corpo

La morte mi appare prima di tutto come la disgregazione del mio corpo. B' questa la nostra esperienza, evidente. Per comprendere tale constatazione non serve ricorrere alla definizione dell'uomo come un composto di anima e di corpo dalla quale dedurre che il corpo, assimilato alla materia che noi conosciamo, imputridisce nella terra. Tale definizione infatti potrebbe essere contestata e io preferisco ascoltare il bambino.

M'ispiro per questo punto da una conferenza tenuta anni fa dal dottor Donnars all'Università Popolare di Parigi davanti ad un pubblico per il quale la fede non sembrava essere la principale preoccupazione.

Il bambino fa l'esperienza di un certo numero di tabù: il tabù del sesso, il tabù del denaro ed infine il tabù della morte. Quest'ultimo si manifesta in molti modi, per esempio nell'interesse che suscitano gli escrementi umani in quanto sono la rappresentazione sensibile della presenza nel bambino del rigettato, del disintegrato, della morte. Il tabù della morte si manifesta ancora negli incubi notturni che spaventano il bambino nel sonno; egli si vede alle prese con bestie terribili che vogliono dilaniarlo. Se allora il bambino delira fino ad avere la febbre, se urla di paura è essenzialmente perché si sente incapace di difendersi da solo contro tali attacchi: ha paura di essere fatto a pezzi, dilaniato, distrutto. Perché? Perché di fatto egli non ha ancora una vera personalità, un "io" che lo faccia esistere di fronte agli altri. Così pure quando si rivolge alla mamma con un "tu" è perché si sente chiamare così, Il suo io non è per lui che un tu. L'esperienza del bambino ci mette veramente di fronte a quello che è la morte, vista come disgregazione subita del proprio corpo.

Il bambino, accedendo all'io, finisce ceno per controllare il suo corpo7 per rendersene padrone. Ed è proprio qui che inizia per l'adulto la difficoltà di fronte alla morte. Se il bambino "muore" di paura di fronte all'immaginario, l'adulto invece si crede capace di superare questi incubi grazie all'autonomia che pensa di aver acquisito diventando padrone del suo corpo. L'adulto cercherà quindi di difendere questo corpo che è lui stesso di fronte agli attacchi esterni. Qual è la conseguenza per quanto riguarda 10 sguardo sulla morte? La morte appare come l'obbligo ineluttabile di abbandonare un giorno il proprio corpo, di lasciarlo, di disfarsene, sradicamento doloroso che devo affrontare. Ma è questa l'unica comprensione che posso avere del corpo e della morte?

Con quale diritto infatti assimilo il mio corpo ad una cosa che possiedo personalmente? Il corpo non è piuttosto lo stesso universo che mi include, senza dubbio, ma che è anche messo a mia disposizione perché possa esprimermi ed entrare in relazione, in comunicazione con gli altri uomini e con tutto il creato? Allora il corpo, senza posa collegato con l'universo in divenire, mi appare essenzialmente soggetto al cambiamento: non è forse vero che si rinnova ogni giorno ( più di 50 milioni di cellule, si dice) e nella sua totalità ogni 7 anni ( da i a 7 il bambino, da 7 a 13 l'età di grazia, dai 13 ai 20 l'età così detta ingrata, l'età adulta dopo i 21 e la famosa modificazione dei 7 x 7 anni, cioè i 49 anni)? Perché allora non abituarmi a considerare il mio corpo come il luogo stesso della mia trasformazione, come se attraverso il mio corpo io tendessi ad uno sviluppo di cui ignoro il termine? La morte non potrebbe essere allora concepita come l'estrema trasformazione del corpo? Ci si trova allora di fronte ad un mondo misterioso o almeno ancora sconosciuto, ma non potrebbe essere questo il parto dell'essere definitivo?

Questo morire viene, è vero, dopo una lenta e progressiva degenerazione. E' questa la nostra esperienza. Ma tale esperienza non ne nasconde forse un'altra, quella di un Io che attraverso, tale trasformazione, mantiene la memoria e il sentimento evidente di una identità? E se così stanno le cose, se noi non siamo semplicemente degli "esseri" fatti una volta per sempre, definitivamente, ma delle promesse di essere, la morte non sarebbe più una semplice decomposizione, ma potrebbe essere una realizzazione. Imparare a guardare bene il proprio corpo, significa imparare a vivere bene, significa imparare a morire. In questo caso, non si deve forse impedire che con azioni talvolta generose, ma spesso intaccate da una sottile illusione filantropica, vale a dire l'eutanasia, mi rubino il "mio morire" che non è una fatalità, ma che deve diventare un atto personale positivo? Se entro pienamente nel mio morire, portando a termine così la mia corsa di uomo libero, allora si può dire che la morte è "accolta".

2. La morte, separazione da quelli che amo.

Ma si può dire la stessa cosa se si considera l'altro aspetto, talvolta sconosciuto e tuttavia caratteristico, vale a dire la morte come separazione da quelli che amo? La morte infatti non riguarda solo il corpo, ma colpisce il cuore. Anche in questo caso il comportamento dell'uomo durante la sua vita determinerà il suo atteggiamento al momento del "morire". Guardiamo di nuovo il bambino. Inizia col considerare gli altri e prima di tutto la sua mamma come sua proprietà, come cosa sua. Facendo così non la considera veramente come un "tu", ma come un "me", come un prolungamento, un complemento il cui scopo è di migliorare la sua esistenza. Questa fase è normale: il bambino infatti acquisisce un po' alla volta la sua personalità appoggiandosi sugli adulti, il suo "io" non può strutturarsi senza questa unione con gli altri. Ma l'atteggiamento deve evolvere per non fissarsi in un egotismo senza sbocchi.

Sono purtroppo numerosi quelli che perpetuano questa dinamica infantile e portano sugli altri uno sguardo captativo e interessato partendo da un io che si è fatto il centro del mondo. E' normale, in tali condizioni, di vedere nella morte la perdita irreparabile di quanti sono stati considerati come dei supponi per la propria realizzazione.

Per fortuna tale atteggiamento si può trasformare e di fatto si trasforma con l'acquisizione della maturità. Non è vero che l'amore consiste nel far esistere l'altro e non nell'accaparrarselo? Un po' alla volta l'adulto deve abituarsi a uscire da sé perché l'altro esista di più, deve vivere in "estasi". L'egotismo che mi caratterizza deve in un certo senso morire e sbocciare in un amore autentico. Se cosi stanno le cose, il "morire" potrebbe diventare un'ultima tappa nella trasformazione del mio rapporto con gli altri.

Tuttavia sussiste una grossa difficoltà che mi impedisce di aderire pienamente a questa proposta. Abbiamo detto prima che l'uomo può adattarsi alla morte concepita come piena realizzazione del corpo. Ma è la stessa cosa per quanto riguarda la morte separazione da quanti amo? E' ceno che, aprendosi sempre di più al mistero dell'amore autentico l'uomo impara poco a poco a dimenticarsi fino all'estasi verso l'altro e progredisce cosi verso la chiamata ad una comunione universale. Io mi chiedo se la pressante domanda di presenza al momento del morire non sia l'espressione di un'esperienza straordinaria di Assoluto che getta in una solitudine paurosa perché l'incontro con l'Assoluto presuppone in un primo tempo la radicale separazione da tutti gli esseri. Da qui il gesto unico da parte di chi accompagna il morente: tenergli la mano

Ma rimane un constatazione terribile e dolorosa: la mia scomparsa non aiuterà l'altro a realizzarsi e meno ancora se il mio amore rispettava il suo essere. Devo confessare che sul piano della psicologia, la morte separazione dagli altri rimane un enigma, Tale enigma, la fede può situarlo a condizione che si esprima in un linguaggio valido.

3. La morte, secondo la fede cristiana.

La fede infatti può essere capita male, o almeno espressa male. Così, per esempio, quando si parla di un aldilà consolante o della richiesta di un sacerdote e di "qualche confessione" liberatrice.

Penso tuttavia che la fede cristiana permetta di capire che cos'è l'incontro dell'uomo con Dio, in che consista per lui la morte. Per far questo bisogna inquadrare il mistero di Dio e il mistero dell'uomo. Dio non è "accanto" a me, e più intimo di me che me stesso, è Colui che è nel cuore del tempo, il solo che fonda la fedeltà dell'amore. Quando amo, è Dio che ama in me; e siccome Dio è padrone della morte, egli mi invita immediatamente a credere che l'amore autentico è più forte della morte.

E l'uomo, è una promessa di realizzazione nel "corpo di Cristo". E qui si trova la risposta all'enigma davanti al quale è posto il moribondo. L'ultima trasformazione, l'ultima nascita nella quale consiste il morire conduce a vivere nel "corpo di Cristo". Cosa vuol dire? Siamo in tal modo ricondotti al mistero, quello del corpo. Se è vero che il corpo non si riduce a un po' di materia, ma se esso è il mezzo materiale e non materiale con il quale ci esprimiamo, ne consegue che l'universo di cui l'attuale corpo fisico non è che una piccola pane, è il corpo per eccellenza, e precisamente è questo corpo che Gesù ha acquisito mediante la risurrezione per la pienezza d'amore manifestata durante la sua vita terrena. Egli ha inaugurato una umanità nuova nella quali gli individui non si distinguono più per la particolarità del loro corpo di quaggiù (quale?), ma ormai a partire da ciò che li caratterizza, cioè dalla loro personalità e questa viene costruita dall'amore ricevuto e dall'amore donato durante l'esistenza sulla terra.

Quanto ho detto non deve dare l'impressione che per me la morte è un problema risolto. Certamente no, perché essa rimane un mistero che prende senso solamente grazie a Gesù il cui atteggiamento di fronte alla morte ci è stato descritto dai vangeli.

Su questo punto, mi permetto di rinviarvi a una mia conferenza pubblicata nel Bollettino della Società di Thanatologia, n. 44, 979, particolarmente alle pp. 47-48, oppure al mio libro "Di fronte alla morte, Gesù e Paolo, ElleDiCi.

Come un prisma diffrange i colori, così i racconti evangelici decompongono l'atteggiamento di Gesù di fronte alla morte che ha per lui due volti. Il "Dio mio, Dio, mio, perché mi hai abbandonato?" di Marco esprime una accoglienza dolorosa: perché essere in balia della morte quando la vita dovrebbe continuare senza questa dolorosa rottura? Perché Dio non Io mantiene in vita, magari a prezzo di qualche violenza? Ma Gesù, pur dicendo la sua situazione, proclama fino alla fine la volontà di essere unito al "suo Dio", e questo è l'essenziale.

L'altro viso della morte è presentato da Luca: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito". Nel suo profondo Gesù accoglie la morte con fiducia perché essa è l'incontro con il Padre. E questo atteggiamento presuppone il rifiuto istintivo della decomposizione brutale.

Infine, secondo Giovanni, Gesù proclama che "Tutto è compiuto". Arrivato al termine della sua esistenza, ha compiuto ciò che il Padre attendeva da lui. La morte è il compimento dell'esistenza nella misura in cui è situata in Dio.

Conclusione

Per terminare, vorrei ritornare sul titolo della conferenza. Accogliere la morte, non vuol dire soltanto accettare con rassegnazione l'avvenimento mediante il quale cesso di vivere sulla terra. La morte non è solo la fine della vita terrestre, essa è la nascita alla vita piena in un corpo nel quale mi esprimerò perfettamente.

Tale conclusione è accettabile al di fiori della fede cristiana? Vorrei invitarvi a distinguere due livelli di comprensione.

Per chi ammette che Dio è amore e che l'amore è più forte della morte, la morte può essere accolta come la nascita a Dio, cioè all'eterno o ancora alla vita piena e definitiva.

Per chi ammette la solidarietà degli uomini tra di loro, la vita "dopo" la morte può sembrare come l'incontro perfetto tra gli uomini e specialmente tra coloro che si sono amati sulla terra. I cristiani precisano questa intelligenza della situazione "dopo" la morte evocando quello che essi chiamano il "corpo di Cristo". Un corpo unico ci deve riunire nel quale ciascuno potrà esprimersi perfettamente ed essere trasparente agli altri. Allora la morte può essere definita come l'accesso alla comunione degli esseri. E queste due dimensioni della morte ricoprono infatti la medesima realtà cioè che in Dio tutti gli uomini sono in comunione perfetta.

Un'ultima osservazione. Se la morte non può essere ridotta all'avvenimento che segna la fine dell'esistenza sulla terra, vuol dire che essa svolge un ruolo nella vita. Precisando che l'uomo dovrebbe un po' alla volta iniziarsi alla trasformazione costante del suo corpo e alla comunione sempre più profonda con gli uomini, abbiamo messo in luce che la "morte" è nel cuore della vita. Dal momento della nascita fino alla fine l'uomo è in movimento in rapporto al suo corpo e in rapporto alle sue relazioni con gli altri. L'amore e la morte sono all'opera sempre, sono le manifestazioni che gli psicologi chiamano "pulsioni di morte", "pulsioni di vita". Spetta a noi fare in modo che sia la pulsione di vita ad avere la meglio. Allora, attraverso la sofferenza e la morte, è la vita che, misteriosamente, si traccia il suo cammino.

(Conferenza tenuta presso la Facoltà Teologica Valdese - Roma, 7 maggio 2005)

Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 15 Giugno 2005 00:11

4) Chiesa e iniziazione cristiana

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


4. Chiesa ed iniziazione cristiana

Con il termine ‘iniziazione’ si indica il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, in genere mediante una cerimonia, un rito che mette in evidenza il significato del passaggio stesso. L’ accento non è posto tanto sull’inizio cronologico, quanto invece sul cambiamento che lo caratterizza. In tal senso si esprime anche il Vangelo, soprattutto nella formula classica di Marco: «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è giunto a voi, convertitevi e credete al Vangelo» (1,15). Per i cristiani questo cambiamento radicale, questa conversione viene compiuta in tre sacramenti fondamentali. A tal proposito così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana. "La partecipazione alla natura divina, che gli uomini ricevono in dono mediante la grazia di Cristo, rivela una certa analogia con l’origine, lo sviluppo e l’accrescimento della vita naturale. Difatti i fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell’Eucaristia, sicché, per effetto di questi sacramenti dell’iniziazione cristiana, sono in grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità"» (1212).

La seconda frase del testo citato è di Paolo VI e si trova nella Costituzione Apostolica del 1971 con la quale si riformava il rito della iniziazione cristiana degli adulti.

 

4.a. Necessario riferimento alla Chiesa

E’ singolare che nella presentazione dell’iniziazione non si faccia esplicito riferimento alla Chiesa, che è il soggetto celebrante di questo passaggio e nello stesso tempo anche la comunità ricevente. Se ne parla evidentemente in altri contesti, ma parlando della iniziazione, l’attenzione è così catturata dall’inserimento in Cristo, che si corre il rischio di dimenticare che comunque esso avviene, sempre, nella mediazione della Chiesa. Di questa vogliamo parlare in modo esplicito, perché non si abbia coscienza che i sacramenti stessi sono celebrati dalla Chiesa, come servizio a Cristo. Si è ricordato quando sono stati presentati i sacramenti, che la Chiesa si pone come sacramento generale della salvezza; in essa i sacramenti ricevono identità e significato, in quanto sono l’azione con la quale la Chiesa realizza se stessa ed il suo compito di salvezza, perché strettamente unita a Cristo, di cui è corpo in senso mistico.

Ne conseguono due cose. L’iniziazione cristiana è inserimento in Cristo e nella Chiesa, contemporaneamente. Ed è quindi partecipazione dell’opera salvifica di Cristo affidata alla Chiesa. Perciò è da registrare su questo punto un’altra annotazione. Fino a tempi recentissimi, come è già stato ricordato, l’attenzione prevalente della teologia e anche della prassi sacramentale era rivolta alla salvezza dell’individuo. Cosa che non bisogna ovviamente dimenticare. Ma, magari con una certa esagerazione, per una salvezza individuale e forse individualistica, non c’è bisogno della Chiesa. Ognuno fa per sé e si riconcilia con il Dio della sua coscienza. Basta un annuncio ed una buona disposizione. È questo il pericolo recondito della Riforma protestante. Si costruisce una fede ed una religione a misura di individuo. Per fortuna le cose sono andate in modo diverso.

 

 

4.b. Oltre ogni individualismo

Ed allora bisogna ricuperare la dimensione ecclesiale della iniziazione, che è quanto dire, ritrovare la sua dimensione cristologica. Nessuno è battezzato per inseguire una salvezza privata, per una grazia che deve tenere per sé solo. Tutti sono battezzati per continuare l’opera salvifica di Cristo nella Chiesa. È questo anche il significato profondo della prudenza pastorale da avere nell’ammettere al battesimo e infanti e adulti. Ne va della credibilità della Chiesa in ordine alla sua missione. In essa e mediante essa si ottiene sicuramente quella salvezza e quella grazia che è all’origine della conversione ed anche all’origine della missione. I due estremi si toccano, perché fanno parte della stessa realtà.

Ciò è tanto più evidente nel sacramento della Confermazione. Dice il CCC:«Rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa. Ci accorda una speciale forza dello Spirito Santo per diffondere e difendere con la parola e con l’azione la fede, come veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarsi mai della sua croce» (1303).

Forse si poteva precisare di più in che cosa consista questo legame più perfetto con la Chiesa, per non lasciare le cose in eccessiva vaghezza. In particolare si poteva evidenziare l’attiva partecipazione del credente alla vita della Chiesa, nella quale assume dei ruoli e dei compiti precisi. Così anche la testimonianza cristiana, nel ricupero della dimensione profetica, poteva essere espressa più esplicitamente come profezia che si vive all’interno ed all’esterno della Chiesa. Comunque gli accenni essenziali ci sono, basta svilupparli ulteriormente.

 

 

4.c. Nella pienezza dell’Eucaristia

Trattando del sacramento dell’Eucaristia, il CCC conclude anche il discorso sulla iniziazione cristiana. «La santa Eucaristia completa l’iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l’Eucaristia partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore» (1322). Il punto di arrivo della conversione cristiana, di questo passaggio ideale del Mar Rosso, dalla schiavitù alla libertà, trova il suo vertice nella celebrazione eucaristica, punto di convergenza di tutta la vita cristiana e della comunità che la celebra.

Il popolo di credenti che è nato dal Battesimo si ritrova e si conosce nella celebrazione dell’Eucaristia. Essa contiene in sé molte cose e riserva una ricchezza che viene riversata un po’ alla volta. Ma delle tante cose importanti che si devono e si possono dire sull’Eucaristia, almeno in questo contesto, non si può tacere il fatto che solo nella celebrazione eucaristica il popolo di Dio si riconosce per quel che è e per quel che è chiamato a fare. Nell’Eucaristia il popolo cristiano sente di essere convocato per vivere una vita, che diventa per se stessa annuncio di Cristo, ed anche progetto di vita. L’attenzione pressoché unilaterale che nel passato si è data alla dimensione cultuale, vera ed autentica, ha però offuscato notevolmente l’altro aspetto, forse più rilevante dell’Eucaristia: il segno sacramentale di una salvezza ‘compiuta’, perché affidata ad un popolo testimone della Nuova Alleanza.

L’Eucaristia, allora, ben oltre gli aspetti strettamente liturgici, per non dire cerimoniali, che vanno ovviamente rispettati, si presenta come l’essere e l’agire ‘politico’ della Chiesa. Con ciò intendiamo la presenza della Chiesa nel mondo come soggetto originale, la sua azione nella città – polis – degli uomini, in vista dei beni definitivi, anche se nella mediazione dei beni intermedi. Puntare in questa direzione, cioè trovare ispirazione ‘civile’ nell’Eucaristia, aiuta senz’altro ad evitare quei corti circuiti nei quali spesso la Chiesa si è scottata nel corso dei secoli.



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Il sacerdozio "laico" di Cristo
e dei cristiani
di Severino Dianich


 



Per gli uomini del suo tempo Gesù era quello che noi diremmo un laico. In realtà con lui è mutata la concezione del sacerdozio, non più legato ai riti, ma all’esistenza, alla vita intesa come oblazione. Questo vale per tutti i credenti in Cristo. Lungo la storia, però, i cristiani laici sono stati privati del loro carattere sacerdotale. Ecco com’è possibile recuperarlo.

A chi non avesse molta confidenza con la lettera agli Ebrei o fosse stato indotto da una tradizione esegetica edulcorata a vedervi preannunciato il carattere sacerdotale dei ministri della Chiesa, vorrei consigliare di mettersi con animo spregiudicato di fronte a questo testo, solo a prima vista un po’ enigmatico: "Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio" (Eb 7,12-14).

Una concezione mutata

Basterà un commento elementare per renderci conto di quale rivoluzione abbia operato il Nuovo Testamento sostenendo che Gesù è il grande unico sacerdote del mondo: nel dir questo, tutta la concezione del sacerdozio appare mutata ("Infatti, mutato il sacerdozio...") e di conseguenza c’è anche "un mutamento della legge" che governa il popolo di Dio. Era necessario, diceva il versetto precedente, "che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne". Gesù infatti è un sacerdote di tipo completamente nuovo, tanto che non viene dalla tribù sacerdotale di Aronne, ma discende dalla tribù di Giuda: egli infatti non si è mai rivestito dei paludamenti sacri, non è mai entrato nel santuario, mai ha compiuto i riti sacerdotali della legge.

Dal punto di vista socio-religioso e giuridico, in termini contemporanei potremmo dire: Gesù era un laico. Per l’autore della nostra lettera quest’idea era tanto importante che, lungo tutta la sua scrittura, egli neppure nomina l’unico gesto rituale di Gesù che si sarebbe potuto interpretare come un gesto sacerdotale: cioè il rito del pane e del vino della sua ultima cena. Egli ci vuol trasmettere l’impressione forte che l’antico ruolo sacerdotale della mediazione è tutto concentrato in Cristo e che il sacerdozio di Cristo è tutt’altra cosa rispetto al sacerdozio levitico.

Se nella tradizione cattolica il radicalismo della lettera agli Ebrei è stato attutito e la sua dottrina è stata filtrata dal quadro del sacerdozio gerarchico, ciò è accaduto perché i Riformatori avevano assunto il tema del sacerdozio dei fedeli come loro cavallo di battaglia e ne avevano impugnato l’imponenza per ridimensionare, quando non per demolire, il sacerdozio dei preti e dei vescovi.

Oggi però sentiamo il bisogno di valorizzare il carattere e le funzioni sacerdotali del popolo di Dio e di quella parte dei cristiani che ne costituisce la stragrande maggioranza, cioè i cristiani laici.

Il Nuovo Testamento

A questo proposito il Nuovo Testamento spazza via il falso problema che invece tante volte domina le nostre discussioni: non si tratta di attribuire ai laici un ruolo maggiore nella liturgia e nella vita interna della comunità. Si tratta, invece, di prendere sul serio il fatto che la concezione fondamentale del sacerdozio è mutata e che il primo campo del suo esercizio non è la liturgia: l’opera salvifica di Cristo non è consistita nell’invenzione di nuovi riti, bensì nella sua vita vissuta come oblazione totale al Padre al servizio degli uomini, dal suo concepimento nel grembo della Vergine alla sua sepoltura nel seno della terra. Con la sua risurrezione e con il suo ingresso nel "santuario celeste", egli ha portato la sua esperienza di dedizione, vissuta nella sua carne umana, in seno alla divinità. Il suo sacerdozio esistenziale, vissuto nei fatti della vita comune, è ora consegnato ai credenti per il solo fatto di essere credenti e quindi viventi in Cristo: questo è il sacerdozio cristiano fondamentale sia dei preti che dei laici.

Per comprenderne più a fondo la novità, oltre alla meditazione della lettera agli Ebrei, è necessario mettersi di fronte al celebre testo del vangelo di Giovanni (cap. 2), in cui Gesù, dopo aver contestato violentemente il mercato nel tempio, porta il suo discorso ben oltre il problema, un po’ scontato, della commistione fra denaro e preghiera. Interrogato sulla ragione che egli avrebbe potuto accampare per prendersi il diritto di protestare nel tempio, Gesù risponde lanciando una sfida: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2,19). Era come dire che il tempio poteva anche essere distrutto per sempre; la sfida riguardava due realtà: il tempio di pietre che di fatto, dopo due decenni, sarebbe stato distrutto davvero, e quello della sua vita, di lui stesso, che poteva essere tolto di mezzo e ucciso. Dalle rovine di questi due "templi" egli avrebbe fatto sorgere, nuovo, il vero tempio eterno, il suo corpo risuscitato. L’evangelista chiarisce esplicitamente il suo pensiero: "Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?". Ma egli parlava del tempio del suo corpo" (Gv 2,20-21).

All’immagine del tempio farà eco san Pietro: i cristiani sono come pietre poggiate su Gesù a formare il tempio "spirituale", cioè abitato dallo Spirito, nel quale si offrono a Dio vittime "spirituali", cioè azioni animate dallo Spirito (1Pt 2,4-10). All’immagine del corpo si riferirà san Paolo, esortando i cristiani a offrire i loro corpi a Dio, poiché questo solo è il culto ragionevole (logikè latreia, Rm 12,1). Se ne deduce che, come il corpo di Cristo, così i corpi dei cristiani sono il luogo della mediazione sacerdotale fra l’uomo e Dio. Dire "il corpo" significa indicare tutto ciò che l’uomo fa con il suo corpo (camminare, lavorare, parlare, relazionarsi con gli altri, amare, generare, costruire, ecc.) e anche, alla fine, morire. Ebbene, tutto questo nell’esistenza credente, vivente in Cristo, è opera sacerdotale, vera mediazione fra il mondo e Dio: è il sacerdozio laico di Cristo e dei cristiani.

Una concezione riduttiva

Paradossalmente lungo la storia i cristiani laici, almeno di fatto se non nella dottrina, sono stati spossessati del loro carattere sacerdotale e i ministri ordinati se ne sono fatti carico in maniera esclusiva, sacralizzandolo e ritualizzandolo. Si è parlato allora di sacerdozio dei fedeli in un senso spiritualistico, quasi che preti e vescovi fossero sacerdoti davvero, mentre il sacerdozio dei fedeli laici ne rappresenterebbe un riverbero presente nelle loro intenzioni più che nelle loro azioni. Di questa concezione riduttiva il concilio Vaticano II ha fatto giustizia, anche se LG, per una certa sua timidezza al proposito, accentua l’esercizio del sacerdozio da parte dei fedeli nelle celebrazioni sacramentali rispetto alle azioni della vita comune (LG 10s; 34). Pur preferendo la categoria di "apostolato", AA invece sottolinea con forza il carattere sacerdotale dell’impegno dei laici nel mondo: essi "sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo" (AA 3).

Il sacerdozio dei laici sarà, quindi, un sacerdozio a tutto campo. In maggioranza sposati, vengono consacrati alla vita coniugale e familiare con il sacramento del matrimonio. A differenza dei chierici e dei religiosi esercitano un mestiere o una professione che li inserisce nella vita sociale. Come cittadini assumono le loro responsabilità sociali e politiche dentro la società civile. Come membri del popolo di Dio hanno il carisma (derivato dal battesimo) e hanno il diritto e il dovere (sancito anche dal Codice di Diritto Canonico) di evangelizzare, comunicando la fede alle persone con le quali entrano in contatto: sono quindi il soggetto ecclesiale di base, attraverso il quale la Chiesa compie la sua missione nel mondo. La loro vita, vissuta nella fede alla sequela di Cristo, nella dedizione ai fratelli per amore di Dio e degli uomini, è il primo ed elementare servizio che la chiesa rende agli uomini per la gloria di Dio in vista del suo Regno (vedi AA 4).

Alcune conseguenze

Se il grande tema del sacerdozio comune è diventato lungo la storia un aggrovigliato problema, lo si deve al fatto che, quando si è ritenuto che ormai tutto il mondo (che poi era solo la parte di mondo che in questo o quel tempo era conosciuta) fosse diventato cristiano, è sembrato che la Chiesa non avesse più di fronte a sé un destinatario della sua azione. Si è quindi trasferita la dinamica della mediazione all’interno del corpo cristiano, sostituendo all’idea del popolo cristiano come mediatore fra Dio e il mondo la figura del clero come mediatore fra Dio e il popolo cristiano.

A questo si è aggiunto un processo di ritualizzazione del ministero cristiano, per il quale i sacramenti delle celebrazioni rituali hanno preso la prevalenza sul sacramento dell’esistenza, declassando le opere del cristiano (che pur sono segno e strumento della grazia di Dio) ad attività profana, da svolgere in obbedienza ai comandamenti, ma priva di valore salvifico per il mondo.

La soluzione, perciò, del problema del laicato non va cercata nell’attribuire ai laici nuove e ulteriori funzioni all’interno della comunità, bensì in una maturazione dell’autocoscienza ecclesiale, per cui la Chiesa senta e viva come suo tutto ciò che i laici operano nel mondo, tanto quanto sente e vive come suo ciò che fanno i ministri ordinati: questo è, infatti, il primo e fondamentale esercizio del suo sacerdozio.

A livello teorico bisogna superare l’idea che l’azione dei laici nel mondo non è azione della Chiesa: essa non ne resterebbe determinata né in alcun modo ne sarebbe responsabile. A livello pratico si tratta di far rifluire all’interno della comunità quanto i laici operano nel mondo: la vita di una comunità parrocchiale ha bisogno di lasciarsi determinare a fondo dalle esigenze della missione vissuta dai laici nel mondo.

Se i consigli pastorali fossero rappresentativi non solo delle attività interne alla comunità, ma anche delle professioni e delle posizioni tenute dai laici nel mondo, la Chiesa sarebbe molto più capace di integrarsi nella società e di servirla in ordine alla comunicazione della fede e cooperando al bene comune.

Lo stesso esercizio del magistero potrebbe e dovrebbe lasciarsi determinare, per esempio in materia di morale coniugale e in ordine alle responsabilità politiche della Chiesa, dall’esperienza di fede di coloro che, in forza dei sacramenti del matrimonio e del battesimo, sono dotati in questi ambiti di loro specifici carismi.

(in Vita Pastorale, dicembre 2003)

Pubblicato in Teologia
Domenica, 08 Maggio 2005 19:37

Una Chiesa per il Regno (Jacques Dupuis)

Una Chiesa per il Regno
di Jacques Dupuis



Il testo che viene pubblicato riprende alcuni passi di due lezioni tenute da padre Jacques Dupuis al seminario del Pime di Monza nel 1999. Ci si è basati sulla trascrizione del lungo intervento realizzata da Massimo Cattaneo, missionario del Pime in Bangladesh. Quel testo, destinato ad uso interno e non rivisto dall’autore, aveva uno stile "parlato" che è rimasto, nonostante lievi aggiustamenti, anche nella presente versione. Viene offerto quale contributo per capire in profondità il pensiero del teologo scomparso.

Il pluralismo religioso non è una situazione di oggi. Però il problema ha ormai dimensioni molto più vaste che in passato e pone domande molto più scottanti. Qual è il piano divino per l’umanità? Abbiamo sempre creduto e pensato che il mondo era destinato da Dio a diventare esplicitamente cristiano. È vero questo? Lo possiamo ancora credere, quando si vede come si sta sviluppando? Se a tale domanda la risposta dovesse essere di no, qual è il significato della missione, allora? Perché dobbiamo ancora annunziare Gesù Cristo? Quale è il ruolo del cristianesimo e della Chiesa in questo contesto di pluralismo religioso?

La grazia di Dio, che è sicuramente una, è visibilmente mediata in diversi modi. Dunque il mistero di salvezza rimane uno, è il mistero di Cristo. Ma questo mistero è presente agli uomini e alle donne al di là dei confini del cristianesimo. Nella Chiesa la comunità escatologica è presente apertamente ed esplicitamente, nella piena visibilità della sua completa mediazione, concretamente attraverso la proclamazione della Parola, del Vangelo e attraverso l'economia dei sacramenti al cui centro è l'Eucaristia. In altre tradizioni religiose è presente il medesimo mistero di salvezza in Gesù Cristo, ma lo è in maniera implicita, nascosta, in virtù di un modo incompleto di mediazione costituito da queste tradizioni. È molto importante comprendere chiaramente la differenza essenziale che interviene tra questi due modi di mediazione del mistero di salvezza. Detto che il mistero della salvezza in Gesù Cristo non soltanto opera attraverso una mediazione della Chiesa, ma anche attraverso una mediazione delle altre tradizioni religiose, viene spontanea la domanda: ma allora perché dobbiamo stabilire la Chiesa?

È importantissimo vedere chiaramente la distinzione tra la mediazione di salvezza nella Chiesa e quella nelle altre tradizioni. Infatti, un conto è ricevere la parola di Dio, la parola che Dio dice agli uomini attraverso la mediazione dei saggi che l'hanno ascoltata nel fondo del loro cuore e hanno trasmesso ad altri la loro esperienza di Dio, un altro conto è ascoltare la Parola decisiva che Dio dice agli uomini nel suo Figlio incarnato che rappresenta la pienezza della rivelazione, cioè la Parola contenuta, la Parola della Parola (il Verbo è la Parola), contenuta nel Nuovo Testamento. Ugualmente, un conto è entrare in contatto con il mistero di Cristo attraverso i simboli e le pratiche rituali che nei secoli hanno dato sostegno e forma visibile alla risposta di fede degli uomini e al loro impegno verso Dio, un altro è incontrare lo stesso mistero ripresentato ("ri-presentare" è far presente di nuovo, proprio quello il significato dell'Eucaristia), nella piena sacramentalità degli atti simbolici istituiti da Gesù Cristo e affidati da lui alla Chiesa.

Per esempio, tra i sanscara (i sacramenti dell'induismo) e i sacramenti cristiani vi è una grande differenza. I primi non sono quelli istituiti da Cristo, questi ultimi invece sì; con questi abbiamo noi la certezza, attraverso la fede, di incontrare il mistero di salvezza che vi è "ri-presentato" per noi.

Infine, un conto è fare l'esperienza e vivere il mistero di Cristo inconsapevolmente e in modo nascosto, senza la chiara coscienza dell'infinita condiscendenza che Dio ci ha dimostrato nel Figlio e senza la piena conoscenza della serietà con cui in Lui si è abbassato verso di noi; un altro è riconoscere il mistero nell'umile condizione umana dell'uomo Gesù, nella sua vita, nella sua morte e nella sua resurrezione, nella piena consapevolezza che in questo uomo Dio è venuto personalmente incontro a noi al nostro livello. Cosa ne deriva riguardo al molo della Chiesa e riguardo alla sua missione? Come essere Chiesa nel contesto attuale di pluralismo religioso?

Una prima considerazione. È il Regno di Dio ad essere al centro dell'annunzio del Gesù storico. Sembra un po' strano, ma il Regno di Dio fra i teologi è stato negli ultimi decenni una grande riscoperta. Ciò che è al centro dell'annunzio dei Gesù storico è proprio il Regno di Dio. Nei Sinottici la parola Chiesa si trova due sole volte. il Regno di Dio invece è dappertutto. Non vuol dire che Gesù non abbia voluto la Chiesa: infatti ha dato autorità ai dodici in quel movimento che stava instaurando e che sarebbe diventato la Chiesa attraverso il mistero della Pentecoste. E i dodici diventeranno gli apostoli. Ma rimane comunque il fatto che al centro dell'annuncio di Gesù vi è il Regno di Dio. Gesù lo annuncia non soltanto come vicino, ma lo annuncia come presente, instaurato da Dio proprio in Lui, nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi gesti. Questo è importantissimo, perché altrimenti diremmo anche noi ciò che affermano i cosiddetti "pluralisti" e cioè che, mentre Gesù era regnocentrico, la Chiesa apostolica è diventata cristocentrica: Gesù annunciava il Regno di Dio, la Chiesa ha annunciato Cristo, cambiando il messaggio di Gesù.

Dunque, il Regno di Dio è veramente al centro dell'annuncio di Gesù. La Chiesa viene istituita da lui al servizio del Regno; la Chiesa troverà la sua ragion d'essere nel Regno di Dio.

Secondo il Nuovo Testamento la Chiesa non è da identificare con il Regno di Dio. Ma nella teologia recente rimane questa distinzione? Oppure vi è identificazione? La teologia prima del Vaticano II molto chiaramente ha identificato la Chiesa con il Regno di dio già presente nel mondo.

Tale identificazione li si trova nella Mistici corporis di Pio XII, ma non è stata ripresa dal Vaticano II. E la famosa parola "subsistit" della Lumen gentium (il mistero della Chiesa istituita da Cristo "subsistit", "sussiste" nella Chiesa romana cattolica) è stata scelta proprio per non ribadire l'identificazione, per ammettere cioè che, pur essendo in modo più perfetto presente nella Chiesa romana cattolica, la Chiesa istituita da Gesù Cristo è presente, sebbene in modo imperfetto, anche nelle altre comunità cristiane e Chiese, non soltanto ortodossa. Dunque: nel Vangelo sembrava chiara la distinzione fra il Regno di Dio e la Chiesa. Per la teologia, attraverso i secoli fino al Vaticano II, la Chiesa viene identificata con il Regno presente: non c'è da meravigliarsi se questa teologia così comune sia entrata anche nel Concilio.

Un recente documento ufficiale del Magistero opera una distinzione fra Chiesa e Regno presente nella storia: è l'enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. Al n. 20 dice: la realtà incipiente, cioè storica, del Regno (dunque il Regno per quanto già presente nella storia) può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa, nell'umanità intera, nella misura in cui questa viva i valori evangelici e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole. Ma bisogna subito aggiungere che tale dimensione temporale (storica) del Regno è incompleta se non è coordinata con il Regno di Cristo presente nella Chiesa e proteso alla pienezza escatologica. Vale a dire, se capisco bene, che il Regno di Dio è presente al di là della Chiesa, dunque non si può identificare il Regno di Dio con la Chiesa: il Regno di Dio è presente dove sono presenti e operano i valori evangelici. dei quali la Chiesa non ha il monopolio. Però rimane che il Regno di Dio è presente in modo qualificato, privilegiato, più completo nella Chiesa e occorre sempre ricordare che il Regno di Dio è orientato nella storia verso la sua pienezza escatologica.

Questo a me sembra fondamentale per una teologia delle religioni e per una prospettiva nuova riguardo alla teologia della missione evangelizzatrice della Chiesa. La Chiesa è dunque al servizio di questa realtà universale che è il Regno (li Dio presente dappertutto nel mondo dove sono all'opera negli uomini i valori del Regno, ossia i valori evangelici. La Buona Novella è la presenza del Regno di Dio. Il Regno di Dio, dunque, è la realtà universale della salvezza in Gesù Cristo presente dappertutto nel mondo ben al di là dei confini del cristianesimo e della Chiesa. Il che è detto molto bene in un testo elaborato durante una consultazione teologica organizzata dall'Ufficio per l'evangelizzazione della Federazione delle conferenze episcopali asiatiche (Fabc), che ha avuto luogo in Thailandia nel 1991 e alla quale ho partecipato personalmente.

Dove Dio è accolto, dove i valori dei Vangelo sono vissuti, dove l'essere umano è rispettato, lì il Regno di Dio è presente. In tutti questi casi gli uomini rispondono all'offerta che Dio fa della sua grazia in Gesù Cristo nello Spirito ed entrano nel Regno di Dio per un atto di fede. Ciò dimostra che il Regno di Dio è una realtà universale, estesa oltre i confini della Chiesa. È la realtà della salvezza in Gesù Cristo a cui partecipano insieme i cristiani e gli altri. Tutti quanti siamo co-membri del Regno di Dio, condividiamo lo stesso mistero della salvezza in Gesù Cristo.

Vedete che possono esserci delle conseguenze abbastanza importanti riguardo al modo in cui viene intesa la missione evangelizzatrice della Chiesa.

Ma per essere totalmente onesto con voi, non si può dimenticare che Giovanni Paolo II ha nella medesima Redemptoris missio parole abbastanza dure nei riguardi di una prospettiva regnocentrica della missione evangelizzatrice della Chiesa. Al n. 17 si legge: "Ci Sono concezioni che di proposito pongono l'accento sul Regno e si qualificano come regnocentriche, le quali danno risalto all'immagine di una Chiesa che non pensa a se stessa. ma è tutta occupata a testimoniare e a servire il Regno". E continua: "Ora non è questo il Regno di Dio quale conosciamo dalla rivelazione, esso non può essere disgiunto né da Cristo né dalla Chiesa".

Lo sbaglio che è stato fatto da alcune prospettive regnocentriche consiste nel fatto che si parla di una Chiesa serva, di una Chiesa dei valori evangelici e così via: si dimentica però che questo Regno, messo al centro di una prospettiva teologica, è stato istituito da Dio in Gesù Cristo. Perciò, come dicevo, Gesù non soltanto annuncia il Regno, ma spiega anche che è proprio nella sua vita, nei suoi gesti, nelle sue parole che Dio lo sta instaurando. Alcune prospettive regnocentriche dimenticano che è in Gesù Cristo che Dio ha instaurato il suo Regno e dunque che non si può mai staccare il Regno di Dio dall'evento Gesù Cristo.

Secondariamente. queste prospettive dimenticano anche il ruolo singolare e unico che la Chiesa ha nei confronti del Regno: farlo crescere nel mondo. A patto di non dimenticare queste due cose, cioè il Regno instaurato in Gesù Cristo e il Regno rispetto al quale la Chiesa ha un ruolo specifico e necessario, a me sembra non si debba negare la possibilità di proporre una prospettiva regnocentrica per una teologia sia delle religioni. sia della missione evangelizzatrice della Chiesa, che possa aprire degli orizzonti abbastanza nuovi.

Vorrei aggiungere che i cristiani e gli altri sono dunque co-membri del Regno di Dio. Anche i non cristiani ne sono a pieno titolo membri, pur non essendo per niente membri della Chiesa. Pur essendo salvati in Gesù Cristo attraverso una mediazione della loro tradizione religiosa (incompleta), rimangono orientati verso quella mediazione completa presente nella Chiesa, perché è alla Chiesa (riprendendo il nuovo Giovanni Paolo II) che Gesù Cristo ha affidato la pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza. Sono dunque co-membri con i cristiani del Regno di Dio, non sono membri della Chiesa, ma rimangono orientati verso il mistero della Chiesa.

Non soltanto sono co-membri, ma assieme ai cristiani sono chiamati a far crescere nel mondo e nella storia il Regno di Dio attraverso i valori evangelici, i valori dei Regno di Dio.

Come dunque i non cristiani, pur non essendo membri della Chiesa, ma in quanto membri del Regno di Dio, sono orientati verso il mistero della Chiesa, così anche le attività evangelizzatrici della Chiesa, l'impegno per la liberazione e il dialogo interreligioso sono anch'essi orientati verso l'annunzio in cui culmina la missione evangelizzatrice della Chiesa. Vorrei rapidamente dire qualche cosa sui diversi modelli di Chiesa che aprono o no prospettive più ampie riguardo alla missione evangelizzatrice.

Per secoli abbiamo avuto il modello della Chiesa come la "barca di salvezza". La Chiesa veniva paragonata all'arca di Noè in cui lui e i suoi si sono salvati. Evidentemente fuori dalla barca non c'è più salvezza. Così si è andato sviluppando il famoso assioma Extra Ecclesiam nulla salus (al di fuori della Chiesa non c'è salvezza). La missione evangelizzatrice della Chiesa, in tale paradigma, consiste nel battezzare,. nel "fare entrare". Un modello così non apre agli orizzonti più ampi di cui stiamo parlando oggi.

Un altro modello molto più recente è quello della missione come implantatio Ecclesiae. Secondo questo modello, la Chiesa ha i mezzi di salvezza e deve dunque essere a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, dappertutto ne mondo. Rimane ancora una prospettiva abbastanza ristretta, infatti la Chiesa viene identificata con il Regno di Dio: per essere salvati, cioè per essere membri del Regno di Dio, occorre diventare membri della Chiesa. La Chiesa, dunque, annuncia Gesù Cristo annuncia se stessa e la preoccupazione principale è la crescita delle comunità cristiane. Quando i vescovi venivano a Roma a rendere conto a Propaganda fide la domanda che veniva fatta loro era: "Quanti battesimi dall'altra volta?". Di nuovo la prospettiva riguardo alla missione evangelizzatrice non andava veramente al di là dell'annuncio. Opere caritative e così via non venivano considerate come evangelizzazione. Si parlava invece di pre-evangelizzazione, distinta dall'evangelizzazione propria, ossia l'annuncio. Se Regno di Dio e Chiesa sono distinti, diventa chiaro come il Regno di Dio è una realtà universale, è la presenza nel mondo, a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà, della salvezza in Gesù Cristo, al cui servizio Gesù Cristo ha messo la sua Chiesa: la prospettiva diventa allora più ampia. L'evangelizzazione include non soltanto l'annuncio esplicito di Gesù Cristo, ma fa riferimento anche ad altre attività ecclesiali come l'impegno per la liberazione umana e il dialogo interreligioso.

Una volta che si guarda in questa direzione, ci sono conseguenze riguardo alla missione evangelizzatrice della Chiesa ancora da approfondire. Ci vuole, in altre parole, una Chiesa decentrata da se stessa per essere centrata sul suo Signore, sul regno di Dio instaurato in Gesù Cristo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 05 Maggio 2005 01:00

3) La Chiesa primizia del Regno

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza




3. La Chiesa primizia del Regno

Nei vangeli sinottici uno dei temi fondamentali è certamente quello del Regno di Dio. Nel vangelo di Marco, che non ha i capitoli introduttivi come Matteo e Luca, la cosa è ancora più evidente, perché fin dall’inizio, l’annuncio del regno di Dio qualifica la predicazione di Gesù. <<Dopo che Giovanni fu arrestato , Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”>> Mc 1,14-15.



3.a. Gesù annuncia il regno di Dio


In queste quattro semplici ed essenziali affermazioni troviamo il contenuto del vangelo: è questo il tempo della presenza attiva di Dio: bisogna accoglierla nella fede che porta alla conversione. Se dunque è chiaro che Gesù predica il vangelo del regno, non altrettanto chiara è l’identità di questo regno, poiché le interpretazioni e del tempo di Gesù e di quello successivo sono molteplici e per nulla omogenee. Gesù stesso ebbe le sue difficoltà per spiegare il ‘mistero’ di questo regno ed ancora il senso della sua missione, in quanto venivano interpretate da una tradizione messianica che ne aveva offuscata la verità. È il fascino ed anche il pericolo delle parole che devono veicolare verità nuove ed inedite, in forme antiche e consunte, con l’aggravante che i desideri del cuore umano abbassano il livello delle aspettative e lo rendono alla portata della gittata del nostro arco.
Il regno di Dio diventa allora, la realizzazione di un dominio terreno, dove alcuni privilegiati, con l’invidia di altri, hanno i primi posti, come si legge ancora in Marco 10,35-45. O desidererebbero averli. Oppure, nella trasposizione della Chiesa, questo regno diventa semplicemente l’apparato di potere dell’autorità, che pericolosamente maneggia un’autorità che resta sempre di Dio. Dunque, diverse forme di contraffazione o di limitazione di una realtà che invece appartiene solo a Dio, ma che egli comunica a noi. Il regno di Dio è infatti il suo impegno per la riuscita di questo mondo creato da lui, è la vita e la missione di Cristo che si colloca nella ‘pienezza’ del tempo, cioè nel tempo ormai giunto a maturità per accogliere l’inaudita presenza di Dio nel Figlio suo.



3.b. Il regno è prefigurato dai credenti che seguono Gesù

Soprattutto nel vangelo di Matteo si prefigura la realizzazione di questa presenza di Dio in Cristo nella preformazione della Chiesa, mediante la chiamata e la sequela dei discepoli. È infatti del tutto congruo con l’azione di Cristo, che questa si concretizzi in forme umane concrete e sperimentabili. L’azione di Dio è così efficace che costituisce nella storia il risultato di quanto promette. Dio non agisce mai senza che alla sua azione seguano dei risultati, che sono il rinnovamento della storia stessa. I discepoli di Gesù, sono il risultato di questa presenza di Dio, che si rende concreta e visibile e palpabile in Gesù stesso, come leggiamo nel prologo di 1Gv 1, 1-4.
È chiaro dunque che il regno di Dio è Dio stesso in quanto agisce nella nostra storia. Ma ci furono dei periodi nella vita della Chiesa, in cui si fece una semplificazione dei termini e si identificò senza troppe distinzioni il regno di Dio con la Chiesa. Questo avvenne in modo speciale dopo il concilio di Trento del XVI secolo. I motivi sono facilmente comprensibili nell’ansia e nella forza apologetica e difensiva che animava i cattolici in quei secoli. Ma la cosa giunse fino a noi, senza grosse modificazioni, per arrestarsi nelle discussioni del concilio Vaticano II. E qui le cose si capovolsero; se prima l’identificazione Chiesa – Regno era cosa fatta, dopo sembrava che fra le due entità ci fosse uno iato non più colmabile. Molte pubblicazioni dopo il concilio, soprattutto in ambito biblico, dicevano giustamente che la Chiesa non è il regno di Dio, ma non precisavano che cosa fosse e poi davano l’impressione di una certa estraneità fra l’una e l’altro, come si diceva.




3.c. Prima e dopo il concilio Vaticano II

E tuttavia il concilio aveva detto chiaramente che “la Chiesa fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio” LG 5.
Il testo non potrebbe essere più chiaro ed esplicito, tuttavia raramente viene citato, e ciò non fa altro che aumentare la confusione o l’imprecisione. Quanto il concilio dice è frutto di lunga e matura riflessione, che coglie nel segno l’intenzione stessa di Gesù, nell’annunciare la presenza di questo regno. È dunque importante tenere fede a questo insegnamento e svilupparne adeguatamente le potenzialità. Ci troviamo nuovamente nel campo della realtà mistica della Chiesa: se essa è il corpo di Cristo, è altresì partecipe della grazia di Dio che si manifesta nella storia e la rinnova.
La Chiesa si trova a vivere un duplice ruolo e a trovarsi nella felice condizione di chi riceve la grazia di Dio e di chi, in forza di essa, ne diventa partecipe attiva e credibile nella storia umana. Non c’è solo passività nella condizione della Chiesa, ma anche dinamismo, reso possibile sempre dal dono di grazia.



3.d. Ribadire la prospettiva sacramentale

E come sopra si diceva che i cristiani rendono presente nella storia la missione di Gesù, così qui si può tranquillamente affermare che la Chiesa, costituita dai cristiani, rende presente il regno di Dio e ne è la primizia e l’inizio, con la ricchezza che questo comporta. Tutto questo va inteso in senso sacramentale, secondo la splendida affermazione che la LG fa proprio all’inizio: “La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” 1. La linea sacramentale è rispettosa del mistero di Dio e nello stesso tempo valorizza il compito e la missione della Chiesa: segno attivo e dinamico di quanto Dio ha fatto e sta facendo.



Indicazione bibliografica

BOUYER L., La chiesa di Dio, Assisi, Cittadella 1971
DIANICH S., La chiesa mistero di comunione, Torino, Marietti 1975
RAHNER H., L’ecclesiologia dei Padri, Roma EP 1971
WIEDENHOFER S., La chiesa. Lineamenti fondamentali di ecclesiologia, San Paolo 1994
SEMERARO C., Mistero, comunione e missione. Manuale di ecclesiologia, EDB 1996
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Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 20 Aprile 2005 01:29

Lo Spirito Santo. Il "rifinitore" (Giordano Frosini)

Lo Spirito Santo.
Il "rifinitore"
di Giordano Frosini





Quando si ignora o si dimentica la presenza dello Spirito nella chiesa si paga un prezzo alto. Se il Vaticano II è stato una grande grazia dello Spirito, bisogna recuperarne la dottrina sulla comunione, la partecipazione, la corresponsabilità. Tra i punti da rivedere: l’ascolto del popolo di Dio, la nomina dei vescovi, la profezia, la creatività, il ruolo della donna.

Parlare dello Spirito Santo è navigare contro corrente. Egli è per noi l’inafferrabile, l’invisibile. il senza volto. Il Padre ha un nome e, se, vogliamo, anche un volto, quello dei nostri genitori: il Figlio è vissuto per alcuni decenni in mezzo a noi e ha parlato la nostra lingua; lo Spirito Santo è come il vento: «non sai di dove viene e dove va», anche se ne sentiamo la voce. Una navigazione difficile che la parola di Dio, i richiami della Tradizione, le aperture dei mistici, nonché le autentiche ispirazioni interiori devono sempre guidare e sorreggere per non attribuire allo Spirito pensieri che appartengono solo al mondo delle nostre incerte e tremolanti riflessioni.

Il dono dello Spirito è il fine dell’incarnazione del Verbo, l’ultimo atto della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. Senza di lui non c'è il cristiano, senza di lui non c'è la chiesa. Essa è il luogo di una pentecoste permanente. «Ubi ecclesia ibi Spiritus», dicevano gli antichi, in particolare sant’Ireneo, per il quale «dove è la chiesa lì è anche lo Spirito di Dio; e dove è lo Spirito di Dio lì è la chiesa e ogni grazia».

Una comune nascita

Ne abbiamo una riprova nella nascita del simbolo niceno-costantinopolitano, che fu composto in due tempi. Nel primo tempo, a Nicea, esso constava di due articoli, quello riguardante il Padre e quello riguardante il Figlio: lo Spirito Santo era appena nominato. Nel concilio di Costantinopoli del 381, si aggiungono le parole «Dominum et vivificantem, qui ex Patre procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas». E subito dopo: «Et unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam». E ancora: «Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum.Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi».

Nel simbolo più popolare della chiesa, lo Spirito Santo e la chiesa nascono insieme. Il che appare anche più evidente se prendiamo in mano il simbolo apostolico che, secondo alcuni, nella sua parte finale, andrebbe letto così: «Credo nello Spirito Santo, nella santa chiesa cattolica, comunione dei santi, per la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna». Tre articoli, fra i quali il terzo sullo Spirito Santo assume una dimensione di grande portata, insieme ecclesiale ed escatologica. Lo Spirito Santo che si presenta in tutto il suo dinamismo e la sua ricchezza.

Già in queste prime riflessioni ci fanno capire quanto ingiusto sia stato il comportamento dei cristiani, specialmente occidentali, che praticamente hanno ignorato e messo in disparte lo Spirito Santo come se fosse un elemento inutile e superfluo. Si è parlato giustamente di una kenosi dello Spirito Santo. E noi cattolici siamo stati accusati di cristomonismo certamente con qualche ragione. Le conseguenze si sono viste e si vedono ancora.

Le due mani del Padre

Per capire la portata dell'accusa e rendersi conto della nostra situazione, abbiamo bisogno di rivedere i rapporti che intercorrono fra le tre Persone della santissima Trinità. Ancora con sant'Ireneo consideriamo il Figlio e lo Spirito come le due mani del Padre, con l’aggiunta che lo Spirito può essere a giusto titolo considerato come il complemento del figlio: l'altro Paraclito (etimologicamente "assistente") dice Giovanni; il completatore, il rifinitore, il telepois, dicono i padri greci; il consumatore, il dono della consumazione, dice Congar. Il Figlio comincia, lo Spirito completa. Senza lo Spirito Santo, il cristianesimo è monco, mancante di una dimensione che gli è essenziale.

Si ricordi il bellissimo testo del metropolita ortodosso Ignazio Hazim in cui si afferma che senza lo Spirito Santo «Dio, è lontano, Cristo rimane nel passato, il Vangelo è una lettera morta, la chiesa una semplice organizzazione, l'autorità è un dominio, la missione è propaganda, il culto un'evocazione e l'agire cristiano una morale di schiavi». Un autentico furto perpetrato contro il cristianesimo, un infedeltà e un tradimento. I pericoli minacciati non sono affatto ipotetici, le conseguenze previste sono realtà che ben conosciamo, la perdita dello Spirito si paga a un prezzo veramente alto. Tuttavia la riflessione teologica, senza sminuire la suggestività del testo ora citato, può specificare anche più chiaramente il pensiero ivi contenuto. Lo Spirito Santo, da Agostino in poi, è stato indicato come l'anima della chiesa, cioè il principio della vita, delle azioni e del movimento. O. Clément ci avverte che questa metafora non appartiene ai Padri greci, i quali preferiscono affermare che egli svolge nei confronti della chiesa, nuova creazione, lo stesso ruolo da lui svolto all'inizio del mondo: egli è il Soffio creatore, lo Spirito vivificante, il garante della vita. Il risultato è lo stesso.

Per lui, anche per lui, esiste la chiesa: egli di essa è un vero co-istituente. Per lui la chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, sempre più una, santa, cattolica e apostolica. Per lui la Parola della verità risuona costantemente nel tempo con la stessa forza iniziale e la sua sempre rinnovata freschezza e attualità. Per lui i sacramenti donano la grazia che salva, redime, perdona, santifica, divinizza: non c'è sacramento senza l’invocazione dello Spirito Santo. È lui che distribuisce doni e carismi, che richiama la comunità cristiana ai compiti che lui stesso, regista della storia, fa balenare dinanzi ai suoi occhi. L'altro Paraclito che sostituisce e completa l'opera di Cristo.

Un compito permanente. Lo Spirito Santo non conosce soste e pause di attesa: la fede lo avverte sempre presente anche quando il suo vento soffia leggero fino a diventare quasi impercettibile. L'era dello Spirito Santo è cominciata il giorno della pentecoste e si svolgerà fino alla parusia. Sul tempo dello Spirito Santo si è tante volte discusso. Possiamo rifarci a un noto testo di san Gregorio Nazianzeno: «l’Antico Testamento ha chiaramente rivelato il Padre e oscuramente il Figlio. Il Nuovo ha rivelato con chiarezza il Figlio e ci ha fatto intravedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito si trova tra di noi e si manifesta più chiaramente». La Trinità che entra progressivamente nella storia dell’uomo.

Il tempo dello Spirito può essere considerato come non tutto omogeneo. ma con possibilità di emergenze, sottolineature, evidenziazioni, accentuazioni particolari.

Nel corso dei millenni è possibile un tempo privilegiato dello Spirito Santo, che bussa più fortemente alle porte della chiesa e dell’umanità. Non sono pochi a pensare che il tempo che noi viviamo, il passaggio dei millenni, sia uno di questi momenti. Forse come non mai, lo Spirito Santo ora si manifesta più chiaramente. Non va forse letto in questo spirito il messaggio del concilio Vaticano II?

Potremmo dire, parafrasando ancora un testo dell’Apocalisse, che «questo oggi lo Spirito domanda alla chiesa». Il più grande concilio della chiesa, convocato dal papa più carismatico del nostro tempo, accompagnato da segni inconfondibili del progresso dell’umanità verso il compimento del Regno, come la globalizzazione, l’anelito della giustizia, la ricerca spasmodica della pace.

Torniamo al concilio

Quali allora i compiti della chiesa in questo tempo di emergenza e di straordinarietà?
Anzitutto un severo richiamo al concilio. «Dobbiamo tornare al concilio», ha detto Giovanni Paolo II. Tornare anzitutto al suo punto fondamentale che è quello della comunione, della partecipazione, della corresponsabilità. «Poiché la chiesa è comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità in tutti i suoi gradi», ha affermato il sinodo straordinario dei vescovi a vent’anni dal concilio. Tutti, «in capite et in membris», hanno il dovere di riflettere attentamente su queste espressioni. Ricordando che, per questo, il concilio aveva anche dato vita agli organismi di partecipazione accanto al papa, ai vescovi, ai parroci.

La democrazia sta avanzando nelle nostre società: la chiesa ha già perso troppo terreno in questo campo. Come tutti i concetti desunti dal linguaggio umano, anche quello di democrazia non può essere applicato alla chiesa in senso univoco, ma analogo. Il che vuole anche dire che la chiesa non è una democrazia, soprattutto nel senso che le sue decisioni dipendono normalmente da coloro che la presiedono (un'affermazione, peraltro, più di carattere giuridico che teologico, su cui bisognerà ancora riflettere), ma insieme che è più di una democrazia, perché i fondamenti di questo sistema politico sano più chiari dentro di lei; perché tutti i suoi abitanti no pervasi dallo Spirito Santo; perché la stessa democrazia è nata sui fondamenti del cristianesimo, come hanno riconosciuto uomini come Maritain, Bergson e lo stesso Hegel.

Bisogna allora riscoprire il valore della prima categoria usata dal concilio per esprimere la natura della chiesa, cioè la categoria di popolo di Dio, perché lo stesso concetto fondamentale di comunione non venga frainteso o disatteso in tutta la sua portata. Che ne è del popolo di Dio? Che ne è del «senso della fede», del infallibilità nel credere, di cui parla la Lumen gentium? Che ne è della sua opinione specialmente nei momenti straordinari della vita della chiesa? Un solo esempio: la nomina dei vescovi. Si può ancora continuare così, praticamente ignorando del tutto o quasi del tutto l'opinione della chiesa a cui il vescovo viene mandato dall'alto? L’antica tradizione non è affatto in questa linea. Nel primo millennio le nomine avvenivano diversamente; diversamente avvengono anche nelle chiese ortodosse e protestanti. Si ricordano a questo proposito alcuni detti che provengono dal nostro passato: «Venga ordinato vescovo colui che è stato eletto da tutto il popolo. Con il consenso della comunità i vescovi impongano su di lui le mani» (Tradizione apostolica); «Non si imponga al popolo un vescovo che il popolo non gradisce»; «Nullus invitis detur episcopus» (papa Celestino, sec. V); «Colui che deve presiedere a tutti, da tutti dev'essere eletto» (san Leone). Dobbiamo riconoscere che la questione appare oggi molto complessa, ma dobbiamo anche riconoscere che il cammino delta chiesa non è stato sempre omogeneo e lineare.

A chi si meraviglia troppo di queste richieste, possiamo ricordare alcune espressioni di Giovanni Paolo I, che affermava: «Io sono il fratello maggiore dei vescovi, debbo a loro grande rispetto, devo e voglio essere in comunione di amore con loro... La collegialità tra il papa e i vescovi, resa viva e operante, diventa la prova, il sigillo della cattolicità... Nessun vescovo potrà essere scelto senza che vengano tempestivamente consultate le conferenze episcopali locali e i consigli presbiteriali. Il loro parere sarà tenuto in seria considerazione. Io mi sono trovato come presidente della Conferenza episcopale delle Venezie a leggere sull'Osservatore Romano i nomi dei vescovi assegnati alle diocesi venete» (C. Bassotto, Il mio cuore è ancora a Venezia. Albino Luciani, Venezia 1990, passim). Di pari passo andava anche il riconoscimento dell'opera dei teologi.

Un popolo di uguali

Un popolo di uguali e non una società di disuguali, come diceva ancora Pio X, dove tutti hanno la stessa dignità e dove tutti partecipano all’edificazione del corpo di Cristo che è la chiesa (cf. LG 32). Una uguaglianza che si riflette anche nei tratti esterni. È da tempo che si sta rilevando come l'unico titolo a corso legale nella chiesa sia quello di fratello e servo. Tutto il resto (padre, signore, maestro, eccellenza, eminenza) è polvere del secolo di cui bisogna sbarazzarci alla svelta. E polvere del secolo sono anche certo sfarzo e certe vesti.

Un popolo, ancora, quello cristiano, tutto intero sacerdotale, profetico e regale che ha per questo bisogno di essere riqualificato e rivalorizzato religiosamente nel contesto di una inter-relazione espressa chiaramente dal concilio (v LG 32). La grazia del vescovo e del presbiterio non è la sintesi del ministero ma il ministero della sintesi cioè della comunione, dell’amalgama di tutti i carismi di cui il popolo cristiano è portatore.

Fra questi va sottolineato il carisma della profezia. Ricordando che la chiesa è edificata «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2,20). Dov'è oggi il luogo riconosciuto della profezia? Qual è lo statuto a cui il profeta si può appellare in caso di contrasto col ministero degli apostoli? Una chiesa senza profezia è triste, monotona, senza slancio, pigra e sedentaria, anemica, dimentica della presenza vivificante e fiammeggiante dello Spirito Santo. Ricordando la lezione del concilio il quale, dopo aver detto che il giudizio dei carismi appartiene a coloro che detengono l’autorità della chiesa, si rivolge a questi e non ai primi ricordando che è loro dovere «non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono». (LG 12).

Il discorso dello Spirito va verso l'infinito. Un meraviglioso testo riassuntivo della sua missione nella chiesa possiamo ritrovarlo in Von Balthasar, secondo il quale egli è «lo Sconosciuto al di là del Verbo»: appunto il completatore, l’in avanti, il trascinatore che attualizza e porta a perfezione l’opera abbozzata del Verbo. Niente al di fuori di Cristo, nulla senza di lui e, men che mai, contro di lui: lo Spirito è il testimone, il rifinitore, colui che da Cristo parte e a Cristo ritorna e riporta. Non si può mettere lo Spirito in contrasto col Figlio. Non c’è Spirito senza il Figlio, come non c'è Figlio senza lo Spirito. Una legge da non dimenticare mai, in nessuna circostanza e in nessun contesto. Nella duplice missione del Figlio e dello Spirito, quest'ultimo è «l'energia che esorcizza il fascino del passato o dell’origine per proiettare in avanti, verso un avvenire di cui è caratteristica principale la novità» (C. Duquoc, Un Dio diverso, Brescia l978 p. 116s).

Alla luce di queste espressioni possiamo collegare insieme le caratteristiche fondamentali dello Spirito Santo nella nostra vita e nella nostra storia.

La litania dello Spirito Santo

Egli è la novità. Non la novità della moda, ma la novità evangelica. Il Vangelo è il libro nuovo, il cristiano è l'uomo nuovo, la cristianità è il mondo nuovo, il mondo riconciliato che canta il canto nuovo. Nel ritorno al Padre, il figlio rappresenta in qualche modo il passato, lo Spirito il presente e il futuro: la chiesa vive dell'uno e dell'altro. Ma l'ultima parola spetta al futuro.

Noi siamo per definizione gli uomini della speranza; la nostra patria è nei cieli: la nostra navigazione tende alla Gerusalemme celeste, che è la città della pienezza,della vita e della gioia. Ma se è così, perché siamo così legati al passato, perché nella storia non c'è mai qualcosa di nuovo che trovi l'adesione entusiastica del popolo cristiano? Perché somigliamo troppo alla retroguardia stanca e sfiduciata e non all'avanguardia ardimentosa ed entusiasta? La marcia escatologica deve trovare costantemente i cristiani alla sua testa. L'affermazione che un mondo migliore è possibile, è sempre possibile, appartiene di diritto a noi. Ciò appare più chiaramente nei periodi di transizione, come il nostro. La ripetizione, l’abitudine, la monotonia sono i nemici mortali dello Spirito.

Egli è la creatività: «Spiritus creator». Come un giorno lontano, egli cova l'attuale creazione per portarla alla sua pienezza finale, in cui il male non avrà più luogo e il bene brillerà in tutto il suo splendore. Costruttori del futuro, costruttori del Regno, i cristiani sono al servizio dello Spirito, il regista della storia, il direttore della sinfonia cosmica che tende infallibilmente alla sua cadenza finale.

Egli e motore invisibile della storia. I «segni dei tempi» sono i suoi richiami e le sue indicazioni di lavoro. Chi disattende i segni dei tempi, oltre che perdere il treno della storia, sta contro lo Spirito Santo. I sentieri aperti dinnanzi a noi sono oggi la solidarietà, la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato, l'ecumenismo, il dialogo interreligioso. «Omne verum a quocunque dicitur a Spiritu Santo est» dicevano gli antichi, fra cui anche S. Tommaso. Oltre che completatore, lo spirito è anche preparatore e antesignano del Verbo.

Egli è la bellezza. «La bellezza salverà il mondo», ha affermato Dostoevskij. Se il Padre nella creazione ha impresso il sigillo della potenza e il Verbo quello della sapienza, lo Spirito ha disseminato dovunque le suggestioni e gli incanti della sua infinita bellezza. Una chiesa dello Spirito è una chiesa bella, perché nella sua vita e perfino nelle sue apparenze esterne riflette le linee di un ordine trascendente. Siamo noi a deturparla, a renderla repellente con le nostre parole e i nostri comportamenti. «Cristo sì, la chiesa no» perché questa divaricazione? Perché la luce che splende sul volto di Cristo non si riflette anche nel volto della sua chiesa da lui stesso illuminato?

Sant’Ambrogio contemplava la chiesa nel lucore suggestivo delle notti lunari: «Veramente beata sei tu, o luna, che hai avuto il merito di tanto significato. Io ti credo beata non per il tuo novilunio ma perché sei tipo e immagine della chiesa». E San Giovanni Crisostomo ne ammirava in distanza le sue divine sembianze: «No, non separarti dalla chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza è la chiesa. La tua salvezza è la chiesa. Il tuo rifugio è la chiesa. Essi è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna». Lo Spirito è il dinamismo della chiesa, la quale “cresce” nel tempo fino al compimento finale (cf. DV 8). Cresce anche nella comprensione della divina rivelazione che le è stata consegnata. Seguire i suoi passi, assecondarli, promuoverli è ancora una forma di ubbidienza alle mozioni  dello Spirito.

Egli è l'universalità. Pentecoste è la risposta alla divisione dì Babele. Nello Spirito, che attualizza il comandamento di cristo, tutti gli uomini possono sentirsi fratelli. Per questo la globalizzazione è una vittoria dello Spirito sulla materia e sulla dispersione. L’impegno della comunità è semplicemente quello di assecondare questo movimento indirizzandolo verso le regioni della solidarietà e della condivisione. Lo Spirito sposta continuamente i confini della chiesa: la terra va percorsa tutta.

Egli è la libertà, perché «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 3,17). Ma è così la chiesa? C'è al suo interno la possibilità di dire il proprio pensiero senza il pericolo di venire messi in disparte? Esiste nella chiesa un’opinione pubblica capace di creare cultura e formare forti personalità? Non dice niente a questo proposito la crisi degli organismi di partecipazione? E il silenzio lungo e preoccupante della teologia? Anche l'eccessiva legislazione ha bisogno di essere confrontata e commisurata con lo Spirito di libertà. Su questo punto dobbiamo rileggere attentamente gli scritti dell'apostolo Paolo.

In qualche modo lo Spirito è anche la femminilità, colui che più delle altre Persone porta evidenti in sé i segni e il genio della  femminilità. Per questo quando Paolo enumera i suoi frutti, parla di timore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza. Una dimensione dello Spirito capace di assicurare nella chiesa un posto d'onore e di responsabilità all’universo femminile, che non ha ancora trovato la collocazione che si merita e che gli compete.

Si può finire affermando che lo Spirito è la follia della chiesa. La festa dello Spirito è la festa dei folli. Così egli debuttò nella pentecoste di Gerusalemme sotto il cielo terso della Palestina. La follia con cui fu designato Gesù, la follia del "discorso della montagna". La follia dell'amore folle di Dio: Verrebbe da dire: se siete semplicemente “normali”, che cosa fate di straordinario? La via che vi è riservata è quella dell'anormalità. Perché quello che è stolto agli occhi degli uomini è sapienza agli occhi di Dio.

Il sogno del terzo millennio

Come M.L. King, in questo inizio del terzo millennio, non possiamo coltivare un sogno. Se si abbandonerà allo Spirito, la chiesa del futuro sarà tutta chiesa libera, fraterna. Partecipata, amante del vero “nuovo”, proiettata verso il compimento della storia, lieve e leggera nel suo passaggio sulla terra, povera e serva, amica dell'umanità, una chiesa bella esposti all’ammirazione di tutti gli uomini. Una comunità alternativa rispetto alle altre organizzazioni umane, una comunità “scandalizzante” nel senso kierkegaardiano della parola, una comunità narrante. Che racconta con le parole la più bella fiaba che l'uomo abbia mai ascoltato; soprattutto che narra con la vita la meravigliosa avventura di cui è stata fatta partecipe e sacramento. Che riscrive a ogni generazione il «quinto Evangelo», il quale non esiste sulla carta e negli archivi. ma riluce attraverso la vita dei suoi figli come un annuncio di speranza e di pace. «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini... una lettera scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,2-3).

Questa lettera è nelle mani dello Spirito, ma anche nelle nostre mani.

(da Settimana n.15, 2004)
Pubblicato in Teologia
Venerdì, 01 Aprile 2005 22:38

Il male (Xavier Lèon-Dufour)

Il male
di Xavier Lèon-Dufour




Il male è un'esperienza che ogni uomo conosce. È la privazione di un bene dovuto. È una mancanza, l'assenza di un bene che dovrebbe esistere; se io non ho ali per volare, non è un male perché fa parte della mia natura di non averne. Per contro, se sono cieco dalla nascita o per un incidente, subisco un male che mi priva di innumerevoli contatti; se sono ammalato, io non dispongo più delle facoltà normali della salute che mi permettono di vivere fra i miei fratelli. L'uomo lotta con forza e saggezza per diminuire gli attacchi del male. Benissimo, ma ci sono altri mali che ci perseguitano, tra i quali possiamo citare i mali di tipo cosmico e quelli di tipo morale.

I mali di tipo cosmico ci affliggono. Si scatenano infatti molteplici catastrofi: eruzioni vulcaniche, tempeste, temporali, inondazioni, tifoni, valanghe, di fronte alle quali l'uomo è impotente, semplice vittima.

Tutti questi mali rendono coscienti del carattere imperfetto della creazione, ma noi non ci sentiamo per niente responsabili.

Per contro, siamo colpiti dai mali di ordine morale. Più noi avanziamo in età, e più pesa sulla nostra coscienza l'evidenza dell'impurità nel nostro agire. D'altra parte un'altra evidenza si impone che non c'è bisogno di esplorare, perché ne percepiamo sperimentalmente la presenza. L'uomo è il peggiore nemico dell'uomo: sfruttamento dei poveri, guerre, stupri, delitti, torture, ecc. Ci sentiamo complici di tutti questi mali, almeno collettivamente.

Di fronte a tutti questi mali scandalosi, qual è la nostra reazione? Essa varia secondo le età. Prima, è un grido di indignazione, segno di esuberanza di vita che non può tollerare queste ingiustizie. Poi, poco a poco, essa si esprime con una rassegnazione di tipo stoico: si pensa che sia meglio limitare gli eccessi, e non perdere la propria serenità. Si pensa di crearsi una buona coscienza facendo l'elemosina. Si pensa così di coprire lo scandalo, pur sapendo che la cisti continua a resistere e ci si consola pensando che ce ne sono molte altre, con le quali si può peraltro convivere senza soffrire troppo.

Tuttavia, sono molti coloro che vorrebbero conoscere l'origine di questi mali, pur essendo in disaccordo con noi, che sappiamo che all'origine di tutto c'è un'altra forza. Quale?
Spontaneamente noi pensiamo a Dio, ad un essere che ci ha creati e che è quindi responsabile dell'ordine della creazione. E questo si esprime con la protesta: «Che cosa ho fatto a Dio perché mi tratti così?». Come può un Dio onnipotente lasciare che avvengano simili ingiustizie?

Noi affermiamo effettivamente che Dio è capace di trasformare in grazia il peccato dell'uomo, quando gridiamo la nostra gioia: «Felix culpa!». Ma la domanda si ripropone: Come mai Dio può «permettere» il male, anche se poi deve risultarne un bene?

Noi condividiamo maggiormente la reazione del giusto Giobbe, che non accetta la sorte di sofferenza per un innocente come lui: ma non accettiamo, di fare come lui, di chiudere la bocca e di inchinarci davanti ad un mistero del quale noi constatiamo solo il carattere arbitrario. Non avendo più il senso del Dio trascendente nel quale credeva Giobbe, ho il diritto di subire l'ingiustizia? Sì, la storia di Giobbe non fornisce una valida risposta agli occhi della ragione.
Siamo così portati a rivedere la comprensione del rapporto con Dio stesso. È forse Dio un artigiano che lancia nell'esistenza il mondo come si trattasse di una cosa della quale in seguito si disinteressa?
Questo modo di presentare la creazione come la produzione di essere viventi lasciati alla mercé di un mondo ostile è frequente, come quando di fronte ad un incidente mortale si dichiara: «Era la volontà di Dio». Non è forse logico ribellarsi davanti a un Dio omicida?

Eppure Dio è un Dio d'amore. Non ha creato l'uomo come un prodotto grezzo, inerte.
Ha aperto con lui un dialogo d'amore. Con la creazione, l'uomo è chiamato ad una alleanza. È invitato a cooperare con lui per l'avvento del suo regno. Questo ci propone la Genesi.
Adamo non è semplicemente un qualcosa di compiuto. È chiamato a costruire il mondo, non solo attraverso la «pro-creazione», né semplicemente amando Eva, la sua compagna, ma cooperando all'intera creazione nella quale è collocato. È chiamato ad una sinergia di amore creatore con Dio, a condizione che egli rimanga in rapporto di amicizia con colui che gli ha dato l'esistenza.

Questa condizione si rivela nel racconto della Genesi dal momento che Adamo può mangiare i frutti di tutti gli alberi del giardino ad eccezione di uno solo: quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male. Qualunque sia l'interpretazione di questo divieto, è evidente che Adamo deve riconoscere che egli esiste in dipendenza da Dio.
Ora, egli cede alla tentazione insinuata dal serpente, creatura del nostro mondo.
Secondo questo racconto, la responsabilità del peccato non ricade su Dio, ma solamente sulla creatura, cioè sul serpente e su Adamo.

I teologi hanno discusso a lungo sul ruolo specifico di Adamo: spesso Adamo è considerato come l'origine del peccato. Tuttavia il testo non dice così; Adamo non sta all'origine del peccato, ma ha lasciato entrare il peccato nel mondo; egli non ne è la causa, ma il tramite attraverso il quale il Peccato è venuto. Inutile speculare su Adamo responsabile del peccato, perché il peccato esisteva prima che Adamo lo commettesse.
Un Peccato (con la maiuscola) esisteva quindi prima di Adamo.
Alcuni lo identificano con il serpente, ma niente giustifica questo tipo di sintesi. Nel simbolismo mitico, il peccato è una entità che preesiste ad Adamo.

Sorge allora un nuovo problema: questa creatura coesisterebbe forse con Dio?
Qui si pone il dilemma: insieme con Dio coesisterebbe il Peccato, oppure il Peccato sarebbe una produzione di Dio? Noi pensiamo che, con l'atto di creare Dio ha suscitato il Peccato; Dio non ne è la causa formale, ma l'occasione. In che modo? Emergono due interpretazioni.

Una prima interpretazione si fonda sul racconto della Genesi. L'uomo è vivo non per se stesso, ma in virtù del soffio divino che gli è concesso oggi. Se egli rimane in vita, è grazie alla relazione che non finisce in un atto passato, ma che continua e che costituisce il presente del suo essere. Il progetto di Dio consiste nel fare sì che il non-Dio diventi Dio. Per realizzare questo progetto, l'uomo deve riconoscere che, in questa ricerca di Dio, deve «rinnegare se stesso». Questa condizione contraddice di fatto il suo desiderio fondamentale: quello di porsi nell'essere. Ecco quello che Gesù ripete senza stancarsi: «Bisogna rinnegare se stessi». E' questo l'invito formale di Dio.

Ma l'uomo rifiuta di andare contro il suo essere. L'invito divino gli sembra un paradosso.
L’invito divino non è la causa del peccato dell'uomo, ma ne è l'occasione immediata. In tal modo il peccato sarebbe entrato nella creazione.
I
Possiamo accettare questa soluzione? Sembrerebbe che un Dio di questo genere permetta il peccato in vista di un bene reale: non sarebbe allora fare del peccato un mezzo in vista del bene? Evidentemente è un'ipotesi insostenibile. Il progetto di Dio, peraltro, non finisce con la creazione, ma ha il suo compimento nell'incarnazione: Dio non si accontenta di dire quello che bisogna fare, ma lo fa lui stesso. Dio si fa uomo. Anzi, secondo Paolo, si fa Peccato. «Colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo ha fatto Peccato, affinché in Lui noi divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

Morendo sulla Croce Gesù ha rinnegato se stesso, compiendo pienamente il progetto divino: «Per questo Dio lo ha esaltato perché ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (FiI 2,6.11). Diventa il nuovo Adamo, principe e capo di una umanità nuova; ormai ogni uomo rivela Dio solo in Gesù.

Il mistero della Croce non dà una spiegazione razionale al mistero dell'iniquità: al contrario, invita a far morire ogni razionalizzazione del mistero.
Ormai solo in Gesù si manifesta il volto di Dio, un Dio umiliato. Il male non è per questo «spiegato», resta un mistero: quello della croce, dove il Peccato è morto. Il mistero del dolore degli innocenti trova il suo senso nel mistero del Golgota.

Un'altra considerazione permette di approfondire il mistero. La prendo da Maurice Zundeì. Siccome Dio è amore, la creazione instaura un dialogo di amore con l'uomo. Dio deve dunque aspettarsi dall'uomo, suo partner, una risposta. Se c'è rifiuto di questo amore, l'insuccesso è certo. Dio certamente non è la causa dell'insuccesso, ne è la vittima, perché, proprio in nome di questo suo amore, non può imporlo senza togliere all'uomo la libertà che Egli ha creato. Dio, in un certo senso, è sottomesso alla sua creatura. Gesù ha mirabilmente espresso questo, lavando i piedi ai suoi discepoli. Zundel lo dichiara: «Non si è mai raggiunto il senso della creazione con eguale profondità: ogni creatura è per Dio il suo Dio» (L’humble prèsence, Tricorne, Genève 1935, p. 19). Lungi dall'essere impassibile di fronte al rifiuto che gli viene opposto, Dio soffre. Lui stesso è «l'azione silenziosa di quest'amore gratuito e disappropriato che ci attira senza costringerci» (Hymne a la joie, Sigier, Québec 1982, p. 47).

Invece di parlare di un Dio incapace di impedire al male di diffondersi, è meglio ascoltare il paradosso chiaro e luminoso di un commentatore di M. Zundel: «Amore onnipotente, Dio è insieme anche totalmente e dolorosamente impotente» (François  Rouiller, Le scandale du Mal et de la souffrance chez Maurice Zundel, 1999, p. 150).

Ancora una volta, nel mistero della Croce, il peccato dell'uomo, e quindi il Male, trova il suo senso.

Pubblicato in Teologia

Iniziazione cristiana.
Una "nuova" teologia?
di Mauro Pizzighini

 



I sacramenti dell’iniziazione cristiana, oggetto di una riflessione ormai collaudata, richiedono una puntuale analisi teologica per individuare alcune piste di pastorale attenta alle diverse situazioni  per una risposta sempre più mirata ed incisiva. In questa prospettiva vogliamo presentare il volume Sacramentaria speciale. I. Battesimo, confermazione, eucaristia (2 voll. a cura di Carlo Rocchetta, EDB). La finalità di questo volume è, attraverso una breve contestualizzazione antropologica:
- trattare l’origine biblica del sacramento e i suoi specifici fondamenti neotestamentari;
- riferirsi alla tradizione e presentare lo sviluppo storico del dogma;
- offrire un inquadramento dogmatico che compendi i dati essenziali della fede cattolica.

Il battesimo come sacramento della “rinascita”

L’autore inserisce questo sacramento su uno sfondo antropologico nel singolare porsi di due fatti fondamentali della vita umana: iniziazione alla vita umana in questo pianeta e l’essere iniziati a una religione con i suoi riti, le sue dottrine e la sua prassi di vita. Oggi i genitori sono privati di una lettura “simbolica” della nascita di un figlio perché le pratiche sociali relative al nascere sono delegate alla società e alle sue diverse istituzioni. La domanda del battesimo del neonato da parte dei genitori vuole colmare un loro quasi totale disorientamento. Da sottolineare – per il battesimo – il riferimento “debole” alla comunità cristiana e il riferimento “forte” alla comunità parentale o amicale.

Il cap. I mette in luce l’originalità, la necessità, il fondamento cristologico-pasquale del battesimo cristiano.

Il cap. II mostra la tradizione liturgico-teologica-pastorale che la chiesa ha sviluppato.

Il cap. III presenta alcune linee per un approccio sistematico sia della prospettiva del magistero conciliare sia alla luce dei nuovi rituali.

Il battesimo non appare più come un fatto isolato, ma mostra tutto il suo intrinseco dinamismo ecclesiale.

Occorre ribadire che la mancanza dell’unità celebrativa dei sacramenti dell’inizia-zione cristiana in Occidente è il dato ricorrente nel caso del battesimo ai bambini. Al battesimo del neonato segue con l’età della discrezione (7/8 anni) la prima comunione (preceduta dalla prima confessione) e, verso l’età della preadolescenza (12/13 anni) la confermazione. È necessario un vero cambiamento a livello pastorale: è proprio a partire dagli itinerari catecumenali e della stessa celebrazione liturgica dei sacramenti dell’iniziazione cristiana che la chiesa locale viene ad essere interpellata verso una riscoperta della sua nativa “funzione materna”.

Questo nuovo contesto permette una riformulazione della teologia battesimale in almeno tre direzioni:
- quella teologica-sacramentale (la partecipazione al mistero pasquale di Cristo, il rapporto dinamico con gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana);
- quella ecclesiologica (l’appartenenza al popolo di Dio);
- quella pneumatologica (essere edificati nello Spirito come abitazione di Dio).

La confermazione, sacramento del “diventare cristiani”

Nella seconda parte viene tracciato un percorso di ricerca attraverso l’ascolto della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero.

In particolare questo sacramento si pone una volta per sempre nel rapporto con il “diventare cristiani” e “vivere da cristiani”. La confermazione ha come destinatario chiu è ancora “infante” e tale continua ad essere anche dopo l’eucaristia battesimale, fino al compimento di tutto il successivo tempo della mistagogia o iniziazione ai misteri.

Nell’attuale azione pastorale l’iniziazione cristiana rappresenta una prassi eccezionale e non sembra giocare il ruolo di forma tipica per la formazione cristiana. In Italia la confermazione è collocata nell’età della preadolescenza. «Ridiscutere tale prassi non è cosa del tutto agevole anche perché ciò che è maggiormente in causa è sia il modello del diventare cristiani, oggi, quanto l’effettiva esigenza di dare un volto nuovo all’evangelizzazione».

L’eucaristia, tra “diakonia” e “koinonia”

La terza parte del libro è dedicata al tema dell’eucaristia, il cui fondamento antropologico affonda nei gesti del “mangiare” e “bere” della vita dell’uomo e nella mensa come “banchetto di comunione”. Il dono dell’eucaristia si innesta in questa simbologia per trasfigurarla con l’accadimento unico della pasqua e condurre l’umanità verso il banchetto escatologico.
L’autore definisce l’eucaristia come «mistero della fede tra il “già” e il “non ancora”», come «memoriale della pasqua di Cristo», come «sacramento del sacrificio della croce», in quanto «auoto-oblazione perenne del Kyrios», «atto di Cristo e della chiesa», «epifania dello Spirito», «sacrificio di lode».

Viene riservato ampio spazio, dall’autore, alla chiesa “eucaristia”, come diakonia e koinonia. Essa «si trova perciò stabilita, con il medesimo atto che la fa nascere, come diakonia, popolo-servo a servizio di tutti gli uomini; più si fa serva, più la chiesa proclama ciò che è divenuto «una volta per sempre» e manifesta la fedeltà al mandato ricevuto. Da qui scaturisce un éthos del mistero eucaristico nell’atto del dono di Cristo.

In questa prospettiva viene riaffermato che il tempo della chiesa è “essenzialmente” il tempo della missione, dell’annuncio, della comunicazione, della salvezza pasquale ormai realizzata.
Il volume, alla fine, dedica spazio al «significato cosmico» dell’eucaristia, in quanto «convivialità cosmica».

M. PIZZICHINI, Iniziazione cristiana una “nuova” teologia?, in «Settimana», 3 (2005), p. 13. Riduzione di CESARE FILIPPINI.

Pubblicato in Teologia
Martedì, 22 Marzo 2005 22:31

2) Il corpo mistico di Cristo: 1Cor 12, 12-27

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


2. Il corpo mistico di Cristo: 1Cor 12, 12-27

«Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo…Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» vv.12 e 27.

È il testo classico in cui san Paolo ci descrive la realtà della Chiesa nel suo rapporto con il Cristo; considerazioni ed immagini simili si trovano anche in Rom 12, 4-8, però nel testo di Corinzi il tema è sviluppato con maggiore dovizia e soprattutto è inserito nel contesto dei carismi, dei ministeri e delle attività, che hanno come origine l’unico Dio Padre che si comunica a noi nel servizio del Figlio e nei doni dello Spirito. La molteplicità dei carismi non può essere a scapito della unità della Chiesa, perché essa porta il segno dell’unità di Dio nella Trinità. Unità dunque e ricchezza multiforme nello stesso tempo.



2.a. Noi siamo corpo di Cristo

L’affermazione più importante del testo è data dal v. 27, dove si dice appunto che ‘noi siamo corpo di Cristo e sue membra. Il che equivale a dire che l’identità della Chiesa è di tipo ‘mistico’, vale a dire di grazia, di iniziativa di Spirito Santo. Essa si comprende a partire da questa iniziativa gratuita di Dio, e si può cogliere solo nella luce della fede. È del tutto vero che in primo luogo, la Chiesa è realtà teologale, nel senso che è istituita, creata, formata e resa viva dalla iniziativa di Dio. Con ciò non si vuole dire che essa è una realtà eterea, inafferrabile, al limite invisibile; si vuole sottolineare che la sua verità grande e profonda è data proprio dal suo rapporto con il Cristo risorto, che vive nella comunione con il Padre e da lì ci invia lo Spirito Santo.

È quanto dire ‘Ecclesia de Trinitate’, come si esprime il concilio Vaticano II, in Lumen Gentium 2-4. Ricordiamo nuovamente che tutta la ricchezza della Chiesa consiste in questa comunione con la Trinità, da cui riceve energia e vita e forza di testimonianza. Ed è allora importante che la preoccupazione nell’educazione cristiana concentri tutta l’attenzione su questo aspetto fondamentale, per nulla scontato e non facilmente vivibile. Da qui anche l’autentica difficoltà di trovare cristiani che sappiano teologicamente e vivano concretamente la realtà della fede. Non fa meraviglia allora, che l’appartenenza alla Chiesa sia più di carattere emotivo e superficiale o addirittura, come avviene nei nostri tempi, si perda nel vago di una religiosità passeggera o addirittura scompaia dalla coscienza stessa dei battezzati.



2.b. Vita mistica nella grazia della Trinità

Vivere la dimensione mistica della Chiesa è l’impegno massimo della vita e non fa meraviglia che sia piuttosto merce rara. Infatti l’educazione, la catechesi sembrano imboccare strade più facili, ma senza uscita, con il risultato finale che i cristiani non sanno più che cosa sia la Chiesa. Gli stessi numeri costituiscono una difficoltà evidente. Laddove l’essere Chiesa è una realtà sociale pressoché indistinta, l’approfondimento e la coscienza di appartenenza sono vapori che si perdono nell’aria. Tutto ciò è documentato anche dal fatto che la fede nella Trinità è qualcosa di molto oscuro e forse insignificante, perché manca l’approfondimento specifico di questa verità salvifica. Sommando le due cose, abbiamo un unico risultato negativo.

Forse si comprende perché nella storia, la Chiesa sia stata compresa più nel confronto con realtà simili, quali le società statali, le monarchie e gli imperi, tanto da assommare nella persona del papa la somma di tutte le corone civili e religiose e tanto da immaginare la Chiesa come società perfetta, sul modello e nel superamento delle società civili. Qui il confronto era facile, immediato, talvolta perfino suggestivo, quando si presentava il papa come il vertice dei poteri conferiti agli uomini sulla terra. È vero che tutto questo avveniva e si consolidava con Gregorio VII nell’XI secolo e raggiungeva l’apice all’inizio del XIII con Innocenzo III, ma è anche vero che l’esigenza ovvia ed elementare di rendere ‘visibile’ la Chiesa portava a puntare l’attenzione su quanto questa visibilità rendeva ancora più forte e stabile: l’aspetto giuridico.




2.c. Un ordine giuridico ‘mistico’

Esso è certamente necessario e fa parte della normalità della vita ecclesiale, ma la sua accentuazione ha portato scompensi evidenti nella vita della Chiesa, come la storia ampiamente documenta, e non necessariamente per spirito polemico. La verità non è polemica. Il prevalere degli aspetti giuridici ha inciso notevolmente sulla concezione stessa del ministero ordinato dei vescovi, dove si separava la realtà sacramentale da quella giurisdizionale, con nocumento evidente della concezione stessa del ministero. Esso finiva fatalmente con l’essere equiparato con l’esercizio di un potere, che stranamente non veniva dato per via sacramentale, ma giuridica. A questo punto i problemi si complicano, almeno per un aspetto solo, che si riferisce alla giurisdizione del papa; ma lasciamo per ora questo argomento, anche perché nessun cattolico dubita dell’autorità del papa.

Ritorniamo allora al tema del corpo mistico, questa volta in riferimento diretto al Cristo stesso. Noi dunque siamo corpo di Cristo. L’affermazione dice sostanzialmente che noi siamo inseriti in Cristo e che da lui riceviamo vita. L’immagine del corpo dice che il nostro inserimento non è casuale, fortuito, ma costitutivo del nostro stesso essere cristiani. Questa verità è densa di significati e di conseguenze, perché ci costringe a confrontarci con il Cristo e con la sua vita reale. L’essere corpo di Cristo non è una verità statica ed astratta, ma un modo di vivere, per continuare nella storia d’oggi quanto il Cristo ha fatto nel suo tempo. Infatti siamo corpo di Cristo per realizzare in ogni tempo, quanto egli ha iniziato e anche compiuto, e che deve avere una continuazione nel nostro tempo, perché la storia non è finita con Cristo.



2.d. I cristiani sacramento della presenza e azione di Cristo

Dunque i cristiani sono l’attualità teologica e sacramentale di Cristo, nel duplice significato di una presenza e di una attività. Ai cristiani è affidato il Vangelo perché sia vissuto sul modello di Cristo, che non esige ripetizione, ma continuazione e novità di attuazione secondo il suggerimento dello Spirito Santo. Per fare ciò, è evidente che i cristiani devono conoscere Gesù Cristo e devono vivere la fede in lui. Da questo duplice impegno viene qualificata la loro presenza nella storia, che continua così ad essere storia di salvezza, non perché la rendono tale i cristiani, ma perché essi sono in comunione con il Cristo.

Tutto questo avviene in diversi modi, perché l’immagine del corpo dice che ci sono diverse membra e quindi diverse funzioni ed attività. La Chiesa non è un organismo monotono e spento, ma vivo e ricco, dove ognuno è chiamato a svolgere la sua parte. L’osservazione più evidente a questo riguardo è che l’immagine del corpo e della molteplicità delle membra supera di colpo le secche del clericalismo dove ci eravamo cacciati nel passato e da dove con fatica stiamo uscendo. Il clericalismo in verità è l’imbalsamazione del corpo ecclesiale, o la sua riduzione ad un movimento solo; non saprei dire quale per la precisione.



2.e. Ricchezza di ministeri nella realtà della storia

La molteplicità dei servizi, dei ministeri porta alla valorizzazione di tutti, nell’ordine che è garantito proprio dallo spirito di servizio e dalle disposizioni fondamentali che vengono dal Cristo stesso. Qui si ricupera il vero senso anche dell’ordinamento giuridico. Ma il servizio che ognuno è chiamato a svolgere nella Chiesa trova la sua motivazione e fondamento nel sacramento del battesimo e della confermazione. Ha dunque origine divina e perciò mistica. Da qui il suo valore inestimabile e la sua funzione insostituibile.

Pubblicato in Teologia
Domenica, 20 Marzo 2005 17:07

Dupuis: dire Cristo all’Asia (Gianni Colzani)

Dupuis
dire Cristo all’Asia
di Gianni Colzani



Dice un proverbio
della Sierra Leone: «Quando uno stormo di uccelli si leva in volo, vuol dire che uno è partito per primo». Padre Jacques Dupuis, scomparso il 28 dicembre 2004, era uno di questi scomodi personaggi: ha avuto un ruolo di primo piano nella elaborazione di una teologia delle religioni ed è stato uno dei primi ad avviarsi sulla strada del pluralismo religioso, ad indagare cioè in termini teologici il valore che le altre tradizioni religiose hanno nel disegno salvifico di Dio. La teologia delle religioni è oggi un capitolo cruciale non solo della teologia ma della stessa storia del mondo. L'11 settembre ha rappresentato un trauma nella coscienza mondiale e, da allora, molti leader politici e religiosi hanno insistito sul fatto che l'islam non può essere identificato con il terrorismo. Resta il fatto che un uso ideologico delle religioni è sempre possibile e che molte guerre hanno utilizzato il nome di Dio e provocato, nel suo nome, migliaia di vittime innocenti.

Lo stesso Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte, scriveva che nelle condizioni di spiccato pluralismo che si vanno prospettando «tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno deve diventare sempre di più, qual’è, un nome di pace e un imperativo di pace» (n. 55).
In termini più teologici, la Redemptoris missio aveva insegnato che «il dialogo non nasce da tattica o da interesse ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito che soffia dove vuole» (n. 56). Una costruttiva teologia delle religioni, mentre approfondisce la coscienza della propria identità, è impegnata a riconoscere i segni della presenza di Cristo e dell'opera dello Spirito; senza intolleranza e senza irenismi, deve saper esprimere coerenza con sé e rispetto per l'altro, verità e umiltà. È questo il dialogo di cui abbiamo bisogno. A questo scopo è certo indispensabile la purificazione delle memorie storiche ma, in un contesto spesso conflittuale come il nostro, è decisiva la capacità di elaborare una vera e propria teologia delle religioni.

Le religioni cercano Dio e proclamano la salvezza. Per i credenti la salvezza è una interpretazione della vita, è qualcosa che attraversa tutta l'esistenza e che, oltrepassandola, presenta la comunione con Dio come il supremo valore della persona, come ciò attorno a cui unificare l'esperienza umana dandole significato e valore. Con il tempo sono nati molti modi di conciliare la verità di un Dio universale con la realtà di religioni nazionali e particolari: la conquista di un territorio e l'imposizione forzata di una religione e la diffusione attraverso la predicazione e la conversione sono state, forse, le modalità più frequenti.

Queste modalità hanno generato delle scuole teologiche che oggi, in un tempo radicalmente diverso dal passato, si possono raccogliere secondo tre modalità: esclusivismo, inclusivismo e pluralismo.

L'esclusivismo sostiene che l'unico, esclusivo luogo di salvezza è la Chiesa. Fuori di essa vi sono solo pagani, false divinità, forze maligne e magie; solo nella Chiesa, con la fede nel Vangelo di Gesù e con il battesimo si è salvi. I non-cristiani non hanno che una possibilità: convertirsi ed entrare nella Chiesa. Diversa è la posizione dell'inclusivismo: questa teoria sostiene che, in Cristo, sono incluse tutte le persone e tutte le culture e le religioni. Poiché Cristo non è venuto per abolire ma per portare a compimento, allora la Chiesa è chiamata ad assumere tutte le capacità e le tradizioni dei popoli ricapitolando così - con un lavoro di purificazione e di elevazione - tutta l’umanità sotto Cristo ed il suo Spirito. In una Chiesa cattolica, le singole parti offrono alle altre i propri doni e tutte le parti traggono vantaggio da questa vicendevole comunicazione. Il pluralismo infine, nella sua forma più rigida, sostiene che tutte le religioni sono interpretazioni culturali, diverse per storia e dogmi, di un'unica esperienza religiosa e che, per questo, le religioni sono sostanzialmente identiche e sono tutte quante legittime «vie di salvezza». Nella sua infinita grandezza, che supera ogni schema culturale, Dio si serve di tutte le religioni per salvare l'umanità e condurla a lui.

Nel caso di Dupuis, a queste prospettive di ricerca teologica si è aggiunta la sua personale passione su come si debba annunciare Cristo all'Asia, su quale sia il volto asiatico di Gesù. In un continente che raccoglie due terzi dell'umanità e nel quale i cristiani si aggirano attorno allo 1,5-2 per cento o poco più, questo problema è decisivo. Da una parte nell'Asia sono nate e sono radicate le più antiche e diffuse religioni del mondo, dall'islam all'induismo, dal buddhismo al taoismo, dal confucianesimo allo shintoismo: dall'altra, per quel mondo, prima che un insieme di dogmi e di riti, le religioni sono una esperienza e una vita lungo la quale inoltrarsi con un coinvolgimento personale profondo. Insieme all'inculturazione della fede, la teologia delle religioni esige una trasformazione profonda nel modo di intendere la missione: senza ridursi alla plantatio ecelesiae, la missione deve seguire sempre di più l'evangelizzazione del regno alla maniera di Gesù, mentre la Chiesa deve mostrarsi sempre di più come sacramento del regno nella storia. Per Dupuis tutta questa problematica teologica si concentra attorno a Gesù Cristo, cuore di ogni fede cristiana: sviluppando due opzioni, da una parte riconduce la persona e l'opera di Gesù all'annuncio del Regno e dall'altra la colloca in rapporto alle persone trinitarie. Il Regno è il contenuto della missione di Gesù ed il rapporto eterno del Verbo con il Padre e con lo Spirito è il segreto profondo della sua persona storica.

Risalendo a quel Verbo che illumina ogni uomo e che, nel corso della storia, ha parlato molte volte e in diversi modi, Dupuis pensa a diverse manifestazioni di Dio - documentabili nella azione divina che sorregge le altre religioni - e vede in Gesù Cristo il vertice di questa storia salvifica. Per quanto sia veramente e costitutivamente unito al Verbo, così da condividerne la divinità, Gesù però - in quanto uomo - gli rimane inferiore. Per questo la concezione della storia di salvezza, propria di Dupuis, è una sorta di teocentrismo che, pur mantenendo la divinità di Gesù, riconosce che tutte le religioni appartengono all'opera salvifica di Dio. Il risultato del suo pensiero è allora una presentazione di Gesù come salvatore universale e come unico mediatore; al tempo stesso, attraverso mediazioni che sono una forma di partecipazione all'agire del Verbo eterno, presenta le religioni come in grado di svolgere un vero e proprio ruolo salvifico. In questo modo Gesù è il volto umano di Dio mentre lo Spirito è la forza universale presente nelle diverse religioni; l'uno e l'altro - Gesù e lo Spirito - fanno riferimento alle persone trinitarie e trovano in quell'ambito la loro verità ultima. Da una simile visione scaturisce una prospettiva pluralista che riconosce la presenza dell’azione salvifica di Dio anche al di là dei confini visibili della Chiesa; questa azione divina non riguarda qui la salvezza dei singoli individui, ma il ruolo che le religioni che professano possono giocare in questa salvezza e davanti agli occhi dei cristiani. Su questa base teologica, a prescindere dalla reciprocità, nasce un atteggiamento nuovo nelle relazioni tra credenti di fedi diverse.

Questo atteggiamento nuovo è il dialogo, che appare così non già una scelta di comodo che nasconde interessi diversi, ma una scelta di fondo e ben fondata. Il dialogo nasce dalla consapevolezza di una profonda unità, fondata sul mistero della creazione e della redenzione; a questa unità va aggiunta l'opera dello Spirito che, presente nei cuori e nelle Coscienze, è presente anche nelle culture e nelle religioni a cui gli individui hanno dato origine. I semina Verbi sono i segni di questa sua misteriosa ma salvifica presenza. Non è quindi possibile risolvere la missione nel solo dialogo sopprimendo l'annuncio: mentre permette la scoperta di nuovi spazi di verità, il dialogo non cancella la fede e quindi, in qualche modo, è pur sempre una forma di annuncio. Per questo da una parte il dialogo deve esprimere la reciprocità del cammino delle religioni e dall'altra deve rispettare la loro asimmetria che riconosce la singolarità di Gesù.

Nonostante queste precisazioni, la Congregazione per la dottrina della fede riterrà inadeguata questa presentazione: vi scorgerà ambiguità e difficoltà che possono condurre in errore il comune lettore. Non vedrà sufficientemente riconosciuta la verità della divinità di Gesù e nella Dominus Iesus, senza fare cenno a Dupuis e alle sue tesi, parlerà del pericolo del relativismo ed enuncerà quelle verità che devono rappresentare come il quadro criteriologico di ogni corretto lavoro su questo tema. Questo dibattito oggi appena iniziato, nelle conclusioni a cui nel futuro giungerà, rappresenterà l’ossatura del cristianesimo venturo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

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