In ricordo di P. Franco

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Teologia africana
Incisività cercasi
di Bénézét Bujo

Studiare e insegnare teologia – come pure scrivere libri in materia – non è un lusso o un motivo di vanto, ma un ministero ecclesiale. Che va curato, rafforzato e apprezzato.

Teologia come ministero

«Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 4-7). In una comunità cristiana ci sono apostoli, profeti, maestri, operatori di miracoli, guaritori, leader…..: sono tutti indispensabili per un armonioso andamento delle cose.

ministero è di governare la chiesa locale. Per fare ciò, ha bisogno di collaboratori. Tra questi figura il teologo, che studia, indaga, analizza, elabora, propone, scrive….. La sua opera va offerta al vescovo, il quale è chiamato ad ascoltare, giudicare, decidere….. Più teologi un vescovo ha, meglio saprà condurre la chiesa locale.

Temi teologici

Il ministero di teologo va oggi compiuto nel contesto africano del 21° secolo. Un contesto che ha molte dimensioni, tuttora profondamente permeate dalla cultura africana. E superficiale affermare che la mentalità tradizionale è stata spazzata via della modernità. Essa, invece, dà forma al modo di pensare, sentire e agire delle nostri genti. Basti pensare alla diffusa credenza nella stregoneria, all’importanza data ai riti di guarigione, alle diverse concezioni del matrimonio….. Il nostro compito di teologi è quello di ascoltare la nostra gente per scoprirne l”anima” africana.

L’attenzione non dovrà perdersi nell’esame di particolarismi etnici, ma concentrarsi sulla ricerca del vero centro dell’universo simbolico africano, che è comune a molti gruppi. Così, potremmo diventare sempre più consapevoli del modo in cui i vari popoli dell’Africa nera possono dare vita a un dialogo culturale. E’ mia convinzione che il dialogo tra le diverse culture africane risulterebbe più facile di quello tra esse e quelle non africane. Un esempio: invece di presentare all’africano Adamo come antenato, per poi presentare Cristo come “secondo Adamo”, è più sensato sviscerare il concetto africano di antenato per poi “inculturarvi” la fede in Cristo “Proto-antenato”.

Anche il dialogo ecumenico tra le varie denominazioni cristiane risulterebbe più fecondo, se fosse più radicato nella cultura africana. La venerazione degli antenati è un ottimo punto di partenza per una comprensione del mistero della comunione dei santi accettabile anche dai protestanti. E il ruolo riservato a Maria, in quanto Madre di Dio, sarebbe più comprensibile, se visto sullo sfondo dell’importanza attribuita alla madre, “sorgente di vita”, nelle culture africane.

Linguaggi teologici

Se vogliamo che la teologia fatta in Africa diventi veramente africana, dobbiamo cominciare a insegnarla e scriverla nelle nostre lingue, usando concetti e simbologie locali. Le accezioni africane di “padre”, “madre”, “fratello-sorella”, “figlio-figlia”….., non sono quelle occidentali. Quando noi parliamo di “famiglia”, intendiamo una realtà che difficilmente europei e nordamericani capirebbero. Un esempio: l’attuale codice di diritto canonico ammette matrimoni tra due persone imparentate (fino a un dato livello) che le culture africane considerano autentiche unioni incestuose.

Anche il linguaggio riguardante la povertà va rivisto. Per la mentalità africana, povera è soprattutto la persona che “non-è-con” l’altro o gli altri, priva, cioè, di relazioni. In molte lingue nostre non esiste il verbo “avere”, ma soltanto l’”essere con” (kuwa na, kuzala na, kü na…,dove na sta per “con”). Tutto ciò che ci circonda non è lì per essere da noi posseduto, ma per invitarci a creare sempre nuove relazioni. Il possesso individualistico è totalmente fuori posto.

Il linguaggio va ricreato anche a livello di liturgia, omiletica, preghiere... In tutto ciò, è indispensabile che i vari modi di espressione siano liberi di offrire i propri contributi. A questo fine, è auspicabile che nelle facoltà africane di teologia si creino dipartimenti di linguistica. Non possiamo più farne a meno, se vogliamo dare ascolto all’appello lanciatoci da Paolo VI nel lontano 1969, a Kampala: «Africani, voi potete e dovete avere un cristianesimo africano».

(da Nigrizia, febbraio 2006)

Pubblicato in Teologia

A – GESÙ CRISTO,
FINE DELLA STORIA UMANA
di Bruno Secondin

Il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri delle civiltà, il centro del cosmo e delle aspirazioni dell’umanità (cf. GS 45).

La corsa gloriosa della Parola (2Ts 3,1) dalla creazione all’eschaton ha come centro l’avvento sulla terra di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Il suo messaggio e la sua vicenda hanno segnato gli ultimi due millenni in maniera unica: egli è stato il vero protagonista di progetti e valori, fermenti e speranze collettive, resistenze e utopie religiose.

Ogni epoca storica - non solo quella attuale - si è trovata nella necessità e nel rischioso compito di colmare il divario fra le generazioni e gli strati culturali, a provare ed esperimentare formule «cristologiche» culturalmente nuove o più vicine alle generazioni più giovani. Ma ancor più frequente è stata l’esperienza di un dialogo vitale con le culture periodicamente emergenti o già ricche di grande maturità.

Nel primo caso non è mancato il rischio di ricorrere ad una ortodossia irrigidita o di vedere talora mutilata la rivelazione nelle sue esigenze di autenticità e nella gerarchia dei suoi contenuti vincolanti. Sono le note tendenze al fondamentalismo dogmatico o al riduzionismo per paura della radicalità evangelica. Il compromesso o l’esasperazione della tradizione sono sempre deleteri per la stessa radicalità evangelica.

Nel secondo caso - specie nei momenti di grandi trasformazioni sociali - si è trattato di un cammino in compagnia delle culture, e delle loro trasmigrazioni, per dare e ricevere, riconoscere e seminare, criticare e purificare. Si è così realizzata la possibilità anche per la precedente «sintesi», di uscire dai propri limiti (culturali o linguistici) e trascenderli, per una migliore e più significativa «cattolicità».

I

Dalla memoria la profezia

Dobbiamo ritrovare la creatività apostolica e la potenza profetica dei primi discepoli per affrontare le nuove culture», ha detto Giovanni Paolo II al Pontificio consiglio per la cultura (18 gennaio 1983). Ma è un compito per niente facile.

In effetti le enormi trasmigrazioni culturali cui partecipano le nostre generazioni hanno da un pezzo scompaginato la simbiosi fra Vangelo e cultura, fra linguaggio comune e valori religiosi, fra modelli di comportamento e di riferimento e progetti cristiani. A tal punto che si può veramente parlare di una plasmazione nuova di tutto il sistema di evangelizzazione ereditato. Quei «molteplici rapporti tra messaggio della salvezza e cultura umana» (GS 58) che avevano consentito alle generazioni precedenti di raggiungere una quasi totale omogeneità cristiana, si stanno rivelando oggi difficili. se non addirittura impossibili.

La nuova generazione e la nuova cultura emergente, sono dominate dalla fattualità, dalla libertà creatrice e istintuale, che portano alla crisi di ogni riferimento, alla così detta «identità stabile», per sposare la civiltà della dimenticanza (come dice Heidegger). E il ritardo culturale di tutto il sistema comunicativo ecclesiale conduce all’impotenza crescente nell’evolversi della cultura, e all’incapacità a confessare e testimoniare Gesù Cristo come salvatore della storia e del cosmo, pienezza delle attese di liberazione e di pace fra i nostri contemporanei.

Notiamo:

«Per ciascuna cultura è presente il dinamismo pasquale, della morte e della risurrezione, grazie al quale la chiesa si può arricchire, ma anche tutto il genere umano. Bisogna perciò che nei battezzati si risvegli il senso critico per giudicare i germogli di vita e di morte nascosti nel inondo. Una evangelizzazione che non arrivasse al cuore della cultura sarebbe solamente superficiale e vuota. Infatti una fede che non permeasse la cultura non sarebbe pienamente recepita, né rettamente compresa, né vitalmente assimilata (cf. Giovanni Paolo Il, Al popolo belga, 20 maggio 1985)». (1)

Tradizione e comunicazione

Non si può negare che oggi le possibilità di comunicazione sono enormi: ma non è la mancanza di comunicazione che fa problema, quanto piuttosto il suo processo di elaborazione e i suoi contenuti. In effetti la densità di comunicazione si trasforma - in progressione geometrica - in vera e propria anemia di autenticità personalizzante e comunicativa. Le parole certamente corrono, ma il dialogo è soffocato e ristagna: tutto è trasformato in res quantificabile sulla base degli interessi pan-economici (acquirente, consumatore, numero statistico, mezzo di scambio...).

In tale regime non è per nulla agevole parlare e pensare la propria fede in termini acculturati.

Se la parola fa esistere l’uomo e lo qualifica socialmente, ma poi tale parola diventa monopolio operativo di pochi e passività di molti, anche la Parola di vita rischia di affogare nel marasma del verbalismo ubiquitario. Oppure verrà asservita a progettualità che si fondano sulla dominanza degli uni sugli altri, anche se in forme religiose.

Il molteplice caos che imperversa a livello di evidenze etiche, di appartenenze sociali, di valori guida, esige non solo di resistere alla mercificazione del Logos, operata sulla base delle emozioni effimere o di sensazioni magico-taumaturgiche. Ma postula anche una riscrittura dell’intera sintassi dell’evangelizzazione secondo condizioni culturali nuove.

La babele dei linguaggi che caratterizza la nostra stagione, non consente l’uso innocente del linguaggio tradizionale: perché spesso si tratta di codici culturali obsoleti o ipostatizzati in altri contesti sociali, oggi scomparsi. Piuttosto esige una decodificazione del nostro bagaglio culturale di evangelizzazione, per distinguervi i dinamismi vitali e i rivestimenti caduchi, per cogliere la Parola e discernere la sua presenza fra le parole.

La legge “incarnatoria”

L’incontro con la cultura e le culture può essere una grande sfida, ma di fatto è anche una grande promessa per la fede cristiana, e oltre tutto corrisponde ad un’esperienza più volte vissuta dalla comunità del Signore. Sappiamo bene che la rivelazione divina ha una «struttura incarnatoria». La Bibbia stessa ne dà esempio dalla prima pagina fino all’ultima: dal racconto della creazione all’immaginario apocalittico, troviamo attestata la presenza ed evidente l’osmosi con le culture antiche della Mesopotamia, dei babilonesi, degli egiziani, e poi dei greci e infine dei romani.

Quando il Verbo si è fatto carne ha assunto le forme della cultura ebraica del suo tempo: che era essa stessa frutto di stratificazioni diverse nel tempo e nei valori.

Poi il messaggio evangelico, annunciato in lingua e mentalità ebraico-aramaica, è stato trascritto (e reinterpretato) in greco e progressivamente ha assunto modelli latini, siriaci, bizantini, ecc. Infine prendendo forma attraverso le successive ondate biologiche ed etniche, ha attraversato le culture occidentali impregnandole profondamente, ma anche ricevendone strumenti per una esplicitazione eccellente.

Dice Gaudium et spes:

«La chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli. Ma allo stesso tempo, inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo. la chiesa non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture».

Oggi tenta di esprimersi nelle lingue e negli elementi vitali delle culture di tutti i popoli. Il compito grandioso e creativo del prossimo millennio sarà il processo di penetrazione evangelica nelle culture dell’Africa e dell’Asia. Di fatto è appena all’inizio, ma già si intuiscono sviluppi fecondi!

Negli ultimi anni abbiamo visto esplodere, dentro il quadro collaudato della cultura umanistica dell’occidente, una cultura materiale ed efficientistica - la così detta cultura delle mani - che sgretola l’antica sintesi e porta ad un enorme pluralismo ideologico e culturale mai incontrato nel passato. E questo comporta una nuova stagione di annuncio e maturazione del Vangelo.

Noi sappiamo bene che la pluralità delle culture non è una maledizione, perché anch’essa è frutto della crescita dell’umanità (nonostante i limiti reali). La pluralità riflette la ricchezza senza misura della verità: e il disegno di Dio è riconciliare in Cristo la molteplicità delle cose (cf. Ef.10; Col 1,20).

Il divorzio o la rottura fra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (cf. Ef 20), ma la soluzione non è quella di voltarsi indietro e rimpiangere l’antico connubio o risuscitare l’antica «cristianità». Piuttosto, come suggerisce Puebla:

«Fare attenzione verso dove si dirige il movimento generale della cultura, più che guardare al retaggio del passato; guardare alle espressioni attualmente in vigore, più che a quelle puramente folkloriche» (n.398)

Solo così è possibile individuare le nuove «sintesi» che stanno emergendo, vivendole da protagonisti e non da distratti spettatori («la vita non è uno sport da spettatori») e fermentarle con l’annuncio di Cristo. Il termine nuovo dell’evangelizzazione è l’incu!turazione: tutti ne parlano e significa appunto l’esperienza di compagnia e crescita insieme alle culture, dal loro interno, orientandole e arricchendole. Questa trasformazione delle culture è un’esigenza intrinseca e necessaria del principio teologico secondo cui Cristo è l’unico Salvatore e senza di lui nulla può salvarsi.

Dice la Evangelii nuntiandi:

«Raggiungere e trasformare, con la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero. le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo: occorre evangelizzare - non in una maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo» (nn. 19-20).

Tutto l’umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, dalla sua azione liberatrice, dalla sua pienezza ultima, e trovare in lui dignità e consistenza, per virtù della vita vera che comunica il Verbo di vita.

Rimane sempre valido nell’ordine pastorale il principio formulato già da sant’Ireneo: «Ciò che non viene assunto non viene neppure redento». Gesù è la via al Padre, e tutta l’umanità deve passare per la strada della sua carne gloriosa, per essere un unico e cosmico «Amen!» con lui al Padre.

Karl Rahner, nella sua vecchiaia - facendosi carico di certe nuove esigenze molto diffuse - ha detto circa l’annuncio cristologico:

«La chiesa deve mantenere, difendere e proclamare il suo dogma cristologico (e naturalmente lo farà). Tuttavia penso anche che questo annuncio dovrebbe avvenire in modo da giungere più facilmente di quanto non sia oggi. Infatti l’annuncio effettivo ha, non come tesi esplicita ma come “ambiente”, una tonalità di carattere monofisita e questo causa le difficoltà della fede in Gesù Cristo che non dovrebbero esistere».

E aggiunge ancora:

«La mia opinione è questa: che qualora fosse predicata in maniera più viva e naturale la vera semplice autonoma sperimentabile umanità di Cristo, in forza della quale - come professa la chiesa - egli è consostanziale con noi; e qualora nella predicazione non si facesse di Gesù, sia pure non intenzionalmente ma di fatto, un Dio nella livrea di uomo; qualora... si proclamasse con più chiarezza, vivacità e convinzione il dogma di Calcedonia della permanente distinzione di divinità e umanità nella persona concreta di Gesù; qualora.., si presentasse, ad esempio, senza complessi, Gesù come un ebreo del suo tempo, quell’ebreo che egli era: qualora si tenesse in conto più apertamente, almeno entro determinate circostanze, anche di uno sviluppo personale di Gesù nonostante il fatto di trovarsi costantemente in unità col Logos: ecco io penso che allora la proclamazione del dogma permanente della chiesa, per quanto riguarda la cristologia, potrebbe diventare più facile... Forse vi sono teologi che, presi da un grandioso entusiasmo per la loro fede, si sentono superiori a questi problemi; ma io non vorrei far parte di essi, bensì sforzarmi di evitare costantemente, per quanto è possibile, questi malintesi o difficoltà inerenti alle affermazioni di fede, perché la fede cristiana non sia resa per la gente più pesante di quanto necessario, perché questo peso sia il peso della fede e non il peso che, hanno aggiunto alla fede teologi pigri e antiquati». (2)


1) Le propositiones, si trovano pubblicate integralmente in varie riviste. Noi citiamo dalla rivista «Regno-documenti» 32(1987), 21, pp. 700-709. Nello stesso fascicolo si trovano anche altri testi importanti del sinodo dei laici. Una raccolta organica dei documenti SYNODE ÈVÊQUES 1987, Les laïcs dans l’Église et dans le monde. Leur vocation et leur mission ans après Vatican II, Centurion-Cerf, Paris 1987. 2) Regno-documenti 26 (1981), II pp. 364-372.

2) Regno-documenti 26 (1981) II pp. 364-372.

II

Gesù Cristo al Centro

«Non c’è vera evangelizzazione se il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati. La storia della chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina della pentecoste, si mescola e si confonde con questo annuncio» (EN, n. 21).

Non c’è dubbio che l’annuncio di Gesù, salvezza dell’uomo e rivelazione suprema di Dio, e la ricerca di forme e vie per vivere esperienzialmente questa verità dominano tutti i secoli della storia della chiesa, anche la storia dell’umanità dei due millenni dell’era cristiana. Oggi si può affermare che non c’è persona nel mondo civile che non abbia qualche nozione o informazione su Gesù di Nazaret, questo personaggio davvero unico nella storia.

Senza Gesù non vi sarebbe il cristianesimo, e senza il cristianesimo l’occidente e il mondo intero mancherebbero di una componente unica della loro storia. Non solo la vita spirituale, ma anche l’arte, la cultura, la stessa vita politica, tutta la tradizione sociale sono state toccate intimamente dal messaggio di Gesù e dalla presenza dei suoi messaggeri con le loro organizzazioni. Basta pensare a ciò che sono state e sono tuttora per l’occidente e per le culture che da esso hanno preso forma, la dialettica stato-chiesa, fede-cultura, religione-umanismi, e la missione universale del cristianesimo. Per non dire dei grandi temi del pensiero e dell’etica: come fede e ragione, libertà e destino, peccato e salvezza, natura e grazia, vita presente e vita futura. Ai quali si deve aggiungere la ricerca sul significato della storia e della vita umana. In occidente e in buona parte del mondo, molto rimanda a Gesù di Nazaret e alla sua chiesa: dall’arte alla letteratura, dalla geografia all’identità nazionale, dalle istituzioni ai linguaggi, dai progetti alle tragedie collettive.

La grandezza dell’uomo Gesù

Da lui l’uomo, in qualunque individuo si voglia esprimere, è stato esaltato ai vertici dei valori. Da lui il singolo è stato abilitato a rivendicare la propria dignità e libertà di coscienza di fronte a ogni genere di potere autocratico e di costrizione sociale. Per questo la persona di Gesù ha sempre goduto di una riverenza incondizionata: e nulla lascia presagire che diminuirà nelle generazioni che ancora verranno.

Gesù è stato oggetto di amore e di venerazione, ma anche di avversione radicale durante la vita come pochi altri uomini; ma nessuno come lui ha contato dopo di sé tanti che l’hanno seguito fino a morire per restargli fedeli.

Studiosi e critici di ogni tendenza hanno tentato negli ultimi due secoli di intaccarne la sincerità e la consistenza, ma la loro ricerca sulla testimonianza, per quanto frammentata. è servita ad illuminare ancor meglio la figura storica di Gesù, che emerge nella sua unicità. Anzi essa appare irriducibile, sotto qualunque aspetto, alle stesse realizzazioni che si appellano a lui. Si potrebbe quasi dire che in verità ogni generazione scopre «tratti ispirativi» nuovi di Gesù, lasciandone altri alle generazioni che verranno.

I suoi rapporti con gli uomini e le donne, con i ricchi e i poveri, con i potenti e con i deboli, con chi soffre e con chi è nella gioia, con chi patisce ingiustizia e con chi invece la compie. sono diventati delle categorie emblematiche universali della perfezione morale stessa.

Soltanto figure come Mosè, Budda, Maometto, Confucio, variamente controllabili dagli storici. possono parzialmente essergli avvicinate. Ma per quanto si sa , nessuno ha osato dire ciò che invece Gesù ha detto con insistenza e sconcertando non pochi: di essere il Figlio di Dio.

Nessuno ha avuto una storia pari alla sua. La sua persona e il suo messaggio hanno influenzato e influenzano le stesse grandi religioni del mondo.

In particolare sono le sue parole che non hanno eguali. Si è potuto affermare che in Gesù la parola ha raggiunto il massimo della sua intensità e capacità espressiva. Si pensi al discorso della montagna o alle parabole del Regno. Forse anche per questo i discepoli l’hanno salutato come il Logos, la parola divina diventata carne per comunicarsi agli uomini.

Ma come tutti sappiamo l’annunzio, la relazione vitale. l’esperienza con Gesù non hanno sempre avuto le medesime tonalità e mediazioni. Ogni epoca ha riascoltato la domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15), e vi ha dato risposte sempre nuove, sempre legate alla sensibilità culturale, alle prospettive globali dell’esistenza umana e dell’autocoscienza ecclesiale.

Così è stato durante la storia antica e così si verifica ancora oggi. Infatti anche i nostri ultimi decenni segnano chiaramente una dilatazione delle questioni cristologiche a carattere soprattutto globale: e così nascono le nuove cristologie, di cui parleremo brevemente.

E’ tanto vero questo, che qualcuno ha sollevato con violenza la questione, se negli ultimi secoli non si sia verificata un’apoteosi del cristocentrismo che ha sbilanciato la bipolarità secolare teocentrismo/cristocentrismo. Due teologi francesi, J. Milet e C. Duquoc, hanno richiamato l’attenzione su queste punto, il primo, in verità, in maniera piuttosto polemica.

Due secoli di studio

Per quasi 1700 anni la questione storica della cristologia è stata praticamente pacifica. Ma verso la metà del 1700 la pacifica situazione viene interrotta dalla grande discussione sulla storicità di Gesù. Questa è stata certamente una delle cause della iperconcentrazione della riflessione e delle ricerche su Cristo.

Possiamo riassumere brevemente i motivi della discussione sulla storicità in quattro interrogativi:

- Tutti i fatti straordinari narrati dal Vangelo sono razionalmente possibili?

- In caso di risposta affermativa, è possibile, partendo dai racconti evangelici, considerati storici, giungere ad una ricostruzione della vita di Gesù?

- In caso di risposta negativa, è egualmente ricostruibile, attraverso i racconti che sono stati tramandati, l’immagine storica di Gesù?

- Nel caso in cui Gesù storico non fosse raggiungibile, sarebbe ancora possibile essere cristiani?

Il nocciolo della questione trova la sua origine nell’esigenza di razionalità spinta fino al radicalismo, che fu propria del sec. XVIII, detto secolo dei lumi.

Di fatto tutto il problema è sorto non per l’uso indebito di metodi critici alla Scrittura, ma dal rifiuto di accettare il monopolio assoluto della chiesa nei suoi argomenti culturali. E questo ha portato ad aprire perfino il dossier Scrittura e Gesù Cristo: due settori chiave e assolutizzati ipostaticamente. Così Gesù storico diventa un elemento «sovversivo» rispetto alla figura del Gesù ecclesiale: uno strumento di libertà.

Alcuni nomi vanno ricordati: Herman Samuel Reimarus (+ 1768): il suo principio storico è: solo ciò che è razionalmente accettabile può definirsi storico, il resto è «mito». Per lui Gesù era un israelita intento a suscitare un movimento politico-militare contro i romani oppressori; mentre i suoi seguaci, di fronte al fallimento del Maestro, continuarono la sua memoria in senso religioso, predicando che il suo scopo era stato quello di portare agli uomini la salvezza puramente spirituale.

Altro nome è David Friedrich Strauss (+ 1874): secondo lui fu riversata su Gesù - che in fondo non era che un semplice uomo - la ricchezza immaginativa della lunga attesa messianica presente nel popolo ebraico e ispirata agli attributi che le Scritture davano al Messia. Gli rispose, con argomentazioni cattoliche, Johan Baptist Kuhn mostrando la storicità dei testi.

Altro nome da ricordare è Martin Koehler che suggerì di distinguere nel Gesù dei Vangeli i due aspetti: storico/documentaristico (historisch) e storico/vitalistico (geschichtlich). Il primo riguarda il passato ed è comune a qualsiasi altro personaggio storico; il secondo riguarda il presente come risultato dell’influsso derivato dal passato ed è specifico del nostro tema, come lettura di Cristo nella fede. I due aspetti in fondo sono sempre presenti e non ha alcun senso volerli separare, almeno a livello di esperienza cristiana.

Su queste premesse si introducono poi tutti i grandi esegeti e teologi del nostro secolo, a cominciare da Bultmann, caposcuola di tutta una nuova impostazione del discorso su Gesù: sottolineando soprattutto la linea del Gesù della fede.


Pubblicato in Teologia
Martedì, 09 Gennaio 2007 01:12

L'energia umana (Pierre Teilhard de Chardin)

L'energia umana
di Pierre Teilhard de Chardin



L’energia umana si presenta alla nostra osservazione quale termine di un ampio processo in cui è impegnata la massa totale dell’Universo.

In noi, l’evoluzione del Mondo verso lo spirito si fa coscienza. La nostra perfezione, il nostro interesse, la nostra salvezza elementare possono pertanto consistere solamente in un impegno di portare avanti, con tutte le nostre forze, precisamente questa evoluzione. E’ possibile che non comprendi9amo ancora esattamente dove questa ci porti, ma sarebbe assurdo da parte nostra dubitare che non ci conduca verso una qualche fine di supremo valore.

Di conseguenza, per la prima volta da quando la Vita si è svegliata sulla Terra, emerge finalmente nella nostra coscienza umana del sec. XX, il problema fondamentale dell’azione. Non solo, come una volta, per la nostra piccola individualità, la nostra piccola famiglia, la nostra piccola patria, nemmeno solo per la totalità della Terra, ma per la salvezza e la riuscita dello stesso Universo, come dobbiamo, noi uomini di oggi, organizzare nel miglior modo attorno a noi il mantenimento, la distribuzione e il progresso dell’Energia umana?

Il primo obiettivo che debba focalizzare l’attenzione di un tecnico dell’Energia umana è quello di assicurare ai nuclei umani, considerati isolatamente, il loro grado massimale di consistenza e di “efficienza” elementari. Perfezionare gli individui in modo da conferire all’insieme un sommo grado di potenza, ecco ovviamente la marcia da seguire per il successo finale dell’operazione.

Quale che sia la genericità dei suoi metodi, l’organizzazione dell’Energia umana elementare deve culminare, in ciascun elemento, nella costituzione di un massimo di personalità.

Ma oggi che si realizza, sotto i nostri occhi e nella nostra coscienza, la presa in massa dello strato umano, l’Uomo, anche ipotizzandolo ormai stabilizzato nella sua natura individuale, vede aprirsi davanti ai suoi occhi un campo evolutivo nuovo illimitato: quello delle creazioni, delle associazioni, delle rappresentazioni e delle emozioni collettive. Come assegnare limiti agli effetti di espansione, di penetrazione, di diffusione spirituale risultanti da un’organizzazione coerente della moltitudine umana? E’ bello dominare e disciplinare le potenze dell’etere e del mare. Ma che trionfo è questo paragonato alla padronanza globale del pensiero e dell’amore umano? In verità, mai una opportunità più bella si è presentata alle speranze e agli sforzi della Terra.

Volentieri ci vantiamo di vivere in un secolo di luce e di scienza. Eppure, tutt’al contrario, ci attardiamo ancora in forme rudimentali e infantili di conquista intellettuale. In danaro, in personale, in organizzazione, qual è attualmente la percentuale delle attività terrestri impegnata nell’esplorazione e nella conquista delle zone ancora ignote del mondo?

A tutt’oggi la maggior parte degli uomini capisce la Forza (chiave e simbolo del più-essere) soltanto nella sua forma più primitiva e più brutale: la Guerra.

Ma venga il tempo (e verrà) in cui la massa si renderà conto che i veri successi umani sono quelli riportati sui misteri della Materia e della Vita. Allora suonerà per l’Uomo un’ora decisiva: quella in cui lo Spirito della Scoperta assorbirà la forza viva contenuta nello Spirito della Guerra. Fase capitale della Storia, in cui tutta la potenza delle flotte e delle armate, trasformata, raddoppierà quell’altra potenza che, grazie alla macchina, sarà inoccupata, sicché una marea irresistibile di energia libera salirà verso le zone più progressive della Noosfera. Di questa massa di energia disponibile, una parte importante verrà subito impegnata nell’espansione umana nel mondo materiale. Ma un’altra porzione, quella più preziosa, rifluirà necessariamente sino al livello dell’energia spiritualizzata.

L’energia spiritualizzata è il fior fiore dell’energia cosmica. Rappresenta pertanto la frazione più interessante delle forze umane da organizzare. In quali direzioni principali possiamo ipotizzare che essa cammini e che noi possiamo aiutarla a svilupparsi in seno alle nostre nature individuali? Senz’altro, nel senso di una fioritura decisiva di certe nostre capacità di sempre, assieme all’acquisizione di nuove facoltà o gradi di coscienza.

L’Amore, alla pari del pensiero, è sempre in pieno aumento nella Noosfera. Ogni giorno diventa più flagrante l’eccedenza delle sue crescenti energie sui bisogni sempre minori della propagazione umana. Ciò significa che, nella sua forma pienamente ominizzata, questo Amore tende a svolgere una funzione molto più ampia del semplice richiamo della riproduzione. Verosimilmente, tra l’uomo e la donna, sonnecchia ancora uno specifico e reciproco potere di sensibilizzazione e di fecondazione spirituale che aspira a sprigionarsi in uno slancio irresistibile verso ogni bellezza e ogni verità. Grazie alle illimitate possibilità d’intuizione e di correlazione che reca con sé, oltre un certo grado di sublimazione, l’amore spiritualizzato penetra nell’ignoto.

In tutti i campi, noi cominciamo a vivere abitualmente in presenza e con la preoccupazione del Tutto. Dal punto di vista dell’energia umana, nulla è più capitale dell’apparizione spontanea, ed eventualmente dello sviluppo sistematico, di un siffatto “senso cosmico”. Con esso gli uomini cessano di rappresentare individualità chiuse su di sé, per diventare parti di un Tutto. In essi, pertanto, l’energia spirituale elementare si trova definitivamente pronta ad inserirsi nell’energia totale della Noosfera. Ma non dimenticheremo di porre in luce un punto importante: la perfezione e l’utilità di ogni nucleo di energia umana, rispetto all’insieme, dipendono, in definitiva, da ciò che v’è d’unico e d’incomunicabile nel completamento di ciascuno. Dunque, la cosa che deve preoccupare il tecnico dello Spirito, nel maneggio delle unità umane, è lasciare a queste, nelle trasformazioni che tenta di far loro subire, la possibilità di trovare se stesse e la libertà di differenziarsi sempre di più.

I primi lineamenti di una coscienza comune racchiudono in sé una vivente esigenza di precisarsi e di prolungarsi ulteriormente. Nel campo intellettuale, i progressi della scienza tendono ad edificare una sintesi delle leggi della Materia e della Vita che, in fondo, non è che un atto collettivo di percezione: il mondo visto dalla totalità dell’Umanità in una stessa prospettiva coerente. Nel campo sociale, il mescolamento e la fusione delle razze portano direttamente all’elaborazione di una forma anch’essa comune, non solo di linguaggio ma di moralità e d’ideale.

Considerata nella sua totalità, l’organizzazione dell’energia umana ci orienta e ci sospinge, al di sopra di ogni elemento personale, verso la formazione ultima di un’anima comune.

La convergenza di attività dalla quale nasce l’anima collettiva umana presuppone, come punto di partenza, l’aspirazione comune suscitata da una speranza. Per muovere ed alimentare l’energia umana ci vuole, all’origine, nulla meno dell’attrazione interna verso un oggetto desiderato.

Dato che non vi è né fusione né dissoluzione delle persone elementari, il Centro in cui aspirano a congiungersi deve necessariamente essere distinto da esse, avere cioè la sua propria personalità, la sua realtà autonoma.

Per il suo mantenimento e il suo funzionamento, la Noosfera esige, fisicamente, l’esistenza nell’Universo di un Polo reale di convergenza psichica: Centro differente da tutti gli altri Centri che esso “supercentra” assimilandoli; Persona distinta da tutte le persone che perfeziona unendosele. Il Mondo non funzionerebbe se non esistesse, da qualche parte, oltre noi nel Tempo e nello Spazio, “un punto cosmico” di sintesi totale.

Lo abbiamo testè riconosciuto: con l’Ominizzazione, l’Universo ha raggiunto un livello superiore in cui le sue forze fisicomorali assumono via via la figura di un’affinità fondamentale correlante gli individui fra di loro e al Centro trascendente. In noi e attorno a noi, gli elementi del Mondo senza posa si personalizzano sempre di più, per accessione a un Termine, anch’esso personale, di unificazione: sicché, da quel Termine di confluenza ultima s’irradia, e verso di Lui rifluisce, in definitiva, l’energia essenziale del Mondo, quella che, dopo aver agitato confusamente la massa cosmica, ne emerge per formare la Noosfera.

Quale nome dobbiamo dare a tale sorta d’influsso? Uno solo, l’Amore: forma superiore e principio totalizzatore dell’Energia umana.

Rappresentiamoci un uomo diventato consapevole delle sue relazioni personali con una Persona suprema, alla quale egli è portato ad aggregarsi attraverso l’intero gioco delle attività cosmiche. In un tale soggetto, e a partire da lui, ecco abbozzarsi un processo di unificazione segnato dalle seguenti tappe:

  • totalizzazione di ogni operazione sul piano individuale;
  • totalizzazione dell’individuo rispetto a se stesso;
  • totalizzazione, infine, degli individui nella collettività umana.

Tutto questo “impossibile” si realizza sotto l’influsso dell’Amore. Omega, Colui verso cui tutto converge, è reciprocamente Colui dal quale tutto s’irradia. Non si può situare quale focolaio al vertice dell’Universo senza diffondere, ipso facto, la sua presenza fin nell’intimo del minimo progresso compiuto dall’Evoluzione. Ciò significa che, per colui che ha visto questo, ogni cosa, per quanto umile sia, purché venga situata nella linea del progresso, si scalda s’illumina, si anima e diventa pertanto un oggetto di adesione totale.

Che sotto l’influsso animatore di Omega ogni nostro gesto particolare possa diventare totale, e già una meravigliosa utilizzazione dell’energia umana. Ma ecco che, appena avviata, questa prima trasfigurazione delle nostre attività tende a prolungarsi in un’altra metamorfosi ancor più profonda. Per lo stesso fatto di diventare totali, ciascuna per conto suo, le nostro operazioni sono logicamente portate a totalizzarsi, raccolte tutte quante in un atto unico.

E’ una vera sintesi che l’amore di Omega opera sul fascio raggruppato delle nostre facoltà.

Nel corso superficiale delle nostre esistenze, vedere o pensare, capire o amare, dare o ricevere, crescere o diminuire, vivere o morire, sono cose diverse. Ma cosa diventeranno tutte quelle contrapposizioni non appena, in Omega, la loro diversità si rivelerà quale le modalità infinitamente varie di uno stesso contatto universale? Senza che le loro radici svaniscano affatto, tenderanno a combinarsi in una risultante comune, in cui la loro pluralità, sempre riconoscibile, esploderà in una ineffabile ricchezza. Perché meravigliarci? Non conosciamo, forse, a un minor grado di intensità, un fenomeno analogo nella nostra esperienza? Quando un uomo ama nobilmente una donna, con questa passione vigorosa che esalta l’essere al di sopra di se stesso, la vita di questo uomo, la sua capacità di creare e di sentire, l’intero suo universo, si ritrovano distintamente contenuti e ad un tempo sublimati nell’amore per questa donna. Eppure la donna, per quanto sia necessaria all’uomo per rispecchiargli, rivelargli, comunicargli e “personalizzargli” il Mondo, non è ancora il Centro del Mondo. Se dunque l’amore di un elemento per un altro elemento è potente sino al punto di fondere (senza confonderla) in una impressione unica la moltitudine delle nostre percezioni e delle nostre emozioni, chi sa cosa sarà la vibrazione intima dei nostri esseri nel loro incontro con Omega!

Quando, progredendo nei nostri cuori l’amore del Tutto, sentiremo allargarsi, al di sopra della divergenza dei nostri sforzi e dei nostri desideri, l’esuberante semplicità di uno slancio nel quale si mescolano e si esaltano, senza perdersi, le innumerevoli sfumature della passione e dell’azione, allora, in seno alla massa costituita dall’Energia umana, saremo vicini, ciascuno alla pienezza della nostra efficienza e della nostra personalità.

Totalizzare senza spersonalizzare. Salvare al tempo stesso l’insieme e gli elementi. Tutti sono d’accordo su questo doppio fine da raggiungere. Ma come i raggruppamenti sociali di oggi situano i valori che essi sono teoricamente concordi nel voler preservare? Sempre considerando la persona come un elemento secondario o transitorio, e ponendo in testa ai programmi il primato della pura totalità. In tutti i sistemi di organizzazione sociale che si affrontano sotto i nostri occhi, va sottinteso che lo stato finale al quale tende la Noosfera è un corpo senz’anima individualizzata, un organismo senza volto, un’Umanità diffusa, un Impersonale.

Ora, questo punto di partenza, una volta accettato, vizia l’intero svolgimento successivo dell’operazione sino a renderla impraticabile. Se l’universo tende finalmente a diventare un qualcosa, come potrebbe mai riservare in sé un posto per un Qualcuno? Se si premette che il vertice dell’Evoluzione umana sia di natura impersonale, gli elementi che lo accettano vedranno inevitabilmente, a dispetto di ogni sforzo contrario, diminuire la loro personalità sotto il suo influsso. Ed è proprio quanto accade. I servi del progresso materiale o delle entità hanno un bel da darsi da fare per emergere nella libertà, sono fatalmente aspirati e assimilati dai determinismi che costruiscono. Sono meccanizzati dai loro propri meccanismi. Allora, per padroneggiare i meccanismi dell’energia umana, resta solo l’uso della forza brutale, forza che, molto logicamente, vorrebbero di nuovo, oggi, farci adorare.

Al di sopra di noi, non già la forza ma l’Amore, e quindi, per incominciare, l’esistenza riconosciuta da un Trascendente che renda possibile un Amore universale.

Cosa accadrebbe il giorno in cui, anziché un’umanità impersonale presentata dalle dottrine sociali moderne alle ambizioni dell’impegno umano, noi riconoscessimo la presenza di un Centro cosciente di convergenza totale? Allora, le individualità coinvolte nella corrente irresistibile della totalizzazione umana si sentirebbero rafforzate dallo stesso moto che le avvicina. Quanto più si raggrupperebbero sotto un Personale, tanto più accrescerebbero la loro stessa personalità. E ciò avrebbe senza sforzo, in base alle proprietà dell’Amore.

Immaginiamo una Terra in cui gli uomini fossero innanzitutto interessati alla realizzazione del loro accesso globale a un Essere appassionatamente desiderato e al quale ognuno riconoscesse, in ciò che vi è di più incomunicabile nel suo prossimo, una vivente partecipazione. In un siffatto mondo, diventerebbe inutile la coercizione per mantenere gli individui nell’ordine più favorevole all’azione, - per orientarli in una libera concorrenza verso le combinazioni migliori, - per far loro accettare le restrizioni ed i sacrifici imposti da una certa selezione umana, - per deciderli, infine, a non sperperare la loro capacità di amare, ma a sublimarla gelosamente in vista della unione finale.

Siamo giunti a un punto decisivo dell’evoluzione umana, in cui l’unica via di uscita si trova nella direzione di una comune passione.

Continuare a porre le nostre speranze in un ordine sociale ottenuto con la violenza equivarrebbe semplicemente per noi ad abbandonare ogni probabilità di portare a compimento lo Spirito della Terra. Ora, espressione di un moto irresistibile ed infallibile come lo stesso Universo, l’energia umana non potrebbe affatto essere ostacolata nel raggiungimento libero del termine naturale della sua evoluzione.

Dunque, a dispetto di ogni inverosimiglianza, ci avviciniamo necessariamente a un’età nuova in cui il mondo rigetterà le sue catene per abbandonarsi al potere delle sue affinità interne.

Dobbiamo credere, sconfinatamene, alla possibilità e alle necessarie conseguenze di un amore universale.

A partire dal Cristo,la teoria e la pratica dell’Amore totale non hanno mai cessato di precisarsi, di trasmettersi e di propagarsi: dimodochè, per effetto dei due millenni di esperienza mistica che ci sorreggono, il contatto che potevamo prendere con il Focolaio personale dell’Universo ha guadagnato in ricchezza esplicita proprio quanto quello che, dopo due millenni di ricerca scientifica, possiamo prendere con le sfere naturali del Mondo. Considerato quale un “phylum” di amore, il cristianesimo è così vivente che, in questo stesso momento, possiamo osservare come, elevandosi ad una coscienza più ferma del suo valore, subisce una straordinaria ascesa.

Un’ulteriore, ultima metamorfosi non sarebbe per caso in corso? La presa di coscienza di Dio nel cuore della Noosfera, il passaggio dei cerchi al loro Centro comune, l’apparizione della Noosfera?

Pechino, 1937

N.B. Questo testo si trova in: L’Energie humaine, Oeuvres vol. 6, Parigi Seuil 1962, pp. 141-200 passim. Tr. it. L’energia umana. Tra scienza e fede, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997.

Pubblicato in Teologia
Venerdì, 29 Dicembre 2006 20:33

Evangelizzare (il) postmoderno (Armando Matteo)

VIVIAMO IN UN’EPOCA NELLA QUALE NON È PIÙ OFFERTA ALL’UOMO OCCIDENTALE UNA TAVOLA CONDIVISA DI RIFERIMENTI E DI VALORI

Evangelizzare (il) postmoderno
di Armando Matteo


Bisogna abitare questo tempo come Gesù ha vissuto il tempo di Nazaret, luogo in cui è possibile “imparare” Dio, il suo nome e il suo stile. Il segno più evidente della “postmodernità” è il venir meno di una visione religiosa della vita. Della postmodernità occorre evangelizzare l’atteggiamento antimetafisico, il tratto antisacrificale e la dimensione antiideologica.

Sconvolge la dismisura esistente tra i trent’anni passati da Gesù nel più profondo anonimato a Nazaret e la brevità della sua missione pubblica. Di quel periodo gli evangelisti ci riportano solo brevi notizie, ma quello è stato il tempo di un fecondo apprendistato presso l’uomo del suo tempo, che ha consentito a Gesù di individuare, al momento opportuno, la giusta chiave d’accesso al cuore e alla mente dei suoi contemporanei. Gli ha permesso quella profonda compartecipazione alla storia dell’uomo della porta accanto, quella lucida presenza di spirito alla vita concreta, spicciola, così che mai le sue parole risuonarono astratte, distratte, indifferenti, semplici luoghi comuni, intellettualistiche o enigmatiche.

Basta, infatti, sfogliare qualche pagina dei vangeli per afferrare la straordinaria misura con la quale Gesù ha saputo scendere dentro i dettagli della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, con una concretezza e una precisione che hanno preservato il suo insegnamento, che resta la sua prima e fondamentale opera di evangelizzazione, da qualsivoglia deriva dottrinalistica e ideologica.

La scuola di Nazaret

La lunga sosta di Nazaret -  vera incarnazione nell’incarnazione - gli ha consentito di insegnare agli uomini a riconoscere la presenza di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella bellezza non artificiale dei gigli dei campi. E soprattutto in quel di “più” con cui l’Abbà - Padre suo e Padre nostro - si prende cura della creatura umana, che arriva sino all’impensabile della conoscenza del numero dei capelli che portiamo in capo!

innestato nell’ambiente umano del suo tempo. discepolo anonimo dei suoi stessi discepoli futuri, diventa unparadigma fecondo per pensare in termini precisi il metodo e lo stile dell’evangelizzazione contemporanea.

Come Gesù, bisogna abitare questo tempo, cercando di definirne i contorni e i motivi profondi. Specificatamente. Si tratta di cogliere le linee congiunturali che segnano l’oggi della storia e misurare gli spazi di accoglienza che potrebbero riservare alla verità dei misteri cristiani. Si tratta insomma di imparare ad evangelizzare il postmoderno, evangelizzando postmodernamente, con uno stile di annuncio capace non solo di parlare del e al mondo (= destinatari) postmoderno, ma il mondo (= sintassi) postmoderno.

Ciò postula la decifrazione dei marcatori più forti della postmodernità e una loro intensa interrogazione. Solo sostando su di essi, si possono cogliere quegli spiragli capaci di indirizzare efficacemente l’opera di evangelizzazione.(1)

‘‘Non c’è più religione’’

Non è certamente semplice “dare nome” alla nostra epoca, nella quale siamo chiamati a ridire la bellezza e la pertinenza umana della parola del Vangelo, ma è un’operazione indispensabile.

Ci sembra opportuno partire da un’espressione molto comune, la cui analisi ci può aiutare a cogliere il volto del nostro tempo: “non c’è più religione”. Essa è frequentemente usata per nominare gli inediti contorni di un mondo che non risponde più ai comandi di una saggezza antica, informata essenzialmente all’immagine religiosa dell’esistenza offerta dal cristianesimo. Trattasi di bizzarri abbigliamenti, di nuove forme gergali, di improvvise interruzioni di scelte di vita una volta definite ‘”per sempre” (matrimonio o consacrazione religiosa), di scandali che coinvolgono persone sino allora al di sopra di ogni legittimo sospetto, il colto e il semplice trovano proprio nella locuzione citata - “non c’è più religione” - lo strumento più adeguato per manifestare il proprio disorientamento e disagio di fronte al tempo che vivono.

L’espressione, però, dice molto di più di quanto non si creda in prima istanza: coglie in semplicità e pertinenza la risultanza complessiva di quella svolta, mutamento, rivoluzione, che chiamiamo avvento della postmodernità. Con esso, infatti, accade il tempo in cui non è più possibile istituire una qualche forma di visione religiosa sulla propria vita e sul mondo. Siamo nell’epoca della fine della religione, nella quale non è più offerta al soggetto umano una tavola condivisa di riferimenti, di valori non negoziabili e gerarchicamente strutturati, con la quale valutare e ordinare l’esercizio della sua libertà e alla quale legare il proprio desiderio di una vita buona e felice.

Con le parole di F. Lenoir possiamo dire: «Ci troviamo chiaramente in presenza di una nuova fase della modernità, ancora più radicale di quella precedente, il che giustifica l’espressione “ultramodernità”. Nella precedente tappa si è verificata la separazione (formale o de facto) del potere religioso e di quello politico, nonché l’estromissione di ogni trascendenza della religione dallo spazio sociale globale. La fase ulteriore che stiamo vivendo oggi consiste nell’espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare un’istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell’assoluto e dell’intangibile proviene dalla religione. Nella modernità, tuttora legata ai “grandi discorsi”, viene trasferito in un ordine sociale e naturale che mantiene un’impronta religiosa attraverso il carattere assoluto del loro fondamento estremo. Nell’ultramodernità non vi è più alcun assoluto. alcun ordine che si imponga a tutti» (2)

Ecco qui indicata la cifra con la quale possiamo nominare il nostro tempo: ci troviamo un tempo definitivamente post-religioso, un tempo nel quale vengono a cadere le condizioni di possibilità perché possa darsi qualcosa come una “religione”.(3)

La nostra è l’epoca della fine della religione. Questo rilievo sintetico intende segnalare quella destrutturazione cui è sottoposta la concezione classica dell’uomo, dei legami familiari, della società, dell’etica e della politica, e ovviamente del cristianesimo, che non rende più possibile un’organizzazione strutturata del cosmo interiore del soggetto in corrispondenza con l’ordine socio-culturale vigente e in vista della sempre difficile missione di dare un nome al proprio mestiere di vivere.

Più concretamente: l’imporsi di un’ontologia del finito e l’abbandono della metafisica, l’affermarsi di una visione ‘‘vitalistica” dell’esistenza e il crollo dell’immaginario sacrificale, l’avvento di una mentalità profondamente democratica e pluralistica e la diminuita forza di credibilità delle istituzioni pubbliche (che tocca profondamente il valore dell’insegnamento magisteriale della chiesa, nel senso della sua fatica a innescare nei credenti comportamenti inerenti alle istruzioni offerte) sono i nomi delle cause che segnano la scomparsa della religione.(4)

oramai diffuso, si può e si deve parlare di definitivo tramonto della cristianità. (5).Con le parole trasparenti dei nostri vescovi, possiamo dire: «Da tempo la vita non è più circoscritta, fisicamente e idealmente, dalla parrocchia; è raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi il campanile che svetta sulle case è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza. Non a caso si è parlato di fine della “civiltà parrocchiale”, del venir meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa. Noi riteniamo che la parrocchia non è avviata al tramonto; ma è evidente l’esigenza di ridefinirla in rapporto ai mutamenti, se si vuole che non resti ai margini della vita della gente». (6)

Ecco il punto nodale: la difficoltà che il cristianesimo oggi soffre è esattamente quella di presentarsi come un’interpretazione globale dell’esistenza, cioè come una religione. Ciò non manca di manifestarsi negativamente nella vita delle persone,le quali, private di un orientamento globale di senso, spesso non restano solo ai margini della vita ecclesiale, ma ai margini della vita tout court.

Ha scritto lucidamente C. Magris: «In Italia, e anche in altri paesi, folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e dei passi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti i credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e, insidioso garbuglio del vivere». (7)

Come, allora, poter annnunciare il liberante messaggio dell’amore di Dio all’uomo contemporaneo?

Evangelizzare il tratto antimetafisico della postmodernità

La presenza dell’uomo nel mondo è oggi guidata da una decisa opzione per la finitezza dell’esistenza. Non si crede più al mondo platonico delle idee, all’esistenza dl valori trascendenti e normanti l’esperienza della libertà, non si allarga più lo sguardo oltre la morte. Tutto ciò che è, è finito.

Ma cosa comporta questa svolta antimetafisica della cultura occidentale? Certamente ci sono i risvolti legati all’affermarsi di una cultura sensibile-sensuale, che promette a tutti l’immediato godimento della vita e l’illusione di non sprecare alcuna occasione, con i tanti esiti tragici di cui spesso siamo impotenti testimoni; ma non c’è solo questo. La svolta antimetafisica comporta, per esempio. anche una precisa rivalutazione del finito quale luogo degno dell’umano, luogo cioè abitabile dall’uomo. Non si deve più “disprezzare” il finito, il limitato, per onorare la vocazione trascendente (la sua ex-sistentia) dell’uomo. E cosa non dire poi del tema della corporeità, degli affetti e dei legami, e infine della sessualità, sottoposti qualche volta ad un trattamento non generoso da parte della tradizione platonico-cristiana?

Come può ora il cristianesimo intercettare questa affermazione così decisa dell’umana abitabilità del finito? Come può ancora parlare di Dio e di trascendenza in questo contesto?

La provocatorietà e l’irritazione connessa alla presa di coscienza della svolta antimetafisica devono spingere la teologia a riscoprire la grammatica trinitario-kenotica dell’evento dell’incarnazione. Non si tratta certamente di una scoperta dell’ultima ora: il cristianesimo è fondamentalmente segnato dalla logica del già e del non ancora. Si tratta piuttosto di cogliere il tempo presente come un invito a porgere l’annuncio del volto cristiano di Dio lasciandosi maggiormente istruire dalla scuola di Nazaret.

Il Dio che noi annunciamo, infatti, dichiara per primo non solo l’umana abitabilità del finito, ma anche e più sorprendentemente la divina abitabilità del finito. Nell’evento dell’incarnazione ne va della verità cristiana: è quello il luogo in cui imparare Dio, il suo nome e soprattutto il suo stile. Dio è, per i cristiani, secondo Gesù! Il cristianesimo è esperienza di Dio secondo Gesù: credere è assumere lo stesso sguardo di Gesù relativamente a Dio, all’uomo e al mondo. Gesù mostra a noi il volto del Dio-Trinità, dal cui abbraccio infinito prende origine la tenerissima cura con la quale Dio accompagna la faticosa avventura della singolare esistenza di ognuno di noi.

Di più: Gesù è il volto di Dio che sa abitare il finito e che non si presenta sulla scena della storia umana con i segni di una gloria cui nessuno saprebbe resistergli. Egli rivela ed è, e rivela perché è, un Dio cui l’uomo può sfuggire. Dio sa abitare la distanza che la libertà dell’uomo impone: Dio non è irresistibile. Si offre alle nostre mani. Accetta la logica del finito: la logica della libertà, sino in fondo, sino alla croce. Ma, nello stesso tempo, svela che ciò che è finito è più che finito. Proprio nell’evento dell’incarnazione, infatti, Gesù rivela anche l’ampiezza (il di più) della nostra libertà: possiamo accogliere o rifiutare Dio stesso. Ed è sulla formidabile pertinenza umana della prima opzione che il cristianesimo è chiamato a giocare la sua partita,

Evangelizzare il tratto antisacrale della postmodernità

Nel tempo passato, segnato da numerose situazioni di miseria e di bisogni non sempre soddisfatti, l’esercizio della libertà era molto compresso e compromesso. Basterebbe pensare al limitato raggio di azione nella scelta dell’uomo o della donna da sposare, del tipo di mestiere da esercitare o anche semplicemente del luogo dove abitare. Per questo si veniva iniziati al mistero della vita attraverso la sofferta indicazione che l’esistenza è fatta di sacrifici. Questa elementare catechesi era già una forma di iniziazione al grande catechismo ecclesiale del sacrificio di Cristo per meritare la salvezza dell’uomo. La postmodernità è invece caratterizzata da una decisa sospensione del valore positivo del sacrificio: la vita è fatta di occasioni e di possibilità.

Oggi nessuno accetta come verità elementare la necessità del sacrificio quale condizione di una vita buona e degna dell’uomo. Anzi tutti si sentono sempre vittime, perseguitati, privati di qualcosa che doveva essere loro concesso, per cui il senso di tolleranza nei confronti della violenza, che comporta il solo evocare l’idea di un sacrificio, è bassissimo.

Questo tratto della mentalità contemporanea provoca una forte tensione quando si discute di evangelizzazione. Sembrerebbe quasi che sia impedita qualsiasi parola circa il mistero della croce di Cristo, qualsiasi accenno al lato agonico dell’esistenza, qualsivoglia riferimento al tema evangelico del “perdere la vita”. Come interagire con tutto ciò?

Intanto la teologia, oggi, ci invita a non assolutizzare la lettura sacrificale della croce di Cristo. È il Crocifisso che rende preziosa la croce. Al cuore dell’evangelo si trova infatti il dono della vita da parte di Gesù come ultima insuperabile testimonianza che solo l’amore di e per Dio salva l’uomo - ieri come oggi.

La concezione corrente (“vitalistica”) dell’esistenza, difatti, non è priva di contraccolpi per il soggetto postmoderno: la maggiore disponibilità economica, l’aumento della qualità e della quantità dell’offerta sanitaria, la logica del politicamente corretto hanno fatto esplodere l’ambito della libertà umana, ma resta il problema della sua configurazione. Come essere all’altezza della propria libertà? Come scioglierla dalla dipendenza di una rincorsa ossessiva dietro ogni occasione e dalla frustrazione continua di non aver afferrato quella migliore? Come liberare, infine, la libertà dalla deriva verso la depressività e dalla ricerca ansiosa di “cirenei” cui affidare questo peso: psicoterapeuti, guru, scrittori famosi e fumosi, leader carismatici di ogni tipo?

La fede cristiana promette esattamente una configurazione della libertà del soggetto umano che gli faccia conquistare il mondo senza perdere la propria anima. Afferma, infatti, che solo nella misura in cui facciamo nostra la fede in e di Gesù, accogliendo e ricambiando l’amore di Dio, evitiamo l’illusione di cercare negli altri, ma invano, quel riconoscimento del nostro essere amabili che solo l’Abbà di Gesù invece concede. Ecco perché solo Dio deve essere amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. L’amore di e per Dio è la garanzia per un esercizio riuscito della libertà umana. Sorretti da questo amore, possiamo generosamente amare il prossimo.

Evangelizzare il tratto antiideologico della postmodernità

Un ultimo consistente tratto della postmodernità è dato dal crollo delle ideologie e dei partiti unici, che non concedevano spazio al nemico, al diverso, all’altro. E’ la vittoria della democrazia come sistema socio-culturale della convivenza non violenta dei diversi. E questa è una conquista che nessuno oggi si sognerebbe di mettere in discussione. Con essa accade una riabilitazione della libertà, del libero acconsentire da parte del soggetto a ciò che gli si offre come vero. mentre perde credibilità il profilo di una verità che si imporrebbe a tutti costi.

Da qui sorge quel tratto antiistituzionale tipico del nostro tempo che, mettendo in crisi i luoghi pubblici di mediazione, invita i singoli ad accedere autonomamente alla questione del senso. Ciò rende ragione della difficoltà di molti di riconoscere e di accettare la singolare mediazione ecclesiale-cristologica della verità. La chiesa viene normalmente allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di regole, di funzioni e di funzionari. Tramite i media poi passa l’immagine di una chiesa quale istituzione assoluta- dai tratti quasi astorici - in grado di decifrare a priori la soluzione (non condivisibile ovviamente) di ogni problema, e quindi I ‘immagine di un’entità remota, distante, fredda, lontana dalla pratiche contemporanee di confronto e dialogo democratico.

E’ una situazione che richiede la massima accortezza e attenzione. La lezione che l’ascolto di questo tratto della mentalità postmoderna impone alla teologia è severa e parte dalla comprensione che la chiesa oggi si trova a vivere un’esperienza di debolezza, che va assunta con coraggio. Non si tratta semplicemente di riflettere sulla crisi numerica, bisogna invece riconoscere che qualche volta la chiesa stessa indulge in una posizione di rappresentanza e di istanza totale, correndo il rischio di giocare il ruolo di un “oggetto fittizio”, che ricorda il mondo moderno dell‘epoca della religione, carino e simpatico anche da visitare, ma scollegato dalla vita degli uomini e delle donne. Cosa fare dunque?

Serve il coraggio per la ,minorità: «Del resto non è in qualche modo la chiesa destinata a essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità, chiamata ad andare sempre oltre il presente, a crescere non solo nel cuore degli uomini, ma pure nell ‘intelligenza di sé e del suo mistero. e nell’apertura alla novità di un Dio sempre più grande (“Deus semper maior”)?».(8)

Ci piace concludere con le parole davvero ispirate dal Card. Martini: “il riconoscere con serenità di essere piccolo gregge, di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso. Un ethos di umiltà, di mitezza, di misericordia, di perdono, di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all’interno della chiesa (…). Una chiesa che è conscia della sua “minorità” ha più vivo il senso della testimonianza, coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso, vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le chiese locali, instaura un rapporto più autentico con la chiesa universale in stretta comunione con il vescovo di Roma. Questo ethos interno ha anche un influsso sul modo con cui la chiesa si rende presente nel quadro sociale e politico di una nazione e sul modo con cui i singoli cristiani operano, a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico? Certamente sì e vorrei richiamare qui alcune conseguenze. Esso 1) esclude una riduzione dell’impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo; 2) induce a un ‘‘pensare politicamente” che sia veramente tale, rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali; 3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori; 4)promuove le regole del consenso dei cittadini. Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa “piccolo gregge”. che ha colto la sua missione di essere seme e lievito, è dunque complesso ed esigente»(9)

(da Settimana, Ottobre 2006)

Note:

(1) Le considerazioni qui sviluppate sonopensate soprattutto per il contesto culturale occidentale. (2) Lenoir F., Le metamorfosi di Dio. La spiritualità occidentale, Garzanti,Milano 2005 (ed. or. 2003),. 182-183. Contrariamente al pensatore francese, preferiamo il termine “postmodernità”.

(3) Con Werbick anche noi intendiamo con il termine “religione” «un’opzione di base di tipo orientativo, permeata talvolta da un notevole grado d’insicurezza e connessa a numerosi iinterrogativi, volta a collocare l’esistenza dell’uomo in una prospettiva semplicemente identica a quella da cui ci si può aspettare che abbiano un senso il mondo, il cosmo. la vita in genere in tutte le sue fasi evolutive» (“Il futuro della religione in Europa” Regno-attualità 50 (15 settembre. 2005] 558.)

(4) Per una descrizione più dettagliata della postmodernità, ct. “Postmodernità e futuro del cristianesimo”, in Sett. N. 42/05, 8-9.

(5) Altamente istruttivo sulla questione è C. Torcivia, La chiesa oltre la cristianità, EDB. Bologna 2005.

(6) Conferenza episcopale italiana. Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004), n. 2

(7) Magris C.,” Quando scompare il senso religioso”, in Corriere della Sera, 12.6.2004,1. Il fenomeno, pur vistoso, del contemporaneo risveglio del religioso - trova la sua ragion d’essere sia nell’eccessivo peso che l’esercizio della libertà comporta, sganciato da riferimenti valoriali sovraindividuali, sia nel bisogno di fuga dall’attuale cultura ipertecnologica avvertita come oppressiva.

(8) Martini C. M., Il seme, il lievito e il piccolo gregge. Discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 5 dicembre 1998 (il testo è rinvenibile sul sito: www.chiesadimilano.it)

(9) lvi.
Pubblicato in Teologia

Ma c'è una risposta
al mistero del soffrire?
di Giannino Piana



Al male fisico si accompagna spesso - oggi soprattutto - il male morale: l’esperienza della solitudine, dell’abbandono, della mancanza di significato. Anche per questa situazione-limite la Scrittura ha una proposta di consolazione: è paradossalmente la croce che aiuta a riscoprire la speranza.


Dinanzi al “mistero” della sofferenza umana l’atteggiamento che sulle prime appare più corretto è quello del silenzio. E’ infatti estremamente difficile parlare di un’esperienza che è, di sua natura, incomunicabile e che si presenta con caratteri di estrema complessità. Diverse sono le forme sotto le quali essa si manifesta - da quella fisica e psicologica fino a quella sociale e morale -e diversi i gradi di intensità che possono caratterizzarla. Molto spesso, poi, ulteriori complicazioni nascono dal naturale assommarsi di fattori apparentemente lontani e non immediatamente omologabili. Così la malattia ingenera - specialmente nella nostra società, caratterizzata dal sistema della ospedalizzazione - uno stato di isolamento e di emarginazione, persino di ghettizzazione, che è causa di profonde frustrazioni psicologiche. Al dolore fisico si accompagna la sensazione di inutilità e di abbandono, di incomunicabilità e di solitudine: sensazione che produce sentimenti di impotenza e di disperazione.

Nell’A.T. la spiegazione è anzitutto ricercata nel mistero del peccato di origine. Malattia, dolore e morte sono la conseguenza della rottura del rapporto dell’uomo con Dio: rottura che ha provocato l’insorgenza di profonde conflittualità nelle relazioni umane e nella stessa relazione con il cosmo. Il male esistente nel mondo, sia a livello individuale che collettivo, viene in tal modo ricondotto alla libera scelta dell’uomo, al desiderio di onnipotenza, che ha, di fatto, ingenerato uno status di radicale alienazione. I libri sapienziali costituiscono il momento più alto di elaborazione di questa teologia. In essi ordine fisico e ordine morale sono ricondotti alla stessa sorgente: la sapienza da cui tutto proviene. L’infrazione dell’ordine morale produce, di conseguenza, profondi squilibri nell’ordine fisico, quali carenze di beni materiali, malattia e morte. La crisi di questa interpretazione coincide con l’emergere della tematica del giusto sofferente, di cui il libro di Giobbe rappresenta il caso emblematico. Si fa così strada la convinzione dell’irriducibilità del male al peccato personale e l’esigenza di guardare con occhi diversi il mistero della sofferenza. L’atteggiamento del N.T. è più articolato. La liberazione portata da Gesù è insieme liberazione dal peccato e dal male. I miracoli sono anzitutto volti a sanare gravi malattie fisiche ma l’obiettivo ultimo verso cui tendono è la crescita della fede e il cambiamento della vita. Il nesso peccato-sofferenza appare meno rigido e meno personalizzato: la menomazione fisica, lungi dall’essere considerata come il frutto di una condizione di peccato, si trasforma in occasione per la manifestazione delle opere di Dio: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ora è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3).

Lotta e accettazione

Il mistero della sofferenza umana riceve, tuttavia, la sua pienezza di senso nel contesto del mistero della croce. Anche Gesù reagisce di fronte all’assurdità del dolore, accettandolo soltanto per un atto di obbedienza incondizionata alla volontà del Padre: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! » (Mt 26,39). La morte rimane anche per lui un’esperienza di radicale solitudine, nella quale egli tocca l’abisso del silenzio di Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27,46). Sofferenza e morte rimangono realtà tragiche e umanamente incomprensibili anche per chi si sforza di leggerle nel quadro del progetto divino. Ma la croce, nella sua paradossalità, riscatta anche la negatività dell’esperienza umana. L’atto del supremo fallimento si trasforma in momento di apertura alla vera vita. La speranza cristiana fiorisce ai piedi della croce, in quanto in essa si manifesta l’amore di Dio, il suo totale essere-per-gli-altri. La legge del morire, che è la dura legge della vita, diventa programma di esistenza per il credente: «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà » (Mt 10.39). La sofferenza comporta dunque da parte dell’uomo l’assunzione di un atteggiamento dialettico di lotta e di accettazione. Essa deve essere, in primo luogo, combattuta come male che aliena l’uomo ma deve, nello stesso tempo, venire colta nel suo valore redentivo e inserita nel contesto della logica della croce. Lo scacco e la perdita di sé nel segno dell’amore gratuito e totale è, infatti, sorgente di vita nuova per chi crede nella promessa del regno.

Dinanzi alla tragedia di chi soffre, la parola deve lasciare il posto alla condivisione discreta e all’umile partecipazione. Ciascuno è, infatti, solo nel dolore e vive un’esperienza mai totalmente comunicabile. Il che lascia, tuttavia, intatta la possibilità che l’amicizia e l’amore vengano avvertiti come valori, che danno sapore all’esistenza e restituiscono il coraggio di guardare avanti. Tutto dipende dal modo con cui vengono offerti, dalla capacità cioè che si ha di manifestare con semplicità la propria vicinanza, senza la presunzione di identificarsi con l’altro e tanto meno di voler giustificare l’ingiustificabile.

Ma questo sarebbe insufficiente se non si accompagnasse ad uno sforzo generoso di debellare la malattia e il dolore, mettendo in atto le diverse potenzialità che la scienza e la tecnologia garantiscono e stimolando la ricerca a trovare nuove strade. Né va trascurato l’annoso problema delle strutture sanitarie, che devono essere sempre più concepite e realizzate come strutture di servizio alla crescita umana.

Un capitolo ancora più importante è, infine, quello della creazione di una cultura che restituisca a colui che soffre il senso dell’utilità della propria testimonianza. Si tratta di superare al riguardo la logica, purtroppo ancora largamente dominante nella nostra società, che privilegia criteri di efficienza e di produttività nella valutazione del significato della vita ed emargina, di conseguenza, chi non rientra in questi parametri di giudizio.

Solo a queste condizioni l’annuncio del mistero della croce, che è il cuore del messaggio evangelico, può ridiventare credibile e risuscitare nell’uomo una speranza, che va oltre ogni attesa umana.

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Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:53

Ma che paradiso è quel "riposo eterno? (Bruno Forte)

La vita eterna è un perenne cominciare nell’amore, è l’esperienza di un Dio che è inesauribilmente Colui che inizia ad amare...

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Giunto ad un grado superiore nella padronanza di se stesso, lo spirito della Terra scopre in sé un bisogno man mano più vitale di adorare: dall’evoluzione universale, Dio emerge, nelle nostre coscienze più grande, e più necessario che mai.

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L'affermazione del titolo non è un'iperbole né una provocazione, ma un allarme sui pericoli di certi modi di intendere e vivere erroneamente la religione. Pericoli non ipotetici ma consentiti storicamente. È meno pericoloso un agnostico umanista integrale che un credente nell'errore. Come imperfetto seguace di Gesù, intendo offrire un'ipotesi di pensiero, contributo modesto ma sincero in un'epoca di crisi, tanto religiosa come di civiltà.

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Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci

Dire «ecclesiologia del Vatica­no II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infat­ti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fon­do, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compia­ciuta, bensì individuare le sorgen­ti della sua vita e attività, precisar­ne modalità, relazioni, fini.

Le quattro Costituzioni conci­liari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum con­cilium ne approfondisce la dimen­sione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centra­lità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinami­che in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Li­turgia, la Parola e la Carità.

La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tut­ti gli elementi ecclesiologici es­senziali. Se in essa convergono lo­gicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i de­creti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecume­nismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche so­no quasi l'espansione di LG 15, co­sì come la dichiarazione Nostra ae­tate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozza­to in LG 17; il decreto Christus Do­minus sull'ufficio pastorale dei ve­scovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sa­cerdotale approfondiscono la teo­logia e spiritualità dei presbiteri, an­che in chiave formativa, concen­trata in LG 28; il decreto Apostoli­cam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione ope­rativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vi­ta religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'im­portanza dei mezzi di comunica­zione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (di­chiarazione Gravissimum educa­tionis) e la libertà religiosa in rap­porto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).

La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo ap­prossimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-gui­da di LG - quasi degli slogan bre­vemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a di­sposizione non riportiamo indica­zioni bibliografiche, con l'ecce­zione dell'ultimo «manuale» di ec­clesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al no­stro argomento. (1)

1. La Chiesa non è semplice­mente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero tri­nitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nel­la storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.

La cosiddetta concezione «so­cietaria» e visibilista di Chiesa, ac­centuata dalla reazione dei contro­riformisti nei confronti dell'«invi­sibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hie­rarchica», in polemica contro le in­gerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integra­ta già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teolo­gicamente più profonda della Chie­sa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimen­sionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teolo­giche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiolo­gia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure sempli­cemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa imma­gine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).

Da questo squarcio di orizzon­ti derivano alcune importanti im­plicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal pun­to l'origine della Chiesa alla vo­lontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento de­cisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente di­ventava irrinunciabile la dimostra­zione della «storicità» di certe pa­role di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX seco­lo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'in­nesto «pieno» della Chiesa nel mi­stero di Cristo: l'inizio e la cresci­ta della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che usci­rono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...

Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un se­condo: la Chiesa affonda le sue ra­dici non sul solo mistero cristolo­gico bensì sull'intero mistero trini­tario. La storia teologica della Chie­sa, come illustra LG 2, inizia, in­fatti, nell'atto stesso della creazio­ne dell'universo, continua nella vo­lontà di Dio di radunare gli uomi­ni non singolarmente ma come po­polo e nell'elezione di Israele. Que­sta medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innu­merevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le af­fermazioni che la Chiesa «già pre­figurata sino dal principio del mon­do, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come affer­ma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).

La coestensione della Chiesa al­la storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il ti­tolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il pri­mo concetto fa risaltare le dimen­sioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il se­condo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nel­la Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'en­tità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società uma­na tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la ne­cessità di una vera e propria «con­versione» dai modi più superficia­li (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di inten­derne la vita e la missione.

2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio bat­tesimale di tutto il popolo di Dio.

Il Vaticano II, specialmente nel ca­pitolo secondo di LG (9-17), po­ne le basi teologiche per una ec­clesiologia comunionale e, all'in­terno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del mini­stero ordinato e del laicato. La ri­duzione «gerarcologica» dell'ec­clesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radi­calmente corretta ed integrata dal concilio.

La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addi­rittura nel solo papato, venne a po­co a poco allentata dai testi conci­liari attraverso il recupero della no­zione di «popolo di Dio» come de­scrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il po­polo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Tri­nità ne è il soggetto misterico e di­vino.

La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazio­ne sul popolo di Dio precede quel­la sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo com­piuto dal Vaticano II. La realtà ec­clesiale di base è quella battesima­le-cresimale-eucaristica, che com­prende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compi­ti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momen­ti della sua storia. Il ministero or­dinato, dentro al popolo di Dio - non sopra accanto - svolge la funzione di richiamare efficace­mente l'origine continua della gra­zia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Pa­rola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha per­messo quindi di collocarvi il sa­cerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeria­le». Si apre così lo spazio per un'ef­fettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto es­si sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - compo­nenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.

Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella co­scienza teorica e pratica dei cri­stiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sul­la gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percor­si - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e del­la dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).

3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e pas­seggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia mis­sionaria che superi le riduzioni ere­ditate nel corso degli ultimi secoli.

Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla mis­sione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo ex­traecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uo­mini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della de­lega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appun­to «missionari». In campo intraec­clesiale la missione veniva riser­vata ai preti e ai vescovi. Se inte­sa, infatti, in senso ampio, essa in­dicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sa­cramentale dei sacerdoti nei con­fronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i se­condi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività sal­vifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacer­dote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'in­terno della potestas iurisdictionis).

La seconda riduzione - pasto­ralmente conseguente ma teologi­camente precedente la prima - si può definire verticale: non si par­la, se non sporadicamente, di Chie­sa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto in­vece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiolo­gia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è es­senzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al no­stro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristia­no - il concilio, accogliendo sti­moli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non ces­serà mai, perché appartiene alla na­tura della Chiesa. Prima del conci­lio si trascurava la radice teologi­ca della missione, che è l'opera tri­nitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Fi­glio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiet­tata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguen­te affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).

La missionarietà come dato es­senziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battez­zati, non sembra ancora caratteriz­zare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si la­menta ancora, almeno nella Chie­sa italiana, un'eccessiva cura ver­so la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vange­lo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisa­mente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.

4. La Chiesa non è solo l'uni­versalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la co­munità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla dioce­si e, subordinatamente, alla par­rocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipa­zione piena e attiva di tutto il po­polo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla me­desima preghiera, al medesimo al­tare cui presiede il vescovo, cir­condato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svol­ta copernicana», questo testo ac­coglie in casa cattolica l'ecclesio­logia eucaristica ignaziano-orien­tale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che co­me realtà societaria. In quest'otti­ca, dunque, la «più alta manifesta­zione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primazia­le ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della ce­lebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pie­nezza episcopale.

La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nel­le comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del qua­le si raccoglie la Chiesa, una, san­ta, cattolica e apostolica». Ma è so­prattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazio­ni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese partico­lari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rappor­to Chiesa particolare/Chiesa uni­versale non è di somma o sottra­zione. Il testo citato delinea piut­tosto tale rapporto in due direzio­ni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanen­za: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattoli­ca; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a forma­re la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese parti­colari che si forma concretamente la Cattolica.

Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chie­sa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è diffi­cile individuare gli elementi costi­tutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che ri­suona integralmente in ogni Chie­sa locale; nei sacramenti, special­mente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa lo­cale, e in sommo grado nell'Euca­ristia, celebrata in ogni Chiesa lo­cale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di ca­rità che si irradia in ogni Chiesa lo­cale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.

Il Vaticano II, pur senza ap­profondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/lo­cale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:

ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» so­lo se si trova in comunione con tut­te le altre Chiese nel mondo; co­munione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridi­co che emerge la necessità della co­munione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reci­procità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralisti­ca», che trascura la ricchezza teo­logica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ec­clesiologica continuerà ancora a lungo.

5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appar­tenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecu­menico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costitui­ta e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, go­vernata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo orga­nismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di ve­rità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'a­dozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre co­munità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cf. UR 4). Allo stesso sco­po tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamen­te incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

La mancata identificazione pu­ra e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissio­ne di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al prin­cipio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un or­dine o "gerarchia" nelle verità del­la dottrina cattolica, essendo diver­so il loro nesso col fondamento del­la fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecume­nico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Di­chiarazione congiunta sulla giusti­ficazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tut­to impensabile senza queste gran­di aperture del Vaticano II. La sfi­da, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le co­munità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristia­ne, sono invitate a dialogare e te­stimoniare a loro volta la fede cat­tolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a re­cuperare l'essenziale e distinguer­lo da ciò che è secondario.

6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'ini­zio (cf. LG 3 e 5): è la base teolo­gica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema in­terreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).

Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, rife­rendosi a coloro che non hanno an­cora ricevuto il Vangelo, si affer­ma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dal­la Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'am­bito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle re­ligioni e delle culture in quanto ta­li: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni ger­me di bene (quidquid boni... semi­natum) che si trova nel cuore e nel­la mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Es­sa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quan­tunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e pro­pone, tuttavia non raramente ri­flettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».

Vi sono altri riferimenti che an­drebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rile­vare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle al­tre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di acco­glienza, discernimento e valoriz­zazione. Il concilio ragiona preva­lentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teolo­gia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presen­te - a diversi livelli - nelle altre tradi­zioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva an­che in chiave pneumatologica, in­vitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.

Analogo è il discorso sul rap­porto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo cam­po senza dubbio il capitolo secon­do della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elènca­ti prima di tutto rischi e opportu­nità che il mondo odierno presen­ta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scatu­riscono necessariamente dall'o­dierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconosce­re i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclu­sivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comu­nione che arricchisce sia la Chie­sa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cri­sto rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifi­ca ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di cia­scun popolo.

Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differen­te misura, verso il loro compi­mento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre re­ligioni, le altre culture e i loro ap­partenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialo­go, che si risolverebbe in eserci­zio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo mis­sionario; dialogo e annuncio si im­plicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra an­cora piuttosto lontano dalla porta­ta delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamen­te tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'inte­gralismo.

«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmen­te ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno ve­ramente «recepirlo».

1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.

Pubblicato in Teologia
Martedì, 19 Settembre 2006 00:56

Salviamo l'umanità (Pierre Teilhard de Chardin)

Salviamo l'umanità
di Pierre Teilhard de Chardin



Oggi bisogna arrendersi all’evidenza: l’Umanità è or ora entrata in quello che rappresenta probabilmente il maggior periodo di trasformazione che abbia mai vissuto.

La sede del male di cui soffriamo è da localizzare negli stessi fondamenti del pensiero terrestre. Qualcosa sta accadendo nella struttura generale della coscienza umana. E’ un’altra specie di vita che comincia.

Di fronte, o meglio sotto, il colpo di simili scosse nessuno può rimanere indifferente.

Come vedere ed agire “chiaro” in seno alla corrente che ci trascina? Alla base di tutte le reazioni provocate in noi dagli eventi attuali, dobbiamo porre una fede robusta nel destino dell’Uomo, e, se questa fede esiste già, consolidarla. E’ anche troppo facile esimersi dall’agire con un discorso sulla decrepitezza delle civiltà e persino sulla vicina fine del Mondo!.

Un tale disfattismo (di temperamento, di virtù o di parata) è, a parer mio, la più pericolosa tentazione del momento attuale. Il disfattismo è sempre morboso ed inoperante. E’ forse possibile dimostrare la sua infondatezza? Penso di sì.

Per chi sa leggere oggi il diagramma dei fatti registrati dalla scienza, l’umanità non è più un fenomeno accidentale, apparso fortuitamente su uno dei più piccoli astri del cielo. Rappresenta invece, nel campo della nostra esperienza, la manifestazione più elevata verso la quale tendeva l’intero movimento della materia e della vita. E’ forse necessario sottolineare quale ricchezza arreca al credente la conoscenza di questa continuità intenzionale dell’opera del Creatore? Prototipo compiuto, la cui perfezione spiega gli abbozzi anteriori, chiave di volta in cui convergono le linee architettoniche dell’intero edificio, l’Uomo, in queste nuove prospettive, capisce meglio i suoi titoli per una regalità sull’Universo.

Interamente diversa dall’antico antropocentrismo che faceva dell’Uomo il centro geometrico e statico dell’Universo, questa certezza che il “fenomeno umano” è una forma supremamente caratteristica del fenomeno cosmico ha una portata morale incalcolabile: essa trasforma il valore e garantisce la perennità dell’opera che noi compiamo e più precisamente di quella che si compie per nostro tramite.

La situazione così critica di oggi deve essere una crisi di progresso. Possiamo e dobbiamo crederlo: noi andiamo avanti.

Ma in quale direzione progrediamo? E, anzitutto, cosa succede esattamente nella profondità della massa umana? Noi andiamo avanti; va bene. Ma perché tutto questo disordine attorno a noi?

Tre influenze principali si affrontano e lottano ciascuna per il dominio della Terra.

Democrazia, Comunismo, Fascismo (1). Da dove proviene la potenza di queste tre correnti? E perché tra di loro la lotta è cosi implacabile?

In ciascuna delle tre masse, si riconoscono, distintamente ma allo stato di abbozzi incompleti, le tre aspirazioni che rappresentano le caratteristiche della fede nell'avvenire; passione per ti futuro, passione per l'universale, passione per il personale, tutte e tre intese male o insufficientemente, ecco la triplice molla che tende ed oppone tra di loro, attorno a noi, le energie umane.

Nel caso della Democrazia, la cosa è ovvia. Due errori di prospettiva, logicamente correlati, intervengono per indebolire e viziare la visione della democrazia del mondo; l'uno riguarda il suo personalismo e l'altro di conseguenza il suo universalismo. L'elemento sociale assume piena originalità e pieno valore solo in seno ad un insieme in cui egli si differenzia. Per non aver veduto questo, lo spirito democratico, anziché liberare, ha emancipato. Ogni cellula si è creduta pertanto autorizzata ad erigersi a centro per se stessa. Ne risulta lo sparpagliamento, condannato dai fatti, dei falsi liberalismi intellettuali e sociali, e anche il rovinoso egualitarismo che minaccia ogni seria costruzione di una Terra nuova. Abbandonando al popolo la direzione della marcia in avanti, la Democrazia sembra soddisfare all'idea di totalità. Ma non ce presenta che una contraffazione. Il vero universalismo pretende, certo, invitare ad entrare nelle sue sintesi tutte le iniziative, tutti i valori, tutte le più oscure potenzialità, senza esclusione, ma è essenzialmente organico e gerarchizzato.

Per aver confuso individualismo e personalismo, folla e totalità, per sbriciolamento e livellamento della massa umana, la Democrazia ha corso il rischio di compromettere le speranze nate con essa, di un avvenire umano. Ecco perché ha visto separarsi da essa, a sinistra, il Comunismo ed erigersi contro, a destra, tutti i Fascismi.

almeno alle origini, magnificamente esaltata. Ciò che costituisce una tentazione per una élite del nei marxismo russo, non è tanto il suo vangelo umanitario, quanto la sua visione di una civiltà totalitaria, fortemente legata alle potenze cosmiche della materia. Il vero nome dei Comunismo dovrebbe essere “terrenismo”. Purtroppo anche da quella parte l'ideale umano appare gravemente lacunoso e deformato. Da un lato, nella sua reazione troppo vivace al liberalismo anarchico della Democrazia, il Comunismo arriva al punto di sopprimere virtualmente la persona e di ridurre l'uomo ad una termite. Dall'altro lato, nella sua ammirazione mal equilibrata per le potenze tangibili dell'Universo, esso ha sistematicamente chiuso le sue speranze alle possibilità di una metamorfosi spirituale dell'Universo stesso. Di conseguenza il fenomeno umano (essenzialmente definito dallo sviluppo del pensiero), si è trovato ridotto agli sviluppi meccanici di una collettività senz'anima. La materia ha occultato lo spirito. Uno pseudo-determinismo ha ucciso l'amore. Assenza di personalismo, che determina una limitazione e addirittura una perversione dell'avvenire, e che mina perciò stesso la possibilità e persino la nozione di universalismo, ecco, ben maggiormente di tutti gli sconvolgimenti economici, i veri pericoli del bolscevismo.

Non v'è dubbio che il movimento fascista sia sorto in gran parte da una reazione alle idee dette della "rivoluzione”. E una tale origine spiega l'appoggio compromettente che non ha cessato di trovare tra i numerosi elementi interessati (per svariati motivi di conservatorismo intellettuale e sociale) a non credere in un futuro umano. Ma nessuno si appassiona per l'immobilità; ora, il fascismo non manca di ardore. E' aperto al futuro. La sua ambizione è quella di coinvolgere ampi insiemi nel suo dominio. Ma purtroppo il campo che prende in considerazione è molto limitato. Sembra che voglia ignorare la trasformazione umana critica e gli irresistibili intertegami materiali che hanno fatto, sin da ora, accedere la civiltà alto stadio dell'internazionalismo. Si ostina a pensare ed a realizzare il mondo moderno che vive dentro di lui, in dimensioni appartenenti ad epoche trascorse. Preferisce il razziale all'umano; vuoI rendere un'anima al suo popolo e non sì preoccupa che il mondo sia privo di anima. Naviga verso l'avvenire con l'idea di ritrovare forme di civiltà definitivamente scomparse.

Queste forze che si affrontano a noi non sono potenze puramente distruttive, ma contengono ciascuna delle componenti positive. Per queste stesse componenti, convergono segretamente verso un concetto comune del futuro. In ciascuna di esse, è il mondo stesso che lotta e vuol venire alla luce. Crisi di nascita e non sintomi di morte. Affinità essenziali e non odio definitivo.

Ecco ciò che, sotto le correnti e nella tempesta, è sufficiente avere scoperto per intravedere la manovra che deve salvarci.

Come unire tutti i valori positivi della civiltà in una totalità che esalti i valori individuali? Come giungere alla passione superiore in cui verranno al tempo stesso reintrodotti e compiuti in una nuova sintesi, e il senso democratico della persona e la visione comunista delle potenze della materia e l’ideale fascista delle “élites” organizzate?

In ultima analisi, nonostante l’entusiasmo (relativo) che trascina ampie frazioni dell’umanità nelle correnti politiche e sociali di oggi, la massa umana rimane insoddisfatta. Né a destra, né a sinistra s’incontra una mente veramente progressista che non confessi la sua parziale delusione di fronte a tutti i movimenti esistenti. Si entra in un partito o in un altro perché bisogna pur fare una scelta se si vuole agire. Ma, in fondo, ognuno nel posto che occupa si sente a disagio, mutilato, sdegnato. Tutti vorrebbero qualcosa di più ampio, di più comprensivo e di più bello.

Disseminati nelle masse apparentemente ostili che si affrontano, esistono dappertutto degli elementi che aspettano solo una spinta per orientarsi e radunarsi. Cada su questa polvere il raggio appropriato, l’appello che corrisponde alla loro struttura intima, e, attraverso tutte le denominazioni e le barriere che sussistitono ancora per convenzione, vedremo gli atomi viventi dell’universo ricercarsi, trovarsi,organizzarsi. Una volta i nostri padri sono partiti per la grande avventura in nome della giustizia e dei diritti umani. Noi, a cui la scienza nuova apre spazi e tempi insospettati dai nostri avi, non dobbiamo più commisurare il nostro impegno alle mediocri dimensioni che tuttavia li esaltavano.

Ecco perché la nostra epoca è stanca dei settarismi che spezzettano la simpatia umana. I vortici dei partiti ci trascinano verso una atmosfera irrespirabile. Aria! Bisogna unirsi. Non già dei fronti politici, ma un fronte generale di avanzata umana.

Il democratico, il comunista, il fascista si liberino dunque dalle deviazioni o limitazioni dei loro sistemi e vadano avanti sino alla pienezza delle aspirazioni positive che animano il loro slancio. E allora con piena spontaneità, lo spirito nuovo frantumerà gli esclusivismi che l’imprigionano ancora. Le tre correnti saranno portate a concepire un’opera comune: promuovere cioè l’avvenire spirituale del mondo. Unanimità relativa agli inizi, ma unità reale nella misura in cui tutti sarebbero definitivamente d’accordo per riconoscere che la funzione dell’Uomo è costruire e dirigere la totalità della Terra… Dopo essere vissuta per millenni nel dissidio interno,l’Umanità, pervenuta a questo stadio del suo sviluppo, si muoverebbe allora, come un blocco unico, in avanti.

Mi si obietterà che un fronte umano per costituirsi ha finalmente bisogno dell’esistenza di un “antagonista” da combattere. Da parte mia non credo in una suprema efficacità dell’istinto di conservazione e della paura. A spingere l’Uomo nell’esplorazione della natura, nella conquista dell’etere, sulle strade dell’aria, non è stato il timore di perire, ma l’ambizione di vivere. La calamita che deve magnetizzare e purificare in noi le energie il cui crescente eccesso viene oggi dissipato in scontri inutili e in raffinate perversioni, io la situerei dunque, in ultima analisi, nella manifestazione graduale di un qualche oggetto essenziale la cui ricchezza totale, più preziosa dell’oro e più affascinante di ogni bellezza, rappresentasse per l’Uomo diventato adulto, il Santo Graal e l’’Eldorado di cui sognavano gli antichi conquistatori: una cosa tangibile per il cui possesso fosse infinitamente bello sacrificare la vita.

Ecco perché, se cominciasse a delinearsi un Fronte spirituale umano, ci vorrebbero accanto gli ingegneri impegnati ad organizzare le risorse e i collegamenti della Terra, altri “tecnici” unicamente incaricati di definire e di far conoscere le mete concrete, sempre più elevate, sulle quali deve concentrarsi lo sforzo delle attività umane. Per validi motivi ci siamo sinora appassionati per la rivelazione dei misteri nascosti nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo della materia. Per l’avvenire, sarebbe lo studio delle correnti e delle attrazioni di natura psichica: un’energetica dello spirito. Forse, spinti dalla necessità di costruire l’unità del mondo, ci renderebbe finalmente conto che la grande opera oscuramente perseguita dalla scienza è molto semplicemente la scoperta di Dio.

Di fronte ad una umanità che rischia di lasciar risucchiare dalla “seconda materia” dei determinismi filosofici e dei meccanismi sociali la parte di coscienza già svegliata in essa dai progressi della vita, il cristianesimo difende il primato del pensiero riflesso, cioè personalizzato. E lo fa nel modo più efficace: non solo sostenendo speculativamente con la sua dottrina la possibilità di una coscienza incentrata seppure universale, ma anche di più con la trasmissione e lo sviluppo, mediante la sua mistica, del senso e, in qualche modo, dell’intuizione diretta di questo Centro di convergenza totale. Il meno che debba oggi ammettere un non credente, se intende la situazione biologica del mondo, è che la figura del Cristo (quale la si trova non soltanto descritta in un libro, ma concretamente realizzata nella coscienza cristiana) è la più perfetta approssimazione sinora apparsa di un oggetto finale e totale verso il quale possa tendersi, senza stancarsi né deformarsi, lo sforzo umano universale.

Pechino 11 novembre 1936


N.B. – P. Teilhard de Chardin non escludeva dalla cristianità nessuno di coloro che, esplicitamente o implicitamente, credono nell’Amore. Sapeva che l’ora di conoscere come l’Amore Essenziale, origine e fine dell’Universo, si è incarnato nel suo seno, non è uguale per tutti.

Questo testo si trova in Science et Christ, Oeuvres vol. 9, Parigi, Le Seuil, 1965, pp. 167-191 passim.

NOTA

(1) L’espressione è ormai estesa ad ogni forma di nazionalismo di tendenza dittatoriale.

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