In ricordo di P. Franco

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Come la povertà sfida l’annuncio della fede

di Gustavo Gutiérrez

 

Vorrei presentarvi alcune riflessioni sulla sfida che rappresenta la povertà nel mondo di oggi per l'annuncio del Vangelo, cioè per la missione centrale della Chiesa. Potremmo dire che la povertà è un segno dei tempi: a volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa, ed è per questo che si tratta di discernere tali segni, individuando quanto è in linea con quello che la Rivelazione ci dice dell'amore di Dio e quanto gli si oppone. Vorrei ispirarmi a una frase di un grande missionario, Bartolomé de Las Casas, che diceva, pensando agli indios, cioè ai più insignificanti: del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto viva e fresca.
Presenterò le mie considerazioni in tre punti:

1) la sfida che rappresenta la povertà oggi per l'annuncio della fede cristiana e il tentativo di risposta della Chiesa negli ultimi anni, a partire da un contesto latinoamericano, attraverso l'opzione preferenziale per i poveri;
2) le diverse dimensioni di questa opzione;
3) l'evangelizzazione nel mondo di oggi.

1) La sfida della povertà all'annuncio della fede

La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi - attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, l'economia neoliberista, la crescita della popolazione nel mondo, la nuova presenza di vecchie religioni dell'umanità - possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. E sorge allora una domanda: come dire al povero, oggi, che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell'amore. Come dire ai poveri non solo che Dio li ama, ma che, partendo dalla rivelazione biblica, Dio li ama in maniera preferenziale, prioritaria? A questa domanda cerca di rispondere quella che abbiamo formulato come opzione preferenziale per il povero (pur nella consapevolezza che tale domanda è molto più ampia della nostra capacità di risposta). L'espressione deriva da una prima riflessione condotta in America Latina negli anni '60 e nasce come tale tra Medellín e Puebla. Esaminiamola parola per parola.

Povero, povertà. Parlando dell'opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un'altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l'affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle sue mani. È l'ideale di un cristiano: i poveri spirituali sono i santi. Quando parliamo di opzione per il povero parliamo invece del povero reale. Sarebbe facile optare per i santi, sono così pochi! Stiamo parlando invece di milioni di persone. Ma bisogna essere un povero spirituale per fare un'opzione per il povero reale.

La povertà è cambiata nell'ultimo decennio, in alcuni casi già nell'ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti. Ricorderò solo due cambiamenti importanti nella nostra percezione della povertà. Il primo è che la povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l'aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma il povero nella Bibbia non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia, ed anche in questa riflessione teologica, povero è colui che è insignificante. E si può essere insignificanti, non persone, per ragioni economiche, certamente, ma anche per ragioni culturali, razziali, per il colore della pelle, per ragioni di genere (la condizione femminile è di sicuro una condizione di insignificanza). Molte volte, poi, tutti questi aspetti o alcuni di essi si riuniscono in una sola persona. Tutte queste persone sono quelle che chiamiamo "insignificanti" (naturalmente tra virgolette, perché non c'è essere umano che per Dio sia insignificante).

C'è poi un secondo cambiamento. Per molto tempo, e in alcuni casi anche ora, la povertà è stata vista come un fatto naturale, quasi come una fatalità. Alcuni nascevano poveri, altri ricchi. E da lì ad affermare che questa era la volontà di Dio il passo era breve, e infatti è stato fatto, molte volte. Per questo si parlava di due tipi di dovere: per i ricchi generosità, per i poveri umiltà e gratitudine. È chiaro che non si può giudicare il passato con le categorie attuali: a quell'epoca non esisteva l'idea, presente invece oggi nell'umanità, che la povertà ha delle cause, e che queste cause sono le strutture sociali ed economiche e anche le categorie mentali (l'idea per esempio che un tipo di cultura è superiore a tutte le altre e che queste un giorno dovranno incorporarsi ad essa). Parlare di cause è riconoscere che la povertà è il risultato delle nostre azioni e, di conseguenza, che non è la volontà di Dio, bensì una costruzione dell'essere umano. E se siamo noi ad aver creato la povertà, vuol dire che possiamo anche disfarla, eliminarla. La povertà non è un destino, ma una condizione; non è una disgrazia, ma un'ingiustizia. Questa coscienza si è andata diffondendo nell'umanità, portando di conseguenza a comprendere che oggi non è sufficiente l'aiuto immediato al povero, ma che bisogna anche andare contro le cause della povertà. Questa coscienza è avanzata con molta lentezza in ambienti cristiani, e tuttora per molte persone l'impegno con i poveri è solo l'aiuto immediato e diretto al povero. Un aiuto pur sempre necessario: se incontro un povero con una grande necessità non posso dirgli "non preoccuparti, io sto lottando contro l'ingiustizia, ma poi ritorno". Perché quando ritorno sarà già morto! L'aiuto immediato è importantissimo ma non è più sufficiente. Perché è cambiata la nostra percezione di quello che è la povertà.

I poveri stessi conservano spesso la vecchia mentalità: "che posso farci? È la cattiva sorte, sono nato povero". Nella mia parrocchia ho lottato per venti anni, e con un successo relativo, contro l'idea che hanno spesso le donne: "noi donne siamo nate per soffrire". Per questo sopportano tutto, con grande contentezza degli uomini: sono nate per soffrire? Che soffrano! Nell'insegnamento della Chiesa questa prospettiva è entrata con una certa lentezza: prima Giovanni XXIII con la Pacem in terris, poi Paolo VI con la Populorum progressio e infine Giovanni Paolo II, che è il papa che più parla delle cause della povertà.

Preferenza. Ho letto ed ascoltato interpretazioni piuttosto curiose di questa parola, per esempio che nell'espressione "opzione preferenziale per i poveri" la parola preferenziale si deve alla volontà di ammorbidire l'opzione. Storicamente non è vero. Una delle sue fonti è l'espressione pronunciata da Giovanni XXIII l'11 settembre del '62, un mese esatto prima dell'inizio del Concilio: che la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. La parola "preferenza" non possiamo comprenderla se non la mettiamo in relazione con l'universalità dell'amore di Dio. Dio ama tutte le persone, nessuno escluso: povero, ricco, bianco, nero, tutti sono amati da Dio. Ma, allo stesso tempo, Dio preferisce gli ultimi, i più poveri. C'è tensione, non contraddizione. Una madre con più figli di diversa età proteggerà specialmente il più piccolo. E la domanda eterna dei più grandi è: tu ami più mio fratello. E la risposta eterna è: no, io amo tutti ugualmente. L'amore di Dio è un amore per tutti e una protezione speciale per chi più ne ha bisogno. Dire "per me solamente i poveri sono importanti" non è da cristiani. Dire "io amo tutti allo stesso modo", neppure. Se parlo di preferenza, sto dicendo che non escludo nessuno. E se dico "primo", vuol dire che penso a un secondo, perché se non c'è un secondo non direi "primo". Preferenza significa che qualcosa è prioritaria, ma che non è l'unica. C'è una tensione, è vero, ma le tensioni sono feconde, come quella che esiste tra contemplazione e azione, entrambe necessarie. Così è anche per l'universalità e la preferenza. Il teologo Karl Barth diceva negli anni '40: Dio prende sempre la parte del più povero, dell'oppresso, del più debole. Negli anni '40 non c'era bisogno di richiamarsi alla Teologia della Liberazione per rendersi conto di questo, bastava leggere la Bibbia.

Il tema della preferenza porta con sé una domanda: perché i poveri devono essere prioritari? Si possono dare molte ragioni. Per esempio, sulla base di un'analisi sociale, economica, culturale del mondo di oggi, di fronte alla presenza di moltissimi poveri, di una così grande sofferenza nell'umanità, posso pensare che è opportuno optare per i poveri. È una ragione legittima, ma non quella decisiva. Posso essere spinto dalla compassione umana, ma neppure questo è decisivo. E non lo è neanche il fatto di avere un'esperienza diretta del mondo povero. Molte volte, fuori dall'America Latina, sento persone che dicono di capire perché parlo dei poveri: perché sono latinoamericano. Io dico sempre: per favore, non comprendetemi così presto! Perché la prima ragione per cui parlo dei poveri è perché tento di essere fedele al Dio di Gesù. Un'altra ragione che si dà a volte è che i poveri sono tanto buoni e tanto generosi. Quando sento questo, penso sempre che la persona che lo dice lavora con i poveri da sei mesi: se lavorasse con loro da sei mesi e mezzo già non lo direbbe più. I poveri sono esseri umani e tra loro vi sono quindi i buoni e i generosi e quelli che rappresentano un pericolo pubblico. La ragione per occuparsi dei poveri non è perché il povero è buono, ma perché Dio è buono. Questa è la ragione decisiva per un credente. È un'opzione teocentrica. La ragione è la bontà di Dio, la bontà gratuita, che non dipende cioè dai meriti di una persona. Così un padre ama i suoi figli. E Dio ci ama gratuitamente perché siamo i suoi figli e le sue figlie. Non è la qualità morale o religiosa del povero che deve motivare l'opzione, ma l'amore gratuito di Dio.

Opzione. L'origine di questa parola si può trovare a Medellín: la povertà come impegno è solidarietà con il povero e protesta contro la povertà. Gesù ha preso su di sé i peccati di questo mondo: per amore del peccato? No, per amore del peccatore e per rifiuto del peccato. Si ama chi soffre la povertà, ma la povertà, in quanto condizione inumana, non è amata da Dio. L'opzione per i poveri comprende questa doppia dimensione. A volte si pensa che è il non povero a dover fare l'opzione per il povero. Non è così. L'opzione per il povero è compito di ogni cristiano, povero e no. A volte il non povero soffre di un certo complesso, ritenendo che l'essere poveri sia di per sé una cosa buona. Ma l'insignificanza non è un ideale: non bisogna cercare di essere insignificanti, bisogna cercare di essere impegnati al loro fianco. Penso a mons. Romero: Romero non era un insignificante. Come poteva esserlo un arcivescovo? Ma era impegnato, fino al punto da dare la sua vita. L'ideale cristiano è l'impegno, ma accompagnato dalla coscienza che questa situazione di povertà, di insignificanza sociale non è in accordo con la volontà di Dio.


 

2) Dimensioni della prospettiva dell'opzione preferenziale per i poveri.

Per prima cosa
, l'opzione per il povero si ripercuote sul lavoro di evangelizzazione. Dopo Medellín, molti gruppi cristiani, comunità religiose, gruppi di laici, si spostarono nelle aree povere delle proprie città e Paesi. Ma non c'è solo una ridistribuzione di forze pastorali a vantaggio di questi settori. C'è qualcosa di più, e cioè l'assumere la prospettiva del povero nell'annuncio del Vangelo in qualunque settore sociale. Anche per le persone che vivono in Paesi dove i poveri sono una minoranza si tratta di lavorare a partire dal povero. Non sempre si tratta di andare fisicamente nelle aree povere, c'è anche la possibilità di andare mentalmente, di vedere cioè la storia umana, e il presente, e le sfide del terzo millennio a partire dai poveri. È, in maniera molto semplice, chiedersi, come fa il libro dell'Esodo, dove vanno a dormire i poveri nel mondo che viene. Che ne è di loro nel mondo che si sta costruendo?

Oggi esiste un interesse molto grande per la teologia della geografia dei vangeli, soprattutto di Marco. La Galilea è una provincia disprezzata, dove la gente parla anche con un accento diverso (per questo Pietro viene scoperto). E se Gesù va a morire in Giudea, dove c'è Gerusalemme, è tuttavia in Galilea, in questa terra disprezzata, che annuncia il Regno. È da qui che parte l'evangelizzazione. Oggi noi dobbiamo scegliere la nostra Galilea. Il mondo del povero deve essere il punto di partenza della nostra evangelizzazione. Non ci sarà magari aiuto fisico, diretto, nelle zone povere, però sì ci dovrà essere questa prospettiva.

Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque sia la loro origine sociale, sono persone che hanno la loro residenza in un mondo che non è del povero. Il mondo del povero si presenta come un campo di lavoro, non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, anche pericoloso. Dobbiamo convertirci e portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere lì la nostra casa e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo ad ogni persona.

C'è poi una dimensione teologica. Nel dialogo con alcuni settori di teologia accademica - il termine non mi piace molto perché sembra avere una sfumatura peggiorativa, mentre si tratta di un lavoro serio (nella mia vita io ho cercato di fare teologia accademica) - una cosa che risulta difficile è convincere molti teologi dell'emisfero nord che la povertà è una sfida alla fede. Per loro, infatti, si tratta solo di un problema sociale. Comprendono bene, questi teologi, che quello che viene dalla società moderna (la ragione critica, le libertà moderne, l'affermazione dell'individuo) è una sfida alla teologia. Ma la povertà no. In realtà la povertà, se è un fenomeno di civiltà, se è così tanto profonda, rappresenta una grande sfida all'annuncio della fede.
La domanda della teologia moderna potrebbe essere quella formulata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: come parlare di Dio in un mondo adulto? Si tratta del mondo moderno, un mondo che non ha bisogno di Dio per spiegare, per esempio, i fatti naturali. Il "come" non significa che non se ne possa parlare: è una domanda. Allo stesso modo, possiamo dire che quello che mette in discussione l'annuncio del Vangelo è il mondo della povertà. Perché la povertà in ultima istanza significa morte: morte prematura e morte ingiusta. I primi missionari domenicani delle Indie, oggi America Latina, dicevano: gli indios muoiono prima del tempo. Ed è questo che succede ai poveri oggi. Malattie che l'umanità è già riuscita a debellare continuano ad uccidere persone nei Continenti poveri. Alcuni anni fa è apparso in Perù, e non se ne è più andato, il colera, che non esisteva più da molto tempo. E ha ucciso molti poveri, che non hanno possibilità di bere acqua pulita. Nei quartieri residenziali non è morto nessuno: anche il colera aveva fatto l'opzione preferenziale per i poveri. Questa è morte fisica, ma c'è anche la morte culturale. Gli antropologi dicono che la cultura è vita: quando io disprezzo una cultura, uccido culturalmente chi fa parte di questa cultura. Quando non si riconosce la pienezza dei diritti umani di una persona in qualche modo la si sta uccidendo. Questa è la povertà.

La povertà in ultima istanza è morte, ma noi cristiani dobbiamo essere testimoni della vittoria sulla morte, della risurrezione. Come essere testimoni della resurrezione, allora, in un pianeta, in un continente segnato dalla morte prematura e ingiusta? La resurrezione è la vittoria sulla morte, è l'affermazione che la vita e non la morte è l'ultima parola della storia. E per vita intendo sia quella spirituale che quella fisica. Questo mette in discussione l'annuncio del Vangelo.

Pensare la fede a partire dal povero non è l'unica maniera, è una maniera. La prospettiva del povero è sommamente importante, ma è una prospettiva. Il contenuto della Rivelazione è talmente ricco che non finiamo mai di comprenderlo. Ma credo che questa prospettiva ci aiuti. Da 25-30 anni parliamo della trasformazione della storia, della promozione della giustizia come di un elemento intrinseco all'evangelizzazione. Non è stato sempre così. Considerare la promozione della giustizia come qualcosa di intrinseco all'evangelizzazione è un fatto teologicamente nuovo. Quando ero studente si diceva che tutto quello che riguardava il sociale era previo all'evangelizzazione, ma non era evangelizzazione. Un po' come le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio, che non sono ancora teologia, ma preambula fidei. Il lavoro di promozione della giustizia era ritenuto importante, ma non era considerato evangelizzazione. Oggi è visto come intrinseco. Giovanni Paolo II l'ha ripetuto fino alla stanchezza.

La terza dimensione della prospettiva dell'opzione per i poveri è quella della spiritualità, della sequela di Gesù. La parola spiritualità è recente nella Chiesa: viene da ambienti francesi del XVII secolo. Fino a quel momento si parlava piuttosto di sequela di Gesù. Spiritualità viene dallo Spirito, con la maiuscola, non dallo spirito come sinonimo di anima. Non è un comportamento in accordo con la parte più nobile dell'essere umano, ma è secondo lo Spirito Santo. L'opzione per il povero presenta anche questa dimensione. Optare in maniera preferenziale per i poveri è un cammino spirituale, una sequela di Gesù. E io direi che anzi questo è il livello più profondo dell'opzione preferenziale per il povero. Ho imparato da un mio grande maestro, Dominique Chenu, che non c'è da domandarsi quale teologia stia dietro a una spiritualità, bensì quale spiritualità stia dietro a una teologia. La sequela di Gesù è inseparabile dalla riflessione, e soprattutto è inseparabile dall'annuncio. Nessuno può seguire Gesù senza annunciare il Vangelo. E io direi che nessuno può seguire Gesù senza pensare alla fede. E l'essere umano che pensa la sua fede sta facendo teologia.

Allora, perché evangelizzare? Possiamo dare molte ragioni valide. Perché è un mandato del Signore, ed è una ragione di capitale importanza. Perché abbiamo sentito la vocazione. Ma credo che la ragione primaria del perché comunichiamo il Vangelo è perché vogliamo condividere la gioia che produce il sapere che siamo amati da Dio. La fonte di gioia di un cristiano è sapersi amato da Dio. E chi vive una gioia vuole comunicarla. Questa è l'evangelizzazione: un'esperienza spirituale di gioia. Non parlo di una gioia facile, ma di una gioia pasquale, che passa per la sofferenza e la morte, in senso metaforico, ma che alla fine è gioia.

3) L'evangelizzazione nel mondo di oggi

Voglio menzionare un testo del Vangelo che mi sembra molto bello, un testo che si trova in tutti e quattro i vangeli e che dunque bisogna prendere molto sul serio (Giovanni, si sa, è come un franco tiratore, va per suo conto): il testo dell'unzione di Betania. Ho l'impressione che questo testo sia un po' come la sintesi del Vangelo. Gesù sta mangiando in casa di Simone il lebbroso (che non era più tale, altrimenti non sarebbe stato in città) e viene una donna anonima che rovescia un profumo sulla testa di Gesù. Ricordate la reazione: "questo è uno spreco, si sarebbe potuto vendere il profumo per 300 denari" (un denaro era il salario di un giorno di un lavoratore). Ma Gesù prende le sue difese: questa donna ha fatto un'opera buona. La parola greca che traduciamo con buona è una parola che ha varie traduzioni: vuol dire tanto buona come bella. E Gesù dice: questa donna ha fatto un'opera buona, bella, nei miei confronti. L'obiezione che viene avanzata è a partire dal messaggio di Gesù: "meglio sarebbe stato distribuire il denaro tra i poveri". È un punto del messaggio di Gesù che viene usato contro la donna. Ma Gesù dice: i poveri saranno sempre con voi. Questo richiama il cap. 15 del Deuteronomio, dove troviamo tre affermazioni: 1 che non ci siano poveri tra di voi: è questo l'ideale, 2. se ci sono poveri, aprite la mano e il cuore, 3 sempre ci saranno, e perciò dovrete sempre aprire la mano e il cuore. Se l'affermazione di Gesù viene isolata dal contesto delle due precedenti affermazioni, ne perdiamo il senso: potrete sempre fare qualcosa per i poveri, ma questa donna ha fatto un'opera buona, un'opera gratuita. Gesù in questo momento è povero, indifeso ed è in certa maniera già condannato a morte. Questa donna non può impedirlo e può semplicemente augurargli vita: il profumo è questo, è l'idea antica dell'imbalsamazione. In questo caso la donna esprime un amore gratuito.

Una volta, preparando il Natale nella mia parrocchia a Lima, una signora molto anziana mi disse: "sa, padre, io sono di una famiglia molto povera (e continuava ad esserlo in realtà) e quando ero bambina a Natale ricevevamo riso, pane, zucchero". Ma un Natale un sacerdote le regalò una bambola, per la prima volta nella sua vita: "non ho più dimenticato il viso di quel sacerdote". La bambola era inutile, rispetto alle sue necessità di base: non si mangia una bambola, non serve a niente se non a giocare. Ma lei non se ne è più dimenticata. Il povero è una persona che ha dei bisogni fisici: tetto, salute, alimenti, ma che ha anche bisogno di amicizia, di tenerezza e di gratuità.

Da una parte c'è un linguaggio che in termini biblici potremmo chiamare profetico: è il linguaggio della giustizia, dell'incontro con Dio nel povero. Ma dall'altro c'è il linguaggio della gratuità, di quello che non è immediatamente utile. Nel mondo dei poveri il senso della gratuità è molto forte. Mi impressiona molto a Lima vedere gente che entra in chiesa e resta lì seduta, mezz'ora, un'ora, due ore. I poveri sono ricchi di tempo. Noi siamo persone di orologio e di agenda: se qualcuno voleva parlare con me tiravo fuori l'agenda e fissavo l'ora, e qualunque ora dicessi andava bene. Chi non ha lavoro di tempo ne ha d'avanzo. Poi mi resi conto che prendere l'agenda era come aggredire le persone. E lasciai l'agenda. Fissavo le visite e me le appuntavo a casa.

C'è un linguaggio profetico, della giustizia, e un linguaggio della gratuità che è contemplativo: senza contemplazione, preghiera, non c'è vita cristiana; senza impegno storico neppure. Unire questi due linguaggi è la maniera, credo, di comunicare il Vangelo. Con questo, abbiamo risposto alla domanda di come dire al povero che Dio lo ama? La domanda è molto più grande del nostro tentativo di risposta, troppo profonda è la sofferenza dell'innocente per pensare che possiamo rispondere una volta per tutte. Ma questa prospettiva cerca di dire qualcosa al riguardo.

(da Adista, n. 90, 13-12-2003. Il testo è tratto da una registrazione e non è stato rivisto dall'autore)

Pubblicato in Teologia
Venerdì, 24 Marzo 2006 00:32

La vita di Pierre Teilhard de Chardin

La vita di Pierre Teilhard de Chardin



Pierre Teilhard de Chardin è nato il 1° maggio 1881 a Sarcenat, nella regione dell’Auvergne in Francia, da genitori di antica nobiltà provinciale. Compie gli studi secondari nel Collegio dei Padri Gesuiti di Mongré e, dopo il Baccalaureato, entra nella Compagnia di Gesù (1899). Dopo due anni di noviziato a Aix-en-Provence, compie i suoi studi a Laval, e nell’isola di Jersey. Nel 1905 è al Cairo dove rimane tre anni per insegnare fisica nel Collegio dei Padri Gesuiti. E’ il suo primo contatto con l'oriente; risalgono a quel tempo le sue prime ricerche ed escursioni geologiche.

Nel 1909 inizia gli studi di Teologia ad Hasting (Inghilterra) e viene ordinato sacerdote (1911). Nel 1912 inizia un periodo di tirocinio al Museo Nazionale di Storia Naturale, a Parigi, che allora era diretto dal Prof. Marcellin Boule.

Allo scoppio della prima guerra mondiale viene mobilitato e presta servizio di barelliere della Croce Rossa sulla linea del fronte. Nei periodi di riposo nelle retrovie ha tempo di meditare a lungo sul significato dell’evoluzione generalizzata, cioè estesa dal campo della vita a quello del cosmo, della storia e della religione. Tali riflessioni, riportate negli “Scritti del tempo di guerra”, saranno poi sviluppate durante tutta la sua vita e pubblicate postume in 13 volumi.

Dopo la sua smobilitazione prosegue nei suoi studi di geologia e paleontologia, fino al dottorato che consegue discutendo una tesi su “Les Mammiféres de l’Eocène inferieur français” (1922).

Nominato professore aggiunto di geologia all’”Institut Catholique” di Parigi, viene poco dopo allontanato dall’insegnamento per le sue idee ritenute pericolose. Parte allora per la Cina con una missione scientifica che avrebbe dovuto essere temporanea; ma, ritornato in Francia nel settembre 1924, è costretto poco più di un anno dopo, a prendere la vita dell’esilio. Salvo sporadici ritorni in Francia, egli rimarrà tutta la vita lontano dall’Europa, compiendo studi e missioni scientifiche in tutto il mondo.

In Cina, dove rimane molti anni, ha l’avventura di partecipare alla scoperta del famoso “sinantropo”. Va in India, in Somalia, a Giava, in Africa; partecipa a congressi negli Stati Uniti, in Canadà, Londra e Parigi, pubblica memorie scientifiche, che ora sono raccolte in 10 volumi; però è sempre oppresso dal fatto che l’autorità ecclesiastica gli impedisce di pubblicare gli scritti in cui ha riversato il meglio del suo pensiero, la sua visione dell’uomo, del Cosmo e della fede. Muore improvvisamente a New York, in casa di amici, il giorno di Pasqua 1955.

Pubblicati postumi, questi ultimi scritti produssero subito un notevole scalpore, sono raccolti in 13 volumi e trattano di fenomenologia della scienza e della religione, di cosmologia e antropologia.

Partendo da un esame globale dei dati della scienza circa la formazione del cosmo, della terra e della vita su di essa, Teilhard ritiene di poter affermare che, anche se tutto in natura avviene per “tatonnements” (cioè per tentativi successivi in tutte le direzioni, secondo la legge dei grandi numeri), il risultato finale di questo processo rivela l’esistenza di un moto evolutivo verso l’infinitamente complesso, cioè verso la vita e, precisamente, verso le forme superiori di essa: l’uomo.

Le asserzioni di Teilhard sono naturalmente contestate da quegli scienziati che negano alla scienza ogni possibilità di constatare l’esistenza di un finalismo in natura. A questa obiezione egli risponde con la seguente argomentazione: la posizione dell’uomo nella natura è pienamente comprensibile se si ammette l’evoluzione orientata, cioè il Cosmo ha un senso solo se è come una enorme macchina destinata a produrre “pensiero riflesso”, cioè l’uomo. Così l’Uomo è investito di una responsabilità senza pari: è quello che dà significato a tutta la natura.

Se invece l’uomo non è che un “caso fortuito”, un felice incidente della natura, non solo non ha nessuna responsabilità, ma neanche uno scopo o un motivo per migliorarsi e pensare al suo avvenire, e il Cosmo intero non ha più significato di un pugno di polvere lanciata nello spazio.

Durante e dopo il Concilio Vaticano II l’influsso delle sue idee è stato piuttosto importante negli ambienti teologici cattolici e cristiani in genere, e, anche se il suo nome non viene fatto esplicitamente, molte delle sue ipotesi di lavoro sono oggi accettate normalmente dai teologi cristiani.


Per continuare le ricerche sulla linea da lui indicata, si sono costituiti gruppi e associazioni di persone, di cui i principali sono:

In Italia:

Associazione Teilhard de Chardin: Centro di ricerca per il Futuro dell’Uomo

Viale Don Minzioni, 25/a – 50129 Firenze – Tel. 051-576.551

Pubblica trimestralmente il periodico: “Il Futuro dell’Uomo”.

In Inghilterra:

The Teilhard Centre for the Future of Man

81 Cromwell Road

London SW7 5BW

Pubblica quadrimestralmente il periodico: “The Teilhard Review”.

Negli Stati Uniti:

American Teilhard Association for The Future Man

867 Madison Avenue

New York N.Y. 10021

Pubblicato in Teologia

Note sul sacerdozio femminile nell'antichità
in margine a una testimonianza di Gelasio I
di Giorgio Otranto


In un’epoca come la nostra che ha riconsiderato, profondamente rivalutandoli, il ruolo e la presenza della donna nella famiglia, nell’ambiente di lavoro e nella società, il problema dell’ammissione delle donne al sacerdozio non poteva non suscitare un rinnovato interesse; esso è diventato anzi una delle più dibattute questioni ecclesiologiche di questi ultimi quindici anni. Sono sorti agguerriti movimenti di opinione, si sono levate voci di studiosi di diverse estrazioni culturali e professionali, si è sviluppato un vivace dibattito e nel 1976 si è registrato un intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede che, nella Dichiarazione Inter insigniores, ha ancora una volta ufficialmente ribadito la posizione della Chiesa cattolica, da sempre contraria all’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato (1). Dopo questa Dichiarazione si sono moltiplicate le indagini, il dibattito si è fatto ancora più serrato, ma sostanzialmente le posizioni non sono cambiate, direi anzi che si sono cristallizzate e radicalizzate.

Come sempre succede quando si tratta di dare soluzioni adeguate a questioni dottrinali e disciplinari, anche in questo caso ci si è rivolti, con diversi intendimenti e risultati, al mondo antico. E qui il Magistero ordinario ha ritrovato le motivazioni su cui si radica la sua tradizionale opposizione al conferimento del sacramento dell’Ordine alle donne: il Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei Dodici e tutta la tradizione della Chiesa si è mantenuta fedele a questo dato interpretandolo come volontà esplicita del Salvatore di conferire soltanto all’uomo il potere sacerdotale di governare, insegnare e santificare; e solo l’uomo, per la sua naturale rassomiglianza col Cristo, può esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo stesso nell’Eucaristia. D’altra parte, coloro che sono su posizioni antitetiche, nel richiamarsi pure alla cristianità antica, con diverse argomentazioni fanno rilevare che la posizione ufficiale della Chiesa è conseguenza di un’antropologia tutta calata nel mondo antico e difficilmente accettabile dalla sensibilità moderna un’antropologia che risente dello stato di inferiorità palese in cui la donna era tenuta nell’ambiente greco e romano e, ancor più in quello palestinese che vide nascere il cristianesimo.

Queste, sostanzialmente, sono le posizioni anche se al loro interno si possono cogliere diverse sfumature e articolazioni, che non è qui il caso di richiamare, anche perché questo contributo, ben lungi dal voler entrare nel merito della vexata quaestio, mira solamente a fornire ulteriori elementi per la ricostruzione storica di un quadro che sia il meno frammentario ed approssimativo possibile. D’altro canto, ogni volta che si è data, da una parte e dall’altra, una soluzione decisa alla questione, si è dovuto dare il massimo rilievo ad alcuni elementi e motivi trascurandone, spesso pregiudizialmente, altri.

Tra le non poche ricerche incentrate in modo specifico sull’argomento in questione vanno segnalate almeno quelle di Van der Meer (2), Gryson (3), Galot (4), i quali mettono in rilievo nella Chiesa antica la donna non ha mai esercitato il ministero sacerdotale e che la sola funzione consentitale a partire dal III secolo, nell’ambito della comunità, era il diaconato in Oriente, tranne che in Egitto; i compiti assegnati a tale ministero erano la cura delle donne inferme e l’assistenza al battesimo delle donne. L’istituzione del diaconato femminile non ha varcato i confini dell’Oriente e i tentativi fatti nel IV e V secolo per introdurlo in Occidente non ebbero praticamente successo (5). Questa conclusione è senza dubbio corretta, ma non dà conto (o lo fa solo sommariamente) di alcuni episodi e fenomeni in forza dei quali la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio si presenta come problema abbastanza vivo sin dai primi secoli cristiani.

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Tra questi episodi ha un valore particolare uno di cui è tramandata notizia in un’epistola di Gelasio I (492-496), che fornisce elementi finora non adeguatamente valutati dagli studiosi (6). Van der Meer (7) le dedica non più che un accenno, mentre Gryson (8) e Galot (9), pur soffermandosi un po’ più distesamente sulla testimonianza gelasiana, non ne traggono alcuna conclusione e lamentano nell’epistola la mancanza di indicazioni precise: un’affermazione, quest’ultima, che non mi trova del tutto concorde. Ma vediamo di che si tratta.

Gelasio nel 494 (10) indirizza una lunga ed interessante epistola … ad universos episcopos per Lucaniam, Brutios et Siciliam constitutos. Essa è costituita da 27 decreti in cui il vescovo di Roma affronta numerose e rilevanti questioni (11) che, ad esclusione di alcune più propriamente sacramentali, riguardano in massima parte l’organizzazione interna delle comunità, le condizioni richieste per accedere alla dignità clericale, i rapporti tra vescovo, presbitero e diacono, le ordinationes e i negotia dei clerici, la dedicazione di nuove basiliche, la disciplina del clero. Quattro dei decreti sono dedicati alla presenza delle donne nell’ambito delle comunità cristiane: il XII tratta della consacrazione delle vergini; il XIII e il XXI riguardano il divieto della velatio per le vedove; il XXVI, infine, è quello che ci interessa più da vicino in quanto affronta esplicitamente il problema del sacerdozio delle donne:

“Nihilominus impatienter audivimus, tantum divinarum rerum subiisse despectum, ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur, cunctaque non nisi virorum famulatui deputata sexum cui non competunt, exhibere” (12).

Gelasio, dunque, dichiara di aver appreso con rammarico che il disprezzo per quello che riguardava la religione cristiana era arrivato a tal punto che le donne venivano ammesse a sacris altaribus ministrare: espressione che indica senza possibilità di dubbio lo svolgimento di un servizio liturgico presso gli altari. In tal senso il termine ministrare, corrispondente del greco diakonein, è adoperato in tutta la letteratura cristiana delle origini e trova sicura, antica attestazione negli Atti (13,2) e nell’epistola agli Ebrei (10,11) (13).

In Giuliano Pomerio, autore contemporaneo di Gelasio, ricorre la medesima espressione altari ministrare per designare lo svolgimento del servizio cultuale sacerdotale (14). Lo stesso termine (o il sostantivo minister-ministra) veniva adoperato anche in riferimento all’azione liturgica di diaconi e diaconesse. E’ qui appena il caso di ricordare la celebre lettera di Plinio il Giovane a Traiano in cui vengono menzionate due diaconesse (duae ancillae, quaeministraedicebantur) (15). Nel c. II del concilio di Tours del 461 si vieta a sacerdoti e diaconi di plebi ministrare in determinate circostanze (16).

Stabilire se l’espressione ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur faccia riferimento al servizio liturgico di diaconesse o presbitere potrebbe essere, almeno in questo caso, di secondaria importanza, dal momento che subito dopo Gelasio aggiunge di aver anche saputo che le donne compivano tutte le funzioni che erano state assegnate solamente al ministero degli uomini e non competono al sesso femminile:cunctaque non nisivirorumfamulatui deputata sexum, cui non competunt, exhibere. Galot considera famulatui termine generale per designare il servizio del culto e su questa base, così come aveva fatto Gryson (17), rimane sostanzialmente in dubbio se si tratti di servizio diagonale o sacerdotale (18). A me pare, invece, che tutta l’espressione, abbia un suo significato preciso in margine al quale si impongono alcune considerazioni. Va rilevato innanzitutto che Gelasio in un altro locus della stessa epistola adopera ecclesiasticus famulatus come sinonimo di ministerium clericale (19). E che nel nostro caso virorum famulatus indichi non il ministerium clericale del diaconus, ma quello più comprensivo del presbyter si desume dal cuncta che qualifica la pienezza delle attribuzioni, liturgiche, giurisdizionali e magisteriali, del virorum famulatus: le funzioni esercitate dalle donne presso gli altari non possono quindi, che riferirsi all’amministrazione dei sacramenti, al servizio liturgico e all’annunzio pubblico e ufficiale del messaggio evangelico, che costituiscono praticamente i compiti del sacerdote ministeriale.

In definitiva ritengo che Gelasio, piuttosto che l’esercizio di un servizio liturgico diagonale femminile, abbia voluto stigmatizzare e condannare un abuso che gli doveva apparire di gran lunga più grave: quello di vere e proprie presbitere che svolgevano tutti i compiti tradizionalmente riservati solo agli uomini. Si comprende così non solo il tantus divinarum rerum despectus, ma anche la durezza e l’insistenza con cui Gelasio, nel prosieguo del decreto, condanna l’operato di quei vescovi che o commettono tali abusi o, non denunziandoli pubblicamente, danno a vedere di favorirli; sempre che, continua il papa con sarcasmo, si possono chiamare vescovi coloro che sminuiscono a tal punto il ministero loro affidato e non hanno alcun rispetto per le regole invalse nella Chiesa. Che cosa bisogna pensare di questi uomini che, completamente assorbiti dai loro affari, hanno procurato con diverse iniziative una grande rovina che non solo sembra travolgere loro stessi, ma anche provocare, se non rinsaviscono, un danno fatale a tutte le Chiese? Sia questi vescovi, sia gli altri che, pur sapendo, non hanno denunciato la situazione, per Gelasio, di perdere la propria dignità episcopale. Nessuna attenuante può esserci, conclude il papa, né per quanti, pur conoscendo i canoni, non li hanno fatti rispettare né per quanti, ignorandoli, non si sono preoccupati di informarsi sulla condotta da tenere (20).

Gelasio, dunque, fa riferimento alla questione del sacerdozio delle donne solo nella parte iniziale del decreto; nel prosieguo di esso si limita a denunciare con un linguaggio altisonante la gravità dell’errore, prospettando con insistenza, le conseguenze dannose che possono derivare alle Chiese da quell’abuso; e fa tutto questo senza mai entrare nel merito della questione, senza cioè enucleare eventuali motivazioni di ordine scritturistico o teologico per rifiutare l’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine. Fa solo riferimento a più riprese alla regula christiana, alle regulae ecclesiasticae e ai canones che alcuni vescovi avevano o violato o ignorato. Evidentemente il ripetuto richiamo alla tradizione doveva essere ritenuto dal papa sufficiente per far apparire in tutta la sua gravità la natura dell’abuso condannato.

Il riferimento insistente alle gravi responsabilità dei vescovi qui ista committunt e qui haec ausi sunt exercerepuò avere un significato preciso che è indicativo della consistenza e della ratio del fenomeno in questione. I verbi committere ed exercere postulano una partecipazione attiva e fattuale di alcuni presuli alla perpetrazione dell’abuso; e questa partecipazione non può esaurirsi in un atteggiamento di semplice assenso o di indifferenza e distacco verso il fenomeno in questione; essa deve necessariamente coinvolgere in modo diretto i vescovi nell’exercitium del loro potere. Sono convinto che con le espressioni ista committunt e haec ausi sunt exercere Gelasio intende richiamare un mandato preciso conferito da alcuni presuli alle donne per l’esercizio sacerdotale: il richiamo, trattandosi di vescovi, non può che essere alla ordinazione sacerdotale che consentiva, appunto, l’esercizio del sacramento dell’Ordine da parte di alcuni rappresentanti del sesso femminile. Non si tratterrebbe, in sostanza, di semplici abusi perpetrati da alcune donne, ma di iniziative più consistenti che vedevano coinvolti in prima persona anche i vescovi. Una conferma a tale ipotesi può vedersi nell’espressione secondo cui questi vescovi hanno procurato una grande rovina alla Chiesa con diverse iniziative (multimodis impulsionibus); una di queste, certamente la più grave, è a parer mio quella di aver conferito il sacramento dell’Ordine alle donne. D’altra parte, la differenza e l’insistenza con cui Gelasio condanna l’operato dei vescovi lasciano ragionevolmente supporre responsabilità dirette molto gravi da parte di alcuni di loro nella vicenda trattata; per altri l’accusa è più generica e si limita ad evidenziare un atteggiamento di tacito e colpevole assenso ad un comportamento che contravveniva ai canones. I canoni ai quali potrebbe voler far riferimento Gelasio sono il XIX del concilio di Nicea (21), l’XI e il XLIV del concilio di Laodicea (seconda metà del IV secolo) (22), il II del concilio di Nǐmes (394 o 396) (23) il XXV del I concilio di Orange (441) (24), che proibiscono alle donne di svolgere il servizio liturgico comunque configuratesi o di far parte del clero. E’ superfluo in questa sede analizzare tali canoni anche perché questi sono stati esaminati da Van der Meer (25), Gryson (26) e Galot (27).

Circa l’estensione del fenomeno lamentato da Gelasio va tenuto presente che il papa ne tratta, come ho già detto, in un’epistola che affronta numerose questioni di ordine disciplinare, organizzativo e dottrinale e che fu inviata a tutti i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia. Con la lettera in questione, comunque, Gelasio molto probabilmente intendeva risolvere situazioni che non erano esclusive delle regioni ricordate. L’epistola,infatti, come il suo autore chiarisce in apertura, prende le mosse da una relazione che Giovanni, vescovo di Ravenna (477-494), gli aveva mandato per sollecitare il riordinamento delle Chiese di diverse regioni d’Italia, sconvolte dalla carestia e dalla guerra tra Odoacre e Teodorico (28). Lanzoni ha supposto che l’iniziativa del vescovo Giovanni dovesse essere stata concordata con la corte di Ravenna (29): in effetti a Teodorico, che si accingeva ad una difficile opera di ricostruzione politica e che doveva risolvere anche il problema della convivenza tra cattolici ed ariani, necessitava operare in una società senza urti e contrasti.

Anche se è difficile pensare che il fenomeno del sacerdozio femminile fosse capillarmente diffuso in tutte e tre le regioni o in molto altre parti d’Italia, è probabile che episodi quali quelli condannati dal papa non siano rimasti fenomeni isolati e circoscritti in un ambito ristretto. L’intervento perentorio di Gelasio, che coinvolge parecchi vescovi nella questione, prova anzi che la situazione doveva essere giunta a un punto tale da preoccupare seriamente Roma. D’altra parte, se si fosse trattato di qualche caso isolato, probabilmente il papa, non fosse ’altro che per motivi di prudenza, non avrebbe trattato in un’epistola che, considerata la rilevanza degli argomenti affrontati, doveva avere diffusione non solo in Lucania, Bruzio e Sicilia, ma praticamente anche in altre regioni che fossero per un verso o per l’altro interessate alle numerose questioni trattate nel documento o solo a qualcuna di esse. Epistole come quella in oggetto erano destinate a circolare in tutte le comunità e costituivano per la gerarchia una sorta di prontuario per poter affrontare determinati problemi interni di ordine disciplinare, organizzativo, dottrinale. E non è da escludere che Gelasio abbia inviato la medesima epistola ad altre chiese che erano interessate agli stessi problemi in essa trattati (30).

In definitiva dall’analisi dell’epistola mi pare possa desumersi che sul finire del V secolo in una vasta area dell’Italia meridionale, se non anche in altre non identificabili regioni d’Italia, alcune donne, ordinate da vescovi, esercitavano un vero e proprio sacerdozio ministeriale.

E’ difficile, allo stato attuale della ricerca, precisare la genesi di tale fenomeno. Va tenuto, comunque, presente, come è stato opportunamente sottolineato (31), che l’area entro cui esso si verific0, l’Italia meridionale, era tradizionalmente collegata con gli ambienti greci e bizantini, dove a partire dal III secolo le donne esercitarono stabilmente il diaconato; alla fine del IV secolo le diaconesse venivano annoverate tra i clerici, giacché, come questi, ricevevano l’ordinazione con l’imposizione delle mani secondo un preciso rituale, precisi obblighi e condizioni giuridiche (32). Né va dimenticato che proprio in Oriente, in Asia Minore, soprattutto in ambiente gnostico e montanista si erano registrati sin dal II secolo casi di donne con le funzioni di presbitero o di vescovo che la Chiesa aveva condannato.

Ireneo tramanda che lo gnostico valentiniano Marco si circondava di donne cui ordinava di consacrare alla sua presenza calici contenenti vino (33).

Firmiliano di Cesarea, in un’epistola a Cipriano, condanna duramente l’attività di una donna che, attorno al 235, in Asia Minore attirava un gran numero di fedeli, battezzava e celebrava l’Eucaristia secondo il rituale della Chiesa (34).

Uguale condanna esprime Epifanio di Salamina per alcune sette montaniste della Frigia che consentivano alle donne l’accesso al sacerdozio e all’episcopato (35).

Su questa base mi pare possibile ipotizzare un’influenza dell’ambiente greco e bizantino che avrebbe determinato o favorito il sorgere del fenomeno della donna-presbitera in Italia meridionale.

Naturalmente non sorprende trovare in queste regioni, soprattutto nel Bruzio e nella Sicilia, a livello di faciespassim quocumque tempore (37). culturale cristiana, elementi e motivi che riconducono, per un verso o per l’altro, al mondo bizantino ancor prima della guerra greco-gotica (535-553), basti pensare che nel 447 Leone Magno esorta i vescovi di Sicilia a non amministrare il battesimo, secondo l’usanza greca, anche nel giorno dell’Epifania, oltre che a Pasqua e Pentecoste (36). E Gelasio intende molto probabilmente ribadire proprio questo divieto quando nel X decreto dell’epistola in questione invita i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia ad amministrare il battesimo solo a Pasqua e Pentecoste e non

Il fenomeno del sacerdozio delle donne in Italia meridionale andrebbe, dunque, visto nel contesto della particolare sensibilità di questa area geografica al richiamo del mondo bizantino. Sensibilità che porterà, tra VII e VIII secolo, ad una sempre più evidente ellenizzazione della Chiesa nelle regioni interessate, soprattutto in Sicilia e Bruzio (38). E se nel fenomeno del sacerdozio delle donne si può genericamente cogliere una matrice greca e bizantina, va specificato che l’episcopato di Lucania, Bruzio e Sicilia (o parte di esso), conferendo l’Ordine sacro alle donne e consentendo loro di svolgere presso gli altari cuncta non nisi virorum famulatui deputata, era andato ben al di là del modello cui probabilmente guardava.

La presenza, sul finire del V secolo, di presbitere nel Bruzio non può non richiamare un’epigrafe che riveste notevole importanza come documento storico in relazione alla questione che sto trattando: B(onae) m(emoriae) s(acrum). Leta presbitera / vixit annos XL, menses VIII, dies VIIII / quei (scil.cui) bene fecit maritus. / Precessit in pace pridie / idus Maias (39). L’epitaffio fa riferimento ad una Leta presbytera, defunta poco più che quarantenne, alla quale il marito aveva posto la tomba; esso proviene dalla catacomba di Troppa, una cittadina che ha restituito la più consistente documentazione epigrafica e monumentale del Bruzio paleocristiano (40).

Nel termine presbytera finora tutti gli studiosi, da De Rossi (41) a Crispo (42) a Ferrua (43), sulla spinta che non ha mai fatto alcuna concessione al sacerdozio femminile hanno sempre visto la moglie del presbyter. Alla luce di quanto emerso dall’epistola gelasiana mi pare si possa ragionevolmente ipotizzare che la Leta dell’epigrafe di Troppa fosse una vera e propria presbytera, una donna, cioè che svolgeva il ministero sacerdotale nella comunità cristiana di Troppa. Anche la datazione dell’epitaffio, che Ferrua fa risalire alla metà del V secolo (44), avvalora questa ipotesi. Le due notizie, dunque, quella gelasiana e quella tradita dall’epigrafe, si illuminano e si confermano a vicenda, attestando l’esistenza del sacerdozio femminile nel Bruzio tra la metà e la fine del V secolo.

Oltre che questa significativa convergenza con l’epistola gelasiana, un altro motivo mi induce a vedere in Leta una vera e propria presbitera. Se Leta fosse una uxor presbyteri dovremmo inferirne che il marito, che le ha posto la tomba, ha rinunziato a qualificarsi come presbyter per trasferire sulla moglie tale qualifica. Operazione di cui sinceramente non so vedere alcuna ragione valida di cui non si ha riscontro nella documentazione epigrafica. Stando alle testimonianze che ho potuto raccogliere, ogni volta che un presbyter dispone la tomba o provvede alla sepoltura della moglie, questa viene sempre indicata col termine coniux (45) e, in qualche caso,amatissima (46). D’altra parte, anche a livello letterario è ricorrente l’accostamento presbyter-presbytera per indicare in presbytera la moglie del presbyter (47), ma non è mai stato attestato, a quel che mi risulta, maritus (o coniux o vir) - presbytera.

Un’altra presbytera è ricordata in un’epigrafe su un sarcofago proveniente da Salona, in Dalmazia che porta la data consolare del 425 (48). D(ominis) n(ostris) Thaeodosio co(n)s(ule) XI et Valentiniano/viro nobelissimo Caes(are). Ego Thaeodo/sius emi a Fl(avia) Vitalia per(es)b(ytera) sanc(ta) matro/na auri sol(idis) III. Sub d(ie)… (49) L’epigrafe richiama il fenomeno dell’assegnazione e della vendita dei posti nei cimiteri comunitari cristiani. Tale attività a Roma, città per la quale siamo meglio informati, fu gestita inizialmente dai fossores e successivamente da praepositi e presbiteri (50). Stando all’epigrafe, Teodosio aveva acquistato per tre solidi d’oro un posto nel cimitero subdiale di Salona dalla presbytera Flavia Vitalia (51). Pure in questo caso,dunque, una presbytera è investita di un compito ufficiale che nella comunità, da una certa epoca in poi, fu proprio del presbyter (52). Anche se l’epigrafe non offre elementi sufficienti per poter dire che la presbbytera in questione svolgeva il ministero sacerdotale, sulla base della documentazione di cui attualmente disponiamo, a me pare che contratti di quel tipo si stipulassero direttamente con chi aveva un ruolo o una funzione ufficiale nell’ambito della comunità – il fossor, il praepositus, il presbyter (nel nostro caso la presbytera) – e non con la uxor presbyteri.

Proviene pure da Salona un frammento di coperchio di sarcofago, probabilmente del V-VI scolo, che reca la scritta (sace)rdotae (53). Potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di una donna investita, come la conterranea Flavia Vitali, di funzioni sacerdotali.

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Oltre al fenomeno testimoniato dall’epistola gelasiana, la cristianità antica ha conosciuto altri casi di donne che svolgevano il servizio liturgico; questi interessano, come ho già rilevato, a partire dal II secolo, gli ambienti gnostici e montanisti, contro cui polemizzano a più riprese i Padri della Chiesa.

Agli inizi del VI secolo, in un’epoca quindi molto vicina a quella dell’epistola gelasiana, si ha notizia di un altro caso di donne che partecipavano attivamente alla liturgia. Il caso è segnalato per il 511 in Gallia dai vescovi Licinio di Tours, Melanio di Rennes ed Eustochio di Angers che indirizzarono un’epistola ai sacerdoti bretoni Lovocario e Catiherno, rimproverandoli di servirsi, durante la Messa, di donne che prendevano in mano il calice e distribuivano al popolo il sangue di Cristo. I vescovi condannano severamente l’operato dei due presbiteri e, appellandosi alla tradizione, li minacciano di escluderli dalla comunione ecclesiastica qualora non smettano di farsi assistere da quelle donne (conhospitae) (54), con le quali inoltre convivevano (55).

Dall’epistola si desume che queste conhospitae svolgevano il servizio liturgico proprio non del presbyter ma piuttosto del diaconus, cui era consentito amministrare la comunione: si tratta, in ogni caso, di attribuzioni che andavano al di là dei compiti tradizionalmente riservati in Oriente alle diaconesse.

E proviene dai dintorni di Poitiers, una zona molto vicina a quella nella quale operavano i tre vescovi, un graffito di dubbia datazione (56) che attesta lo svolgimento di un servizio della donna presso gli altari: Martia presbuteria/ferit oblata Oleari/o par(iter) et Nipote. Contrariamente a Mommsen (57) e a Diehl (58) che riferiscono presbyteria ad obblata (= oblationes presbyterales), ritengo che presbytera stia per presbytera proprio come nel canone XX del concilio di Tours (59) e nel canone XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo (60). Non è facile precisare la natura del servizio svolto da Marzia: questa è la uxor presbyteri che porta (ferit = fert) il pane e il vino per la celebrazione eucaristica come una semplice fedele o è una presbytera con compiti più specifici nella liturgia eucaristica? Olybrius e Nepos sono quasi sicuramente due presbyteri che officiavano nella comunità di cui faceva parte anche Marzia; ed è probabile che questa collaborasse abitualmente con loro durante la sinassi eucaristica. Il fatto che si sia voluto ricordare un’azione svolta da Marzia nell’ambito della celebrazione liturgica potrebbe significare che non ci si trova di fronte al gesto usuale dei fedeli al momento dell’offertorio, ma piuttosto di fronte ad un atto abitualmente compiuto dal diacono o da un altro membro del clero. Potrebbe trattarsi in definitiva di un servizio liturgico analogo a quello delle conhospitae che collaborano con i presbyteri Lovocato e Catiherno.

A me pare di notevole interesse questa convergenza tra documentazione letteraria e documentazione epigrafica che attestano, nella stessa zona o in zone confinanti della Gallia, una funzione particolare, e certo non abituale, della donna nell’ambito della celebrazione eucaristica. Può, beninteso, anche trattarsi di un semplice caso, ma va tenuto presente che la medesima convergenza si è rilevata anche per il Bruzio.

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Le notizie raccolte sul sacerdozio delle donne nell’antichità sono scarse e sparse. Alcune vanno ulteriormente verificate in un quadro ampio che includa anche la documentazione iconografica da cui possono venire nuovi stimoli per un ulteriore approfondimento del problema, come credo ne siano venuti da quella epigrafica.

Anche se sono attestati pochi casi di donne che svolgono le funzioni di presbyterae, la frequenza con cui deliberati conciliari e autori cristiani si soffermano, sempre polemicamente, sulla questione dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine fa pensare che i casi di donne che svolgevano le funzioni di presbytera o un altro tipo di servizio liturgico doveva essere molto di più di quelli attestati dalla documentazione letteraria ed epigrafica. Basta scorrere i saggi di Van der Meer, Gryson e Galot per rendersi conto della continuità con cui la gerarchia, i Padri e le assemblee conciliari hanno affrontato il problema dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine.

Tutto questo, a dispetto della lamentata esiguità della documentazione e contrariamente a quanto abitualmente si sostiene da parte di quelli che sono contrari al sacerdozio femminile, significa che la posizione assunta al riguardo dalla Chiesa antica – da tutta la Chiesa e non dalla sola gerarchia – non può configurarsi come una tradizione monolitica, ben definita cioè in tutti i suoi aspetti e risvolti o comunque accettata da tutti, ma piuttosto come una realtà in cammino, come una questione vivamente avvertita (61), dibattuta e qualche volta, anche se raramente, diversamente risolta. La tradizione diventa o è diventata monolitica nel momento in cui si condannano o si sono condannate tutte le soluzioni che nel passato si sono discostate da quella ufficialmente accettata e difesa dalla Chiesa cattolica. Su questo atteggiamento della Chiesa può avere influito anche il fatto che dal II secolo alcuni gruppi, condannati come eretici, ammettevano le donne al presbiterato e all’episcopato. Ma non necessariamente la presenza di una presbytera connotava la sua eterodossia o quella della Chiesa in cui viveva e svolgeva il suo ministero. Lo attesta in modo esplicito Attone, vescovo di Vercelli, vissuto tra IX e X sec., di cui sono noti l’attività riformatrice e l’impegno contro la corruzione del clero. Scrisse tra l’altro un tratto canonistico e raccolse, vita sacramentale ed espressione liturgica.

A lui si era rivolto un sacerdote di nome Ambrogio per chiedergli come si dovessero intendere i termini presbytera e diacona della canonistica antica. La sua risposta non lascia adito a dubbi. Egli comincia col rilevare che siccome nella Chiesa antica molta era la messe e pochi gli operai (Mt 9,37; Lc 10,2),anche le donne ricevevano gli Ordini sacri ad adjumentum virorum, come prova Rom 16,1 (Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris); fu il concilio di Laodicea, della seconda metà del IV secolo, a proibire, per Attone, l’ordinazione presbiterale delle donne: Quod Laodicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitus quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes in Ecclesiis ordinari (62). Molto siè scritto sul c. XI del concilio di Laodicea (peri tou mh dein tas legomenas presbutidas etoi prokaqemenas en th ekklesia kaqistasqai) (63) e sul significato del termine presbutidas, del quale si sono date diverse spiegazioni e si è sistematicamente escluso che possa indicare vere e proprie presbyterae. Ma questa esclusione è il risultato di un modo di procedere a tesi che ha fortemente condizionato non pochi studiosi. Basti leggere quello che scrive al riguardo Galot: “il canone 11 del concilio di Laodicea imbarazza i commentatori… Le incertezze riguardano il significato di ‘presbiteri’ e di ‘presidenti’, come del verbo ‘stabilire‘ o ‘ordinare‘. Se ci si dovesse fidare del titolo che ha il canone: ‘Non bisogna stabilire donne-preti nella chiesa‘ , si intenderebbe le ‘presbitidi‘ nel senso di ‘pretesse‘. Ma simile significato sembra impensabile nella chiesa cattolica, e si è cercato di identificare queste ‘presbitidi‘ sia con diaconesse superiori, sia con semplici diaconesse, sia con donne anziane, incaricate della sorveglianza delle donne nella chiesa (64). Alla luce di quanto finora osservato, perché non dare del c. XI di Laodicea l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere, come fa Attone che esso proibisce l’ordinazione presbiterale delle donne? Lo stesso Galot ammette che si tratta di proibizione del sacerdozio femminile, anche se ne circoscrive la portata riferendola alla polemica antimontanista (65).

Ma ritorniamo al vescovo di Vercelli. Egli, dopo essersi soffermato sulla figura della diaconessa, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate (ordinabantur) ed erano a capo della comunità (praeerant ecclesiis), erano chiamate presbyterae ed avevano il compito di predicare, comandare, insegnare (Hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, iubendi vel edocendi… officium sumpserant) (66): in questi tre termini è condensato il ruolo del sacramento dell’Ordine.

Conoscitore profondo della canonistico e delle istituzioni ecclesiastiche, il vescovo di Vercelli precisa che il termine presbytera poteva indicare nella Chiesa antica anche la moglie del presbyter;delle due accezioni egli dichiara di preferire la prima (67); ma questa affermazione va vista nel contesto della polemica che Attone di Vercelli e numerosi altri autori medievali condussero contro la cosiddetta Nicolaitica haeresis e in favore del celibato sacerdotale (68).

Questa di Attone è una testimonianza di notevole rilievo per la questione del sacerdozio femminile nell’antichità; e stranamente nessuno degli autori che si è interessato del problema, da Van der Meer, che pure fa una ricca raccolta di fonti antiche e medievali, a Gryson, a Galot ne ha fatto cenno.

Il solo Martimort, nel suo recentissimo saggio, l’ha presa in considerazione mostrandosi sorpreso per la spiegazione del termine presbytera data da Attone (69). In altri casi la stessa testimonianza è stata volutamente ignorata (70) evidentemente perché non in linea con quella che sembrava la tradizione unanime; essa avrebbe dovuto ingenerare per lo meno il dubbio, dal quale soltanto può derivare una certezza motivata, quale che sia. Ho l’impressione, invece, che nel corso dei secoli si sia operata, in parte accidentalmente in parte per motivi di prudenza o per conformismo, una decisa selezione o una preconcetta interpretazione delle già scarse notizie riguardanti l’esercizio del ministero sacerdotale da parte delle donne. Alla luce della testimonianza di Attone bisogna tentare di recuperare anche quelle testimonianze che a prima vista ci appaiono solo come schegge o frammenti di storia per ricomporre un quadro il più ampio possibile. E forse, quanto la ricerca sarà più spassionata, questo quadro potrà fornire utili punti di riferimento affinché la questione dell’ammissione delle donne all’ordine sacro venga affrontata col supporto di una più ampia base documentaria.

Note

1) La dichiarazione, firmata Paolo VI il 15 ottobre 1976, fu resa pubblica il 27 gennaio 1977 sull’Osservatore Romano; AAS 69, 1977, n. 2, pp. 98-116.

2) H. VAN der MEER, Sacerdozio della donna? Saggio di storia della teologia, Brescia 1971 (trad. it.; ed. or. in tedesco pubblicata a Basel nel 1969)

3) R. GRYSON, Il ministero della donna nella Chiesa Antica, Roma 1974 (trad. it.; ed. or. in francese pubblicata a Gembloux nel 1972).

4) J. GALOT, La donna e i ministeri nella Chiesa, Assisi 1973. Sulla questione cfr. i contributi di P.H. LAFONTAINE, Le sexe masculin, condition de l’accession aux ordres aux IV° et V° siècles: Revue de l’Université d’Ottawa 31, 1961, 137-182; Les conditions positives de l’accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique (300-492), Ottawa 1963.

5) Mentre Van der Meer tratta solo di sfuggita il problema delle diaconesse (Sacerdozio… cit. pp. 119-122), Gryson (Il ministero… cit. passim e pp. 201-202) e Galot (La donna… cit. passim e pp. 24-46) analizzano più diffusamente questo tema.

6) Ep. 14 (In A. THIEL, Epistulae Romanorum pontificum genuinae, Hildesheim-New York 1974, rist. Ed. 1867, pp. 360-379)

7) Sacerdozio… cit. p. 128.

8) Il ministero… cit. pp. 194-195.

9) La donna… cit. pp. 86-87.

10) L’epistola è datata all’11 marzo (Ep. 14,28; Thiel p. 379).

11) Il Lanzoni, per l’importanza e la ricchezza delle questioni trattate, la definisce epistola-enciclica. (La diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, vol. I, p. 329).

12) Ep. 14,26; Thiel 376-377.

13) Cfr. A.M.P. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary of the ancient orations in the Missale Romanum, Nijmegen-Utrecht 1963,p. 104; A. BLAISE, Le vocabulaire latin des principaux thèmes liturgiques, Turnhout 1966, pp. 502-503.

14) Vita cont. 2,7,3: PL 59,452.

15) Ep. 10,96,8.

16) In Concilia Galliae A. 314-A. 506 (C. Munier): CCL 148, 144.

17) Il ministero… cit p. 195

18) La donna… cit p. 86, n. 56.

19) Ep. 14,14; Thiel 370.

20) Ep. 14,26; Thiel 377-378: Nisi quod omnium delictorum, quae singillatim perstrinximus, noxiorum reatus omnis et crimen eos respicit sacerdotes, qui vel ista committunt, vel committentes minime publicando pravis excessibus se favere significant: si tamen sacerdotum jam sint vocabulo nuncupandi, qui delegatum sibi religionis officium sic prosternere moliuntur, ut in perversa quaeque profanaque, sine ullo respectu regulae Christianae praecipitia funesta sectentur. Quumque scriptum sit: Minima qui spernit, paulatim decidit; quid est de talibus existimandum, qui immensis ac multiplicibus pravitatum molibus occupati, ingentem ruinam multimodis impulsionibus ediderunt, quae non solum ipsos videatur obruere, sed et ecclesiis universis mortiferam, si non sanentur, inferre perniciem? Nec ambigant non solum qui haec ausi sunt exercere, sed etiam qui hactenus cognita siluerunt, sub honoris proprii se jacere dispendio, si non quanta possunt celeritate festinent, ut lethalia vulnera competenti medicatione salventur. Quo enim more teneant jura pontificum, qui pontificalibus excubiis eatenus injuncta dissimulant, ut contraria domui Dei, cui praesident, potius operentur? Quantumque apud Deum possent, si non nisi convenientia procurarent, tantum quid mereantur adspiciant, quum exsecrabili studio sectantur adversa, et quasi magis haec regula sit, qua ecclesiae debeant gubernari, sic quidquid est ecclesiasticis inimicum regulis perpetratur: quum et si cognitos habuit canones unusquisque pontificum, intemerata debuerit tenere custodia, et si forsitan nesciebat, consulere fidenter oportuerit ignorantem. Quo magis excusatio nulla succurrit errantibus, quia nec sciens proposuit servare quod noverat, nec ignorans curavit nosse quod gereret.

21) Cfr. testo e discussione in R. GRYSON, Il mistero… cit. pp. 98-100.

22) Cfr. infra pp. 84-86

23) In CCL 148-50. Per la datazione di questo concilio che oscilla tra il 394 e il 396 cfr. CCL 148,49.

24) In CCL 148,49.

25) Sacerdozio… cit pp. 126-28.

26) Gryson dedica un capitolo all’analisi delle fonti canoniche greche dal IV al VI secolo (pp. 90-147) e un altro a quelle latine dello stesso periodo (pp 187-199)

27) La donna… cit. pp. 80-83 (per i canoni XI e XLIV di Laodicea).

28) Ep. 14,1; Thiel 362: … et reparandis militiae clericalis officiis, quae per diversas partes ita belli famisque consumpsit incursio, ut in multis ecclesiis, sicut fratris et coepiscopi nostri Johannis Ravennatis ecclesiae sacerdotis frequenti relatione comperimus…

29) Le diocesi… cit. vol. II, p. 754.

30) Cfr al riguardo le osservazioni di G. MINASI, Le Chiese di Calabria dal quinto al duodecimo secolo, Napoli 1896, pp.79-80.

Il decreto gelasiano sulla proibizione del sacerdozio femminile è richiamato in un documento dell’829 (cfr. inPL 97, 821-822; H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. p. 131).

31) R. GRYSON, Il ministero… cit. p. 195; J. GALOT, La donna… cit. p. 87.

32) La bibliografia sull’argomento è molto vasta. Oltre agli studi di Gryson (passim) e Galot (passim, spec. Pp. 22-46), cfr. quelli specifici di C. VAGAGGINI (L’ordinazione delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina: Orientalia Christiana Periodica 4, 1974, 145-189) e G. FERRARI, Le diaconesse nella tradizione orientale: Oriente cristiano 14, 1974, pp. 28-50.

Solo in fase di ultima revisione del presente lavoro, ho potuto prendere visione del recente e documentato saggio di A. G. MARTIMORT (Les diaconesses. Essai historique, Roma 1982) che tende sostanzialmente a ridimensionare la presenza e il ruolo delle diaconesse nella Chiesa antica.

33) Adv. Haer. 1,13,2 (A. Rousseau-L. Doutreleau) SC 263,190-192 ; cfr. R. GRYSON, I misteri… cit. p. 44 ; J. GALOT, La donna… cit. pp. 67-69.

34) L’epistola è tramandata, tradotta in latino, nel corpus ciprianeo (Ep. 75,10: CSEL 3/II, 816-818); cfr. J. GALOT, La donna… cit. pp. 77-80.

35) Panarion 49,2,2-6 (K. Holl) GCS 31,242.

Per un quadro ampio delle testimonianze antiche sulle attribuzioni sacerdotali delle donne in ambiente montanista e colliridiano cfr. H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. pp. 66-70; R. GRYSON, I ministeri… cit. pp. 152-156; J. GALOT, La donna… cit. pp. 72-80.

36) Ep. 16,1-6: PL 54,695-702. l’uso orientale andava comunque diffondendosi anche in altre regioni dell’Occidente; cfr. M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1959, pp. 91-93.

37) Ep. 14,10; Thiel 368. in caso di pericolo di vita per il battezzando, il battesimo naturalmente poteva essere amministrato in qualsiasi momento.

38) Cfr. G. GAY, l’Italia meridionale e l’impero bizantino dell’avvento di Basilio I ALLA RESA DI Bari ai Normanni (867-1071), Firenze 1917 (trad. it.) pp. 5-16; F. BURGARELLA, La Chiesa greca di Calabria in età bizantina (VI-VII secolo), in AA.VV, Testimonianze cristiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide, Bari 1980, pp. 89-120; Q. CATAUDELLA, La cultura bizantina in Sicilia, in AA.VV, Storia della Sicilia, vol. IV, Palermo 1980, pp. 1-56.

39) CIL 10,8079; G. B. DE ROSSI in Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4; E. DIEHL, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres 1192 (Dublin-Zürich 1970).

40) Cfr. A. Crispo,Antichità cristiane della Calabria prebizantina: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 14, 1945, 127-141; 209-210; A. FERRUA, Note su Troppa paleocristiana: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 23, 1955, 9-29. Sul Bruzio paleocristiano fondamentali sono i contributi di F. Russo (cfr. la bibliografia in F. RUSSO, Introduzione del cristianesimo nella Sibaritide, in AA.VV., Testimonianze cristiane… cit. pp. 5-21).

Recenti scavi effettuati dalla Soprintendenza alle Antichità di Reggio Calabria hanno portato alla luce nuovi reperti, attualmente allo studio.

41) In Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4:

42) Antichità cristiane… cit. p. 134.

43) Note su Troppa… cit. p. 11. Per Ferrua (ibidem) Leta fu probabilmente moglie del presbyter Monsens, ricordato in un altro epitaffio proveniente pure da Troppa (Diehl 1150).

44) Note su Troppa… cit. p. 25.

45) DIEHL 393.1130.1139Aa.1154.

46) 1163ab.

47) Cfr. il c. XX del concilio di Tours del 567: Nam si inventus fuerit presbiter cum sua presbiteria aut diaconus cum sua diaconissa aut subdiaconus cum sua subdiaconissa … (Concilia Galliae A. 511-A. 695 – C. DE CLERCQ – CCL 148A,184); c. XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo: Non licet presbytero post accepta benedictione in uno lecto cum presbytera dormire … (CCL 148A,268); GREG. M., Dial. 4,12: Qui (presbyter) ex tempore ordinis accepti presbyteram suam ut sororrem diligens... (U. MORICCA, Roma 1924, p. 243); Cod. Dipl. Long. A.724-725 (C. TROYA, Napoli 1853, vol. III, pp. 398-399); A.768 (Napoli 1855, vol. V, pp. 460-461).

48) Per la datazione cfr. A. DEGRASSI, I fasti consolari dell’impero romano dal 30 avanti Cristo al 613 dopo Cristo, Roma 1952, p. 89.

49) F. BULIĆ, Iscrizione inedita: Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 37, 1914, 107-111.

50) Cfr. P. TESTINI, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966, pp. 221-226; J. GUYON, La vente des tombes à travers l’epigraphie de la Rome chrétienne (III-VII siècles): les rôles des fossores, mansionarii praepositi et prétres: MEFRA 86, 1974, 549-596.

51) Probabilmente Teodosio aveva acquistato da Flavia Vitalia anche il sarcofago Bulié (Iscrizione inedita …cit. p. 110) fa riferimento solo all’acquisto del sarcofago; questo naturalmente non sposta i termini del problema che riguarda le funzioni della presbytera in questione.

52) Per l’evoluzione del fenomeno della vendita dei posti nei cimiteri cristiani comunitari cfr. J. GUYNON, La vente … cit.

53) In Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 21, 1898, 147, n. 2428 (F. Bulić); CIL 3,12900. Una presbiterissa è attestata in un’epigrafe proveniente da Ippona (Cfr4. “L’Année épigraphique” 1953, pp. 196-197, n.107).

54) Col termine conhospita si indicava una donna che conviveva con un uomo legato alla continenza: R. GRYSON, Il ministero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna … cit. p. 90.

55) In P. DE LABRIOLLE, Les sources de l’histoire du montanisme, Fribourg-Paris 1913, pp. 226-230 : Dominis beatissimis in Christo fratribus Lovocato et Catiherno presbyteris Licinius, Melanius et Eustochius episcopi. Viri venerabulas Sperati presbyteri relatione cognovimus, quod gestantes quasdam tabulas per diversorum civium capanas circumferre non desinatis, et missas ibidem adhibitis mulieribus in sacrificio divino, quas conhospitas nominastis, facere praesumatis; sic ut erogantibus vobis eucharistias illae vobis positis calices teneant et sanguinem Christi populo administrare praesumant.

Per l’individuazione delle diocesi dei tre vescovi cfr. R. GRYSON, Il mistero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna cit. p. 88.

56) Quicherat lo data V o VI secolo (CIL 13,1183 in nota), a Mommsen (ibidem) sembra multo recentior.

57) CIL 13,1183.

58) Inscriptiones … cit. 1191.

59) In CCL 148A,184 (vedi in apparato ad locum).

60) In CCL 148°,268. (vedi in apparato ad locum).

61) Di avviso completamente diverso è Van Der Meer per il quale “… il problema del sacerdozio della donna fino a poco tempo fa non è mai stato acutamente sentito” (Sacerdozio … cit. p. 141).

62) Ep. 8; PL 134,114: Igitur quod vestra prudentia consulere judicavit, quid in canonibus presbyteram, quidve diaconam intelligere debeamus: videtur nobis quoniam in primitiva Ecclesia, quia secundum Dominicam vocem: Messis multa, operarii pauci videbantur, ad adjumentum virorum etiam religiosae mulieres in sancta Ecclesia cultrices ordinabantur. Quod ostendit beatus Paulus in epistola ad Romanos, cum ait: Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris. Ubiintelligitur quia tunc non solum viri, sed etiam feminae praeerant Ecclesiis, magnae scilicet utilitatis causa. Nam mulieres diu paganorum ritibus assuetae, philosophicis etiam dogmatibus instructae, bene per has familiarius convertebantur, et de religionis cultu liberius edocebantur. Quod Loadicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitur: quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes, in Ecclesiis ordinari.

63) In C. J. HEFELE-H. LECLERCQ, Historie des conciles d’après les documents originaux,Paris 1907, vol. 1/II, p. 1003.

64) J. GALOT, La donna … cit. p. 80; cfr. R. GRYSON, Il ministero … cit. pp. 105-108; A. G. MARTIMORT, Les diaconesses … cit. pp. 102-103.

65) J. GALOT, La donna cit., pp. 82-83.

66) Ep. 8; PL 134-114: Diaconas vero talium credimus fuisse ministras. Nam diaconum ministrum dicimus, a quo derivatam diaconam perspicimus. Denique legimus in concilio Chalcedonensi, cap. 15 diaconam non ordinandam ante annum quadragesimum, et hanc cum summo libramine. Talibus etiam credimus baptizandi mulieres injunctum esse officium, ut absque ulla penitus verecondia aliarum corpora ab his tractarentur … Sicut enim hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, jubendi vel edocendi, ita sane diaconae ministrandi vel baptizandi officium sumpserant: quod nunc jam minime expedit.

67) Ep. 8; PL 134-115: Possumus quoque presbyteras vel diaconas illas existimare, quae presbyteris vel diaconis ante ordinationem conjugio copulatae sunt … Libentius tamen, charissime doctor, secundum superiorem sensum quae esplicata sunt accipimus, donec a vobis mereamur certius informari.

Nella Chiesa antica il termine presbutera poteva indicare anche una vedova o una donna anziana.

68) Per questa polemica cfr. G. FORNASARI, Celibato sacerdotale e “autocoscienza” ecclesiale. Per la storia della “Nicolaitica haeresis” nell’Occidente medievale, Trieste 1981.

69) Les diaconesses … cit. pp. 209-210.

70) E’ il caso del Lexicon imperfectum che alla voce presbytera, rimandando all’epistola di Attone, stranamente registra solo la seconda accezione conosciuta dal vescovo di Vercelli (Latinitatis Italicae Medii Aevi inde ab a. CDLXXVI usque ad a. MXXII Lexicon imperfectum, F. ARNALDI-M, TURRIANI, Bruxelles 1951-53, p. 573). Degli altri lessici, a quel che mi risulta, solo il Glossarium di Du Cange registra l’accezione preferita da Attone.

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 09 Marzo 2006 00:42

Come dire oggi il Risorto (Giampietro Brunet)

Come dire oggi il Risorto

di Giampietro Brunet

«Poco più della metà degli italiani (54%) crede nella risurrezione di ogni uomo alla fine dei tempi»; «credenze specifiche della tradizione cristiana (come l’esistenza di un’anima immortale in ogni uomo o la risurrezione alla fine dei tempi) non risultano condivise da quote consistenti dei soggetti che pur hanno fede nel Dio del cristianesimo e credono in Gesù Cristo». Sono due flash tratti da “La religiosità in Italia” (Milano 1995, p.32s). in tale contesto, come ripresentare, dunque, l’annuncio della pasqua?

«Se Cristo non è risuscitato – scriveva S. Paolo – allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1Cor 15,14). Partendo da questa frase paolina, il vescovo di Piacenza, Luciano Monari, ha affrontato il fulcro del kerygma pasquale: «È risorto come aveva predetto...», commentando all’incirca: il testo parla chiaramente di inutilità («è vana...», cioè senza contenuto). Se Cristo non fosse risorto saremmo nel vuoto ed egli si porrebbe solo come uno tra i tanti personaggi della storia.

L’insieme della predicazione cristiana, insomma, se non fa i conti e non si fonda saldamente sulla risurrezione di Cristo, per quanto ampia e articolata essa sia (Dio-Trinità, creatore e redentore, amore di Dio per noi e comandamento dell’amore per il prossimo, compresi i nemici), sarebbe senza un proprio fondamento e, sostanzialmente, privo di consistenza.

Nella stessa lettera paolina si parla di risurrezione «il terzo giorno, secondo le Scritture». Il riferimento – ha ricordato il vescovo Monari, sulla scorta di tanti studi esegetici in merito – è un testo di Osea dove, nel contesto di una celebrazione della conversione, il popolo viene spronato al rinnovamento. Vi si legge: «Il Signore dopo due giorni ci darà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,2). Ma questo è troppo poco per riuscire a spiegare l’importanza fondamentale che la risurrezione riveste come nucleo centrale della nostra fede.

Nel cuore dell’annuncio cristologico

Senza entrare in questioni dettagliate, su cui i teologi e gli esegeti hanno ampiamente dibattuto, il relatore si è soffermato soprattutto su una domanda: perché Mosè, Abramo e altri personaggi biblici che appaiono in tutta la loro grandezza di «campioni della fede nel Dio vivente» hanno potuto esserlo e noi, al contrario, senza la risurrezione, avremmo una fede vuota? Certo, senza la risurrezione rimarrebbero invariati l'insegnamento etico, le beatitudini, il comandamento dell'amore e gli stessi gesti di potenza che manifestano la venuta del regno di Dio; resterebbe pure significativo l'atteggiamento di Gesù verso i nemici e davanti alla morte stessa. Ma, conclude il vescovo, in tal modo la vita di Gesù e il suo insegnamento si ridurrebbero a un capitolo della storia del pensiero etico-religioso, accanto a Buddha, Socrate Maometto.

Ma, per completezza, accanto al comportamento esemplare di Gesù, occorrerebbe ricordare anche il negativo: il tradimento di Giuda, l'ambiguità di Pilato, il defilarsi dei dodici ecc. Esito di tale modo di procedere - oggi peraltro abbastanza diffuso – sarebbe che «la storia risulterebbe un intrecciarsi di gesti buoni e cattivi, dove forse i buoni sarebbero superiori al loro contrario, ma si tratterebbe solo di una pura superiorità statistica». Cos'è, dunque, a fare la differenza? La risurrezione, appunto.

Se la prima prospettiva fa cogliere la storia umana come un intreccio di bene e di male con oscillazioni ora a favore del bene, ora a favore del negativo, «con la risurrezione di Gesù, abbiamo invece un giudizio definitivo sulla vita di Gesù e, di conseguenza, sull’intera storia dell’uomo». Ecco il crinale storico decisivo dell’annuncio: «Gesù Cristo è risorto», è il «Vivente in eterno».

Se apparentemente la morte in croce di Gesù era percepibile come fallimento, o come la fine di un brutto sogno (così traspare dal discutere tra loro dei due discepoli di Emmaus), in realtà – dice con forza il vescovo biblista - «con la risurrezione di Gesù, Dio ha dato ragione a Gesù, perchè ha firmato col sigillo della sua potenza la vita e la morte di lui».

È ciò che si trova di frequente proprio nei discorsi degli Atti degli apostoli, in particolare, quando Pietro, presso Cornelio, prende la parola e conclude: «Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse...a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» (At 10,40-42).

La struttura della riflessione di Pietro contiene il bene e il male: il potere e l’amore si sono affrontati nel dramma della vita e della morte di Gesù. «La risposta della storia è stata a favore del potere politico e religioso ,contro la debolezza dell’amore. Ma Dio ha capovolto e ha affermato la sua volontà di salvezza dando ragione a Gesù. Insomma, il giudizio della storia è stato cassato e, concretamente, proprio all’interno della storia». La risurrezione – aggiunge il vescovo Monari, sulla scorta dell’intera testimonianza del NT – tocca la storia, e come! Qui è coinvolta la vicenda di Gesù di Nazaret, ma con un giudizio che viene da oltre la storia, sanzionandola però irreversibilmente. Certamente questo “giudizio dall’alto”W sottrae qualcosa alla storia: siamo di fronte ad un evento, tocca la storia e le cambia il corso. Anzi, con la risurrezione di Cristo Gesù, si potrebbe quasi dire che un pezzo di umanità, abita ormai stabilmente presso Dio.

Se con Qohelet si guarda la storia che “sta dai tetti in giù” si è portati a concludere che «non vi è nulla di nuovo sotto il sole»; ma se la si guarda dalla parte di questa “potenza dall’alto” che risuscita Gesù di Nazaret, allora si deve concludere che qui siamo davvero di fronte alla più grande, radicale novità mai vista.

Dal punto di vista di Dio

La risurrezione di Gesù Cristo segna dunque questo crinale definitivamente che dà al tempo la dimensione e il sapore del compimento. Non aveva, del resto, Gesù stesso – come riferimento il Vangelo di Marco – inaugurato la sua predicazione con: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo»? a segnare irrevocabilmente questo “compimento” è proprio l’evento della risurrezione: «prima di Cristo...poi di quelli che sono di Cristo», fino a che «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,23).

Quel ricorrente «ma Dio l’ha risuscitato» obbliga ad assumere il punto di vista di Dio. Se, umanamente parlando, la morte in croce del figlio unigenito che Dio dona al mondo (Gv 3,16), appare tragico fallimento, se la debolezza dell’amore sembra sconfitta in modo totale, dal punto di vista di Dio no: Dio dichiara “giusta” la vita e la morte di Gesù di Nazaret e la potenza di Dio che lo risuscita sancisce per sempre la sconfitta della morte e del male.

Questo è il gioioso annuncio della pasqua che ancora oggi deve risuonare, uscendo da qualsiasi logica di “autosalvezza”, che è sempre e irrimediabilmente fuori luogo, per assumere al contrario il punto di vista stesso di Dio che dichiara con potenza giusta e vittoriosa, davanti a sè, la vita e la morte di Gesù. «È dunque tutta l’esistenza di Gesù che la risurrezione viene a confermare, mettendovi sopra il sigillo della giustificazione di Dio».

Se prima si diceva che comunque, ad es. le beatitudini, hanno e conservano un loro fascino e una loro validità, ora bisogna dire più integralmente che quello stesso insegnamento ricava dall’evento della risurrezione di Cristo una sua pregnanza ulteriore: è molto diverso – spiega ancora il vescovo Monari – leggere le beatitudini come «il bel sogno di un maestro religioso», o come «un cambiamento della storia che dipende dall’intervento diretto di Dio». Insomma, quelle stesse parole, accolte alla luce della risurrezione, ora recano il sigillo dell’intervento potente di Dio e non sono più solo culturalmente o eticamente affascinanti, ma suggellate dal suo intervento potente nella storia, che le fa uscire dalla logica del desiderio umano e accogliere come «rivelazione del volto di Dio».

Se Cristo è risorto, ciò significa che «lui povero nella storia è il Signore nel regno di Dio» (“beati i poveri”...); «lui afflitto nella storia è stato consolato»; lui «mite, non prepotente nella storia, ha conquistato la terra». E allora le beatitudini non sono più un sogno o un messaggio che auspica un cambiamento, ma esprimono e dicono la radicalità di un cambiamento avvenuto che ha mutato per sempre il volto della storia dell’umanità salvata; sono parole nelle quali Cristo ha messo se stesso e la sua vita e che ora sono rafforzate con potenza dall’alto. Inoltre, quel Gesù che ha messo se stesso in quelle parole e in quegli insegnamenti è un «Vivente». È questo che le rende parole «contemporanee a noi»: rimangono in tutto il loro significato, ma soprattutto in esse il loro autore è presente e attivo ancora oggi (cf. anche DV, SC).

Lo stesso si può dire dei miracoli-segni compiuti da Gesù: «se egli non è risorto, rimangono come splendidi segni di una primavera trascorsa o come mirabili prodigi di una guaritore...ma se egli è risorto, le sue azioni non possono essere ristrette solo al passato. Si veda la conclusione del vangelo di Matteo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque...fate mie discepole tutte le genti”. Si veda anche la guarigione di cui si racconta negli Atti, con la spiegazione di Pietro: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo”, il che indica come l’opera e l’azione di Gesù sia ancora efficace» (At. 4). E l’azione di Gesù è efficace perchè la persona di Gesù è viva.


Trasformati dalla potenza del Risorto

«Chi crede in me opererà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perchè io vado al Padre» (cf. Gv 14,12). Anche un testo simile parla della potenza divina del Risorto-Vivente. Gesù insomma, lungi dallo smettere di operare, continuerà a farlo attraverso i suoi; cambia solo il modo del suo operare, così come cambia il modo della sua presenza nella storia.

Tutto questo presuppone – cosa che tutto il NT si premura di esplicitare – che il Risorto è proprio lo stesso Gesù di Nazaret. La risurrezione di Gesù non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma passaggio (pasqua) a uno stato di vita nuovo. Anzi, si può dire del Risorto ciò che Paolo dice della risurrezione in genere: Ciò che semini non prende vita se prima non muore. «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile...si semina debole e risorge pieno di forza...si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale». E allora è comprensibile anche il dubbio dei testimoni di fronte alle apparizione del Risorto. Essi sono davanti a lui nella pienezza della sua potenza. La difficoltà sta appunto nel riconoscerlo come lo stesso Gesù della debolezza e della piccolezza. Ecco dunque lo stupore religioso dei discepoli sulle rive del lago di Galilea quando dicono: «É il Signore»; o di Maria di Magdala quando esclama: «Rabbunì»... è proprio lui!

«Al momento della trasfigurazione – sintetizza mons. Monari – alcuni discepoli hanno potuto vedere la gloria di Dio nell’umanità di Gesù; nelle apparizioni pasquali i discepoli devono imparare a vedere l’umanità di Gesù nella sua gloria di Vivente». È per questo che Gesù mostra ripetutamente i segni della passione («con i segni della passione vive immortale» recita la liturgia). Ed è il motivo per cui condivide i pasti con i suoi: mangiare insieme aiuta soprattutto i discepoli a sperimentare la gioia della comunione con lui come l’avevano sperimentata prima della vita trascorsa insieme.

Ecco dunque l’importanza di sottolineare la continuità tra il Risorto e il Crocefisso, imparando a leggere l’unità inscindibile del mistero pasquale. Solo così la croce cessa di apparire come un momento di oscurità o di latenza provvisoria di quella divinità che si era manifestata con i miracoli e si manifesterà appieno con la luce della pasqua di risurrezione. Significativo per cogliere questa inscindibile unità il testo dell’Apocalisse dov’è scritto: «Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e gli inferi». Andando un po’ oltre si potrebbe addirittura dire: «Proprio perchè ho fatto l’esperienza della morte, vivo della vita di Dio; perchè ho subìto la morte come uomo, ma trasformandola nell’obbedienza a Dio nell’amore per “i molti”, sono il Vivente in eterno». Da questo punto di vista la morte non è più un punto nero da dimenticare, ma l’unica condizione per vivere e per cogliere in tutta la sua ricchezza l’evento della risurrezione.

«Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo – scrive Gv 13,1 – sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, li amò sino alla fine». Ecco la Pasqua, questo passaggio che per la Mishnà è «passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita». Sono tonalità da far risuonare nell’annuncio gioioso della pasqua. Giovanni evangelista però non ha più il riferimento allo scampato pericolo del libro dell’Esodo, ma innesta un tema nuovo: pasqua come passaggio «da questo mondo al Padre». Gesù, Verbo del Padre, ha assunto una carne umana, è entrato dentro le fibre di questo mondo, assumendone le realtà di limite e debolezza. Ma ora con la sua umanità passa da questo mondo al Padre: è il mistero della divinizzazione di tutta l’umanità portando a compimento l’incarnazione del Figlio di Dio.

Il primogenito dai morti vive per sempre in un corpo glorioso e sarà quello stesso corpo trasfigurato che ogni credente in Cristo abiterà per sempre nel momento del pieno svelamento del mistero di Dio. Mistero per molti versi incomprensibile e ineffabile. Ma realizzato e reale, per il Risorto e per tutti i credenti in lui.

(da Settimana, n. 11-12, marzo, 1997)

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 09 Febbraio 2006 00:02

La prova del diabolico (Marie Balmary)

La prova del diabolico
di Marie Balmary (1)

Le religioni monoteistiche riconoscono un solo spirito del male, una creatura che può entrare nell'uomo e possederlo. Il male si trova allora a essere incarnato? Lo si è creduto e per molti secoli un potere religioso ha voluto risolvere questo male bruciando posseduti e streghe…

Quando compare la medicina scientifica, essa rifiuta ogni soprannaturale. Per essa non esiste né possessione diabolica né miracolo. Tuttavia, nel secolo XIX, alcuni medici dell'anima umana che cercavano di comprendere disturbi come l'isteria, si trovano di fronte a un curioso ritorno e Freud può scrivere all'amico Fliess (17 maggio 1897) (2) : “Tu ti ricordi di avermi sempre sentito dire che la teoria medievale della possessione, sostenuta dai tribunali ecclesiastici, era identica alla nostra teoria del corpo estraneo e della dissociazione del cosciente. Perché le confessioni estorte con la tortura assomigliano tanto ai racconti dei miei pazienti durante il trattamento psicologico?”.

Freud si lancia allora nella sua autoanalisi, viaggio agli inferi in cui incontra “forze oscure venute dal fondo dell'anima” che in seguito paragonerà al diavolo (3); l'inconscio, le pulsioni sessuali rimosse, il padre seduttore… “Il rispetto degli Antichi per il sogno dimostra che essi presentivano giustamente l'importanza di quel che l'anima umana custodisce di incontrollato e di indistruttibile, il potere demoniaco che crea il desiderio del sogno che ritroviamo nel nostro inconscio”. (4) Con l'ipotesi dell'inconscio, il diavolo che i Lumi avevano fatto scomparire trova una nuova abitazione. Il “possesso” diventa malattia e non colpa.

Localizzato nella psiche umana

Si presenta allora un problema: se il diavolo è ormai localizzato nella psiche umana e non più nel mondo soprannaturale, verranno invalidate le pagine della Scrittura che lo riguardano? Oppure, per un imprevisto rovesciamento, possiamo farne una lettura nuova? Tentiamo.

Il diavolo compare principalmente in tre racconti, due nella Bibbia e uno nei vangeli. Dapprima nell'Eden (5): “Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Il serpente era la più astuta (nuda) di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”.

Mentre l'uomo e la donna non si sono ancora riconosciuti differenti, la menzione della loro nudità e l'apparizione del serpente nudo si seguono immediatamente. Il serpente, simbolo maschile quant'altri mai, si rivolge alla donna, presentandole il sesso che essa non ha. Questo sesso-serpente è una riprova che il dio non ha dato tutto agli esseri umani, poiché li ha fatti mancanti di qualche cosa e la donna è la prima ad accorgersene. In precedenza, fra la formazione dell'uomo e quella della donna, il dio aveva posto una proibizione: non mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente, parlando alla donna, presenta il dio come colui che vuole conservare per sé solo la conoscenza divina. Per diventare “come dei” il serpente incita gli esseri umani a non accettare limiti. Questo discorso del serpente è diabolico, perché la proibizione data dal dio era al contrario l'accesso alla parola, il limite che consente a due soggetti di trovarsi l'uno di fronte all'altro senza mangiarsi. Il sessuale non simbolizzato… il diabolico seduttore…, non è forse ciò che Freud, anche lui, aveva incontrato?

Nei vangeli (6) Gesù affronta il diavolo. È lo stesso? Quest'uomo che risale da un battesimo, è stato chiamato “figlio” da una “voce dal cielo”; egli è condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. “Allora il diavolo gli disse: Se tu sei figlio di Dio… ”, provalo comandando alla materia: (“…dì che questi sassi diventino pani”), alla morte: (“…dal pinnacolo del tempio… buttati giù”) e a tutti gli altri uomini: (“…tutti i regni della terra… ti darò… se ti prostri dinanzi a me”). Il diavolo fa del tutto-potere, del tutto-godere la prova della filiazione divina. E Gesù risponde con parole della sua tradizione che gli consentono di sventare le parole di Satana e di smascherarlo.

Senza continuare a lavorare su questo testo, sul quale ci sarebbero tante cose da ricercare, me ne ritorno alla Bibbia dove si trova la storia più lunga del diavolo. Giobbe (7), l'uomo integro. E tuttavia… “i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: Forse i miei figli hanno peccato e hanno benedetto - l'autore non ha osato scrivere “maledetto” - Dio nel loro cuore. Così faceva Giobbe ogni giorno.

Dei sacrifici per annullare, non una colpa reale commessa dai figli, ma una colpa immaginaria supposta da lui, Giobbe. Colui che crede di incarnare il Bene suppone negli altri il male e colpisce - qui a colpi di sacrifici preventivi e illimitati (“tutti i giorni”). Certo Giobbe non bombarda i suoi figli, ma annulla la loro parola. Ora, ecco il seguito: Satana, parlando con Dio, gli dice che Giobbe non è per niente integro, ma che lui, Dio, “ha messo una siepe intorno a lui”. Ma, aggiunge Satana, “tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. E infatti quando Giobbe ha perduto tutto, persino la pelle, egli “aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo!”.

Ciò che esce dalla bocca di Giobbe quando infine “apre la sua bocca” è molto vicino a quel che supponeva nei suoi figli: egli maledice, non il suo dio, ma “il giorno” che da Lui ha ricevuto, e vorrebbe abolire la sua nascita. Così la voce chiamata “Satana” portava veramente in sé ciò che Giobbe rimuoveva: il desiderio di maledire la propria vita, lui l'uomo troppo perfetto che non aveva accesso a “ciò che l'anima umana custodisce di incontrollato”, come dice Freud, se non proiettandolo sugli altri. È forse una coincidenza? all'inizio del libro le tre figlie di Giobbe non avevano casa (andavano dai fratelli). Alla fine Giobbe, finalmente chiamato “loro padre”, nomina le sue tre figlie e “le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.” Aveva dunque all'inizio misconosciuto l'immagine di Dio, il maschile e il femminile.

La diabolizzazione degli altri

Il diabolico sarebbe insieme interno alla psiche e emanerebbe dalla relazione con gli altri, là dove un limite è stato misconosciuto o violentato: non soltanto i limiti dei sessi e delle generazioni, ma anche quelli che separano l'umano dall'animale e dal divino, il vivo dal morto, e tutti gli altri… Il diavolo non è forse rappresentato il più sovente come un miscuglio: un volto di uomo, dei seni, una lunga coda? Ciò che l'uomo non può intendere dalla sua anima incontrollata, un giorno o l'altro gli ritorna. O diabolizza gli altri, come Giobbe al principio. Oppure prende la strada della parola, ancora come Giobbe - parlare del proprio dolore, dire la propria collera contro l'origine… Rimane la soluzione di Gesù, ma sono pochi coloro che trovano al primo impatto nella prova del diabolico il simbolismo che ne viene a capo.



Note

1) Marie Balmary, psicanalista. Ha pubblicato diverse opere fra cui Le Sacrifice interdit, Freud et la Bible (Grasset, 1986) e Abel ou la Traversée de l'Eden (Grasset, 1999).

2) La naissance de la psychanalyse (Puf, 1973, p.165).

3) Cf. Louise de Urtubey, Freud et leDiable (Puf, 1983).

4) Sigmund Freud, L'Interprétation des rêves (Puf, 1976, p.521).

5) Genesi 2,25 e 3,1.

6) Luca 4, Matteo 4.

7) Il Libro di Giobbe.


(in Le monde des religions, 2005, 10, p. 40-41)
Pubblicato in Teologia
Venerdì, 13 Gennaio 2006 21:29

La tentazione diabolica (Frédéric Lenoir)

La tentazione diabolica
di Frédéric Lenoir

 

Poco importa se il diavolo esiste o no: ma non si può negare che esso ritorna. In Francia e nel mondo. Non in maniera spettacolare e fragorosa, ma in maniera diffusa e multiforme. Possiamo individuare una quantità di indizi di questo sorprendente come back. La profanazione di cimiteri, più sovente a carattere satanico che razzista, si sono moltiplicate ovunque nel mondo durante l’ultimo decennio. In Francia sarebbero più di tremila le tombe di ebrei, di cristiani e di musulmani che sono state profanate negli ultimi cinque anni, cioè il doppio che nel corso del decennio precedente. Se soltanto il 18% dei Francesi crede nell’esistenza del diavolo, sono i meno di 24 anni a essere i più numerosi (il 27%) nel condividere tale credenza. E il 34% pensano che un individuo può essere posseduto dal demonio. La credenza nell’inferno è addirittura raddoppiata durante gli ultimi due decenni. La nostra inchiesta mostra che fasce non trascurabili della cultura degli adolescenti – gothismo, musica metallica – sono impregnate di riferimenti a Satana, figura ribelle per eccellenza che si è opposta al Padre.

Dobbiamo leggere in questo universo morboso e talora violento la semplice manifestazione di un normale bisogno di rivolta e di provocazione? Oppure accontentarci di spiegarlo con la proliferazione di films, di fumetti e di videogiochi che mettono in scena il diavolo e i suoi accoliti? Negli anni 60 e 70 gli adolescenti – e io ne facevo parte – cercavano piuttosto di esprimere la loro differenza e la loro rivolta con il rifiuto della società dei consumi. I guru indiani e la musica suadente dei Pink Floyd ci affascinavano di più che Belzebùl e gli heavy metal superviolenti. Non dobbiamo forse leggere in questo fascino per il male il riflesso delle violenze e delle paure del nostro tempo, che è segnato da uno slittamento dei punti di riferimento e dei legami sociali e da una profonda angoscia di fronte all’avvenire? Come ci ricorda Jean Delumeau, la storia mostra che proprio nei periodi di grandi paure il diavolo ritorna in scena. Non è questa anche la ragione del ritorno di Satana in politica? Reintrodotto dall’ayatollah Khomeyni quando fustigava il grande Satana americano, il riferimento al diavolo e la diabolizzazione dell’avversario è stata ripresa da Ronald Reagan, da Bin Laden e da Georges Bush. Quest’ultimo, del resto, non fa che ispirarsi alla considerevole crescita in popolarità di cui gode Satana fra gli Evangelici americani, che moltiplicano le pratiche di esorcismo e denunciano un mondo sottomesso alle potenze del Male. Dal tempo di Paolo VI che evocava i “fumi di Satana” per parlare della crescente secolarizzazione dei paesi occidentali, la Chiesa cattolica, che aveva pur preso da molto tempo le distanze dal diavolo, non resta indietro e, segno dei tempi, il Vaticano ha creato un seminario di esorcismo in seno alla prestigiosa università pontificia Regina Apostolorum.

Tutti questi indizi meritavano un vero dossier di inchiesta non solo sul ritorno del diavolo, ma anche sulla sua identità e sul suo ruolo. Chi è il diavolo? Come è apparso nelle religioni? Che cosa dicono di lui la Bibbia e il Corano? Perché i monoteismi hanno bisogno di questa figura che incarna il male assoluto più che le religioni sciamaniche, politeiste o asiatiche? E anche: in che cosa la psicanalisi può illuminarci su questo personaggio, sulla sua funzione psichica e permetterci una stimolante rilettura simbolica del diavolo biblico? Perché se, secondo la sua etimologia, il “simbolo” – symbolon – è “ciò che riunisce”, il diavolo – diabolon – è “ciò che divide”. Una cosa mi sembra sicura: soltanto identificando le nostre paure e le nostre “divisioni” sia individuali che collettive, portandole alla luce con un lavoro esigente di coscientizzazione e di simbolizzazione, integrando le nostra parte di ombra, si potrà venire a capo del diavolo e di questo bisogno ancestrale, vecchio quanto l'umanità, di proiettare sull'altro, sul diverso, sullo straniero, le nostre personali pulsioni non padroneggiate e le nostre angosce di divisione.

Note

1) Secondo un sondaggio Sofres Pélerin magasin del dicembre 2000.
2) Les valeurs des Européens, Futuribles, Juillet-Août 2002.

(in Le monde des religions, n°10, p.5. Traduzione a cura di Maria Grazia Hamerl)



Pubblicato in Teologia
Venerdì, 13 Gennaio 2006 21:15

Gesù il bambino (Enzo Franchini)

Gesù il bambino

di Enzo Franchini

Si potrebbe anche cominciare dall'icona che O. Wilde traccia di Gesù - bellissima ed equivoca - per capire quale tentazione possa essere per noi la sublimazione dei simboli: «Il posto di Cristo è tra i poeti. Tutto il suo modo di concepire l'uomo balzò dalla sua immaginazione, e soltanto per mezzo dell'immaginazione può essere concepito. (...) Prima del suo tempo vi erano stati uomini e dèi. Lui solo vide che a un livello superiore di realtà non c'è che Dio e Uomo, e sentendoli entrambi incarnati in sè col misticismo dell'amore, chiama se stesso Figlio dell'Uno e figlio dell'altro. (...) Egli ridesta in noi quell'inclinazione al meraviglioso che è sempre attratta dalla poesia. Vi è tuttavia per me qualche cosa di quasi incredibile nell’idea che un giovane contadino di Galilea abbia immaginato di poter reggere sulle spalle il fardello dell'umanità intera (...) i peccati di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI (...); e non solo l'abbia immaginato, ma ne abbia fatto una realtà, cosi che oggi chiunque venga in contatto con la sua personalità anche se non si inchina ai suoi altari nè piega il ginocchio davanti ai suoi sacerdoti, trova tuttavia che in qualche modo la macchia dei propri peccati è cancellata e gli è rivelata in cambio la bellezza del proprio dolore».

Il testo continua con un sobrio paragone con grandi miti poetici (compresi Eschilo, Dante, Shakespeare e le mitologie celtiche), per dire che non è nemmeno possibile il paragone con altri miti, quando il Cristo Gesù condensa in se stesso un tale cumulo di simboli, a ogni tappa della sua vita, da doversi dire che «la sua vita stessa è il più stupendo dei poemi. Quanto a "pietà" e "terrore" (ciò che Aristotile chiede nella sua Poetica, in nota) non esiste nulla che vi si avvicini nell'intero ciclo della tragedia greca».

E poi: «Non vi è nulla che per pura semplicità di pathos, fusa e accoppiata con una sublimità di effetto tragico, possa uguagliare l'ultimo atto della passione di Cristo o anche solo avvicinarvisi. La parca cena con gli amici, uno dei quali lo ha già venduto per denaro; l'agonia nell'oliveto silenzioso illuminato dalla luna; il falso amico che gli si accosta per tradirlo con un bacio; l'amico (...) che lo rinnega mentre il canto del gallo annuncia l'alba vicina; la sua completa solitudine, la sua sottomissione, il suo consenso totale (...) Pure. l'intera vita di Cristo - così totalmente Dolore e Bellezza possono fondersi nel significato e nelle manifestazioni - è in realtà un idillio», che il poeta descrive per una quindicina di pagine, tra le più ispirate di quell'ammirabile sfogo che è il suo De profundis (1).

Il sublime non salva

Pagine come queste hanno almeno il merito di riscattare la riflessione cristiana da quelle bambinerie decadenti - o da quel dolorismo rivoltante - in cui si bagnano certe devozioni. È necessario l’istinto del grande e del bello per non immeschinire la rivelazione dentro il nostro languore.

Eppure Gesù non si è incarnato per dare spettacolo. Era lontanissimo dal volersi dimostrare più bello e più bravo degli altri Non si sfugge al rischio di romanticheggiare sull’eroe, se non si decide di guardare Gesù per come si trova, umanamente solidale con gli ultimi, coscientemente deciso a stringersi nei loro stessi limiti, salvo il peccato

Non c'è niente di più serio - di più autentico - del suo farsi uomo, oltre tutto in periferia, dove le condizioni igieniche, alimentari, familiari, civiche, lavorative erano tali che ci disgusterebbero di sicuro, se toccasse a noi di approvarle.

La convivenza di Gesù con gli uomini è il capovolgimento dello stentoreo. Se lo si togliesse dalla sua piccolezza, lo si altererebbe. È per farsi piccolo che l'infinitamente Eccelso si è fatto uno di noi. Per poter avere un cuore come noi. Per esserci solidale dal di dentro della nostra mediocre misura.

Se ciò nonostante la vita di Gesù esplode per ineguagliabile, inaspettata bellezza, non è mai a scapito della sincerità con cui Gesù - senza una pietra dove poggiare il capo, bisognoso di inventare giorno dopo giorno gli espedienti per campare, e così perseverare nella sua missione - si "indigenizza" nella normalità dei poveri. La Dimora deve cercare alloggio tra di noi. Il Cibo si nutre di noi. Lui, la Salvezza, ha bisogno d'aiuto e di compassione. Lui solo è la nostra speranza, perchè ha avuto bisogno di sperare lui per primo.

Il Modello delle beatitudini fiorisce di un'insospettata bellezza, ma solo perché resta fedele alla sua scelta di non sopraffare la piccolezza, che è la sua livrea.

Ed ecco il Bambino come segno: sia nel senso infantile del termine sia nel significato traslato di servo, di ragazzo d'opera, che ben presto il Figlio dell'uomo rivendicherà come stato sociale.

La storia cristiana d'occidente ha una sua rottura. che le permetterà una ripresa non ancora esaurita: e il segno del Bambino diventa il punto della svolta.

Non occorre stare altro che ai riti di fatto: il primo medioevo si stacca dalla sua aspra interpretazione "imperiale" del cristianesimo, quando riscopre con devozione l'umanità umilissima di Gesù: e - in modo tutto particolare - proprio la devozione a Gesù Bambino. Francesco e il suo presepio. Antonio. che si raffigura con il Libro in mano, oppure con il Bambino in braccio, oppure con tutt'e due, così che il Bambino sembra essere contenuto dal Libro; e poi l'iconografia, luoghi di culto, la prassi devozionale, si dilungano sul Bambino, fino al rischio di far dimenticare che il cristianesimo è anche crisi e Giudizio.

Nunc dimittis

Non siamo mai capaci di leggere integralmente il simbolo. Del resto è nella natura stessa del simbolo ispirare continuamente oltre se stesso. Quando però il simbolo si estenua in immagine, si spegne nel consueto e determina quella "normalizzazione" che è il limite di tutte le devozioni. Il punto irrinunciabile per comprendere l'infanzia di Gesù senza sbavature decadenti o romanticheggianti, sta nell'affermazione che l’incarnazione è un evento trinitario. Non si può separare la Trinità "immanente" e la Trinità "economica", in modo da fare dell’"economia" dell'evento cristiano un luogo interiore una specie di accomodamento per cui saremmo autorizzati a lasciare il Dio del cielo per interessarci solo del clima religioso nostrano, dice la Commissione teologica internazionale. La quale continua «l’economia della salvezza manifesta che il Figlio eterno assume nella sua propria vita l'evento "kerotico" della nascita, della vita umana e della morte in croce. Tale evento, in cui Dio si comunica in modo assoluto e definitivo, riguarda in qualche maniera l'essere proprio dì Dio Padre, in quanto è il Dio che compie questi misteri e li vive come suoi in unione con il Figlio e con lo Spirito santo. Non solo infatti nel mistero di Gesù Cristo, Dio Padre si rivela e si comunica a noi liberamente e gratuitamente mediante il Figlio e nello Spirito Santo, ma il Padre con il Figlio e lo Spirito santo conduce la vita trinitaria in una maniera profondissima - almeno secondo il nostro modo di pensare - in qualche modo nuova in quanto il rapporto del Padre al Figlio incarnato nella consumazione del dono dello Spirito è la stessa relazione costitutiva della Trinità».

Gesù, manifestazione della vita trinitaria: e questo per definizione, così che chi vede lui vede il Padre (Gv 12.45;14.9). Per capire Dio, occorre adorare con assoluta fedeltà l'immagine che, coi il suo vivere umano, Gesù traduce con autenticità.

La tendenza è quella di guardare alle "azioni di ruolo" di Gesù, là dove Gesù si propone ufficialmente come il Figlio in atto di compiere gli interventi alla redenzione che soltanto lui è in grado di compiere. Ma i grandi gesti per cui Gesù è sacerdote e re sono suoi, soltanto suoi. Si tratta di sapere se il suo "privato personale (per adoperare un’espressione consueta) non sia altrettanto importante. E, di fatto, lo è. La redenzione proprio in questo consiste: la nostra vita e la nostra morte vengono assunte nell’umanità di Gesù e in tal modo metabolizzate. Non sarebbe salvato ciò che Gesù non avesse inteso far proprio, per mezzo di una solidarietà che mette in comunione la nostra vita con la sua vita. Anche nei gesti più quotidiani. Compresa la sua debolezza, inclusa la "piccola" esistenza di Gesù bambino. Se Gesù si fosse incarnato solo per operare quei momenti sommi che, poi, avremmo celebrato nelle feste liturgiche, non sarebbe ancora il nostro salvatore. Gesù è redentore in quanto prende esattamente la vita degli uomini per come è fatta, per trasfigurarla in sè stesso. Ciò che noi saremmo tentati di chiamare "privato personale" di Gesù è, i, realtà, la consistenza stessa della sua insuperabile solidarietà.

Non basta. perché in questo suo farsi come noi ci rivela il Dio eterno che ci si fa vicino e si "trasferisce" nella nostra esperienza dimostrandosi capace di umanità. L'assoluto intraducibile si "narra" a noi tramite il suo Unigenito (Gv 1,18) la cui vita, somigliantissima alla nostra vita, ci riporta alla somiglianza nostra con Dio.

Non si finirà mai di aderire ai "misteri" della vita di Gesù - compresa la sua vita "nascosta", privata-personale – per poter avere comunione con Dio: Dio in noi e noi in Dio.

In particolare l’infanzia di Gesù è essa stessa salvezza. Giustamente il profeta Simeone può salutarla come l’adempimento dato il quale egli sa che la sua speranza è adempiuta: può cantare il nunc dimittis.

In quella piccolezza si rivela l’azione stessa di Dio, per come era stata promessa: Gesù è il Germoglio (che è il nome tipico del Messia che sarebbe intervenuto a salvezza apparendo come una cosa da niente: Is 4,3; GR 23,5; 33,15-16; Zc 3,8; ecc.): la nuova nazione dei redenti sarebbe insorta da lì. È niente più che la punta del cedro che, trapiantato dal Libano, sarebbe diventata la vigna del Signore (Ez 17,3). È la piccola pietra la cui caduta avrebbe infranto il grande feticcio /Dan 2,31). Non è questione di esaltare il piccolo come bello. È questione di riconoscere il Dio altissimo che si rivela come umile, tale da assomigliarsi pienamente alla "narrazione che ne fa Gesù anche nel tempo della sua infanzia.

Gesù non avrebbe proposto un bambino come modello del Regno, se lui non fosse stato tale, rimanendolo per sempre: nè lo avrebbe proposto se proprio in questo modello non si fosse rivelato il Padre, che non soltanto compatisce i piccoli, ma li ama, facendoli simili a sè.

È in questa luce che il simbolismo troppo epico – e così terrenamente contaminato – di un Oscar Wilde, riceve un significato del tutto più intenso e rivelatore.

In questa luce, il devozionalismo volta a volta crepuscolare, dolorista oppure romantico di chi crede di farsi intimo di Gesù, anche se in realtà non fa che proiettare su Gesù il suo stesso sentimentalismo, viene riscattato dalla luce teologale.

Resta il dovere di rimanere aderenti alla vita di Gesù (anche privata personale) per entrare nel senso cristiano pieno.

La santa mediocrità

Non è ancora abbastanza: perché Gesù si è fatto piccolo come noi per andare ai piccoli. È l'incredibile solidarietà. per cui Colui che era, che è e che viene si è fatto come noi, che dice il senso pieno del suo essere come noi.

È tenerissimo - ed è teologale - il culto a Gesù bambino, ma non è sufficiente perché Gesù stesso non l'ha reputato tale: ha avuto bisogno dei piccoli per farsi come loro; e noi non potremmo più staccare la sua immagine da quella dei suoi "modelli"'.

Non è per una semplice conseguenza caritatevole che il Natale consiglia all'intera cristianità di diventare più buona (cosa, per altro, che avviene intensamente: e non bisognerebbe disprezzare tanto questo buonismo d'occasione...). Non è nemmeno per associazione di idee - visto che Gesù si è fatto piccolo, è il caso di farci venire in mente i piccoli di oggi -: un'associazione del genere sarebbe ancora a stampo etico, e non teologale.

È elementare convincersi che Gesù ci dà appuntamento lì, tra i piccoli e i poveri, perché lui si trova ormai lì dentro. È la fede nel mistero - e non il nostro "operobuonismo – che comporta la nostra cittadinanza tra i poveri. per continuare la verità dell'incarnazione di Gesù fattosi piccolo. Malgrado le esasperazioni sociologiche anche recenti, resta in gran parte vero che "l'esegesi dei poveracci" - quella lettura della redenzione a partire dai famosi sotterranei della storia - non può essere sostituita dall'esegesi dei dotti.

Noverim te, noverim me, pregava s. Agostino, che nella comprensione di chi sia Dio e di chi sono io vedeva il congiungimento degli estremi e, dunque, la possibilità di comprendere tutto. È così forzoso leggere: noverim te, noverim pauperes? Non si tratta di un’alternativa: si tratta di capire l’incarnazione nel suo luogo adeguato, che è l’umanità degli ultimi tra i quali dovrò io stesso annoverarmi.

Non basta essere poveri per essere salvi, e la salvezza non la si declama dichiarando il diritto dei poveri ad avere giustizia: che è un semplicismo in contrasto con Gesù stesso, che è povero alla maniera delle beatitudini e che presenta il fanciullo quale modello perchè il fanciullo sa credere mentre i dotti non hanno alcuna intenzione di disarmare la loro giustizia, per impararne un'altra.

Però non si possono non stimare i mediocri, gli insufficienti. gli storpiati spirituali, non perché siano fatti così ma perchè Gesù si è fatto a loro livello, li serve, lava loro i piedi trova interessantissimo il loro "privato-personale", tant'è vero che è ben deciso a riscattarlo, come cosa preziosa, da recare in dono a Dio. O Dio salva quel loro modestissimo privato - che costituisce la materia della loro personalità - oppure non sarebbe vero ch'egli salva per davvero l'uomo. Egli colloca il mistero dentro la loro povertà, non per esaltarla (che sarebbe ipotesi offensiva!) ma per trasfigurarla, dopo averla assunta come cosa sua.

È così che il Germoglio si innesta sul vecchio ceppo corroso: così la piccola punta del Cedro si dilata fino a vivificare la vigna del Signore.

Anche questo è Natale, anche la straordinaria profezia sui poveri, che non per quello cessano di essere mediocri e probabilmente cattivi. Un Natale non tanto per le nostre opere buone, ma per l'opera buona di Dio, fatto uomo come noi.

Note

1) Wilde O., De profundis, Longanesi, 1984, pp.79-81.
2) Commissione Teologica Internazionale, Cristologia e antropologia, in Regno-doc, 5/1983/145.

Pubblicato in Teologia
Sabato, 24 Dicembre 2005 18:30

Camminare nella luce (Carlo Molari)

Camminare nella luce
di Carlo Molari


Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è la luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.
(1Gv 1, 5-7)

La prima lettera di Giovanni, dopo il prologo inizia con un esplicito riferimento a Dio. È un dato essenziale, perché la vita cristiana è teologale, cioè centrata sulla presenza di Dio in noi. L'orizzonte teologale è necessario per ogni esperienza cristiana. Il richiamo a Dio si realizza attraverso il riferimento a Gesù: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui". Egli è il "Testimone fedele", come lo chiama l'Apocalisse (3,14), è l'icona di Dio, come dichiara l'inno riportato da san Paolo (Col 1,15). Anche Giovanni nel prologo del Vangelo dice: "Dio nessuno l'ha mai visto: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (1,18), cioè ce lo ha narrato, ce ne ha fatto l'esegesi (exeghèsato). Gesù resta continuamente il punto di riferimento della testimonianza dell'Apostolo. Come nei primi versetti (1-4 prologo) aveva scritto: la lettera è a una testimonianza; essa comincia con un primo annuncio: "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Vedremo subito le applicazioni concrete dell'apostolo, per il momento esaminiamo la formula: "Dio è luce". È un'affermazione metaforica, non è una definizione di Dio. Dio nessuno l'ha mai visto (Gv 1,8), non sappiamo che cosa sia in sé stesso. Conosciamo solo le sue manifestazioni create, in particolare la manifestazione del Figlio.

Ma cosa significa allora "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre"? Due cose fondamentali. La prima: Dio è una realtà positiva; la seconda: è una realtà solo positiva. Noi non possiamo cogliere tutto il valore di questa metafora, perché per noi la luce è normale, quotidiana, facilmente gestibile e utilizzabile; per questo non ci rendiamo conto della sua preziosità. Solo quando viene a mancare la corrente elettrica ci accorgiamo che essa è importante, assolutamente necessaria per alcune attività. Per gli antichi era un bene assoluto, perché la vita fioriva là dove c'era la luce; essi erano completamente dipendenti dal sole e dai cicli del tempo. Possiamo cogliere il valore di questa metafora se usciamo dalle nostre abitudini mentali e riusciamo a metterci in una prospettiva diversa. Potremmo tradurre il senso della metafora con l'affermazione: Dio è forza che rende possibile il cammino, illumina la via. Immaginate una gita in montagna, siete in ritardo, cala il sole, non trovate più il sentiero, dovete fermarvi. L'affermazione di Giovanni ha una valenza molto più profonda, al di là della superficialità della metafora. Dio è una forza positiva di vita, rende possibile il cammino.

La seconda componente di questo messaggio, da un punto di vista teorico è ancora più importante, Dio è solo luce. A noi può sfuggire l'importanza di questa affermazione, ma al tempo di Giovanni c'erano tendenze dualiste che pensavano a un duplice principio, quello del bene e quello del male, la fonte della luce e la fonte delle tenebre. Nell'ambiente essenico erano in uso formule che potevano favorire queste tendenze, che poi acquisteranno rilevanza nel movimento gnostico. Già alla fine del I secolo appaiono componenti gnostiche dualiste in scritti della comunità cristiana.

Lo gnosticismo si caratterizzava proprio perché tendeva ad affermare un dualismo iniziale, per cui non c'era solo il principio del bene, c'era anche il principio del male, con una entità a sé, una forza assoluta che si contrapponeva a Dio. Nella prospettiva giovannea il dualismo è radicalmente respinto. Dio è luce e solo luce, non ci sono tenebre. Le tenebre non sono una realtà positiva, sono la mancanza di luce. Anche nel prologo del Vangelo Giovanni riprende la metafora della luce parlando dell'azione del Verbo eterno nella storia umana: "veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (4,9). Dove risplende la luce non ci sono tenebre. Le tenebre stagnano dove non arriva la luce o dove essa viene respinta. Credo che possiamo riassumere questo primo messaggio così: non sappiamo cosa è Dio, ma sappiamo che è una forza positiva e che in sé non ha componenti negative. La sua azione riflette continuamente questa perfezione.

Permettete che faccia una parentesi sul problema del male, dato che ho accennato al dualismo. L'esistenza del male è stato uno dei grandi interrogativi che hanno accompagnato il pensiero religioso. Il male nella creazione e nella storia, infatti, costituisce una difficoltà notevole per la fede in Dio. Se diciamo che Dio è solo bene, dobbiamo rispondere alla domanda: da dove viene il male? Questo è l'interrogativo da cui è partito lo gnosticismo. Unde malum?

A questo interrogativo oggi è più facile rispondere che nel passato, perché la cultura attuale ha acquisito la consapevolezza del tempo come componente essenziale della creatura. Il tempo non è un fattore esteriore, come il palcoscenico dove si svolge il dramma umano, ma è una struttura essenziale della creatura. Essa non è in grado di accogliere e di esprimere tutta la sua ricchezza vitale e quindi di raggiungere la sua identità personale in un solo istante, ma ha bisogno di tappe successive, di esperienze molteplici. La creatura vive solo a frammenti in una successione di situazioni diverse. Abbiamo bisogno di portarci dietro il passato, di aprirci costantemente alla novità del futuro e tutto questo nel piccolo istante presente che ci è donato. Da questa condizione consegue che tutto il cammino compiuto nella storia è accompagnato necessariamente dalla insufficienza, dalla inadeguatezza, dalla imperfezione e dal male, che, a sua volta, diventa peccato quando è rifiuto volontario del dono offerto dalla vita. Il male non richiede un'aggiunta di causalità, non è stato introdotto da un'azione successiva a quella di Dio, come se Dio avesse fatto bene tutte le cose e poi qualcuno le avesse guastate. Dio sta facendo ora le cose, ma il bene senza imperfezioni esisterà solo alla fine, perché le creature non possono accogliere le offerte divine tutte insieme, in un solo istante. Quello che noi chiamiamo male è una componente essenziale del nostro processo di creature, del nostro sviluppo nel tempo. Non c'è un'altra causa prima oltre a Dio.

Dio è tutto luce, ma noi, che non possiamo accogliere il suo dono interamente in un istante solo, siamo un groviglio di luce e di tenebre. Il vuoto, il nulla, la tenebra dell'inizio non sono ancora stati sconfitti, perché il tempo a disposizione non è stato ancora sufficiente. Sono stati necessari molti miliardi di anni perché sorgesse la specie umana: quel tempo non poteva essere abbreviato. Non si può dire: Dio è onnipotente, può fare tutto nella creazione e nella storia. Dio è onnipotente in sé, ma noi non lo siamo e non possiamo accogliere in un istante tutto ciò che Lui ci offre. Nella creazione e nella storia l'azione di Dio, limitata dalle creature, non può esprimersi in tutta la sua potenza. Quando diciamo Dio onnipotente esprimiamo la fede in Dio che ci può condurre al compimento, ma non vogliamo dire che Dio possa tutto in questo momento della nostra vita, perché egli è limitato dalla nostra condizione e dalla nostra capacità di accoglienza. Inoltre il termine onnipotente presente nel Credo è una traduzione non esatta della formula greca, che a sua volta non traduce bene quella ebraica da cui deriva. Il termine greco è pantocrator, che significa: colui che tiene le cose insieme e traduce nella LXX la formula Eloim sebaot, (cfr Is 6,3) Dio degli eserciti o il Dio delle schiere. I latini non avevano una parola corrispondente a pantocrator, siccome però i pagani (che in quel tempo entravano a frotte nella chiesa) chiamavano Juppiter onnipotens, anche i cristiani sono ricorsi a questa formula, più per ragioni pastorali che teologiche dato che i pagani divenuti cristiani la percepivano familiare. Nella traduzione italiana e poi nell'uso comune, quando diciamo Dio onnipotente pensiamo che Egli possa fare tutto. Ma questa convinzione non è esatta. Ora è importante avere una immagine corretta di Dio, per vivere bene il rapporto con Lui, e aprirsi alla sua azione in modo che fiorisca in noi come novità di vita e diventi nostra ricchezza.

In Dio non c'è tenebra, ma in noi ci sono tenebre, perché non siamo pienamente illuminati. Illuminati: così venivano chiamati i cristiani. Il battezzato è colui che è rivestito di luce. Il Battesimo inizia il cammino, ma la tenebra resta finché non diventiamo figli, finché non ci lasciamo investire pienamente dalla luce e diventiamo luminosi. Giovanni giunge subito a una applicazione concreta: “Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato" (1,6-7).

Dal fatto che Dio è luce Giovanni trae due conclusioni immediate: siamo in comunione gli uni con gli altri e siamo purificati dai peccati. L'azione di Dio mette in comunione, fonda la koinonia che è la condizione specifica dei discepoli di Gesù. Camminare nella luce implica essere in comunione gli uni con gli altri mentre camminare nelle tenebre corrisponde alla mancanza di comunione. Se diciamo di essere in comunione con lui, ma camminiamo nelle tenebre, mentiamo, perché se Dio è il faro che proietta la sua luce sul cammino non possiamo ignorare che cammina con noi. Non possiamo camminare nelle tenebre disgiunti gli uni dagli altri (le tenebre dividono); se la via di Gesù è la via della luce è necessariamente via di comunione. Qui alla metafora della luce si aggiungono le metafore della via e del cammino.

La metafora della via è stata la prima a qualificare l'identità cristiana dato che i primi seguaci di Gesù venivano chiamati: quelli che seguono la via. Negli Atti degli Apostoli appare questo uso prima che nel mondo di lingua greca e precisamente ad Antiochia (forse un qualche burocrate) si inventasse il nome 'cristiano' (At. 11, 26). Nel capitolo nono si dice Saulo "chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della vita di Cristo" (At 9, 2 trad. CEI ha dottrina, ma la nota precisa che alla lettera sarebbe 'via'. Cfr anche At 18,25.26; 19,9.23; 22,4;24,14.22)

La metafora del camino è conseguente e spesso ritorna negli scritti neotestamentari. Paolo ad es. usa spesso la metafora della corsa: “corro verso la meta per arrivare al premio” (Fil. 3,14 cfr. 1 Cor 9,24-26; Gal 5,7 ecc.). la lettera agli Ebrei parla a volte della “corsa che ci sta davanti” (Eb. 12,1).

Anche i membri della comunità di Qumran si chiamavano figli della luce in contrapposizione ai figli delle tenebre. Gesù e i primi cristiani erano vicini più agli Esseni che ai Farisei o ai Sadducei. Forse è questa la ragione per cui gli Esseni non vengono mai nominati nel Nuovo Testamento, proprio perché costituivano l'area in cui i cristiani si muovevano.

Questo è il primo effetto dell'essere nella luce, siamo in rapporto gli uni con gli altri.

La remissione dei peccati

Il secondo effetto: il sangue di Gesù ci purifica da ogni peccato. Il presupposto di questa affermazione è che tutti siamo peccatori. Giovanni lo afferma chiaramente: "Se diciamo che siamo senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi" (1,9 s.).

Il perdono dei peccati è uno degli annunzi essenziali della Nuova Alleanza. La purificazione dal peccato è un’azione divina ed è gratuita, è iniziativa di Dio, ma esige che riconosciamo di essere peccatori, perchè se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Giovanni continua: "Vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (2,1-2).

Queste affermazioni relative al perdono dei peccati spesso vengono interpretate in modo errato, sia per il termine espiazione, che viene inteso nel senso moderno e non nel senso biblico, sia perché pensiamo che esistano condizioni preliminari perché Dio ci perdoni. Precisiamo subito che il perdono dei peccati anche se incondizionato, deve essere accolto per diventare efficace. Incondizionato vuol dire che il perdono è iniziativa divina ed è gratuito, non chiede nulla da noi. L'unica condizione per essere perdonati è accogliere la misericordia di Dio, dato che la sua azione non è condizionata, Dio infatti non richiede prezzi o compensi. Questo è uno dei messaggi centrali della Nuova Alleanza. Ricordate Geremia: "Perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò più del loro peccato (31,34).

L'attività di Gesù si è subito concretizzata come attenzione ai peccatori e quindi come perdono dei peccati. È necessario però che noi accogliamo l'azione di Dio, altrimenti non c'è perdono del peccato. Questi processi sono processi vitali, non giuridici. Noi diventiamo viventi per l'azione di Dio che suscita una nostra qualità, un nostro pensiero, una nostra decisione e quindi una nostra azione. Noi però, in virtù dei doni già ricevuti, possiamo non accogliere la misericordia divina e impedire che diventi nostra azione. Per accoglierla dobbiamo riconoscerci peccatori. Riconoscerci peccatori non è una condizione posta da Dio alla sua offerta, come se Dio dicesse: "Tu non ti riconosci peccatore? Allora non ti offro perdono". Dio non ricorre a questi ricatti. Dio offre sempre il perdono, ma se noi non ci riconosciamo peccatori non siamo in grado di accogliere l'azione misericordiosa di Dio e se non accogliamo la misericordia che ci investe, essa non diventa nostra qualità e in noi non fiorisce novità di vita. Se ci riteniamo buoni, giustificati e santi, non avvertiamo il bisogno di rivolgerci a Dio per accogliere la sua misericordia. Riconoscerci peccatori, perciò, e aprirci alla misericordia divina non sono condizioni giuridiche o estrinseche poste da Dio bensì condizioni vitali richieste dalle stesse dinamiche della crescita personale.

Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Il male esiste nella nostra vita perché siamo ancora incompiuti. Nessuno dei nostri atti di amore è così puro da contenere una qualche ricerca di noi, nessun atto di servizio è talmente perfetto da non contenere egoismo. Non dobbiamo pensare di essere compiuti e perfetti. Tutto ciò che noi pensiamo, decidiamo e operiamo porta il segno della nostra incompiutezza e costituisce il regno del peccato. Qui il termine peccato va inteso in un senso più ampio come il male della nostra vita.

Nella nostra vita non c'è nessun pensiero che sia totalmente puro, nessun gesto che sia radicalmente gratuito, nessun desiderio che sia libero dal nostro egoismo. Dobbiamo riconoscere questo bisogno di purificazione continua, altrimenti siamo bugiardi. Riconoscerci bisognosi dell'azione di Dio, riconoscerci imperfetti è la condizione assoluta per aprirci alla misericordia di Dio. Questo vale non solo a livello personale bensì anche a livello comunitario, di popolo e di Chiesa. La Chiesa deve riconoscersi peccatrice. Uno scritto del secondo secolo, il Pastore di. Ermas, presenta la Chiesa nell'immagine di una vecchia, con le rughe, perché c'erano già le divisioni e incomprensioni fra le diverse comunità. Nei secoli successivi la Chiesa ha compiuto scelte sbagliate e spesso è stata infedele al Vangelo. Dobbiamo riconoscere il peccato della Chiesa. Il Papa Giovanni Paolo II ha insistito molto sulla necessità che la Chiesa chieda perdono per le sue numerose colpe storiche, in occasione dei suoi viaggi nelle diverse parti del mondo e soprattutto in occasione del grande giubileo. Ci sono state però molte resistenze anche da parte di Cardinali ad ammettere il peccato della Chiesa. Certo, la Chiesa celeste è santa, ma sulla terra la Chiesa è peccatrice e ha bisogno di essere purificata continuamente. Sì, anche sulla terra la Chiesa può essere detta santa, in quanto è continuamente purificata dalla misericordia di Dio e santificata dal Sangue del Calice. Per questo i Padri dicevano che la Chiesa è: sancta et meretrix, santa e meretrice. Meretrice per le sue infedeltà al Signore e santa perché santificata ogni giorno dall'azione purificatrice di Dio.

Secondo elemento da chiarire è il termine espiazione che oggi viene inteso nel senso di pagare il debito della propria colpa, il fio del proprio delitto. Il termine ebraico che soggiace questa formula è Kippur, che vuoi dire: purificare. Nel rito ebraico il termine designa l'azione che Dio compie per purificare i peccati degli uomini. Giovanni scrive: "Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa" (1,9). Poi aggiunge che Gesù Cristo, giusto, "è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" (2,2).

Purificare ed espiare si corrispondono in senso biblico. Il catechismo della CEI quando parla della redenzione, ha due pagine con i termini da utilizzare nel senso giusto. Spiega che il termine espiazione è da intendersi come purificazione. E' un'azione compiuta da Dio. Non siamo noi che dobbiamo espiare, non è Gesù che ha pagato a Dio il debito del nostro peccato o ha offerto a Dio una sofferenza in compenso dei peccati degli uomini o per espiare i peccati degli uomini. Gesù ha messo a disposizione di Dio il suo corpo perché Egli potesse esprimere la sua misericordia e comunicasse vita agli uomini. Gesù ha espiato perché ha offerto a noi la purificazione da parte di Dio, donandoci il suo Spirito. Egli ha offerto agli uomini la testimonianza dell'amore misericordioso di Dio, che purifica dai peccati e rinnova la vita. In questo senso Paolo può affermare: "Se uno è in Cristo è una creatura nuova. Le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione" (2 Cor 5,5-17).

La purificazione o espiazione quindi è una iniziativa di Dio a favore di tutti gli uomini, non solo dei Cristiani. L'azione misericordiosa di Dio si rivolge a tutti gli uomini che, consapevoli di essere peccatori, Lo riconoscono come misericordioso e ne accolgono il perdono.

(Testo tratto dalla registrazione di una conferenza e pubblicato in Monastica, 2, aprile-giugno 2005, pp. 5-16).

Pubblicato in Teologia

Henri Le Saux,
monaco cristiano acosmico
di Arrigo Chieregatti

Premessa

È inevitabile che di fronte all'«opera» di Henri Le Saux ognuno reagisca sull'onda delle proprie emozioni, come si fa di fronte ad un'opera d'arte. In un'opera d'arte ognuno legge quello che vive dentro di sé, perché tutti cerchiamo quello che abbiamo, e se non l'avessimo, non potremmo riconoscerlo. La stessa pagina ha un sapore diverso secondo il palato che uno possiede. La conoscenza del Cristo è per Henri Le Saux il passaggio fondamentale e insostituibile per andare nel mistero: «Per me il Cristo è il Sadguru, il Grande Maestro, ma questo non significa che lo debba essere per tutti». Poi così prosegue:

«Siamo troppo abituati a considerare il Cristo come possesso di una parte dell'umanità, cioè i cristiani, e che l'incontro con il maestro di Nazareth possa avvenire solo per la strada che noi abbiamo percorso. Abbiamo dimenticato che Gesù era un ebreo e che erano ebrei i suoi primi compagni; abbiamo dimenticato che la strada verso il Signore dalla cultura giudaica è passata a quella greca e poi a quella latina e quindi può passare attraverso altre culture, altri uomini e altre esperienze» (1).

Henri Le Saux, come tanti altri hanno fatto e ancora stanno facendo, da monaco benedettino ha lasciato la strada che aveva percorso ed è entrato in un mondo nuovo, rinunciando alla propria cultura, ai propri schemi, ai propri legami per avventurarsi, come nuovo Abramo, solo con l'essenziale in un ambiente sconosciuto, convinto che ovunque il Cristo è presente, e che con la fede il Signore è presente ovunque, e che «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34-35).

È vero, l'esperienza di Henri Le Saux è l'esperienza di un eremita, ma è proprio per questo che crediamo opportuno offrirla a tutti noi, cristiani d'Occidente, impegnati con tutto noi stessi nell'azione sociale e politica di liberazione dalle varie schiavitù religiose e civili, di cui forse neppure siamo coscienti.

In un mondo profondamente segnato dal materialismo, ormai gli aiuti esterni di supporto per la nostra fede non esistono più, per cui dobbiamo tutti costruirci una spiritualità eremitica, dobbiamo trovare all'interno di noi stessi la forza per la solidità della nostra fede. È dal profondo di noi che deve uscire il coraggio per la nostra adesione al Cristo, è «dall'intimo della caverna del nostro cuore che deve sgorgare una sorgente di acqua viva per la vita» (cfr. Gv 4,14).

In occasione della morte di Le Saux, avvenuta il 7 dicembre 1973, uno dei suoi più cari amici, il pastore protestante Murray Rogers ha scritto:

«Il nostro caro amico e guida Swami ha fatto l'esperienza del suo risveglio finale, si è risvegliato all'Essere, ha realizzato il suo Samadhi, è giunto alla concentrazione totale, al raccoglimento perfetto. Così facendo ha visto adempiuto il suo desiderio di molti anni: finalmente è diventato veramente a-cosmico, realizzando così in pienezza la vocazione che lo Spirito aveva deposto dentro di lui attraverso il sannyasa indù» (2).

E infatti lo stesso Le Saux, riferendosi al grave attacco cardiaco di alcuni mesi prima della morte, scriveva:

«Veramente una porta si è aperta nel cielo, mentre giacevo sul pavimento. Ma un cielo che non era l'opposto della terra: qualcosa che non era nè vita nè morte, ma semplicemente essere, risveglio, al di là di ogni mito o simbolo. Se ci incontreremo di nuovo, vi racconterò tutta quella meravigliosa storia, ma già da ora: Magnificate Dominum mecum. Nella gioia di Dio, sempre» (3).

Per non essere presuntuosi nel voler determinare un pensiero così vasto come quello di Henri Le Saux, forse può essere opportuno leggere insieme quello che Swami ci ha lasciato e che siamo riusciti a «rubare» alla sua esperienza spirituale.

Certamente io posso dire la mia esperienza di fronte alle altezze di un tale maestro, mentre altri potranno dire diversamente e forse esattamente il contrario. L'opera d'arte, come la mistica, non è possesso esclusivo di nessuno, ma tutti possono esprimere ciò che quella esperienza e quel suono ha suscitato in ognuno. Possiamo raccontare quello che abbiamo letto e quel poco che siamo riusciti a captare dalla viva voce di Henri Le Saux.

Non è certamente tutto quello che un uomo di Dio ha esperimentato, perché lo scritto e il racconto può trasmettere solo una minima parte di quello che ha vissuto. Ho voluto prendere come guida i suoi scritti, le sue lettere, e la lettera che un amico, Raimon Panikkar, nostro carissimo maestro, ha voluto indirizzargli dopo la sua morte.

Lasciar parlare un uomo di Dio, un maestro spirituale significa porsi in ascolto, lasciarsi penetrare dal suo spirito, non fare obiezioni, ma permettere che un fiume, come il Gange a Rishikesh, possa avvolgerci e rigenerarci.

Potremo così raccontare non quello che lui ha detto, ma quello che abbiamo ascoltato, non quello che ha scritto, ma quello che abbiamo letto.

L'avventura

Di fronte al messaggio di Henri Le Saux (o Abhishiktananda, secondo il nome assunto in India) si è spesso attenti a «cosa dice», cioè alle sue affermazioni che appaiono a volte dure e rigide, piuttosto che a «chi le dice». Taluni tra noi la chiamano obiettività, ma forse può essere mancanza di attenzione alla persona. Si può ridurre infatti la persona a nozioni e ad espressioni prive di vita in nome della scientificità e dell'ortodossia.

Dovremo forse imparare da Henri Le Saux che, nell'impatto con l'India, si è trovato scardinato dal suo monachesimo ossequiente e devoto, proiettato in una avventura che, come il Figlio dell'uomo, l'ha gettato su una strada dove... «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Si è discusso e si continua a discutere se era giusto o meno, ma seguendo la cultura asiatica potremmo rispondere: «Andate a vivere come lui ha vissuto, e poi ne parleremo».

La perfezione anche spirituale viene ormai confusa con la mancanza di difetti, mentre più propriamente la perfezione è la capacità di convivere con i propri limiti e con i propri difetti. Le Saux era ben cosciente delle sue debolezze: era preoccupato della ortodossia, era puntiglioso nelle formulazioni corrette delle affermazioni dottrinali, ma l'esperienza concreta lo ha portato a scoprire immediatamente che la realtà è piena di limiti e di imperfezioni. E ha sentito ed esperimentato che non è sempre possibile mettere insieme la ortodossia mentale e la spontaneità del cuore.

Il nostro perfezionismo intellettuale ci impegna spesso a voler incapsulare lo Spirito nello spazio dell'intelletto, e per comprendere Le Saux è necessario sapere che egli ha voluto sottomettere il logos (parola, pensiero, ragione) allo Spirito (aria, soffio, respiro). È stato sempre diffidente riguardo alle idee e alle parole, mentre era completamente aperto allo Spirito, dovunque spirasse.

Questa tensione tra logos e spirito si concretizzerà tra Henri Le Saux e l'abbé Monchanin, e non solo riguardo al futuro escatologico, ma anche nella realtà concreta della conduzione dell'Ashram di Shantivanam. Non erano solamente tensioni psicologiche tra due personalità forti, ma forse lo scontro tra due polarità teologiche, che portarono a due scelte diverse:

- vivere in modo radicale alla maniera hindu, in cui l'esperienza è a fondamento di ogni insegnamento, come voleva Le Saux;

- oppure decidere secondo le esigenze della ragione, del logos appunto, come voleva Monchanin.

Essere e fare

Gli scritti di Henri Le Saux difficilmente potranno essere capiti da coloro che non sono passati attraverso la sua esperienza, e lui ha accettato umilmente di non essere capito. Tanti hanno pensato che ci fossero nei suoi scritti errori teologici, confusione di fede e di ragionamento, o che non fosse possibile concentrare in un pensiero logico le sue intuizioni. Ma i suoi scritti, ormai numerosissimi, evidentemente smentiscono questa opinione, e «chi vuol capire, capisca». Rileggendoli, invece, si può certamente intuire il lavoro di cesello per farsi capire e non essere frainteso. Il Diario spirituale (4), che non è stato scritto per essere pubblicato, avrebbe bisogno di essere rivisto non già da noi ma da lui.

Si può capire la dimensione spirituale non nella dimensione del «fare e del produrre», ma in quella dell'«essere», e nella dimensione dell'essere non c’è bisogno di essere consapevoli, proprio come un neonato che esiste anche se non ne ha consapevolezza intellettuale, e l'esistere è certamente fondamentale rispetto alla coscienza. L'essere può esistere solamente «essendo», e per questo Abhishiktananda ha chiesto a se stesso di «andare oltre» il mentale: lui è andato oltre non con le parole ma con la stessa sua vita.

Henri Le Saux ha chiamato «preghiera» l'Essere dal punto di vista di Dio: «Tu, o Padre, preghi creando e mantenendo il creato in essere», mentre la sua vita è stata la convalida del suo pensiero; per lui infatti non esiste la distinzione tra documenti teologici e affermazioni spirituali isolate. Per tutti è così, ma per lui in modo particolare: la maggior parte delle sue espressioni sono grida, preghiere, urla che esprimono i suoi sentimenti.

In questo cammino sono da sottolineare i radicali cambiamenti di Henri Le Saux:

«L'insegnamento delle Upanishad non è questione di formulazioni intellettuali, che possono essere insegnate e ricevute. Esse hanno solo la funzione di portare all'esperienza» (1956).

E nel 1972, solamente un anno prima della sua morte:

«Il cristianesimo è soprattutto Upanishad, correlazione, insegnamento non diretto. L'insegnamento diretto è solo "fenomeno". La correlazione fa uscire la scintilla direttamente dall'esperienza, e questa mette la relazione in modo perfetto».

«Il mistero interiore chiama in modo lacerante: nessuno da fuori può aiutarmi a penetrare il mistero e scoprire al mio posto il segreto della mia origine e del mio destino» (1956).

«C'è sempre il rischio di scambiare i surrogati dell'esperienza con l'esperienza stessa: la strada della solitudine e dell'unità è terribile nella sua nudità. Non si può prendere l'idea della solitudine per solitudine stessa» (1956).

Il cammino spirituale di Henri Le Saux è stato l'incontro con il Nulla, ne ha toccato l'aspetto negativo, senza vederne la grandezza. È stato il vero incontro con il Nulla del proprio profondo. Troppo spesso l'incontro con il Nulla è solo superficiale. Molti, contenti della propria conoscenza, anche della propria conoscenza religiosa, colpiti dal luccichio dell'Oriente, bevono qualsiasi cosa esotica e pensano d'aver raggiunto l'esperienza suprema, quando invece hanno toccato solamente i limiti delle proprie facoltà spirituali. Raggiungere le frontiere dell'essere è fondamentale per un cammino spirituale, ma questo non è ancora l'incontro con il profondo. Fare questa esperienza significa entrare in una via senza ritorno, e non è come fare un po' di yoga, un po' di meditazione, o impegnarsi in una recita di mantra.

Sin dai primi anni della sua presenza in India H. Le Saux era preoccupato dell'impatto della cultura occidentale con l'Oriente, ne vedeva i rischi e le deformazioni. Negli anni dei «pellegrinaggi» in India dei giovani occidentali scrisse queste riflessioni che indicavano il suo amore per l'Oriente e per l'India, ma anche sottolineavano la superficialità con cui poteva essere avvicinata la spiritualità indiana da coloro che, scontenti dell'Occidente, non erano sufficientemente preparati a recepirne il valore e a confrontarsi con la fatica di una spiritualità totalmente diversa da quella a cui erano abituati:

«Lo yoga è molto in voga ai nostri giorni, soprattutto in Occidente, dove forse se ne discute di più che nella stessa India. Forse questa divulgazione può far perdere di vista il vero senso dello yoga. Lo yoga è soprattutto una tecnica per riportare e fissare lo spirito nel suo centro. Lo scopo dello yoga è fondamentalmente di ricondurre lo spirituale alla nuda coscienza della propria esistenza, al di là di tutte le manifestazioni di ordine fenomenico percettibile dai sensi e dal pensiero. Solamente in questo centro o in questa sommità l'uomo raggiunge se stesso e si realizza nella verità del proprio essere, o, più esattamente forse, del proprio atto di esistere» (5).

Si tratta di raggiungere ciò che l'India chiama lo stato del kevala, cioè dell'isolamento, in cui uno pone se stesso in rapporto a tutto ciò che non è suo in maniera essenziale e permanente, in rapporto a tutto ciò che in lui è solo relativo e passeggero, cioè le vritti, che sono le complicazioni del proprio pensiero e le trasformazioni del proprio egoismo.

Per questa via lo yoga può credersi assoluto e può ritenere d'aver realizzato la perfetta libertà e la totale indipendenza della propria persona. Da questo punto centrale del proprio essere tenterà di dominare e controllare, senza che niente gli possa sfuggire, tutte le manifestazioni psicologiche e anche fisiologiche della propria vita.

Il mezzo per eccellenza per arrivare a questo stato è il controllo progressivo e sempre più stretto dell'attività mentale e, al limite, il suo arresto totale. Proprio in questo arresto la coscienza che si ha di se stessi si può illuminare di una luce non confusa, che da sola può riempire il campo intero della percezione.

Per rendere possibile questo dominio del flusso mentale sono stati progettati ed esperimentati, attraverso una lunga pratica, diversi esercizi. Il più importante è quello della meditazione, che concentra lo spirito su un punto preciso, immaginario o mentale non importa.

Non si tratta della meditazione nel senso occidentale del termine, di immaginare cioè una scena o di contemplarne successivamente le differenti parti, oppure di riflettere su una idea e di esaminarne i diversi aspetti. La meditazione yogica tenta di ridurre ad un punto indivisibile il campo della coscienza, di realizzare l'unità dell'attenzione, di vincere la dispersione e di costringere lo spirito al silenzio.

Le posizioni del corpo (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) hanno valore puramente preparatorio e sono tutti finalizzati a fissare lo psichico. Il loro scopo primo è quello di permettere allo yoga di controllare, di ritmare e, se possibile, di immobilizzare i suoi muscoli, soprattutto quelli che comandano i movimenti della respirazione e anche dei battiti cardiaci.

Tutto ciò dipende dalla connessione tra lo psichismo dell'uomo e il suo organismo fisiologico, e ancor più, dice la tradizione, tra il soffio vitale (prana) e il principio interiore della vita.

Essendo lo yoga una tecnica, succede ciò che capita a tutte le tecniche, sia di ordine fisico sia di ordine psicologico, sociale, o religioso, e non può succedere altrimenti. La tecnica attira sempre più l'attenzione e gli strumenti rischiano di essere valorizzati per se stessi, a scapito dello scopo primario da raggiungere. Per questo i pericoli dello yoga, soprattutto per gli occidentali, non devono essere minimizzati.

Uno dei rischi più gravi è di costituire al fondo della coscienza dello yoga una specie di super-io, ritenuto tanto potente da essere capace di controllare e dominare i movimenti muscolari, la coscienza fenomenica, e persino il pensiero.

Questo super-io sarebbe in definitiva un'esaltazione dell'io, anzi una proliferazione cancerosa dell'io, dell'ahamkara (coscienza empirica di sè), e può divenire un punto della coscienza smisuratamente ingrandito rispetto al resto.

Questa è la sorgente dell'orgoglio demoniaco di certi yogi, soprattutto in Occidente. Andando al fondo di se stessi s'impegnano nello sforzo di passare, dicono, dall'io al Sé. Ma quello a cui tendono e che chiamano il Sé, non è altro che la proiezione del proprio pensiero, il fine che hanno concettualizzato e che si sforzano di raggiungere.

Non giungono alla perdita di sé nel Sé supremo, come essi pensano, ma in conseguenza dell'atteggiamento moralistico che riempie tutta la loro ascetica, gonfiano in maniera mostruosa e promuovono al rango di assoluto il loro proprio io, con tutti i suoi particolarismi e i suoi limiti. Questo permette loro di ritenere possibile tutto ciò che pensano senza limiti o regole.

L'impegno verso l'India

L'impegno verso il Vuoto, che anche san Giovanni della Croce invita a raggiungere e chiama Nada, nada, ha avuto per Henri Le Saux una strada molto concreta.

Innanzitutto il suo non-ritorno in Occidente. Era stato più volte invitato a tornare ed egli stesso aveva pensato che sarebbe stato utile vedere l'Occidente dopo la sua esperienza indiana, e vedere anche l'India da lontano. Invece, rifiutò in modo categorico, perché a suo parere sarebbe stato un tradimento rispetto alla sua chiamata, avvertita come un cammino senza ritorno, quasi una immersione da cui non era possibile tornare, pena la perdita di una parte di se stesso. Non voleva sentire la sua missione come temporanea, rischiando di non essere né da una parte né dall'altra, condannando l'Oriente a causa delle fatiche sopportate ed esaltando l'Occidente più confacente alle sue abitudini, o viceversa. Rifiutava di essere considerato un santo (o un santone) che andava in giro per il mondo a salvare i perduti, o a sollevare i sofferenti.

Tanti amici non erano d'accordo con lui, a nome di tutti Raimon Panikkar, amico e compagno di ricerca, che, pur avendolo inizialmente contrastato, poi lo ringraziò e gli disse: «Grazie, swami, avevi ragione e pertanto ti benediciamo».

Non nascose la sua irritazione, e fu alta, quando alcuni amici rifiutarono l'esperienza indiana e decisero di tornare in Europa. Questo fu a suo parere un tradimento. La sua scelta era per lui l'unica possibile: solo la morte poteva toglierlo dall'India, e non sarebbe stato possibile nessun compromesso.

Ancor più si irritò quando alcuni monaci occidentali che vivevano in India decisero di incontrarsi e discutere la loro vita: «Non si arriverà ad una riforma con chiacchiere o con dibattiti. Antonio andò nel deserto, e così anche Benedetto, Francesco si mise sulle strade senza bisogno di convegni e di congressi di monaci».

Nel cuore di Henri Le Saux sono convissute due strade sin dall'inizio: la via cristiana e la via hindu (1949) e solamente nell'esperienza dell'attacco di cuore (10-18 luglio 1973) raggiunsero un'armonia, solamente alcuni mesi prima di morire. Sentiva forte il richiamo dell'abisso, era dentro il suo cuore la promessa della non-dualità che avrebbe un giorno dato la grande risposta, quella che elimina sia la domanda sia colui che la pone: se uno non rinuncia a tutto quello che possiede e anche a se stesso e alla propria vita, non può entrare nel Regno dei cieli.

E con questa fatica ha lasciato libero se stesso e contemporaneamente dava indicazioni ad altri. A chi temeva su questa strada di perdere la fede, rispondeva:

«Non aver mai paura di perdere la fede, perché vorrebbe dire che Dio perde te, e questo non avverrà mai. Per cui, se perdi la fede, significa che non era vera fede, e allora valeva la pena di perderla» (Lettera 1970).

Poi giunse al totale abbandono al Signore e al suo Amore:

«il cielo esiste per chi lo desidera, e l'inferno esiste per chi lo teme» (1954).

L'espressione del Salmo della Bibbia ebraica è un richiamo per tutti: «L'abisso chiama l'abisso» (Sai 42,8), e per Henri Le Saux è il richiamo ad una unione profonda tra tante esperienze. Questa unione non è il risultato di un approfondimento tecnico, sociologico, filosofico, e neppure teologico, ma di un abbraccio mistico nel fondo dell'abisso. Per lui non era in gioco la soluzione di un conflitto dialettico, ma la sua stessa esistenza:

«Ho paura di perdermi lungo il sentiero verso l'eternità» (1953).

«Ho paura, ho l'angoscia di rischiare solo per un miraggio... ma tu, o Arunachala [la montagna sacra al Sud dell'India, in Tamil Nadu], non sei un miraggio» (1956).

Henri Le Saux e la sua poesia

La poesia è l'arte di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie esperienze al di là del pensiero. Non contro il pensiero ma oltre la mente, cioè in un cambiamento di prospettiva e anche di strumenti adeguati per raggiungerla. Solamente a quel livello è possibile sentire il pensiero di Abhishiktananda (il «consacrato per la gioia»). Mentre esprime l'entusiasmo di essere colpito dal sacro monte Arunachala, professa il suo amore appassionato per il Cristo (1956).

Era entrato nella notte oscura, e solamente dopo anni di buio poté vivere nella propria carne l'esperienza della non-divisione. Scoprì in quel momento che doveva rompere con abitudini mentali e spirituali accumulate lungo i secoli, che gravavano sulla sua vita. E dovette farsi violenza.

Henri Le Saux ha vissuto l'esperienza del non-duale partendo dall'esterno del contesto indiano, con un altro tipo di materiale, con un'altra consapevolezza, con un'altra veste umana, quella dell'Occidente.

Non ha avuto paura di perdere quello che aveva acquisito, perché era essenziale, e l'essenziale non si perde mai, perché è nascosto nella caverna del cuore, nel profondo in cui nessuno può nulla rubare e che nessuno può violare.

Sembrava una sua debolezza, sembrava l'espressione di una sua superficialità, e invece era una ricchezza. Era il risultato del suo viaggio verso il profondo, verso il pozzo da cui può scaturire la fonte di acqua viva.

Per fare questo, ha dovuto abbandonare tutti i suoi «mariti», ha dovuto bruciare tutte le aderenze del suo essere occidentale, senza però rifiutare la sua appartenenza all'Occidente. Non si tratta di unificare, ma di avvicinare perché la vicinanza amorosa possa essere l'occasione di una mutua fecondazione e questo significa scoprirsi amanti e amati. Per essere capaci di un reciproco amore, per potersi reciprocamente fecondare, è necessario che ognuno rimanga se stesso:

«Non si tratta di fare sintesi, ma di andare aldila', di superarsi, ma permettendo ad ognuno di rimanere se stesso» (1956).

«Andare oltre» non significa negare il punto di partenza, ma anzi conservarlo e andare al profondo di esso. Meta-fisica non è la negazione della fisica, né un'altra fisica, ma andare al suo perché, al profondo nascosto della fisica. Così anche meta-noia non significa negare la mente o il pensiero né elaborare un altro pensiero, ma andare al perché del pensiero stesso, al profondo di esso. Questo è la spiegazione dell'andare oltre di Henri Le Saux e di molti mistici. È stato un cammino faticoso, ed esigente: ha seguito le pratiche cultuali cristiane in modo scrupoloso, e ad un certo momento le ha sorpassate, non per negarle, ma per andare in una dimensione che le comprende senza condannarle o rifiutarle.

«L'Eucaristia non è per me una forma di culto, ma mette a mia disposizione l'Incarnazione totale» (1952).

«Il Cristo è l'espressione cosmica e sociale di ciò che ciascun uomo porta dentro di sé» (1956).

«L'Incarnazione è certamente un mito (cioè il misterioso atto in cui ognuno può essere coinvolto e che può comprendere nella misura in cui accetta di essere immerso). È il Sacramento supremo, si può dire di magia, nel quale l'uomo raggiunge la profondità di se stesso» (1956).

Fu angosciante per lui andare oltre, avere la sensazione di perdere tutto ed è per questo che è giunto a formulare la sua dichiarazione di fede:

«Esistono due volti del Cristo: storico e meta-storico (mistico). I cristiani celebrano il volto storico, l'India e tutte le religioni cosmiche quello meta-storico. Sono necessarie ambedue, perché sia completa la conoscenza del Cristo. Non sono in opposizione, ma si completano e la nudità (Kevala) non divisa è la pienezza del culto cristiano» (1956).

«Certamente il cristianesimo sente di ribellarsi e dire che l'advaita (uno e molteplice insieme) non possono coesistere. L'advaita farà esplodere la chiesa istituzionale vaticana. È necessario che io rimanga in questa angoscia, quella che non mi permette la serenità di una sintesi... Non è possibile bere contemporaneamente da due coppe e questo è il prezzo della pace e della gioia» (1956).

«Finché è presente il desiderio di lasciare la Chiesa, non è ancor giunto il momento di farlo» (1956).

Un uomo libero: un monaco

Era ben presente in Henri Le Saux la concezione orientale di libertà e continuamente la descrive. Non è una libertà morale, né una libertà psicologica o di scelta: libertà è il raggiungimento, da parte di ogni essere, del profondo di se stesso, è l'adeguamento al motivo profondo del proprio esistere (Dharma). La purezza è la solitudine perfetta, cioè il silenzio che si raggiunge nell'incontro tra essenza ed esistenza. Solamente allora si può agire in modo naturale e spontaneo, cioè in perfetta libertà.

Si può accettare come commento a questo pensiero di libertà la frase di san Tommaso d'Aquino: «L'uomo libero è colui che opera non per un comando, ma perché vuole compiere il suo desiderio. Colui che opera per un comando, è uno schiavo, non è un uomo libero» (Commento alla prima lettera ai Corinzi).

È questa la libertà che discende dalla consapevolezza di avere qualcuno al di sopra di noi che condivide l'esperienza di vita, di avere Dio come Padre; e così non cadono sopra di noi tutte le responsabilità individuali, né tanto meno quelle dell'intera umanità: Dio, l'umanità, il creato non sono concorrenti, ma partners di vita di ognuno di noi:

«Finché posso chiamare qualcuno fratello qui sulla terra, ho anche il diritto di chiamare Padre il profondo estremo della guba [grotta] del mio esistere» (1972).

«L'esperienza cristiana è l'esperienza advaitica, vissuta nella comunità umana» (8 marzo 1972).

Per questo ritenne di non doversi impegnare più di tanto in ambito sociale e politico, non ne era interessato, come non accettò di soccombere ad alcuna tentazione teologica o filosofica.

La sua libertà si è espressa anche nelle lotte che evidentemente ha dovuto sostenere e affrontare sia dentro che fuori l'ambito della Chiesa. Anche le sue lotte, di qualsiasi tipo, non sono mai stata vissute sul piano mentale, non sono mai state interessate ad alcun conflitto intellettuale: «Voglio vivere il Vangelo senza teologizzare» (8 marzo 1972).

E quando qualcuno gli ribatteva: «Ma anche questo è filosofare», allargando le braccia diceva in francese: «Que je dois repondre?» («Cosa devo dire?»). «Non ho paura di andare di là dei colpi di mannaia del Denzinger [la raccolta delle definizioni e dei dogmi della dottrina cattolica; ndr.], perché non dobbiamo essere troppo legati alle apparenze».

La sua libertà è sempre stata di tipo monastico. La sua esperienza monastica, però, era dettata dalla conquista di una libertà vissuta a tutto campo. La libertà monastica come lui desiderava viverla l'ha ben descritta nel libretto che è quasi una cronaca del suo viaggio verso le fonti: Una Messa alle sorgenti del Gange (6).

Le Saux tende ad un monachesimo acosmico, che in un certo senso può trovarsi in conflitto con l'esperienza cristiana, che è fondata sulla Incarnazione. Il monaco acosmico rinuncia ad ogni supporto; la sua esperienza va oltre il «non avere un sasso dove appoggiare il capo». Il suo monachesimo aspira a trascendere la situazione umana, tende alla divinizzazione, come il cristianesimo, ma anche alla illuminazione proposta dal buddhismo e al nirvana proposto dall'induismo.

Certamente Le Saux non si è mai occupato molto della dimensione umana, non ha mai proposto un intervento in vista di cambiamenti qui sulla terra, ma metteva l'attenzione «oltre», superando ogni limite e ogni incertezza. Non è riuscito a realizzare il suo ideale; i limiti umani del suo carattere e delle sue forze fisiche per la concretizzazione dei suoi sogni sono evidenti. Spesso non ha saputo accettare i suoi limiti, non erano dentro la sua dimensione di vita, non erano nel cammino che si era proposto. I limiti, nella concezione monastica che si era costruito, non erano stati presi in considerazione, ed era infelice di doverli invece riscontrare.

«Andare di là di tutto» era la sua lotta tra l'uomo vecchio e l'uomo nuovo, tra l'ahamkara e l'aham:

«Avevo sentito sulla Arunachala la gioia della pace, che poi era scomparsa nel momento in cui mi ero scoperto cristiano, nella scoperta dei limiti della storia (Chiesa, Vaticano, organizzazione, rubriche...)» (26 agosto 1955).

La tensione più importante di Abhishiktananda era quella di poter raggiungere l'Assoluto con l'abbandono totale del relativo, l'annullamento di tutto ciò che uno è e può essere, forse l'abbandono della sua condizione di creatura:

«Colui che possiede diversi linguaggi religiosi, mentali o spirituali non importa, non potrà mai assolutizzare un qualsiasi concetto, ma potrà solo testimoniare un'esperienza, di cui però può parlare solo balbettando» (1973).

Per questi motivi si è rivolto all'India dove l'esperienza dell'Assoluto è stata sviluppata più fortemente che altrove. Il richiamo dell'India è giunto a Henri Le Saux perché era monaco e voleva essere monaco sino in fondo.

In Oriente l'unica strada spirituale comprensibile è quella monastica: non quella della carità, non quella dei riti, non quella della teologia, ma l'esperienza del profondo, incarnato nella vita concreta di un monaco.

Per essere testimone Swami non ha minimamente dubitato della necessità per lui di giungere alla completa spoliazione di ogni cosa, di ogni esperienza, anche quella religiosa, anche quella cristiana.

«Dovremo ringraziare l'ateismo moderno di tanti nostri fratelli, che ha smascherato tante false fedi che abbiamo contrabbandato come fede vera e unica» (Lettera 1970).

Abhishiktananda è stato un asceta, ma l'ascesi non è un nirvana più o meno pacifico, non è un paradiso in anteprima, bensì lotta, campo di battaglia. La sua lotta non è stata una lotta morale per la perfezione, né una lotta teologica per cercare la verità, ma una lotta dell'essere, una lotta dell'intera esistenza, una lotta per esistere.

È stata una lotta tremenda, che ha vissuto dentro di sé per tutta l'umanità, per noi occidentali, per noi cristiani, per noi monaci, per noi preti. Siamo tutti in debito verso di lui. La vita non può essere identificata con la coscienza che ne abbiamo e tanto meno con la riflessione intellettuale o spirituale che di essa facciamo. La domanda e la risposta riguardo alla vita si trova su un piano più profondo. Tutto questo ci permette di considerare l'esperienza di Henri Le Saux unica e certamente irripetibile. È sua la ricerca di combinare incarnazione e trascendenza, storia e acosmismo (tempo, spazio, materia, corporeità giungono ad essere evanescenti). Forse questo è stato il motivo per cui ciò che ha voluto concretizzare, si è di fatto annullato. Voleva fare un monastero, un ashram, avere discepoli... Ma niente si è realizzato.

Solo alla fine «un» discepolo, Marc, si è concretizzato, ma anch'egli ha impersonato l'ideale del monaco acosmico, sparendo totalmente dalla vita comune e distruggendo, a mio parere coerentemente, tanti documenti, come forse Swami gli aveva detto di fare. Già negli anni Sessanta, quando uno gli aveva chiesto di pubblicare note e riflessioni perché il suo messaggio potesse espandersi, Le Saux gli rispose:

«Attraverso lo Spirito è giunto a te il messaggio, e attraverso lo Spirito potrà giungere ad altri» (Lettera 1969).

Nell'anno stesso della sua morte (1973) Abhishiktananda rifiutò di partecipare alla Convention monastica asiatica a Bangalore e la stigmatizzò con commenti sarcastici, dichiarando che non era certo quello il luogo di un sannyasin (un monaco acosmico), perché i teologi cercano ciò che è da completare, mentre la perfezione è il vuoto, anzi il vuoto totale (7).

Ha praticamente sconfessato tutto: non si è rivolto al proprio sé, ma, al contrario, ha rivolto il proprio sé all'Assoluto, all'Unico, e praticamente tutto gli si è rivoltato contro, anche la sua stessa partenza per l'India:

«Ero venuto per farti conoscere ai miei fratelli hindu. E invece sei stato Tu che ti sei rivelato a me attraverso la loro mediazione, sotto l'aspetto inquietante di Aruna (aurora) Achala (immobile)» (8).

Henri Le Saux giunse in India come monaco, ma trovò in India l'ideale del monaco.

È bene notare che non lui, ma gli altri hanno scoperto l'esperienza acosmica del «sadhu cristiano», ed esattamente un compagno di ricerca di Henri Le Saux, Harilal (Sri Hari Wench Lal Poonja; vedi sopra pp. 22-26), durante un incontro che sembra toccare l'al-di-là, ha scoperto l'esperienza del monaco silenzioso. Lo stesso Abhishiktananda lo racconta:

«La prima volta che incontrai Harilal fu nella grotta di Arutpal Tirtham, un venerdì 13 marzo. Erano circa le quattro del pomeriggio. Ero seduto sul mio sedile di roccia fuori dalla grotta, quando vidi due uomini che venivano verso di me lungo lo stretto passaggio che stava tra la mia grotta e la casetta di Lakshmi Devi. Si presentarono e si sedettero accanto a me...» (9).

Chi è il monaco?

È opportuno forse non fare confronti e tanto meno graduatorie tra monachesimo cristiano (vedi Regola di san Benedetto) e monachesimo hindu.

La Regola di san Benedetto inizia con la caricatura del monaco girovago, e poi delinea la figura del monaco come uomo perfetto, realizzato, che ha raggiunto la pace, la dolcezza e la libertà. E' l'incarnazione dell'humanum, che si trova anche nella proposta cinese del saggio: il gentiluomo, l'uomo superiore, il nobile... e questo modello viene poi trasferito al prete e quindi all'ideale cristiano per ogni uomo e ogni donna che vuole essere discepolo di Gesù: è la proposta della via media tra angelismo e umanesimo.

In India la proposta monastica è anch'essa una via verso la perfezione, ma non nel compimento della virtù, ma nel raggiungimento del vuoto, possibilmente totale. È proposto il superamento e la trascendenza della condizione umana. Il monaco è colui che non è più di questo mondo, ma vive già altrove. È l'indifferente, perché ha già superato la dualità: «Non desidera vivere, non desidera morire. Attende che avvenga il suo tempo» (Mundaka Upanishad I, 2-12; Brhadharanyaka Upanishad III, 5).

E c'è un altro modello: il monaco ribelle, cioè il folle, il non conformista, colui che infrange le regole e aspira alla totale libertà.

Il monaco è colui che i benpensanti chiamano pazzo, ed è una follia vera, non finta, ed egli sa di esserlo e lo vuole. È colui che scende in piazza e gesticola, insulta, maledice, denuncia la follia della ragione, l'ipocrisia dei grandi, dei potenti, dei ricchi, dei forti e porta scompiglio nei giochi degli uomini importanti (vedi san Francesco, Gesù di Nazareth. Geremia, Buddha, i sufi dell'Islam..., e in genere tutti i profeti di ogni religione e di ogni cultura). San Paolo stesso parla della pazzia della croce, perché in essa sono state spezzate tutte le convenzioni.

Il monaco è colui che ha liberato la propria anima, anzi è colui che non ha più anima. Il monaco della tradizione hindu è colui che ha abbandonato tutti i riti, e nel mondo hindu la caduta di tutti i riti significa che il mondo crolla, e il monaco lascia che il mondo crolli: «Se un giorno non si potrà celebrare l'offerta del fuoco, come ogni giorno si celebra sul Gange a Rishikesh, il giorno dopo non sorgerà più il sole» (10).

Il rito è essenziale per la vita dell'universo, ma il monaco se ne ride. Ed è questa una delle tragedie del monachesimo hindu: la necessità dell'acosmismo e la sua effettiva impossibilità.

Il sannyasin (monaco hindu) è colui che si lascia cadere, che rinuncia a se stesso, e lascia cadere anche il mondo, perché... ha scoperto qualcosa di più, la verità delle verità, chiamata Nulla, o Vuoto, Nada, come dicono tutti i mistici. Il Vangelo esprime tutto questo in una parabola: «Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo: un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).

Il tesoro non è il risultato della vendita dei suoi averi, ma qualcosa che scopre quasi per caso, e la rinuncia non è un sacrificio, ma un motivo di gioia e di nuova vita, poiché scopre che quello a cui rinuncia è ben più piccolo di quello che acquista.

Il sannyasin è l'uomo dai lunghi capelli, il muni, cioè il silenzioso, che chiede senza parlare. Un giorno ne abbiamo incontrato uno a Tiruvannamalai, davanti al tempio, dove centinaia di poveri chiedevano l'elemosina, e lui (il monaco dai lunghicapelli) chiedeva solo con gli occhi, senza parlare, senza alzare la mano, ed era comprensibile solo da coloro che avevano capito il silenzio e affinato gli strumenti di relazione senza l'uso della parola.

Tutto questo è il simbolo del paradigma monacale, che ci descrive forse a verità della vita e della ricerca di Swami Abhishiktananada. In un inno dei Veda forse troviamo la descrizione del suo sogno:

«In lui c' è il fuoco, in lui l'acqua;
la terra e il cielo sono in lui.
Egli è il sole che il mondo intero contempla,
la luce stessa, l'asceta dai lunghi capelli.

Cinti di vento, fango d'ocra è il loro vestito.
da quando gli dèi sono in loro penetrati
vanno seguendo le ali del vento
gli asceti del silenzio.

Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,
i venti abbiamo soggiogato come destrieri.
E voi, comuni mortali, quaggiù,
non potete vedere oltre i nostri corpi.

Fra cielo e terra, librandosi nell'aria,
dall'alto egli mira la forma di ogni cosa
Si è fatto, l'asceta silenzioso,
amico e collaboratore di tutti gli dèi.

Cavalca i venti, compagno del loro soffio
dagli dèi inspirato.
Sta nei due mari
a Oriente e a Occidente, il silenzioso asceta.

L'orma segue di tutti gli spiriti,
delle ninfe e degli animali della foresta.
I pensieri loro conosce e, con l'estasi innalzato,
ne diviene dolce amico, l'asceta dai lunghi capelli.

Il vento ha preparato e mescolato per lui
una bevanda spremuta da Kunamnama (energia degli dèi)
Con Rundra (dea della morte) ha bevuto alla coppa del veleno,
l'asceta dal lunghi capelli».

In questo modello, ben chiaro e ben presente ancor oggi in India (come anche tra gli aborigeni dell'Australia, dell'America latina e in molte culture africane) è da collocare il posto di Henri Le Saux, ricercatore dell'Assoluto. A questo modello si collegano molte pratiche sciamaniche, come anche l'uso delle droghe di tanti asceti orientali. «Chi ne abusa, tradisce le piante sacre», diceva Aurobindo in un opuscolo, L’abuso delle droghe chimiche per una esperienza spirituale, tradotto anche in italiano dall'ashram di Pondicherry: «Chi usa le droghe chimiche per giungere alla esperienza spirituale, non farà esperienza spirituale e tradirà il motivo per cui il Creatore le ha messe nel mondo».

Di fronte a queste esperienze noi rischiamo di peccare per un eccesso di razionalità, e non possiamo così comprendere coloro che hanno spezzato il legame con il razionale.

Conclusione

Non si tratta di demonizzare né tanto meno di annullare una delle proposte o uno dei modelli di monachesimo, ma di accettare che Le Saux sia una sfida cosciente alla cultura storica del nostro tempo. Occorre ricuperare l'entusiasmo di una perfezione umana staccata dal cielo e dalla terra. Dovunque esistano tempeste, tragedie e angosce, il monaco hindu non le nega, ma non ne fa una teoria per tutti, e la sua vita lancia una sfida senza speculare, senza razionalizzare, senza voler tutto spiegare. Ciò che egli nega è la storia, l'evoluzione, la razionalità come motivazione ultima delle cose.

Raimon Panikkar, grande amico e studioso di Henri Le Saux, avrebbe dovuto ricordarlo al mio posto qui a Camaldoli, ma nella sua lettera ad Abhisiktananda ha lasciato il commento a questa vita e a questa esperienza tanto ricca quanto problematica. In questo modo Raimon Panikkar conclude la sua lettera, descrivendo il monaco acosmico, il monaco in ricerca dell'Assoluto, tutti i sadhu dell'India e quindi anche il monaco Henri Le Saux:

«Egli ama, beve, danza, mette in pericolo la propria vita, è l'amico di tutto e di tutti; non si cura dei discorsi, non si mette a scrivere libri, non si difende. È il silenzioso, colui che non ha nulla da dire. Non vuole essere imitato da nessuno, perché lui stesso non ha modello.
È spontaneità pura, pura libertà. La sua vita non è camminare su una via. Per Lui il mondo è l'esplosione della libertà, che i mortali ragionevoli vogliono sottomettere e dirigere verso un punto omega, verso un Dio, verso un eschaton o una fine entropica.
Però questo monaco non è nemmeno l'anarchico che provoca rivoluzioni e distrugge gli altri. Al contrario, si fa collaboratore del divino: è sauktrya, fautore di bene (cfr. ergon agathon della scrittura cristiana); egli ha scoperto di vivere nella antariksa, la regione intermedia tra cielo e terra, il mondo mediatore da dove procede l'energia universale e che è il legame di tutta la realtà. Questa antariksa, che come dice l'Atharva Veda (1, 32), ci ricorda che “l'universo è ogni giorno fresco, come le correnti del mare”» (12).

In ultima istanza, è lui che beve la coppa del veleno, il calice della croce, e che perde la sua vita, forse. Ma nessun utilitarista, anche se si proclama «realista spirituale», potrà mai comprenderlo. E qui appare la differenza tra la cultura occidentale, soprattutto quella moderna, e la cultura indiana tradizionale, che gli apre uno spazio ben più vasto di quello accordato un tempo in Occidente al matto del villaggio. Il monaco si trova allora in una sorta di simbiosi soprattutto con il popolo, ma anche con i potenti, che vedono in lui ciò che loro stessi non sono stati in grado di realizzare. Forse l'inno dei Veda ha saputo riconoscere che vi è anche un monaco in ogni uomo, cioè un essere unico (monachos) e dunque incomparabile, irriducibile a qualunque schema? Non sarà forse che la cultura tecnocratica temporanea, invece, dietro una facciata di una democrazia egualitaria e di un ordine suscettibile di essere dettato dai computer (gli «ordinatori», quelli che classificano), vuole ridurci ad un comune denominatore, considerandoci semplici numeri? Non sarà piuttosto che questo archetipo monastico di cui stiamo parlando è il seme dell'unico «eroismo» che è ancora presente in ciascuno di noi? Qualunque sia la risposta che si dà a queste domande, è certo che la forza di questi monaci, di questi kesinah, di questi muni, di questi sannyasin, è una sfida costante e un esempio che continua ad ispirare «i pochi saggi che il mondo ha annoverato» (fra Luis de Leon). «La rinuncia ha oltrepassato gli ardori» (Mahanarayana Upanishad, 568).

Si può tracciare una sintesi, da una parte, tra i due modelli di monaco e, dall'altra, tra il paradigma monacale e la vita cosiddetta moderna? La forza della Bhagavad-Gita contiene, mi sembra, lo sforzo per giungere alla prima sintesi: essere in comunione con l'universo, avere coscienza di dover mantenere l'ordine cosmico, non restare attaccati ad alcunché e compiere la propria opera senza volerla giustificare attraverso i risultati.

Per quanto riguarda la seconda sintesi, quella che dovrebbe cioè realizzarsi tra la spiritualità tradizionale, che potremmo chiamare la «santa semplicità», e l'ideale moderno della «complessità armoniosa», essa si rivela essere il compito e la sfida della nostra epoca.

NOTE

1. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

2. MURRAY ROGERS, Testimonianza, riportata nell'opuscolo citato alla nota precedente.

3. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Lettera del settembre 1973 in Lettere e scritti, cit.

4. HENRI LE SAUX, Diario spirituale di un monaco cristiano-sannyasin-hindou 1948-1973, a cura di Raimon Panikkar, Mondadori, Milano 2002.

5. ABRISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

6. HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994.

7. Cfr. Diario spirituale..., Op. cit., pp. 255-263 (28 novembre 1956).

8. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, cit.

9. Il racconto dell'incontro si può leggere in HENRI LE SAUX, Ricordi di Arunachala, Messaggero, Padova 2004, pp. 197-208.

10. Cfr. RAIMON PANIKKAR, I Veda. Mantramanjari (Testi fondamentali della tradizione vedica), Rizzoli, Milano 2001.

11. Ivi, pp. 588-589.

12. RAIMON PANIKKAR, Lettera ad Abhishiktananda in HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994, p. 165.

(da Vita monastica, n. 231, pp.32-55)

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 10 Novembre 2005 00:30

Gesù l’africano (Pier Maria Mazzola)

Gesù l’africano

di Pier Maria Mazzola

Racconta padre Renato Kizito Sesana che, un giorno, nel centro per ex bambini di strada che ha fatto sorgere in Zambia, ebbe l'idea di porre una domanda ai piccoli ospiti: «Chi è Gesù per te?». «Gesù è il mio cuore», fu il tenore di buona parte delle risposte. Oppure: «È come mia nonna, che m'ha voluto bene più di chiunque altro». «Ma Bernard - ricorda il comboniano -, invece che un foglietto, porta una scultura abbozzata su legno. Bernard ha 11 anni. È con noi da tre, dopo aver vissuto in strada per due e aver lasciato per sempre una famiglia, che oggi non esiste più: tutti gli adulti sono morti di aids. Mi mostra un volto scolpito, a fianco dell'illustrazione del catechismo da cui ha cercato di copiarlo. La somiglianza è approssimativa, ma la differenza più grande è che il Gesù di Bernard ha un ampio sorriso. Come mai, Bernard? "Gesù è conten­to perché io sono vivo"».

È Fonte di Vita e Guaritore: è il Mediatore e l'Antenato; è l'Amato, Amico e fratello; è il Leader, Capo e Liberatore. Sono queste le principali risposte alla domanda che una docente di teologia a Nairobi, la canadese Diane Stinton, ha posto a teologi, a pastori e a laici - sia cattolici che protestanti - in Ghana, Uganda e Kenya: «Chi è Gesù Cristo per te, Africa? Chi dici che egli sia?».

È una domanda che esce dal cuore del Vangelo e sulla quale si sono già letti diversi lavori (un titolo per tutti: Cristologia africana, Paoline, 1987). Ma la ricerca non può fermarsi: perché è nella relazione con Cristo che la fede nasce, cresce, si purifica e mette radici. Tutte le altre questioni - ecclesiologiche, giuridiche o morali che siano - hanno senso solo in quanto ancorate al momento cristologico.

Il volume della Stinton, Jesus of Africa, appare come una vera e propria inchiesta sui volti di Gesù. Un esempio. Confessare che «Gesù è mganga» (guaritore) non è un'affermazione così pacifica. Questa figura tradizionale, benché necessaria, è portatrice, secondo alcuni degli intervistati, anche di connotazioni negative. Di queste sono responsabili non solo la "cattiva stampa" dei missionari nel passato, ma anche certi atteggiamenti dell'uomo della medicina, a cominciare dalla sua familiarità con gli spiriti, che inducono timore, se non diffidenza, nei suoi confronti. «Per me, ad ogni modo - spiega, nella sua lingua, un'anziana donna del Ghana, protestante - Gesù è molto, molto, molto, molto più grande del tsofatse».

D'altra parte, Gesù stesso non usava forse le tecniche dei taumaturghi del suo tempo? Solo che non si limitava a far recuperare la salute, ma «nella sua stessa persona ha offerto la liberazione per il malato, il peccatore, il depresso, lo straniero, l'emarginato, il povero e il ritualmente impuro» (Aylward Shorter).

Fili e perline

Beads and strands ("Perline e fili") è una piccola perla. È una sorta di testamento spirituale di Mercy Amba Oduyoye, una delle autrici di riferimento di Diane Stinton. Donna akan del Ghana, metodista, antesignana della teologia africana al femminile, Amba ci consegna una serie di riflessioni da vera "madre della chiesa", intrise di sapienza e autorevolezza. Alla medesima collana, "Theology in Africa Series", appartengono altri due titoli: Christians and Churches of Africa, di Kà Maria, e Jesus and the Gospel in Africa, di Kwame Bediako.

Anche quest'ultimo, un pastore presbiteriano, nella sua miscellanea di articoli in vista di un'«era postmissionaria», non trascura la cristologia, vista «in una prospettiva ghaneana». Degno di nota il suo commento alla Lettera agli ebrei, che definisce «la nostra epistola!», a motivo della sua «rilevanza per società, come le nostre, con profonde tradizioni sul sacrificio, la mediazione sacerdotale e la funzione degli antenati. Ebrei mostra Gesù come risposta alle aspirazioni spirituali cui la nostra gente ha sempre cercato di soddisfare attraverso le tradizioni». Tradizioni che, per altro, egli non "canonizza". Sul versante politico, Bediako non esita a qualificare come «ontocrazie» le società etniche ove vige «una stretta associazione tra autorità religiosa e potere politico». Ora, «storicamente, il cristianesimo è stato una forza desacralizzante». Verità da tenere presente, soprattutto quando si ha a cuore l'avvento, sinora faticoso, della democrazia in Africa. «L'idea di Gesù sulla questione "politica e potere" non è un'idea di dominazione, di autosoddisfazione o autoritativa, ma è un'idea di salvezza, di redenzione, di servizio».

«Perché restiamo bloccati?»

La preoccupazione che la teologia debba stare in costante ascolto dell’anima dell'Africa e, al contempo, essere proiettata verso il cambiamento delle condizioni socioeconomiche, culturali e persino psicologiche del continente, è ormai sempre più condivisa dai teologi africani, e scavalca le scuole di pensiero cui essi appartengono. Ancora la Stinton sottolinea, citando il keniano Jesse Ndwiga Kanyua Mugambi, che, nella scia di Jean-Marc Ela, anche altri (John Pobee, Bénézet Bujo, Aniba Oduyoye, Anne Nasimivu Wasike...) hanno «lavorato alla sintesi tra inculturazione e liberazione». Il frutto più maturo di tale sforzo sarebbe la teologia della ricostruzione (Nigrizia, 7/04, 54), il cui esponente di punta è il congolese Kä Mana.

Nella sua riflessione, Ka Mana si arrovella sulla domanda: «Perché noi africani non riusciamo a rispondere adeguatamente alle sfide del nostro destino?». «Il nostro problema - considera il teologo - è la penuria di significato che tende a caratterizzare la nostra esistenza». In altre parole - prese in prestito dal sociologo Achille Mbembe - «la sfida consiste nel creare un'altra immagine di noi stessi nel mondo». Anche per affrontare tale sfida si rivela decisivo, per Kä Mana, il passaggio cristologico: fare perno sul rapporto di Gesù con la sua morte (e risurrezione), per «rivitalizzare lo spazio mitologico africano», perché l'uomo africano ritrovi autofiducia.

In tutt'altro stile è un'opera minore, ma a suo modo degna di nota: L'imitation, spiritualité chrétienne africaine. Muovendo da un punto di partenza inconsueto (la quattrocentesca Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis), il burkinabé Jules Pascal Zabre mostra come lo schema dell'imitazione - centrale, in Africa, nell'educazione dei più giovani - corrisponda alla sequela Christi, e anche a un tratto antropologico fondamentale. Quest'ultimo aspetto non appare granché convincente, a differenza delle pagine sull'iniziazione. Rimane il fatto che, anche in questa ricerca, il fulcro è la persona di Gesù.

(da Nigrizia, aprile, 2005)

Pubblicato in Teologia

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