Gesù il bambino
di Enzo Franchini
Si potrebbe anche cominciare dall'icona che O. Wilde traccia di Gesù - bellissima ed equivoca - per capire quale tentazione possa essere per noi la sublimazione dei simboli: «Il posto di Cristo è tra i poeti. Tutto il suo modo di concepire l'uomo balzò dalla sua immaginazione, e soltanto per mezzo dell'immaginazione può essere concepito. (...) Prima del suo tempo vi erano stati uomini e dèi. Lui solo vide che a un livello superiore di realtà non c'è che Dio e Uomo, e sentendoli entrambi incarnati in sè col misticismo dell'amore, chiama se stesso Figlio dell'Uno e figlio dell'altro. (...) Egli ridesta in noi quell'inclinazione al meraviglioso che è sempre attratta dalla poesia. Vi è tuttavia per me qualche cosa di quasi incredibile nell’idea che un giovane contadino di Galilea abbia immaginato di poter reggere sulle spalle il fardello dell'umanità intera (...) i peccati di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI (...); e non solo l'abbia immaginato, ma ne abbia fatto una realtà, cosi che oggi chiunque venga in contatto con la sua personalità anche se non si inchina ai suoi altari nè piega il ginocchio davanti ai suoi sacerdoti, trova tuttavia che in qualche modo la macchia dei propri peccati è cancellata e gli è rivelata in cambio la bellezza del proprio dolore».
Il testo continua con un sobrio paragone con grandi miti poetici (compresi Eschilo, Dante, Shakespeare e le mitologie celtiche), per dire che non è nemmeno possibile il paragone con altri miti, quando il Cristo Gesù condensa in se stesso un tale cumulo di simboli, a ogni tappa della sua vita, da doversi dire che «la sua vita stessa è il più stupendo dei poemi. Quanto a "pietà" e "terrore" (ciò che Aristotile chiede nella sua Poetica, in nota) non esiste nulla che vi si avvicini nell'intero ciclo della tragedia greca».
E poi: «Non vi è nulla che per pura semplicità di pathos, fusa e accoppiata con una sublimità di effetto tragico, possa uguagliare l'ultimo atto della passione di Cristo o anche solo avvicinarvisi. La parca cena con gli amici, uno dei quali lo ha già venduto per denaro; l'agonia nell'oliveto silenzioso illuminato dalla luna; il falso amico che gli si accosta per tradirlo con un bacio; l'amico (...) che lo rinnega mentre il canto del gallo annuncia l'alba vicina; la sua completa solitudine, la sua sottomissione, il suo consenso totale (...) Pure. l'intera vita di Cristo - così totalmente Dolore e Bellezza possono fondersi nel significato e nelle manifestazioni - è in realtà un idillio», che il poeta descrive per una quindicina di pagine, tra le più ispirate di quell'ammirabile sfogo che è il suo De profundis (1).
Il sublime non salva
Pagine come queste hanno almeno il merito di riscattare la riflessione cristiana da quelle bambinerie decadenti - o da quel dolorismo rivoltante - in cui si bagnano certe devozioni. È necessario l’istinto del grande e del bello per non immeschinire la rivelazione dentro il nostro languore.
Eppure Gesù non si è incarnato per dare spettacolo. Era lontanissimo dal volersi dimostrare più bello e più bravo degli altri Non si sfugge al rischio di romanticheggiare sull’eroe, se non si decide di guardare Gesù per come si trova, umanamente solidale con gli ultimi, coscientemente deciso a stringersi nei loro stessi limiti, salvo il peccato
Non c'è niente di più serio - di più autentico - del suo farsi uomo, oltre tutto in periferia, dove le condizioni igieniche, alimentari, familiari, civiche, lavorative erano tali che ci disgusterebbero di sicuro, se toccasse a noi di approvarle.
La convivenza di Gesù con gli uomini è il capovolgimento dello stentoreo. Se lo si togliesse dalla sua piccolezza, lo si altererebbe. È per farsi piccolo che l'infinitamente Eccelso si è fatto uno di noi. Per poter avere un cuore come noi. Per esserci solidale dal di dentro della nostra mediocre misura.
Se ciò nonostante la vita di Gesù esplode per ineguagliabile, inaspettata bellezza, non è mai a scapito della sincerità con cui Gesù - senza una pietra dove poggiare il capo, bisognoso di inventare giorno dopo giorno gli espedienti per campare, e così perseverare nella sua missione - si "indigenizza" nella normalità dei poveri. La Dimora deve cercare alloggio tra di noi. Il Cibo si nutre di noi. Lui, la Salvezza, ha bisogno d'aiuto e di compassione. Lui solo è la nostra speranza, perchè ha avuto bisogno di sperare lui per primo.
Il Modello delle beatitudini fiorisce di un'insospettata bellezza, ma solo perché resta fedele alla sua scelta di non sopraffare la piccolezza, che è la sua livrea.
Ed ecco il Bambino come segno: sia nel senso infantile del termine sia nel significato traslato di servo, di ragazzo d'opera, che ben presto il Figlio dell'uomo rivendicherà come stato sociale.
La storia cristiana d'occidente ha una sua rottura. che le permetterà una ripresa non ancora esaurita: e il segno del Bambino diventa il punto della svolta.
Non occorre stare altro che ai riti di fatto: il primo medioevo si stacca dalla sua aspra interpretazione "imperiale" del cristianesimo, quando riscopre con devozione l'umanità umilissima di Gesù: e - in modo tutto particolare - proprio la devozione a Gesù Bambino. Francesco e il suo presepio. Antonio. che si raffigura con il Libro in mano, oppure con il Bambino in braccio, oppure con tutt'e due, così che il Bambino sembra essere contenuto dal Libro; e poi l'iconografia, luoghi di culto, la prassi devozionale, si dilungano sul Bambino, fino al rischio di far dimenticare che il cristianesimo è anche crisi e Giudizio.
Nunc dimittis
Non siamo mai capaci di leggere integralmente il simbolo. Del resto è nella natura stessa del simbolo ispirare continuamente oltre se stesso. Quando però il simbolo si estenua in immagine, si spegne nel consueto e determina quella "normalizzazione" che è il limite di tutte le devozioni. Il punto irrinunciabile per comprendere l'infanzia di Gesù senza sbavature decadenti o romanticheggianti, sta nell'affermazione che l’incarnazione è un evento trinitario. Non si può separare la Trinità "immanente" e la Trinità "economica", in modo da fare dell’"economia" dell'evento cristiano un luogo interiore una specie di accomodamento per cui saremmo autorizzati a lasciare il Dio del cielo per interessarci solo del clima religioso nostrano, dice la Commissione teologica internazionale. La quale continua «l’economia della salvezza manifesta che il Figlio eterno assume nella sua propria vita l'evento "kerotico" della nascita, della vita umana e della morte in croce. Tale evento, in cui Dio si comunica in modo assoluto e definitivo, riguarda in qualche maniera l'essere proprio dì Dio Padre, in quanto è il Dio che compie questi misteri e li vive come suoi in unione con il Figlio e con lo Spirito santo. Non solo infatti nel mistero di Gesù Cristo, Dio Padre si rivela e si comunica a noi liberamente e gratuitamente mediante il Figlio e nello Spirito Santo, ma il Padre con il Figlio e lo Spirito santo conduce la vita trinitaria in una maniera profondissima - almeno secondo il nostro modo di pensare - in qualche modo nuova in quanto il rapporto del Padre al Figlio incarnato nella consumazione del dono dello Spirito è la stessa relazione costitutiva della Trinità».
Gesù, manifestazione della vita trinitaria: e questo per definizione, così che chi vede lui vede il Padre (Gv 12.45;14.9). Per capire Dio, occorre adorare con assoluta fedeltà l'immagine che, coi il suo vivere umano, Gesù traduce con autenticità.
La tendenza è quella di guardare alle "azioni di ruolo" di Gesù, là dove Gesù si propone ufficialmente come il Figlio in atto di compiere gli interventi alla redenzione che soltanto lui è in grado di compiere. Ma i grandi gesti per cui Gesù è sacerdote e re sono suoi, soltanto suoi. Si tratta di sapere se il suo "privato personale (per adoperare un’espressione consueta) non sia altrettanto importante. E, di fatto, lo è. La redenzione proprio in questo consiste: la nostra vita e la nostra morte vengono assunte nell’umanità di Gesù e in tal modo metabolizzate. Non sarebbe salvato ciò che Gesù non avesse inteso far proprio, per mezzo di una solidarietà che mette in comunione la nostra vita con la sua vita. Anche nei gesti più quotidiani. Compresa la sua debolezza, inclusa la "piccola" esistenza di Gesù bambino. Se Gesù si fosse incarnato solo per operare quei momenti sommi che, poi, avremmo celebrato nelle feste liturgiche, non sarebbe ancora il nostro salvatore. Gesù è redentore in quanto prende esattamente la vita degli uomini per come è fatta, per trasfigurarla in sè stesso. Ciò che noi saremmo tentati di chiamare "privato personale" di Gesù è, i, realtà, la consistenza stessa della sua insuperabile solidarietà.
Non basta. perché in questo suo farsi come noi ci rivela il Dio eterno che ci si fa vicino e si "trasferisce" nella nostra esperienza dimostrandosi capace di umanità. L'assoluto intraducibile si "narra" a noi tramite il suo Unigenito (Gv 1,18) la cui vita, somigliantissima alla nostra vita, ci riporta alla somiglianza nostra con Dio.
Non si finirà mai di aderire ai "misteri" della vita di Gesù - compresa la sua vita "nascosta", privata-personale – per poter avere comunione con Dio: Dio in noi e noi in Dio.
In particolare l’infanzia di Gesù è essa stessa salvezza. Giustamente il profeta Simeone può salutarla come l’adempimento dato il quale egli sa che la sua speranza è adempiuta: può cantare il nunc dimittis.
In quella piccolezza si rivela l’azione stessa di Dio, per come era stata promessa: Gesù è il Germoglio (che è il nome tipico del Messia che sarebbe intervenuto a salvezza apparendo come una cosa da niente: Is 4,3; GR 23,5; 33,15-16; Zc 3,8; ecc.): la nuova nazione dei redenti sarebbe insorta da lì. È niente più che la punta del cedro che, trapiantato dal Libano, sarebbe diventata la vigna del Signore (Ez 17,3). È la piccola pietra la cui caduta avrebbe infranto il grande feticcio /Dan 2,31). Non è questione di esaltare il piccolo come bello. È questione di riconoscere il Dio altissimo che si rivela come umile, tale da assomigliarsi pienamente alla "narrazione che ne fa Gesù anche nel tempo della sua infanzia.
Gesù non avrebbe proposto un bambino come modello del Regno, se lui non fosse stato tale, rimanendolo per sempre: nè lo avrebbe proposto se proprio in questo modello non si fosse rivelato il Padre, che non soltanto compatisce i piccoli, ma li ama, facendoli simili a sè.
È in questa luce che il simbolismo troppo epico – e così terrenamente contaminato – di un Oscar Wilde, riceve un significato del tutto più intenso e rivelatore.
In questa luce, il devozionalismo volta a volta crepuscolare, dolorista oppure romantico di chi crede di farsi intimo di Gesù, anche se in realtà non fa che proiettare su Gesù il suo stesso sentimentalismo, viene riscattato dalla luce teologale.
Resta il dovere di rimanere aderenti alla vita di Gesù (anche privata personale) per entrare nel senso cristiano pieno.
La santa mediocrità
Non è ancora abbastanza: perché Gesù si è fatto piccolo come noi per andare ai piccoli. È l'incredibile solidarietà. per cui Colui che era, che è e che viene si è fatto come noi, che dice il senso pieno del suo essere come noi.
È tenerissimo - ed è teologale - il culto a Gesù bambino, ma non è sufficiente perché Gesù stesso non l'ha reputato tale: ha avuto bisogno dei piccoli per farsi come loro; e noi non potremmo più staccare la sua immagine da quella dei suoi "modelli"'.
Non è per una semplice conseguenza caritatevole che il Natale consiglia all'intera cristianità di diventare più buona (cosa, per altro, che avviene intensamente: e non bisognerebbe disprezzare tanto questo buonismo d'occasione...). Non è nemmeno per associazione di idee - visto che Gesù si è fatto piccolo, è il caso di farci venire in mente i piccoli di oggi -: un'associazione del genere sarebbe ancora a stampo etico, e non teologale.
È elementare convincersi che Gesù ci dà appuntamento lì, tra i piccoli e i poveri, perché lui si trova ormai lì dentro. È la fede nel mistero - e non il nostro "operobuonismo – che comporta la nostra cittadinanza tra i poveri. per continuare la verità dell'incarnazione di Gesù fattosi piccolo. Malgrado le esasperazioni sociologiche anche recenti, resta in gran parte vero che "l'esegesi dei poveracci" - quella lettura della redenzione a partire dai famosi sotterranei della storia - non può essere sostituita dall'esegesi dei dotti.
Noverim te, noverim me, pregava s. Agostino, che nella comprensione di chi sia Dio e di chi sono io vedeva il congiungimento degli estremi e, dunque, la possibilità di comprendere tutto. È così forzoso leggere: noverim te, noverim pauperes? Non si tratta di un’alternativa: si tratta di capire l’incarnazione nel suo luogo adeguato, che è l’umanità degli ultimi tra i quali dovrò io stesso annoverarmi.
Non basta essere poveri per essere salvi, e la salvezza non la si declama dichiarando il diritto dei poveri ad avere giustizia: che è un semplicismo in contrasto con Gesù stesso, che è povero alla maniera delle beatitudini e che presenta il fanciullo quale modello perchè il fanciullo sa credere mentre i dotti non hanno alcuna intenzione di disarmare la loro giustizia, per impararne un'altra.
Però non si possono non stimare i mediocri, gli insufficienti. gli storpiati spirituali, non perché siano fatti così ma perchè Gesù si è fatto a loro livello, li serve, lava loro i piedi trova interessantissimo il loro "privato-personale", tant'è vero che è ben deciso a riscattarlo, come cosa preziosa, da recare in dono a Dio. O Dio salva quel loro modestissimo privato - che costituisce la materia della loro personalità - oppure non sarebbe vero ch'egli salva per davvero l'uomo. Egli colloca il mistero dentro la loro povertà, non per esaltarla (che sarebbe ipotesi offensiva!) ma per trasfigurarla, dopo averla assunta come cosa sua.
È così che il Germoglio si innesta sul vecchio ceppo corroso: così la piccola punta del Cedro si dilata fino a vivificare la vigna del Signore.
Anche questo è Natale, anche la straordinaria profezia sui poveri, che non per quello cessano di essere mediocri e probabilmente cattivi. Un Natale non tanto per le nostre opere buone, ma per l'opera buona di Dio, fatto uomo come noi.
Note
1) Wilde O., De profundis, Longanesi, 1984, pp.79-81.
2) Commissione Teologica Internazionale, Cristologia e antropologia, in Regno-doc, 5/1983/145.