In ricordo di P. Franco

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Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto

Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?

A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?

Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:

  • L'ecclesiocentrismo esclusivista: è frutto di un determinato sistema teologico, o di un'errata comprensione della frase extra Ecclesiam nulla salus, ma non è più difeso dai teologi cattolici, dopo le chiare affermazioni di Pio XII e del concilio Vaticano II sulla possibilità di salvezza per quelli che non appartengono visibilmente alla chiesa (cf., per esempio, LG 16; GS 22.
  • Il cristocentrismo: accetta che nelle religioni possa esserci la salvezza, ma nega loro un'autonomia salvifica, a motivo dell'unicità e dell'universalità della salvezza di Gesù Cristo. Questa posizione è senza dubbio la più comune tra i teologi cattolici, pur essendoci differenze tra loro. Essa cerca di conciliare la volontà salvifica universale di Dio con il fatto che ogni uomo si realizza come tale all'interno di una tradizione culturale, che ha nella propria religione la più alta espressione e l'ultimo fondamento.
  • Il teocentrismo: vuole essere un superamento del cristocentrismo, un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione copernicana. Questa posizione deriva, tra gli altri motivi, da una certa cattiva coscienza dovuta all'intreccio dell'azione missionaria del passato con la politica coloniale, talvolta anche dimenticando l'eroismo che accompagnò l'azione evangelizzatrice. Esso vuole riconoscere le ricchezze delle religioni e la testimonianza morale dei loro seguaci e, in ultima istanza, intende facilitare l'unione di tutte le religioni in vista di un'azione comune per la pace e la giustizia nel mondo. Possiamo distinguere un teocentrismo nel quale Gesù Cristo, senza essere costitutivo, è considerato normativo della salvezza e un altro nel quale non si riconosce a Gesù Cristo neppure questo valore normativo. Nel primo caso, senza negare che anche altri possano mediare la salvezza, si riconosce in Gesù Cristo il mediatore che meglio la esprime; l'amore di Dio si rivela più chiaramente nella sua persona e nella sua opera, ed è così il paradigma per gli altri mediatori. Tuttavia senza di lui non si rimarrebbe senza salvezza, ma soltanto senza la sua manifestazione più perfetta. Nel secondo caso, Gesù Cristo non è considerato nè come costitutivo né come normativo per la salvezza dell'uomo. Dio è trascendente e incomprensibile, quindi non possiamo giudicare i suoi disegni con le nostre categorie umane; come, del resto, non possiamo valutare o mettere a confronto i diversi sistemi religiosi.
  • Il soteriocentrismo radicalizza ancor più la posizione teocentrica, essendo meno interessato alla questione su Gesù Cristo (ortodossia) e più all'impegno effettivo di ogni religione nei confronti dell'umanità che soffre (ortoprassi). In tale prospettiva, il valore delle religioni sta nel promuovere il Regno, la salvezza, il benessere dell'umanità: questa posizione può così essere caratterizzata come pragmatica e immanentistica.

La questione della verità

Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.

Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.

La questione di Dio

C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.

Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.

Il dibattito cristologico

Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.

La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?

Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.

Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.

Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).

La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.

Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.

Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.

Una certa funzione salvifica

Il documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.

In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?

Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.

L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).

A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.

Cristo, pienezza della rivelazione

Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.

Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.

Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.

Dialogo interreligioso

Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.

A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.

La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.

Annuncio della verità che è Cristo

Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).

Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:

1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;

2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.

Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.

In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.

Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità

Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.



Cosa dicono gli altri

Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo

Gesù per gli ebrei

Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».

Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».

Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».

Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».

Gesù per l'islam

Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».

Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.

Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.

Gesù per l'induismo

Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.


(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)

Pubblicato in Teologia

Teilhard de Chardin.
Profeta di una coscienza planetaria
di Serge Lafitte

Avevo guardato con simpatia quel lungo volto energico e fine, i cui tratti accentuati da rughe precoci sembravano scolpiti nel legno duro. L'occhio scintillante e vivace aveva qualche cosa di ridente senza essere ironico. Parlava con la vivacità e l'animazione propria di coloro che si appassionano. La sua parola era avvincente, arrivava fino all'anima, con quella potenza persuasiva che è propria degli apostoli. L'autore di questo incisivo ritratto di Pierre Teilhard de Chardin è Henri de Monfreid. Siamo nell'aprile 1926, il Pirata del mar Rosso ha incontrato il gesuita paleontologo sulla nave che porta quest'ultimo in Cina. Personaggio alla Joseph Kessel, trafficante di armi e di hascish, avventuriero e presto scrittore, Monfried ha riconosciuto, al di là di tutto quel che li separa, un uomo della sua tempra. Anche il reciproco è vero. E sigilla un'amicizia che non verrà più meno.

Abbiamo capito: incrociare la strada di Teilhard, come lo chiameranno gli amici, non può suscitare l'indifferenza! Nato il 1° maggio 1881, è il quarto degli undici figli di una famiglia molto cattolica, il cui motto gli si adatta come un guanto: “Dal fuoco è la loro forza, dal cielo è la loro nascita”. Per desiderio del più perfetto ha scelto, a diciassette anni, la Compagnia di Gesù, la cui formazione gli ha dato un gusto profondo per la filosofia e la teologia. Ma è la scienza che attira soprattutto questo appassionato di geologia. Dopo la sua ordinazione al sacerdozio, raggiunge, nel 1912, il laboratorio di paleontologia del Museo di storia naturale di Parigi. Mobilitato come barelliere nel 1914, il giovane sacerdote ritorna dall'inferno delle trincee bardato di decorazioni e definitivamente segnato da quel “battesimo nella realtà” che lo ha fatto avvicinare all'umanità in quel che ha di peggio e di meglio.

Uno spirito libero

Ma il cattolico idealista guarda ormai con occhio critico una Chiesa che giudica troppo lontana dalle realtà umane. Divenuto professore all'Institut catholique di Parigi, ha ottenuto con successo il dottorato in geologia nel 1921 e continua delle ricerche che gli valgono, nel 1923, il premio della Société géologique de France. Valutazione della commissione: “Osservazione penetrante, associazione preziosa quanto rara del gusto della fine analisi con quello dalla potenza di sintesi, grande indipendenza di spirito.” Ma al contrario, nella gerarchia cattolica tali qualità intellettuali susciteranno meno entusiasmo… Come scienziato convinto che l'umanità è il prodotto del lungo processo dell'evoluzione, il religioso ritiene che la teologia cattolica dovrebbe, in conseguenza, rivedere la sua interpretazione della Creazione divina e del peccato originale commesso da Adamo ed Eva.

Nell'epoca in cui la Chiesa romana considera ancora la teoria dell'evoluzione come una delle più pericolose fra le teorie materialiste, la sua intrusione proprio nel seno dell'istituzione fa presto a spaventare i custodi dell'ortodossia. Effettivamente, è un “esiliato” che nel 1926 prende la via della Cina per continuarvi delle ricerche avviate in occasione di una missione scientifica nel 1924. Un soggiorno durante il quale ha scritto uno dei suoi testi più mistici, la Messe sur le Monde. L'esilio è il risultato delle pressioni del Vaticano per allontanare da Parigi un conferenziere le cui idee suscitano già troppa eco nei circoli cattolici soffocati da una teologia che, per l'essenziale della sua concezione del mondo, non ha quasi avuto alcuna evoluzione dal Medioevo e Tommaso d'Aquino. Il cristianesimo, ritiene invece Teilhard de Chardin, “mi appare ora molto meno come un insieme chiuso e costituito che come un asse di progresso e di assimilazione. Fuori di questo asse non vedo al mondo alcuna garanzia, alcuna via di uscita. Ma intorno a quest'asse intravedo una quantità immensa di verità e di atteggiamenti ai quali l'ortodossia non ha ancora fatto posto”.

Disciplinato, lui che si rivendica come un super cattolico, ha obbedito agli ordini dei superiori gesuiti. Teilhard de Chardin passerà così una ventina d'anni in Cina, intervallati da brevi ritorni in Francia e vi acquisterà un riconoscimento scientifico internazionale. Partecipa in particolare alle ricerche che scoprono il sinantropo, uno degli antenati asiatici dell'uomo. Egli che non vuole“lasciar perdere alcuna occasione di sperimentare e di ricercare” fa parte anche della “Crociera gialla”, una spedizione sulla Via della seta organizzata con l'appoggio del costruttore di automobili André Citroën. Tutto questo non gli impedisce di approfondire una riflessione che unisce scienza, teologia e voli mistici centrati sulla figura di Cristo. Così ha riassunto il suo Credo: “Io credo che l'Universo è una Evoluzione. Io credo che l'Evoluzione va verso lo Spirito. Io credo che lo Spirito nell'Uomo si completa nel Personale. Io credo che il Personale è il Cristo-universale”.

Frutti di questa ricerca appassionata, vari dei suoi testi più ambiziosi, come le Milieu divin o le Phénomène Humain sono stati elaborati durante l'esilio cinese. Ma, in
conseguenza dell'interdetto romano, e della sua obbedienza di gesuita
straziato, non saranno pubblicati, come tutti gli altri suoi scritti,
che dopo la sua morte, avvenuta il 10 aprile 1955 a New York, il giorno
di Pasqua… Nel frattempo, dopo il ritorno dalla Cina nel 1946 e un
primo allarme cardiaco, il paleontologo ha potuto effettuare due
soggiorni scientifici nel Sudafrica. Si è meravigliato che “l'Africa non sia stata identificata fin dal primo momento come la sola regione del mondo dove ricercare, con qualche possibilità di successo, le prime tracce della specie umana…” Una ipotesi promessa a un bell'avvenire scientifico.

L'idea di noosfera

Sul versante religioso, il tentativo di sintesi tra scienza e fede cristiana di Teillhard è indubbiamente collegato con il rinnovamento intellettuale che ha consentito al concilio Vaticano II, negli anni '60, di aprire finalmente la Chiesa cattolica alle realtà del mondo moderno. Ma, sovrabbondanti e spesso ardue come sono, le sue riflessioni non sempre hanno potuto raggiungere il loro obbiettivo teologico. Troppo mistico, forse, o troppo sconcertante nelle sue audacie concettuali dagli accenti profetici. Dopo essere caduto in una relativa dimenticanza, Pierre Teilhard de Chardin, paradossalmente, è risorto al di fuori della sfera cattolica alla fine del secolo scorso con la sua idea di noosfera. Questa si origina nella concezione teilhardiana del fenomeno umano che è, secondo lui, il risultato di una evoluzione guidata, un processo orientato dal progetto divino. In questo quadro, Teilhard presente che l'umanità debba ormai sviluppare una sorta di coscienza planetaria. Questo nuovo stadio evolutivo, che chiama “noosfera”, consiste in una mutazione spirituale che consentirà agli umani di raggiungere la tappa ultima della loro evoluzione, il punto Omega, stadio supremo di una fusione con la figura del Cristo, incarnazione di una umanità pienamente realizzata…

Al cuore dell'attuale processo di mondializzazione, alcuni guru della cibernetica hanno voluto vedere nell'esplosione del fenomeno Internet l'irruzione della coscienza planetaria attesa da Teilhard de Chardin. Certamente l'idea non gli sarebbe spiaciuta. Ma la sua visione della noosfera, “involucro pensante della terra” rimane di ben altra dimensione etica e spirituale…

(da Le monde des religions, 11, p. 50-51)
Pubblicato in Teologia
Giovedì, 13 Luglio 2006 01:41

5) Ecclesiologia di comunione (Marino Qualizza)

5. La comunità in cammino
verso il Regno

di Marino Qualizza


5. Ecclesiologia di comunione CCC 1325; Ef 4/4-6; At 4/32; 2/44-45

Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge al n. 1325: “La comunione della vita divina e l’unità del popolo di Dio, su cui si fonda la Chiesa, sono adeguatamente espresse e mirabilmente prodotte dall’Eucarestia . In essa abbiamo il culmine sia dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono a Cristo e per Lui al Padre nello Spirito Santo”. Il testo del Catechismo riporta una citazione tolta dall’Istruzione Eucharisticum Mysterium del 1967. Siamo nei mesi immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, nel quale era stato posto in particolare evidenza il tema della comunione ecclesiale con riferimento specifico all’Eucarestia. È interessante notare come l’Eucarestia esprima – e soprattutto produca – la comunione con Dio e con i fratelli che fanno parte della Chiesa. Sarà importante allora, ogni volta che si parla di comunione ecclesiale, puntare l’accento non tanto suo vincoli giuridici ma soprattutto su quelli mistici determinati dall’Eucarestia e dagli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana, cioè il Battesimo e la Confermazione. L’insistere sull’Eucarestia non è il vezzo di una moda passeggera ma il permanere costante della vita ecclesiale anche quando gli aspetti giuridici erano molto evidenziati. In realtà tutta l’esperienza ecclesiale dei Padri della chiesa è fondata sui sacramenti dell’iniziazione cristiana. Si leggano a questo proposito le significative catechesi della Chiesa di Gerusalemme, catechesi legate al nome di Cirillo e risalenti al IV secolo. Ma fondare la comunione ecclesiale sull’Eucarestia è un importante capitolo dell’ecumenismo contemporaneo. Infatti la ricerca dell’unità e della convergenza delle tre confessioni cristiane può trovare intanto nella teologia eucaristica le linee guida e, una volta trovatele, potrà stabilire nella celebrazione quanto avrà concordato nei principi teologici. Ma della comunione ecclesiale abbiamo chiare e solenni indicazioni negli Atti degli Apostoli. Nel primo sommario di Atti 2,44-45 leggiamo: “Tutti i credenti, poi, stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. La comunione dei beni, nella prima comunità cristiana, era il risultato del dono dello Spirito e della conversione conseguente a cui Luca dedica tutto il secondo capitolo.

Non è la comunione dei beni che crea la conversione ma quest’ultima fonda quella rivoluzionaria novità di vita che costituisce il modello e l’orientamento di tutte le comunità successive. La stessa realtà è riportata nel secondo sommario della vita dei cristiani in Atti 4, 32: “La moltitudine di coloro che avevano abbracciato la fede aveva un cuore e un’anima sola. Non v’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune”. La comunione di cui si parla non riguarda un aspetto solo, quello più spirituale o quello più materiale, ma abbraccia la realtà intera. In altri termini qui ci viene proposto un modello di umanità che troverà la sua forma definitiva nel mondo futuro, ma che affonda le sue radici già in questa esistenza. Il che equivale a dire che la fede, dono della Pentecoste, crea uno stile di vita capace di rinnovare il mondo. Da qui allora l’esigenza, per i cristiani di oggi, di esprimere la loro fede preoccupandosi di dare un contributo originale al miglioramento delle condizioni di vita su questa terra. Il venir meno a questo impegno vuol dire prendere solo come metafora quanto gli Atti degli Apostoli hanno invece proposto come modello da imitare. Un altro testo biblico, quello di Efesini 4, 4-6, ci presenta addirittura una sintesi teologica che dall’unità di Dio passa a fondare quella fra gli uomini nella realtà ecclesiale. Leggiamo infatti: “Un solo corpo e un solo Spirito, così come siete stati chiamati ad una sola speranza, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti”. In estrema sintesi il testo ci propone la fonte e le basi dell’unità ecclesiale. In esso, in modo felice, sono collegati i principi teologici vissuti nella fede e mediati nei sacramenti. Ma ciò che determina, orienta e guida tutto e tutti è Dio Padre di Gesù Cristo. Non solo Egli agisce di sua iniziativa, come è ovvio, ma questa sua azione è mediata dall’azione convergente dei credenti. Essi, pur nella molteplicità delle loro persone, costruiscono quella unità composita riflesso dell’unità e della comunione tripersonale del nostro Dio.

Ogni lavoro pastorale, ogni sforzo di crescita personale, ogni impulso ecumenico dovranno sempre partire da questo Dio uno e trino fonte della nostra libertà, del nostro agire e della convergenza all’unità. È evidente che nella Chiesa ci vuole anche l’autorità e sono necessari i cartelli indicatori della strada da percorrere. Come pure sarà necessario un elenco delle verità fondamentali da credere. Ma tutto questo resterà estraneo ai credenti se non verrà costantemente vivificato dall’azione di Dio accolta da ognuno dei credenti. In conclusione possiamo dire che la comunione ecclesiale non è un’idea ma un’esperienza che si vive e si condivide; ed è così efficace da suscitare quella ricchezza di idee di cui la teologia si nutre.




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Rapporto tra darwinismo e teologia
Adamo contro Dio?
di Carlo Molari



(...) Queste riflessioni sono ovvie, da tempo acquisite nella teologia cristiana e inserite persino nei catechismi.

Per questo sorprende la reazione della stampa come se l'ammissione del papa fosse straordinaria o potesse avere conseguenze sconvolgenti per la dottrina cristiana.

Binomio acquisito

Scrive ad esempio A. Oliverio sul Corriere della Sera (27/10/96, p. 38): «la teoria dell'evoluzione formulata da Darwin circa un secolo e mezzo fa conteneva in sé vari elementi di contrasto con la fede cristiana: non soltanto poneva in discussione il racconto biblico e i tempi e i modi della creazione della vita sulla terra, ma soprattutto implicava un'origine animale dell'uomo, apparentandolo con gli altri organismi viventi». Ora, se questo era vero al tempo di Darwin non lo era più qualche decennio dopo, quando sia i biblisti che i teologi cominciarono a interpretare la Scrittura in modo più rispondente alla sua natura religiosa e simbolica, e tanto più non lo è oggi, quando l'esegesi biblica e la teologia hanno acquisito metodi più raffinati di analisi dei testi antichi e dell'esperienza di fede.

Anche per Pio XII, già nel 1950, era chiaro che la Bibbia doveva essere interpretata diversamente da come avevano fatto al tempo di Galileo. Per questo l'affermazione di Giovanni Paolo II non «rappresenta un fatto nuovo», né «introduce un elemento di laicità nel campo della metafisica», come invece sostiene Oliverio.

Ancora più sorprendenti appaiono le affermazioni di E. Scalfari, secondo il quale l'ammissione del papa «sarebbe ben più che aggiornamento: sarebbe una rivoluzione con conseguenze incalcolabili sulla teologia e addirittura sulla fede» (Repubblica, 27/10/96, p. 1). Cercando poi di precisare quali conseguenze «avrebbe avuto una accettazione pura e semplice e completa dell'evoluzionismo da parte della chiesa», Scalfari scrive: «Adamo non sarebbe stato creato da Dio, tutta la simbologia dell'Eden, dell'albero della conoscenza, della tentazione del serpente, della cacciata dal paradiso, sarebbe caduta infranta (...) Non ci sarebbe stato il peccato originale, la colpa da riscattare e la necessità che il Figlio si facesse uomo per redimerci ed aprirci la via della salvezza».

«A stretto rigor di logica, questo azzeramento della Genesi e della dottrina neotestamentaria che a essa si ricollega avrebbe reso assai discutibile, perché non necessaria, la seconda Persona, e quindi l'intera struttura teologica che si compendi nel mistero della trinità». Il papa non sarebbe giunto a queste drammatiche conseguenze - continua Scalfari - solo perché postulerebbe «l'ancoraggio all'intervento divino sul cosmo e sull'uomo, creato "a immagine e somiglianza di Dio" perché possa onorarlo, amarlo e infine godere in eterno delle celesti beatitudini se il giudizio finale lo avrà ammesso al cospetto del suo creatore». Secondo Scalfari, quindi, il baratro è stato evitato solo perché, secondo il papa, il processo «ha richiesto un intervento diretto del creatore, è lui che ha inserito l'anima immortale nel corpo di quello strano bipede eretto e implume, che senza l'anima, non sarebbe stato l'uomo che è».

Qui Scalfari traduce bene il pensiero espresso dal papa, ma non ne coglie bene la portata. Non è infatti la convinzione di un intervento diretto di Dio a salvare la dottrina della fede cristiana. Si possono infatti accettare completamente le teorie evoluzioniste senza che cambi nulla nella fede come oggi viene vissuta e nella dottrina come oggi viene professata.

Il concetto di creazione

Da decenni la teologia cristiana utilizza un Concetto di creazione che non implica "interventi" di Dio, e inoltre può fare anche a meno di utilizzare il concetto di anima spirituale e immortale, come principio di differenza tra gli animali e l'uomo.

Per chiarire questi concetti del pensiero teologico occorre partire dal Concilio vaticano II. Nella costituzione pastorale Gaudium et spes il Concilio ha presentato la prospettiva evolutiva come una caratteristica della cultura attuale. Scriveva infatti: «il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine, a una concezione più dinamica cd evolutiva» (GS. 5). Conseguentemente il Concilio sollecitava i credenti a tener conto di questo mutamento. da cui sarebbe derivato «un formidabile complesso di nuovi problemi», che avrebbe richiesto «analisi e sintesi nuove».

Sollecitati da questo autorevole invito i teologi hanno raccolto diversi elementi già presenti nella tradizione cristiana e hanno messo a punto un concetto di creazione molto più ricco e fecondo di quello comune negli ultimi secoli. È stata infatti recuperata la nozione di creazione come dipendenza totale dell'essere da Dio. Scriveva S. Tommaso d'Aquino: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (Contra Gentes, 2.18). Secondo questo modello l'azione creatrice di Dio investe con tutta la sua potenza il nulla o il caos originario, che però non è in grado di accogliere pienamente fin dall'inizio la perfezione offerta, ma solo nella successione e a frammenti. La creatura perciò è tempo, perché è successione. Intendendo la creazione in modo dinamico ed evolutivo, occorre dire che la forza creatrice alimenta in ogni istante il processo dell'evoluzione. Non vi è dunque alcuna necessità di "interventi" divini.

La realtà stessa, evolvendo, è in grado di accogliere in modo molto più ricco e profondo l'offerta vitale contenuta nell'energia creatrice, che alimenta tutto i processo. Il peccato è la resistenza che l'uomo pone alla forza di vita quando giunta a livello consapevole, sollecita decisioni consapevoli e libere.

Anche il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, pubblicato da vescovi italiani nel 1995, si pone in questa prospettiva: «Nella bibbia la creazione è presentata anche come la sua attività continua, il fondamento perenne di ogni cosa. L'universo dipende sempre da Dio, sia per iniziare, sia per continuare a esistere e per svilupparsi verso nuove e più alte forme di vita. Il soffio dello Spirito avvolge, penetra le creature, le sostiene e le fa germogliare come vento di primavera... La creazione non è il gesto compiuto da Dio in un tempo remoto, ma il dono di ogni giorno» (CdA, n. 360)

La stessa sensibilità appare quando il catechismo parla dell'origine d ogni uomo. Vi si dice che «partecipando a un processo evolutivo globale l'uomo nasce, si trasforma e muore come gli altri esseri della natura. Può ricevere la vita solo a frammenti» (n 372), «non viene alla luce come una realtà ben definita e compiuta, ma come un progetto da portare a compimento, con la sua stessa libera cooperazione», diventa se stesso attraverso i rapporti, «riceve e trasmette la vita in un tessuto di relazioni» (n. 366). Di conseguenza il male non viene attribuito solo al peccato perchè «molti mali derivano senz'altro dai limiti naturali, dall'inserimento nel mondo... La precarietà della condizione naturale viene poi aggravata da innumerevoli colpe personali, che procurano più o meno direttamente una infinità di guai, a sé e agli altri» (n. 372). Della solidarietà nel peccato si dice che «impedisce di integrare nella vita, in maniera significativa, i dolori che provengono dagli altri uomini e dai limiti inerenti alla natura» (n. 373).

La creazione e l’anima dell’uomo

Nel discorso del papa all'Accademia della scienze è riportata pure un'affermazione di Pio XII sulla creazione immediata dell'anima di ogni uomo da parte di Dio. L'accenno di Giovanni Paolo II è veloce e non approfondito, ma cita esplicitamente il testo della lettera enciclica Humani generis di Pio XII, che per la prima volta nei tempi moderni aveva parlato della creazione immediata dell'anima di ogni uomo («la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio», (DH. 3896). Ma oggi, accogliendo la prospettiva evolutiva e il concetto classico di creazione, il modello anima-corpo non è molto significativo e non appare necessario: inoltre parlare di creazione immediata dell'anima diventa incongruo.

Già il catechismo degli adulti della CEI ha in merito utilizzato un linguaggio più duttile e simbolico e ha evitato di parlare di creazione dell’anima: «secondo la concezione biblica l'uomo è"spirito, anima e corpo" (1 Ts 5.23) cioè un soggetto partecipe della vita divina, vivo e pieno di desideri, inserito nel mondo e sottomesso alla caducità» (CdA, n. 1017). Pur riconoscendo che «la nostra tradizione culturale preferisce parlare di anima e di corpo», conclude: «quel che conta è affermare l'unità dell'uomo, unico soggetto che vive a vari livelli, posto tra cielo e terra, uditore di Dio e interprete delle cose materiali».

Più decisa ancora è la scelta quando in riferimento alla continuità della vita il CdA scrive: «dopo la morte sopravvive l'io personale, dotato di coscienza e volontà. Se si vuole chiamarlo "anima" bisogna intendere questa parola in maniera biblica» (CdA n. 1195). Per questo il catechismo della CEI, commentando il secondo capitolo della Genesi, scrive: «L'uomo riceve direttamente da Dio il soffio della vita spirituale. L'evoluzione da sola non basta a dare origine al genere umano; la causalità biologica dei genitori non spiega da sola la nascita di un bambino, persona cosciente e libera, del tutto singolare. Occorre in entrambi i casi uno speciale concorso di Dio creatore» (n. 367).

Un cambio di prospettiva

In prospettiva evolutiva si continua ad affermare la continuità causale di Dio, che però non si esprime in interventi o cambiamenti di rotta. Essa offre possibilità molteplici alle creature che seguendo le proprie dinamiche si sviluppano per vie spesso casuali e nell'intreccio di molteplici relazioni. Ogni passo avanti dell'evoluzione consente una nuova espressione della causalità creatrice resa possibile da nuove capacità di accoglienza delle creature. Il nuovo emergente non deve essere inteso come un'inedita azione di Dio o un suo "intervento" nel processo evolutivo, ma come un nuovo modo di esprimersi, dal di dentro della creazione della stessa forza creatrice che fonda tutta la realtà. Come una luce che si espande quando si creano nuovi spazi alla sua presenza.

In ogni caso anche accettando pienamente la teoria evoluzionista, la dottrina cristiana resta intatta. Certamente molte nozioni tradizionali debbono essere sostituite da altre più coerenti. Questo è appunto il lavoro che il concilio chiedeva ai teologi in modo da adattare per quanto conviene «il vangelo sia alle capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti» (GS, 44). In questi decenni molto lavoro è stato compiuto dai teologi e acquisizioni definitive sono state realizzate, sotto lo stimolo delle scienze, ma secondo dinamiche proprie della fede. Per questo esse resteranno anche quando le teorie evoluzioniste saranno sostituite da altre. Scrivevano già nel 1979 due noti teologi dell'Università gregoriana di Roma: «Se un giorno le scienze abbandonassero l'evoluzionismo, ciò in teologia non cambierebbe nulla. Resterebbe sempre un arricchimento dell'intelligenza della fede, provocata dall'incontro con l'evoluzionismo» (Alszeghy A. - Flick M., I primordi della salvezza, Marietti, 1979, p. 79).

Le discussioni di questi giorni potranno servire a rendere pubbliche queste acquisizioni teologiche, rimaste forse ancora patrimonio di pochi specialisti.

(da Testimoni, 15 dicembre 1996)

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Un dialogo coraggioso, aperto, franco, sensibile e umile... con l'umanità contemporanea, con la ragione umana, le scienze... con tutto quanto concerne la giustizia sociale, i diritti umani, la solidarietà con i poveri... Un dialogo che sa ascoltare, dibattere, discernere e assimilare ciò che di buono e vero, giusto e umanamente degno viene proposto dall'interlocutore.

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Introduzione
di Max H. Begouen


Sin dal 1937, Pierre Teilhard de Chardin, scienziato dall’intelligenza lucida, l’uomo dal cuore abbastanza forte da poter abbracciare il mondo, discerneva la salita delle forze distruttive sul punto di minacciare il pianeta, ed invitava gli uomini ad unirsi per costruire tutti insieme la città universale.

I popoli, “unità umane naturali” (1), dovevano secondo lui realizzare l’armonia terreste nelle varietà delle loro caratteristiche razziali, arricchendosi reciprocamente . dava a ciascuno questa direttiva “pur mantenendo sulla vostra propria linea, salite sempre verso maggior coscienza e maggior amore. Alla cima vi troverete riuniti a coloro che, da varie parti, avranno intrapreso una ascensione analoga. Poiché TUTTO CIO’ CHE SALE CONVERGE”.

Come le cellule le diverse membra di un corpo che tendono a costituire per il loro stesso sviluppo un unico essere vivente nella cui costituzione trovano, alla fine, ciascuna la propria perfezione, così gli individui e le nazioni debbono, sviluppandosi, mirare all’unità umana che essi sono chiamati a realizzare per poter pienamente vivere.

Uno slancio nuovo scuote tutti i paesi verso un tal fine, ancora occultato a molti. Non soccombano alla tentazione mortale di costruire ciascun solo per sé! E’ infatti in vista del compimento della totalità che la linfa sale in essi: “L’età delle nazioni è passata. Se non vogliamo perire, si tratta ora per noi di costruire la terra”.

Dunque non vi siano più blocchi avversi che portino al parossismo le forze di distruzione! Ma si manifesti una cooperazione universale nella passione di edificare un mondo degno dell’Uomo. Il valore di una visione del futuro viene dimostrato dal dinamismo che esso suscita. Non ha bisogno di bombe atomiche per imporsi. Teilhard sapeva, che al di sopra delle ideologie agonizzanti, ve ne era una incomparabilmente più ampia e potente. Vi si è abbandonato con tutto il cuore. Vi ci trascina.

Se i gruppi sociali ed etnici, nelle circostanze tragiche che ci spingono, sapessero solo avanzare rivendicazioni, dimostrerebbero la loro propria decadenza. L’amore, energia suprema, non rivendica, ma si tende in avanti. Realizza la condizione umana quale deve essere. Ci sospinge irresistibilmente a purificare, ad elevare, a perfezionare la terra.

Nella stessa carne dei popoli il corpo del mondo nuovo è in gestazione, nonostante i dissidi interni che la straziano. Bisogna prendere coscienza di questa prodigiosa attesa. Concentriamo pacificamente le nostre forze spirituali. Prepariamo, in ogni paese, gli uomini che, dapprima a casa loro, poi alla testa delle organizzazioni internazionali, presiederanno al vero destino dell’umanità.

Dobbiamo essere avanguardia di questo Fronte di avanzata umana invocato, nelle pagine che seguono, da colui che, dalla vetta eroicamente conquistata, ha intravisto quale potrebbe essere la magnificenza della “Terra degli Uomini”.

1) P. Teilhard de Chardin, Le unità umane naturali, in La visione del passato, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 321-361.

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La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(seconda parte)
di Carlo Molari


4. La fede di Gesù: oggetto e dinamiche

Se ora ci chiediamo quale fosse l’oggetto della fede di Gesù, dobbiamo rispondere che Egli ha esercitato e suscitato la fede nella venuta del Regno di Dio e lo ha vissuto con fedeltà “sino alla fine”. Gesù ha creduto alla vicinanza di Dio e alla venuta del suo Regno.

Quando Gesù ha iniziato la sua attività pubblica lo ha fatto con la convinzione di poter avere successo e di ottenere un cambiamento nella vita religiosa del suo tempo. Poi progressivamente ha suscitato reazione negative e resistenze profonde. Allora ha riflettuto sul da farsi, si è confrontato con la Scrittura, ha pregato a lungo e ha coinvolto i suoi nella preghiera (prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare Lc. 9, 28). Infine ha deciso di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme (cfr Lc 9, 51). Si convinse che per mostrare la verità del Vangelo annunziato, non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere da Dio il segno della sua fedeltà. Fu quindi una necessità di carattere storico a convincerlo di “amare sino alla fine” (cfr Gv 13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo che egli aveva annunziato, tutto sarebbe finito con la sua condanna. Quale fosse poi il segno della conferma divina Gesù l’aveva dedotto dalla tradizione sapienziale (cfr Sap 2) e dagli scritti profetici in particolare dai carmi del Servo, dove si parlava della luce che il Servo avrebbe visto, delle moltitudini che l’avrebbero riconosciuto. Jon Sobrino nei primi anni ’90 osservava: “per strano che possa sembrare adesso, la scoperta del regno di Dio come ciò che è al centro della vita e dell’interesse di Gesù è relativamente recente, di poco meno di un secolo fa. Personalmente ritengo che tale scoperta sia stata la più importante negli ultimi secoli per la Chiesa e per la teologia, e le sue conseguenze si sono fatte notare in tutti i settori teologici fondamentali”. Applicando la riflessione alla chiesa attuale il teologo gesuita che opera in S. Salvador continua: “proviamo a farci, in via puramente ipotetica, la seguente domanda: sarebbe identica a quella che è ora la missione della Chiesa.., se Gesù pur essendo stato risuscitato dal Padre e pur essendo stato proclamato dogmaticamente vero Dio e vero uomo, non avesse annunciato il regno di Dio? La risposta è chiaramente no, ed è quanto dimostra la storia recente della chiesa”. (54)

Percorrere il cammino di fede di Gesù ci consente di entrare dentro alla sua spiritualità e proseguirla nel tempo. Ci consente soprattutto di continuare la sua missione. Non è indifferente per la missione della chiesa il fatto che Gesù abbia creduto nella venuta del Regno e l’abbia annunziata. La chiesa attualmente nella fede non annuncia semplicemente che Gesù è morto e risorto, ma che è morto per la fedeltà al Regno in cui credeva ed è risuscitato per la carica d’amore che la sua fede in Dio gli ha consentito di esercitare sulla croce. Per questo la chiesa continua ad annunciare il Regno di Dio che viene nella storia.

Walter Kasper per chiarire come in Gesù Cristo ci viene definitivamente mostrato non solo “ciò che Dio è per l’uomo, ma anche ciò che l’uomo è per Dio”, (55) tra le altre indicazioni offre anche quella relativa alla fede di Gesù. (56) Già precedentemente, aveva sostenuto che “la preghiera di Gesù ci esprime la sua fede e il suo amore… Nella sua obbedienza Gesù si svuota interamente per farsi riempire soltanto da Dio; nella sua fede e gli è il modo d’essere dell’amore di Dio. Gesù crede totalmente e quindi è totalmente pervaso dalla potenza di Dio e partecipa all’onnipotenza divina, un’onnipotenza d’amore”. (57) Jacques Guillet conclude il suo volume sulla Fede di Gesù con una formula molto efficace: “La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo”. (58) Anche Sequeri ritiene che “è sul fondamento di quella fede, e nel suo esito nella risuscitazione di Gesù dai morti, che la nostra fede in lui realizza, per suo tramite, la comunione con Dio che ci libera dal male e ci introduce nella vita eterna di Dio”. (59)

Wilhelm Thüsing, concludendo lo studio sulla fede di Gesù, già citato, indica i molti possibili riflessi della figura di Gesù come credente, sulla teologia: “possiamo concepire l’attribuzione a Gesù della qualità di ‘colui che crede’ come cifra significativa indicante una realtà di fatto centrale della cristologia: il fatto cioè, che l’orientamento soteriologicamente così determinante del Gesù risuscitato verso Dio… viene fondato nella vita terrena di Gesù. Da questa enunciazione centrale della teologia cristologica va scorta sia la relazione della cristologia alla soteriologia,.. sia alla ecclesiologia, alla escatologia e alla storia della promessa dell’Antico Testamento”. (60)

Non possiamo qui articolare tutti i passaggi, ma credo non sia difficile valutare l’incidenza che una simile prospettiva può esercitare su altri ambiti della teologia. (61)

5. Conclusione: una nuova tappa della spiritualità cristiana.

Per molti secoli la comprensione della spiritualità di Gesù è stata impedita da pregiudizi teologici. Può sembrare sorprendente il fatto che per molti secoli la riflessione su Cristo e la pietà cristiana siano state deformate da limiti così incidenti. La stessa interpretazione della morte di Gesù e della sua fedeltà all’amore “sino alla fine” è stata falsata dal presupposto che egli già conoscesse il suo destino.

Questo non ha certo impedito lo sviluppo di forme autentiche di spiritualità cristiana. Occorre ricordare infatti che la potenza della grazia è tale che anche attraverso modelli inadeguati riesce ad esprimere la luce e la grazia sufficienti a far crescere figli di Dio. Ciò che importa non sono i modelli attraverso i quali si interpretano le esperienze, bensì le offerte vitali accolte e le dinamiche messe in moto. È innegabile tuttavia che i modelli possono impedire alcuni sviluppi e in certe situazioni divenire ostacoli gravi.

Credo che la pietà cristiana oggi possa e debba subire una svolta notevole man mano che “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb. 3,1; 12,2) la comunità ecclesiale impara a percorrere il suo cammino di fede e ad assimilare i suoi criteri di scelta. Una fase nuova può aprirsi nella storia della teologia, della pietà e della spiritualità cristiana. Percorrendo il cammino di fede che Egli ha percorso non solo siamo in grado di “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (cfr Fil 2,5), di “avere cioè il suo pensiero” (cfr 1 Cor 2,16) ma anche di sviluppare e far fiorire nel nostro tempo virtualità del suo Vangelo non ancora espresse

Oggi siamo in grado di fare un notevole passo avanti verso la scoperta dell’autentica spiritualità di Gesù, di penetrare il segreto della sua preghiera, di cogliere in modo più profondo la portata della sua fedeltà al Regno di Dio e di capire meglio l’annuncio del suo Vangelo.

A questa possibilità corrisponde il compito di testimoniare l’esito salvifico della via tracciata da Gesù, l’efficacia del suo Vangelo, di mostrare, cioè, a quale ricchezza può condurre lo Spirito che il risorto continua a effondere su coloro che, anche oggi, vivono la sua Parola. Non possiamo tradire la responsabilità che grava sulla nostra generazione. È in gioco la sopravvivenza dell’umanità.


Note

54) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella ed., Assisi 1995 pp. 185 s.

55) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 297.

56) “La fede è sinonimo di salvezza dell’uomo.. La realtà della salvezza, così come ci è giunta in Gesù Cristo, non consiste in altro se non nel fatto che, in lui, Dio è penetrato nella situazione di non salvezza del genere umano e così ha segnato un nuovo inizio, ha creato un’alternativa. E non si tratta di un processo giocato al di sopra delle nostre teste, ma nella e attraverso l’obbedienza umana di Gesù, il quale si aprì interamente alla venuta del Regno di Dio, si svuotò completamente per lasciarsi riempire dell’esistenza di Dio. Così l’obbedienza di Gesù, la sua disponibilità a Dio e agli altri, è il modo d’essere che la salvezza assume concretamente nella storia… In ultima analisi questa non è altro che una riformulazione del termine «fede» biblicamente intesa… La fede è l’essere nella recezione e nella obbedienza” Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 299 (corsivo mio).

57) Id. ib., pp. 150 s.

58) Guillet J., La fede di Gesù Cristo, Jaka Book, Milano 1981 p. 179.

59) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a.c. p. 16.

60) Thüsing W., o. c., p. 265.

61) Per scelta mi sono limitato all’ambito cattolico. Ma non posso terminare questa breve esposizione senza ricordare Gerhard Ebeling. Il professore evangelico di Tubinga nello studio Gesù e fede (ZThK 55(1958) pp. 64 110; tr. italiana in Parola e fede, Bompiani Milano 1974 pp. 77-126) riconosce “che Gesù non può essere distanziato dalla fede da lui predicata. Egli si identificò talmente con essa, che non ne parlò espressamente, ma si impegnò a suscitarla negli altri” (ib p. 114). Wolfanrg Panemberg lo riassume in modo efficace: “Gesù è il credente per eccellenza, che si abbandona immediatamente all’avvenire divino. Gesù è «la quintessenza della fede», e la fede è «la quintessenza dell’opera di Gesù». In tal modo Gesù è per Ebeling il «testimone della fede». Ponendosi come nuova autocomprensione dell’uomo riallanciandosi a Gesù stesso, alla relazione cioè che corre tra Gesù e il Padre, la fede è difesa dal sospetto di essere «priva di oggetto».” Pannemberg ritiene che “Permane.. legittimo lo sforzo di Ebeling, tutto teso a mettere in rapporto la struttura della fede cristiana non solo con il messaggio di Gesù sulla prossimità di dio e del suo Regno, ma anche con il comportamento proprio, personale di Cristo” Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana Brescia 1974 (l’originale è del 1964) p. 257.

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Pubblicato in Teologia

La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(prima parte)
di Carlo Molari

Fino a qualche decennio fa i teologi cattolici non parlavano della fede di Gesù e, se qualcuno affrontava il problema, lo faceva per negare che Gesù nel suo pellegrinaggio terreno avesse esercitato la fede teologale. Si pensava infatti che Gesù godesse di una conoscenza immediata di Dio e in Dio di tutta la realtà creata, così da non poter esercitare la fede: la Visione glielo impediva. Alcuni giungevano a negarGli anche l’esercizio della speranza teologale. Gesù, che già possedeva la pienezza della grazia, non poteva attendere altro da Dio. (2) S. Tommaso in un primo momento sosteneva l’opinione secondo cui Gesù non avrebbe neppure avuto vere conoscenze sperimentali perché anch’esse erano infuse, poi cambiò idea, (3) ma a proposito della fede continuò a negarla con questa motivazione: “Oggetto della fede, come si è detto nella seconda parte (II-II q. 4 a. 1) è la realtà divina non vista (res divina non visa). Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio... Dunque non ci può essere stata fede in lui” (4).

Tutti i manuali scolastici, fino oltre la metà del secolo scorso hanno ripreso fedelmente questa dottrina. Anzi alcuni teologi giunsero a conclusioni, a dir poco, strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad esempio, attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato, oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via” (5). Senza giungere a questi eccessi altri hanno sostenuto che Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena, conosceva almeno tutte le cose che riguardavano la sua missione o tutto ciò che in qualche modo aveva relazione con la storia della salvezza.

In questa relazione vorrei mostrare come progressivamente i teologi sono giunti a parlare della fede di Gesù e indicare, in modo sommario, quali profonde conseguenze questo cambiamento ha nell’attuale riflessione sul cammino storico di Gesù, sulla fedeltà all’annuncio del Regno e sullo sviluppo della fede nei suoi discepoli.

Lo faccio in cinque punti: 1. Un po’ di storia recente. 2. Gli argomenti di coloro che difendono la dottrina tradizionale. 3. I riferimenti biblici e la coerenza dogmatica di coloro che parlano della fede di Gesù. 4. Alcune riflessioni sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche. 5. Alcuni riflessi nell’interpretazione dell’esperienza di Gesù e nella vita spirituale dei suoi discepoli.

1. Un po’ di storia recente.

Fino agli anni ’60 la teologia e il Magistero della chiesa cattolica attribuivano a Gesù un triplice modo di conoscere la realtà: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono tutte le cose, la scienza infusa, propria di alcune persone che, in vista di una particolare missione nella storia, in certe circostanze ricevono doni straordinari dello Spirito, e la scienza sperimentale, ottenuta con l'uso dei sensi e con la riflessione sulle esperienze quotidiane.

Forti resistenze a queste opinioni tradizionali apparvero alla fine del secolo XIX e agli inizi del sec. XX negli scritti dei ‘modernisti’. Nel Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) il S. Uffizio condannava la loro dottrina riassunta in questa formula: “non è possibile conciliare il senso naturale dei testi dei vangeli con ciò che i nostri teologi insegnano riguardo alla coscienza e alla scienza infallibile di Gesù Cristo” (6). Condannata era pure l’opinione secondo cui: “il critico non può assegnare a Cristo una scienza illimitata, se non nell'ipotesi, che non è possibile concepire storicamente e che ripugna al senso morale, in cui Cristo abbia potuto avere come uomo la scienza di Dio e ciononostante non abbia voluto comunicare la cognizione di tante cose ai discepoli e alla posterità” (7). Un altro decreto dello stesso dicastero, il 5 giugno 1918, mostrava meno rigore sostenendo solo che si può insegnare con tranquillità (tuto doceri potest) l’opinione che “nell’anima del Cristo vivente fra gli uomini vi sia stata la scienza che possiedono i beati” (8). Ancora nell’Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943) Pio XII affermava che Gesù, in virtù di “quella visione beatifica di cui godeva fin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina”, aveva un’esplicita conoscenza degli uomini che sarebbero appartenuti al suo corpo mistico in ogni tempo e in ogni luogo. (9) Nel 1965, quando già, come vedremo, era iniziato un cammino teologico in altra direzione, un teologo italiano scriveva con molta decisione: “la dottrina che insegna che l'anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica, è dottrina comune nell’ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come dottrina cattolica, e perciò di fede divina, mentre l’opinione contraria è da ritenersi almeno «haeresim sapiens», se non addirittura come eretica” (10).

In questi ultimi decenni, però, si è accentuata sempre di più il divario fra coloro che continuano a difendere la posizione tradizionale, più o meno adattata alle nuove acquisizioni bibliche, e coloro che, invece, riconoscono in Gesù un’autentica vita di fede.

Già all'inizio degli anni '960 Karl Rahner, riportando la dottrina scolastica sulla coscienza umana di Cristo, osservava: “Agli orecchi di noi moderni, questa affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all'autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell'intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo” (11). K. Rahner da parte sua ha attribuito a Gesù una certa conoscenza immediata di Dio, ma di tipo non concettuale e quindi una conoscenza irriflessa, che non si traduceva, cioè, in concetti ed era perciò compatibile “con una genuina esperienza umana”, con l’ignoranza e “con un’autentica evoluzione spirituale e religiosa” (12). Rahner ha così offerto gli elementi per superare la frequente tenenza ad attribuire caratteristiche divine alla natura umana di Gesù, che egli stesso considerava un residuo dell’eresia monofisita (13), e per compiere passi ulteriori. Egli stesso aveva partecipato alla pubblicazione di un volume, in cui un suo discepolo difendeva con argomenti articolati la fede di Gesù. (14) In uno scritto successivo riconosceva che la teologia tradizionale non dava risalto, come invece è necessario fare, al “fatto che Gesù fosse uno che credeva, sperava, cercava ed era tentato, uno che si arrendeva inevitabilmente di fronte alla incomprensibilità di Dio” (15). L. Malevez, richiamandosi al metodo e ai principi di K. Rhaner ne svilupperà le implicazioni, applicandoli al cammino di fede di Gesù. (16)

Negli stessi anni (1961) anche Hans Urs von Balthasar ha affrontato in modo diretto il problema della fede di Gesù. (17) Richiamandosi a M. Buber, (18) egli ha valorizzato la distinzione tra fede come atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, di cui Abramo era tipico rappresentante (partì senza sapere dove andava Eb. 11,8) e la fede dei cristiani, che si configurò ben presto come annuncio/accoglienza di un evento/verità da credere. Egli sostiene che il rapporto di Gesù storico con Dio non ha carattere beatifico, ma si esprime con un vero atteggiamento di fede che ha però un carattere singolare ed è accompagnato da una particolare conoscenza della sua condizione filiale e della sua missione. Egli riconosce che “questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che il designarlo con lo stesso termine in uso per l’imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l’uno e l’altro” (19). In un tempo successivo, ammette la rilevanza della tradizione circa la visione beatifica, ma conclude che anche l’eventuale particolare conoscenza che Gesù aveva di Dio, in ordine alla sua missione, non gli impediva, anzi implicava l’esercizio della fede in Lui. (20)

I biblisti d’altra parte continuavano a mettere in luce che l’esistenza di Gesù come appare dai vangeli, è molto diversa da quella che i teologi descrivevano nelle loro manuali e nelle loro riflessioni. Egli, infatti, “cresceva in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), ha cambiato opinione e non di rado ha assunto, come si è espresso Raymond. Brown “le idee inadeguate, anche erronee del suo tempo” (21).

2. Argomenti attuali in difesa della dottrina tradizionale

Nonostante le sollecitazioni dei biblisti e di molti teologi, la dottrina tradizionale ha conservato i suoi difensori. I teologi che oggi difendono la dottrina tradizionale hanno adattato gli argomenti alle acquisizioni bibliche. Nel 1982 la Pontificia Accademia di S. Tommaso dedicò una sessione al tema della fede di Gesù. Tutti, un biblista, un patrologo e un teologo sistematico, vi difesero la dottrina tradizionale. Gli atti sono stati pubblicati in un numero speciale della Rivista Doctor Comunis. (22)

Qualche anno fa Angelo Amato, allora professore di Cristologia all’Università salesiana di Roma, e ora Segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, ha pubblicato un’ampia recensione di un volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Trento sulla fede di Gesù. (23) Egli, contro l’opinione dei relatori, non solo esamina e confuta le ragioni di chi crede di poter attribuire a Gesù una vera fede, ma argomenta dettagliatamente a favore della visione beatifica di Gesù. Secondo la sua convinzione, “si possono ridurre a tre le ragioni che fondano questa visione misteriosamente beatifica nel Gesù terreno, prepasquale: essa è un’esigenza intrinseca dell’unione ipostatica; (24) è il fondamento della sua missione rivelatrice e redentrice; non appare, infine, lesiva della sua autentica umanità, né rende meno dolorosa la passione, che il Verbo ha pienamente vissuto «in sacramento humanitatis»”. (25)

Commentando l’episodio della trasfigurazione scrive: “La luce che è Gesù non è quella profetica, ma quella stessa di Dio, che si manifesta anche nella sua umanità. La categoria teologica della visione beatifica del Cristo prepasquale non sembra quindi del tutto inadeguata per la comprensione della coscienza che Gesù ha di essere nel Padre”. (26) Concludendo poi l’analisi dei testi biblici scrive: “Il regime di esistenza terrena di Gesù, così come viene presentato nel NT, non sembra quindi escludere l’ipotesi di una visione beatifica. Né tale conclusione pregiudicherebbe la realtà e l’impegno di sofferenza del Figlio nella sua passione e morte”. (27) Egli pertanto considera “aprioristico il rifiuto” da parte di molti teologi attuali, della “visione immediata e beata del Padre nel Cristo prepasquale”. (28)

Quanto alla natura della visione egli osserva: “questa conoscenza immediata di Dio è certamente atematica, ma non per difetto, bensì per eccesso. Essa, infatti, è intrinsecamente ineffabile, perché «extracategoriale» e «metaconcettuale». Supera cioè per la ricchezza e l’inesauribilità del suo contenuto tutte le categorie concettuali del linguaggio umano. Più che indeterminazione atematica è quindi superdeterminazione e superconcentrazione tematica. Per cui paradossalmente la tematizzazione di questa visione mediata in categorie e linguaggio umano non rappresenta un progresso e un arricchimento, bensì una vera e propria kénosi e una involuzione, perché si va dal «di più» della conoscenza al «meno» della espressione e della formulazione. Di conseguenza l’indispensabile concettualizzazione, che questa visione sopracategoriale ha dovuto subire mediante la cosiddetta «scienza infusa», costituisce un misterioso processo kenotico. Il Cristo terreno vive in sé il passaggio dalla ricchezza della visione al continuo e intrinseco depauperamento della sua traduzione concettuale”. (29)

Amato conclude la sua analisi critica con l’affermazione: “La risposta allora alla domanda se in Gesù ci sia stata fede è negativa, sia da un punto di vista biblico, che da quello teologico. Nel NT Gesù non è mai presentato come il primo credente o come il modello della fede (Abramo per l'AT e Maria per il NT lo sono), bensì come colui che è la fonte e il fine della fede dei discepoli. Propriamente parlando, Gesù non ha la fede, ma suscita la fede. Se la nostra fede cristiana è fede in Gesù Cristo, Gesù non ha potuto avere la fede”. (30)

Torneremo più avanti sulla consistenza di queste argomentazioni. (31)

3. La fede di Gesù: argomenti biblici e coerenza dogmatica

In questi ultimi decenni è diventato sempre più folto il gruppo dei teologi che rifiutano l’opinione tradizionale e parlano della fede di Gesù. Il cambiamento non è stato improvviso ma è avvenuto a piccoli passi. Alcuni teologi hanno ammesso l’esercizio della fede anche nello stato di gloria; (32) altri hanno attribuito a Gesù una particolare intuizione di Dio compatibile con la fede, (33) altri hanno accentuato la dimensione filiale di Gesù e il corrispondente atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, accompagnato da una particolare intuizione di Dio. (34) Infine altri sia biblisti che teologi senza difficoltà parlano di un autentico cammino di fede di Gesù, senza tentativi di conciliazione con la tradizione teologica. (35) Essi negano a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuiscono un’autentica vita di fede, che è norma per il nostro cammino. In questo senso, secondo le formule della lettera agli Ebrei, Gesù è “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1), “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2). Per costoro tutte le argomentazioni addotte dai teologi dei secoli scorsi, sia quelle di ispirazione biblica che quelle dogmatiche, erano valide solo se riferite alla condizione gloriosa di Cristo, ma non alla sua esistenza terrena.

Non mi fermo ad esaminare le varie posizioni. (36) Vorrei piuttosto presentare gli argomenti addotti sia quelli biblici (3.1) che quelli dogmatici (3.2). In un quarto paragrafo vorrei poi proporre una breve riflessione sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche.

3.1. Argomenti biblici.

Abitualmente tutti affermano che nella Scrittura Gesù non è mai soggetto del verbo pisteuo, non si dice cioè che Gesù ha esercitato la fede o che ha creduto come si dice di Abramo o di Maria. Ma questo argomento negativo non è sufficiente a dimostrare l’assunto tradizionale. Vi sono infatti nel Nuovo Testamento numerose indicazioni relative all’esercizio della fede di Gesù.

Wilhelm Thüsing in un volume scritto insieme a K. Rahner scrive: “Della fede di Gesù stesso si parla nel NT almeno in due scritti, il Vangelo di Marco e nella lettera agli Ebrei; inoltre io credo di poter dimostrare l’esistenza di questo tòpos anche in Paolo”. (37) Del Vangelo di Marco egli cita l’episodio del ragazzo epilettico del cap. 9 (vv.14-29). Il Padre del ragazzo dice a Gesù: “se tu puoi fa qualcosa”. Gesù riprende la formula e, quasi riflettendo tra sé e sé esclama: “se tu puoi. Tutto è possibile per chi crede” (Mc. 9,23). Thüsing commenta: “In questo collegamento logico, soltanto Gesù può essere inteso come colui che crede, al quale, appunto attraverso la fede, la guarigione è possibile. Una conferma di ciò la troviamo alla fine della pericope, nel versetto 29, dove Gesù designa la preghiera come condizione dalla quale dipende la possibilità o l’impossibilità della guarigione”. (38) Anche Jon Sobrino che accetta questa argomentazione scrive: “In questo passo «chi crede» non è altri che Gesù stesso, il quale compie infatti il miracolo in base alla propria fede. Lo conferma il v. 29: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera»: gli esegeti equiparano questa preghiera alla fede. Ciò che qui si afferma direttamente è dunque il fatto che Gesù possedette la forza proveniente dalla fede, mentre egli stesso viene indirettamente dichiarato come colui che ha fede.. Gesù - così almeno ha interpretato Marco- fa riferimento alla propria fede e viene dichiarato uomo di fede”. (39) L’argomentazione di Wilhelm Thüsing viene citata anche da Walter Kasper: “Qui la fede viene.. considerata come partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come una capacità di ridonare la salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano, dovremmo convenire che soltanto Gesù qui è «colui che crede» e che solo lui, proprio in forza della sua «fede», è capace di sanare… Nella sua radicale obbedienza Gesù è quindi la radicale originarietà da Dio e il radicale riferimento a Lui. Egli non è nulla da sé ma tutto da Dio e per Dio. È quindi la forma vuota, lo spazio aperto all’amore di Dio che si comunica.. La successiva cristologia della figliolanza non è altro che l’interpretazione e traduzione di ciò che si trova nascosto nell’obbedienza e donazione filiali di Gesù”. (40)

Non ci sono eccessive difficoltà a riconoscere la convinzione che secondo la Lettera agli Ebrei, Gesù abbia esercitato la fede. Egli viene riconosciuto “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) e “iniziatore e consumatore della fede” (Eb 12,2). L’autore riconosce che Gesù aveva introdotto una modalità nuova nell’esercizio della fede in Dio, aveva aperto una via particolare. I discepoli di Gesù erano appunto designati “quelli della via di Cristo” (cfr Atti 9,3). D’altra parte la stessa Lettera osserva che Gesù aveva imparato “l’obbedienza (= la fede, l’ascolto) dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= che hanno fede in Lui)” (Eb., 5,8s.). Gesù ha reso così possibile un nuovo tipo di esperienza di Dio. “Si tratta dell’esperienza che la πίστις, in quanto fiducioso abbandonarsi al Dio della promessa, in quanto orientamento e in quanto resistenza nella situazione di tentazione, è possibile se si leva lo sguardo a colui che, in quanto credente (Eb 12,2) non solo incomincia l’esperienza di fede (come iniziatore oppure condottiero [α̉ρχηγός] della fede, ma anche la perfeziona”. (41) “Questo tuttavia non va inteso in maniera puramente esemplare, bensì prototipa e originaria: come colui che ha vissuto questa ‘fede’ in modo singolare e la cui fede adesso è pervenuta allo stato di ‘perennità’, egli da ai suoi la forza per questa fede – cioè (secondo il contesto di Eb. 12) per «la corsa senza posa» verso la meta della promessa”. (42)

Quanto a Paolo è interessante notare il valore di una sua formula singolare: πίστις Χριστoυ̃: fede di Cristo. Essa è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. (43)

Non è questo il luogo per una esegesi particolareggiata dei testi citati. (44) Presento solo velocemente il ventaglio delle interpretazioni e chiarisco la ragione di coloro che argomentano a favore della fede personale di Gesù.

Possiamo raggruppare le interpretazioni del sintagma genetivale πίστις Χριστoυ̃ in quattro gruppi:

a. senso oggettivo: la fede in Cristo. È questa l’interpretazione più tradizionale comune ai Padri greci, agli occidentali come S. Agostino e S. Tommaso. Anche Lutero interpreta Paolo in senso oggettivo. I commentari e le traduzioni più diffuse (la traduzione CEI sia nella prima redazione che nella recente revisione) interpretano la formula come la fede in Gesù Cristo.

b. Senso soggettivo: la fede esercitata da Gesù nei confronti del Padre; lo stile della sua fiducia in Dio, che ha influito sui discepoli e ha suscitato la loro fede. Diversi esegeti e teologi attuali come vedremo, interpretano a formula in questo senso.

c. Senso genetico o di autore: la fede suscitata da Cristo, sia nei confronti di Dio (perché da lui esercitata) sia nei suoi confronti: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv. 14,1).

d. Senso complesso: che racchiude diversi significati intrecciati in virtù dell’unione profonda che il discepolo ha con Cristo perché guidato dal suo Spirito. R. Vignolo la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: “fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui”. (45) Egli osservando che “il sintagma così inteso svolge un ruolo di raccordo privilegiato nel contesto del pensiero paolino” ricorda in modo sommario altre interpretazioni complesse. (46)

Roberto Vignolo nel suo articolo molto attento ed accurato, osserva che “percentualmente nel corpo paolino largamente inteso (con eccezione di Eb. e prescindendo dai casi direttamente in questione) πίστις è seguita 29 volte da genitivo soggettivo e solo 3 volte da genitivo oggettivo. Evidentemente i genitivi di Rom 3,3; 4, 12.16 sono tutti soggettivi”. (47)

In conclusione credo che non si possa escludere il riferimento soggettivo nelle formule paoline citate. Altrimenti Paolo avrebbe scelto l’espressione πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃.

3.2. Coerenza dogmatica.

Tutte le argomentazioni, sia di carattere biblico che razionale, addotte dai teologi che difendono la dottrina tradizionale, valgono per lo stato glorioso di Cristo e non per la sua esistenza terrena. Argomentare ad es. che Cristo, come principio della beatitudine dei santi, deve possedere in sé, ciò che dona ai beati, ha una certa legittimità solo se riferita a Cristo co­stituito Messia e Signore (At. 2, 36), ma non vale per l'esistenza terrena di Gesù. Lo stesso può dirsi dell'argomentazione secondo cui Gesù deve possedere la pienezza della grazia (cfr. Gv.1,14) che comunica, o che in Lui “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col. 2,3).

Molte sono le ragioni che hanno determinato l’attribuzione a Gesù della visione beatifica e alla conseguente negazione della fede. Ne ricordo alcune per rendere conto della deformazione subita dalla cristologia e dalla spiritualità.

In primo luogo si concepiva l’incarnazione come un evento istantaneo, perfetto fin dall’inizio; mentre è un processo che si compie nella risurrezione, quanto Gesù è stato costituito figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito ( cfr. Rom 1,4).

Si pensava inoltre che la conoscenza umana potesse essere acquisita per infusione di specie intelligibili indipendentemente dall’esperienza. Mentre, nella prospettiva antropologica unitaria, propria dell’attuale cultura, anche quando è dono divino ogni conoscenza viene sempre filtrata dall’esperienza che soggiace.

Infine non si teneva conto sufficientemente della definizione del Concilio di Calcedonia, non molto nota in Occidente. Affermare infatti che l’unione ipostatica debba indurre una conoscenza peculiare in Gesù, significa non riconoscere il carattere peculiare dell’Unione ipostatica, che, secondo il Concilio avviene “senza mutazione e senza confusione” (asynxùtos, atréptos). La natura umana perciò conserva le caratteristiche e le dinamiche proprie come la natura divina del Verbo conserva le proprie.

L’opinione che attribuisce a Gesù storico la visione beatifica si è potuta sviluppare quindi solo in ambito neocalcedonese o, come altri dicono, in “una prospettiva cristologica alessandrina”. (48)

Alcuni cambiamenti avvenuti nella teologia ci consentono oggi di prospettare diversamente il cammino di Gesù. P. A. Sequeri ne privilegia due: “L’elaborazione più approfondita del carattere integralmente storico della incarnazione e il ricupero della più sostanziale nozione di fede come principio di una relazione di totale adesione sostanziale a Dio, consentono oggi di apprezzare l’importanza di quella indicazione, senza pregiudizio (anzi) per la comprensione dogmatica della singolarità e unicità della identificazione di Gesù con il Figlio”. (49)

La cosa che sorprende è il tipo di vita umana che, secondo l’opinione tradizionale, Gesù avrebbe condotto nell’ipotesi che Egli fin dall’inizio, vedesse tutto in Dio. La sua attività si sarebbe svolta come la recita di un copione già scritto, pur coinvolgendo in profondità tutte le sue facoltà umane. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe confrontato continuamente con la volontà del Padre e avrebbe fedelmente seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e caricava alcuni altri di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di una “parodia di umanità”. (50)

Jon Sobrino osserva poi che nella scolastica si era giunti in modo sorprendente a considerare la fede come non costitutiva della condizione umana. Se non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: “Lo si potrà chiamare uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale, anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia – significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la realtà umana”. (51)

La fede è la prima incidenza dell’azione divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di ascolto che è appunto la fede. Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata progressiva: Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso Egli è diventato “la figura riuscita del perfetto credente”. (52) La fede in Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. “In questa prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento di quella relazione che attua il regno nella sua persona”. (53)

Infine nel considerare la fede e le sue dinamiche non ha senso opporre l’atteggiamento vitale di abbandono fiducioso e la conoscenza. Questa infatti si sviluppa solo all’interno dell’esperienza di fede che fiorisce nell’amore. Anche per Gesù vale il principio ricordato da Giovanni: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1 Gv. 4,7). Anche Gesù è cresciuto nella conoscenza di Dio attraverso la vita teologale, l’esercizio cioè della fiducia in Dio che in lui fioriva come amore.


(continua)

Note

1) Dedico con gratitudine questa breve relazione alla memoria dell’amico scomparso il 13 corrente mese [luglio 2005], P. Dalmazio Mongillo O. P., profondo indagatore del mistero di Dio, e sempre attento con l’intelligenza del cuore ai problemi dell’uomo. Maestro efficace di dottrina e testimone fedele per la sapienza da contemplativo che lo abitava.

2) Pietro Lombardo ad esempio nega l’esercizio delle virtù della fede e della speranza “quia non aenigmaticam et specularem, sed clarissimam de ea (= della risurrezione futura) habuit cognitionem. Quia non perfectius cognovit praeteritam, qual intellegit futuram… nec tam fidem vel spem-virtutem habuit, quia per speciem videbat ea quae credebat” Liber Sentent. III, dist. 26. cap. 4.

3) Commentando le Sentenze di Pietro Lombardo S. Tommaso giovane sosteneva che la scienza acquisita non proveniva dall’esperienza bensì era “infusa per accidens” (In 3 Sent. D. 14, a.3, ac. 5 ad 3; d. 18 a. 3 ad 5um.). Nella Summa Theologiae si corregge (quamvis alibi aliter scripserim) e parla di una vera scienza acquisita attribuendo a Gesù “alcune specie intelligibili prodotte dall’intelletto agente e accolte dal suo intelletto possibile” (S. Th III q. 9, a. 4)

4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 7, a. 3.

5) Galot J., Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 pp. 317-318 cita il Cursus theologicus, Tratt. 221 De incarnatione, disp. 22, dub 2, 4 n. 29 (ed Paris-Bruxelles-Génève 1880) t. XV, p. 320. Egli conclude : « La visione beatifica del Gesù terreno manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura né dalla tradizione patristica” p. 324.

6) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 32 DHü 3432 .

7) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 34 DHü 3434. Cfr. C. Porro, La controversia cristologia nel periodo modernista, Vengono 1971.

8) Decreto 5 giugno 1918 DHü 3645.

9) “Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del corpo mistico e le abbraccia con il suo salvifico amore” Pio XII Lettera Enciclica Mystici Corporis, AAS 36 (1943) p. 230 DHü 3812. Anche l’Enciclica di Pio XII sul Sacro Cuore, Haurietis acquas(1956) accenna a questi tipo di conoscenza di Gesù, DHü 3924. Oggi i teologi considerano questi riferimenti senza importanza dottrinale essendo incidentali, espressione delle opinioni comuni della teologia del tempo. “I cenni alla visione beatifica del Gesù terreno, contenuti nella Mystici corporis e nell’Haurietis acquas sono incidentali e non intendono definire un punto dottrinale” Forte B., Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della storia, S. Paolo, 1981 p. 201 n. 16. Cfr anche Galot J., Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 1977 p. 327 n. 33.

10) Pesce Santi, É possibile la visione beatifica in un'anima viatrice, Catania 1965 p. 197. Le sue riflessioni vorrebbero illustrare l’esperienza mistica di Lucia Mangano (Trecastagni (Ct) 1896 - S. Giovanni La Punta (Ct) 1946), della Compagnia di S. Orsola. Le vengono attribuite esperienze mistiche interpretate come “visione beatifica in statu viae”.

11) Rahner K., Considerazioni dogmatiche sulla scienza e coscienza di Cristo, in Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 201 (La conferenza è del 1961).

12) Rahner K., Considerazioni...., in o. c., p. 238. Rahner precisa che queste conoscenze acquisite sono “come tematizzazione oggettivante di questo originario e perenne contatto immediato on Dio, che si estrinseca nell’incontro con il proprio ambiente spirituale e religioso, nonché nella graduale conoscenza sperimentale della propria esistenza” ib.

13) Karl Rahner rilevava “qualche ideuccia docetistica e monofisitica... quando i cristiani parlano dell'incarnazione di Dio” (Teologia dell'incarnazione, in Saggi di cristologia e mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 117); analogamente parlava di “una maniera monofisitica e criptoeretica” di intendere “la predicazione logica degli idiomi” (Problemi di cristologia d'oggi, ib. p. 58); sul rapporto con l’esegesi concludeva: “Se il monofisismo e il monotelismo...saranno veramente eliminati dalla nostra cristologia concreta e vissuta, non solo nelle formulazioni estreme della loro tesi ma anche nella nostra comprensione originaria e senza riserve religiose, riusciremo più facilmente ad instaurare un rapporto libero e piano sui risultati cui l’odierna esegesi è giunta a proposito del Gesù storico” La cristologia fra l'esegesi e la dogmatica, in Nuovi Saggi 4, Paoline, Roma 1973 p. 271. Il monofisismo, difeso da Eutiche, un archimandrita di Costantinopoli, attribuiva qualità divine alla natura umana di Cristo. Fu condannato nel quarto Concilio ecumenico a Calcedonia (451).

14) Rahner K.- Thüsing W., Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974

15) Rahner K., Cristologia oggi ? in Id., Teologia dell’esperienza dello Spirito, in Nuovi Saggi VI, Roma 1978 p. 439.

16) Malevez L., Le Christ et la foi, in Pour une théologie de la foi, Cerf Paris 1969 pp.159-216.

17) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi. Saggi Teologici 2, Morcelliana, Brescia 1972 (l’originale è del 1961) pp. 41-74.

18) M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995.

19) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi o. c., p. 48.

20) Nella Teodrammatica scrive di Gesù: “Dal momento che egli non conosce o non vuole conoscere le strade su cui Dio va con lui in adempimento della missione, ma ha la certezza che il Padre adempirà la missione sino al termine, la definizione di fede della lettera agli ebrei può venire applicata a lui” Teodrammatica, 3: Le persone del dramma, l’uomo in Cristo, Jaca Book, Milano 1983 pp. 161 s. Poco dopo ammette e accoglie il fatto che: “una lunga e seria tradizione teologica considera cosa conforme alla dignità del salvatore del mondo la necessità di attribuirgli fin dal primo istante della sua incarnazione, non solo un sapere a riguardo della sua missione, ma di ogni cosa umanamente conoscibile, quantomeno legata a un valore salvifico. Riedlinger ha mostrato in maniera convincente che questo teologhema circolante per la patristica e la scolastica non è semplicemente ascrivibile a una miope teologia di convenienza che voleva adornare Cristo di tutte le sue condegne prerogative, ma che si rifà senz’altro a una tendenza biblica sempre più intensa a partire da Paolo e da Marco e attraverso Matteo e Luca fino a Giovanni, dove Gesù appare «onnisciente» (Gv. 16,30; cfr.16,19)” (p. 164). In nota a conferma di questa opinione egli cita H Riedlinger, Geschichtlichkeit und Vollendung des Wissens Christi(QD32, Herder 1966) p. 65 e il contesto pp. 58-71; aggiunge poi: “Ma con ragione vi si dice: «Se il Padre che l’ama gli mostra tutto ciò che lui stesso fa, ciò non vuol dire senz’altro che il Gesù terreno ha ininterrottamente davanti agli occhi tutta la realtà»” p. 69.

Una dettagliata esposizione del pensiero di Hans Urs von Balthasar su questo tema si trova in F. G. Brambilla, Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 79-99 (pp. 69-124).

21) Brown R., Scienza e coscienza di Cristo, in Id., Gesù Dio e uomo, Cittadella Assisi 1970 pp. 53-121 qui p. 75. Sulla questione generale egli sostiene: “La Scrittura da sola non dimostra, ma non è contraria a una teoria che ammetta uno sviluppo psicologico della conoscenza che Gesù poteva avere di ciò che stava per accadergli” ib. p. 84.

22) AA. VV., La visione beatifica di Cristo viatore, in Doctor communis, numero speciale, Vaticano 36 (1983). Tra gli altri vi scrivono il biblista Feuillet, La science de vision de Jésus etles Evangiles,pp. 159-169; il patrologo Salgano J.-M., La science du Fils de Dieu fait homme. Prises de position des Pères et de la Pré-scbolastique (II- XII siècle) pp. 180-286 ; il sistematico Ols D., La visione beatifica di Cristo viatore, pp. 323-411

23) Amato A., Fede di Gesù? A proposito di una recente pubblicazione, Salesianum 64(2002) pp. 67-112. Recensisce AA. VV., (a cura di G. Cannobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2001.

24) Scrive: “La visione beatifica dell'anima umana del Cristo è anzitutto l'espressione dell'armonia esistente in lui tra l'ordine dell'essere e quello del conoscere. Dall'unione, infatti, della natura umana nella persona del Verbo, segue anche la sua unione nella visione. Questa visione è, quindi, la traduzione coscienziale dell'unione ipostatica. Si coglie qui la relazione profonda esistente tra il Verbo e la sua umanità assunta.” Amato A., Fede di Gesù? a. c., p. 109

25) Amato A., a. c., p. 109 (e n. 91) cita e riassume C. Nigro, Il mistero della conoscenza umana di Cristo nella teologia contemporanea,IPAGRovigo 1971, p. 45.

26) Amato A., a. c., p. 116.

27) Amato A., a. c., p. 109.

28) Amato A., a. c., p. 103.

29) Amato A., a., c. p. 110. Rimanda a Nigro C. o. c., p. 32 ss.

30) Amato A., a. c., p. 111 (sottolineatura mia).

31) Come si vede tutti gli argomenti si muovono in orizzonte neocelcedonese e spesso passano dalla semplice ammissione di possibilità della visione beatifica alla affermazione della sua effettiva realtà. Il termine ‘neocalcedonese’ è stato introdotto negli anni ’60 per indicare gli sviluppi e gli adattamenti che la dottrina di Calcedonia ha subito nei secoli successivi nel tentativo di raggiungere un compromesso con i monofisiti.

32) J. Guillet, La fede di Gesù Cristo, Jaca Book Milano 1982 “Se la fede rimane nella visione gloriosa, se la visione sola è capace di darle la sua pienezza e la sua perfezione, si capisce che Gesù, poiché è il figlio, lo splendore della gloria del mondo (Eb 1,1-3), sia anche .. colui che nella sua fede si trova al punto di partenza e al compimento della fede… La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo” pp. 178-179.

33) “La visione beatifica del Gesù terrestre manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura, né dalla tradizione patristica” J. Galot, Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 p. 324. Tuttavia egli attribuisce a Gesù storico una particolare intuizione del suo io divino: “Questa presa di coscienza [del proprio io divino] pur comportando i limiti e l'oscurità inerenti a una qualsiasi psicologia umana, è fatta di una evidenza intima che non può essere ricondotta alla forma di un atto di fede” Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 19843 p. 349 (pp. 348-351). Egli aggiunge però: “Ci sono nelle disposizioni di Cristo elementi essenziali della fede, e nella sua esperienza intima vi sono prove che somigliano a quelle della fede. Da questo punto di vista, Gesù deve essere considerato come il modello della nostra fede" ib. p. 350. Cfr. anche Id La coscienza di Cristo, Cittadella, Assisi; Id., Gesù ha avuto la fede? in Civ. Catt. 133(1982) 3 pp. 460-472. Nella stessa linea sembra essere G. Iammarrone: “In questo senso egli fece proprio in una certa misura l'atteggiamento dei «credenti» di cui ci narra la Scrittura. Anche se non si vuole, e forse non è il caso di denominare l'atteggiamento di Gesù «fede», dati gli equivoci che tale termine può sempre suscitare, ci sembra che esso vada rilevato e ben sottolineato in una valorizzazione di lui quale archetipo e modello dell'«uomo nuovo»”, L'uomo immagine di Dio. Antropologia e cristologia, Borla, Roma 1989 p. 70.

34) L. Malevez continuando la riflessione di K. Rahner affronta il tema della fede di Gesù sottolineando l’aspetto della libertà e della fiducia in Dio: “l’abbandono per il quale la natura umana singolare di Gesù passa nell’appartenenza a Dio non può essere concepito sotto tutti i rapporti come un’alienazione. La stessa assunzione per la quale il Verbo attira a sé la sua umanità, è l’atto stesso con il quale la dona e la restituisce più perfettamente a se stessa, perché la fa essere ciò a cui essa stessa aspirava” Le Christ et la foi, in Id, Pour une théologie de la foi, Paria 1969 (pp. 159-216) p. 195. Anche B. Forte sviluppa le intuizioni di K. Rahner sulla conoscenza atematica e irriflessa e le conseguenti interpretazioni delle formule bibliche concludendo che tale modo “mentre salvaguarda la condizione unica della coscienza umana di Figlio in Gesù, da conto suggestivamente della sua fede e della sua speranza” Gesù di Nazaret, storia di Dio,Dio della storia, Paoline, Roma 19844 p. 209

35) Cfr. ampia bibliografia in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 43 s. (per aspetto biblico) p. 99. n. 56 (aspetto dogmatico); Dupuis J., Introduzione alla cristologia, Piemme, Casale Monferrato 1998.

36) Cfr. Brambilla F. G., Le principali tendenze sulla fede di Gesù, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, o. c., pp.77- 122; Presenta le diverse opinioni secondo tre paradigmi: 1. Paradigma scolastico per cui cita il domenicano Ols. 2. Paradigma della singolarità: H. U. von Balthasar; 3. Paradigma antropologico: K. Rahner- L. Malevez. Presenta poi da parte sua alcune Ipotesi conclusive ( pp. 122-124). Cfr. anche Molari C., Gesù rivelatore del Padre in Auer J., Gesù il Salvatore. Cristologia, Cittadella, Assisi (pp. 5-35) pp. 14-21; Id., La fede nel Dio di Gesù, Camaldoli 1991, dove elenco cinque opinioni diverse.

37) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in Rahner K.- Thüsing W., Cristologia.Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974 pp. 97-361 qui p. 251. L’originale è del 1972.

38) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 253. Tra i teologi già Gerhard Ebeling in un articolo del 1958 scriveva “Naturalmente il ‘tutto è possibile per chi crede’ (Mc 9,23), visto nel contesto in cui è posto, va applicato prima di tutto a Gesù, e lo stesso dicasi dell’affermazione di Mc 11,23 e par. a proposito del fico seccato… Considerato il modo con cui parla della fede, difficilmente lo si può escludere da questa stessa fede” (tr it. Gesù e fede in Parola e fede, Bompiani, Milano 1974 (pp. 77-126) qui p.114).

39) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1995 pp. 271 s. Egli richiama anche Mc 11,22 ss.: la fede che sposta le montagne in rapporto all’episodio del fico (Mc 11,20).

40) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 150.

41) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 188.

42) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 252.

43) A queste alcuni aggiungono anche Gal 3,26 secondo la variante di P46 e di altri manoscritti; la maggioranza ha la lezione più facile: πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃. Cfr. Vignolo R., nello studio citato nella nota seguente definisce “interessante variante” (p. 45 ) quella delle poche testimonianze che egli elenca dettagliatamente.

44) Vignolo R., La fede portata da Cristo. Πίστις Χριστoυ̃ in Paolo, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 43-67. Alle pp. 45-46 traduce la formula nei nove riferimenti paolini (compreso Gal 3,26) con l’espressione “la fede portata da Cristo” o “la fede portata dal Figlio di Dio” o “la fede portata da Gesù”).

45) Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 67; la definisce anche: “fede istituita da Gesù, portata da Gesù, da lui stesso direttamente inaugurata in singolare, inconfondibile, pienezza, e in forza dell’universale inclusività garantita dal soggetto e dall’atto di quell’evento, instaurata pro nobis come universalmente partecipabile” p. 66 .

46) “L’interpretazione qui proposta rende pure ragione allo spessore fiutato da molti illustri esegeti paolini, che in proposito, con formule magari non felicissime, hanno parlato di «genitivo mistico» (Deissmann), o di principio metafisico («la fede che è il Cristo»: Lohmeyer)” Vignolo R., ib., p. 67. Precedentemente aveva ricordato anche le interpretazioni di Hatch (genitivo di appartenenza) e di Schweizer (genitivo di comunione) ib. p. 46.

47) Vignolo R., ib., p. 48. In nota (in polemica con Romano Penna) egli aggiunge che questo dato “relativizza l’osservazione per cui Paolo .. si atterrebbe al più comune uso greco di sintagmi genitivali con πίστις + genitivo prevalentemente in senso oggettivo” Id. ib. p. 48 n. 12. Si riferisce a R. Penna, Il tema della giustificazione in Paolo. Status quaestionis, in ATI ( a cura di G. Ancona), La giustificazione, Messaggero, Padova 1997, pp. 19-64 qui p. 47. Romano Penna interpreta il sintagma sempre in senso oggettivo. Egli tra l’altro a pagina 41 “offre una limpida messa a punto circa il genitivo complesso delle «opere della legge» (in precedenza attribuito anche al sintagma «giustizia di Dio»”. Si chiede quindi Vignolo: “perché allora non far valere anche in questo caso la qualità di un genitivo complesso, uscendo così da un troppo schematico aut-aut tra genitivo ogg. E sogg.?” Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 56 n. 27.

48) Brambilla F. G., Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 p. 123 (pp. 69-124).

49) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, in AA.VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 13-41 qui p. 16

50) Maritain J., Della Grazia e della umanità di Gesù, Morcelliana Brescia 1971 p. 18.

51) Sobrino J., Gesù liberatore, o. c. p. 270.

52) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 17.

53) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 16.

Pubblicato in Teologia

I problemi attuali dell'ecclesiologia

di Giovanni Tangorra


La Chiesa del Vaticano II si è rivolta al presente, all'uomo di oggi coni suoi interrogativi e le sue angosce, cercando di trasmettergli il proprio messaggio di salvezza. È stato un lavoro intenso finalizzato al rinnovamento del volto ecclesiale ma, paradossalmente alla chiusura del concilio, ci si è accorti che il problema principale restava proprio la Chiesa. L'opera di aggiornamento con cui si indicava ciò che essa avrebbe dovuto essere era stata svolta con una riflessione a tutto campo ma molte idee restavano ancora a livello di intuizioni. Allo stato attuale, mentre nel mondo si disegnano nuovi scenari, con crisi economiche e politiche di livello internazionale, il cattolicesimo conosce situazioni contraddittorie. C'è chi ripropone un tradizionalismo nostalgico e chi prospetta una fuga verso direzioni più radicali, ma anche un numero sempre più cospicuo di indifferenti che auspicano un cristianesimo senza Chiesa. Questi e altri problemi impongono nuove sfide e la necessità di mettere in chiaro alcuni nodi ecclesiologici, più o meno evidenti, cui occorre porre mente e cuore.

Il nodo del soggetto

Nel passato il cristianesimo costituiva l'ovvio, la pressione sociale era meno esigente e il ruolo della Chiesa non veniva messo in discussione. I cittadini potevano apprendere i rudimenti della fede, praticare i sacramenti e conoscere le leggi della Chiesa persino nei programmi delle scuole pubbliche. La situazione odierna è radicalmente diversa e la Chiesa si trova nell’esigenza di aprirsi uno spazio nel grande mercato delle opzioni religiose. È realistico pensare che il futuro non sarà contrassegnato da un ritorno della situazione di privilegio goduta nel passato ma da un deciso incremento del pluralismo che rischierà di rendere marginale l'identificazione stessa dei battezzati. Il rimedio può essere trovato solo in un deciso richiamo alla responsabilità del soggetto, all'elaborazione personale delle scelte puntando sulla capacità umana di prendere autonomamente le proprie decisioni. Il cristianesimo che si imponesse per costume o per tradizione è inevitabilmente destinato all'estinzione. Il primo compito sarà perciò quello di passare «da una Chiesa di popolo a una Chiesa formata da coloro che, in contrasto con il loro ambiente, sono impegnati per una decisione di fede personalmente, chiaramente e riflessamente responsabile». Chi lo dice è Karl Rahner che aggiunge: «O la Chiesa del futuro sarà una tale Chiesa oppure non sarà più» (1).

Questa esigenza è percepita negli stessi documenti ufficiali che con sempre maggior convinzione parlano della necessità di creare un «cristianesimo adulto». Negli Orientamenti pastorali per l’attuale decennio, i vescovi italiani scrivono: «Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo» (n. 50). Il suggerimento è quello di puntare sulla formazione, favorendo «esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente ancorate al Vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un mondo in forte cambiamento» (n. 45). Il fine non è naturalmente l'autocompiacimento ma la realizzazione autentica di una Chiesa di testimoni, per «far sì che le comunità divengano segni eloquenti, a motivo della loro vita “diversa”. Ciò non significa credersi migliori, né comporta l'esigenza di separarsi dagli altri uomini, ma vuol dire... costituirci testimoni» (ivi).

Prima però di interessare l'individuo e le sue convinzioni, la svolta del soggetto deve compiersi a livello di Chiesa, sbloccando l'ecclesiologia giuridica che riduce i rapporti del credente con una realtà intesa in senso impersonale. È questa considerazione, infatti, che irrigidisce l'appartenenza a una specie di gregariato, rischiando di ridurre la fede ad un assenso su una serie di dogmi, la liturgia al conformismo rituale e le relazioni intraecclesiali a un rapporto di competenza-contrapposizione tra clero e laici. In un quadro così delineato si nutre la falsa convinzione che la Chiesa possa andare avanti da sola, per la forza dei suoi strumenti ma la conseguenza inevitabile sarà quella di produrre un corpo anonimo, depersonalizzato.

Fu una situazione di questo tipo a portare un ispiratore del concilio come Yves Congar a lavorare intensamente per una revisione del concetto di Chiesa che si spostasse dalle «cose» alle «persone». Ecco un testo, fortemente autocritico, che può essere indicato come punto di partenza di tutto il suo progetto ecclesiologico: «La teologia cattolica ha considerato poco le realtà cristiane vissute nel soggetto religioso. Essa ha considerato la Chiesa come un'istituzione esistente oggettivamente - ciò che essa è in modo sicuro - molto poco come assemblea dei fedeli e comunità vivente risultante dalla loro azione» (2). Questa osservazione ha portato il teologo francese a condividere il disagio istituzionale delle nuove generazioni e a giudicarlo positivamente, sostenendo che il futuro della Chiesa dipenderà proprio da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti» (3).

Il nodo della comunione

Il Vaticano II ha posto solo i primi passi di un'ecclesiologia diversa, chiamata di «comunione» L’intento era quello di rinvigorire la Chiesa sul piano spirituale e di cercare una forma organizzativa meno centralizzata e più sinodale. Gli anni successivi sono stati caratterizzati dalla ricezione di questo tema con dichiarazioni solenni come quella del Sinodo straordinario dei vescovi che, convocato in occasione del ventennio del concilio, ha sostenuto di dover considerare la comunione come «l'idea centrale dell’eccclesiologia conciliare» (4). Cosa però comporti concretamente l’assunzione di questo modello concettuale e quale tipo di ordinamento ecclesiale si stabilisce sul suo fondamento, sono aspetti che gli ecclesiologi non hanno ancora pienamente risolto. Per questo non mancano anche le perplessità e le attenzioni. Grazie a questo modello l'ecclesiologia è comunque costretta ad approfondire nuovi percorsi, tre dei quali qui meritano di essere sottolineati: la fraternità, la corresponsabilità e la sinodalità.

La fraternità ecclesiale va vissuta attraverso un concorso di sentimenti affettivi ma anche con gesti concreti ispirati all’amore, alla giustizia, all'incontro, allo stare in-sieme, allo scambio, all'ospitalità, al servizio, tutti valori che corrispondono all'indole comunitaria che caratterizza il mistero ecclesiale. La coscienza di una tale comunione non può che avere un respiro universale ma è anche vero che, per sua natura, essa ha bisogno di strutturarsi in modo concreto, partendo dal centro pulsante del mistero ecclesiale che è l'eucaristia. L'autonomia delle Chiese locali e lo sviluppo legittimo delle loro diversità rientra quindi a pieno titolo fra i compiti di una ceclesiologia di comunione. Ogni Chiesa deve potere esprimere la sua novità, l'elemento differenziante con cui concretizza e dà forma al tempo di Dio, con parole ed eventi sperimentati nella dimensione dell'hic et nunc.

Resta la questione spinosa della tensione fra località e universalità. Il noi dei fedeli in un luogo stabilisce un'identità plurale delle Chiese sparse nel mondo ma lo Spirito, che è garanzia della pienezza locale, è anche colui che rifiuta gli esclusivismi e le autonomie faziose. Il ministero petrino svolge un ruolo chiave ma dovrà anche apparire come garanzia di un'unità molteplice, in grado di tutelare «le varietà legittime e insieme vegliare affinché ciò che è particolare non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Forme e modi sono però qui ancora da cercare e il tema è uno di quelli che conosce il maggior fermento. Un vero nodo ecclesiologico.

Un elemento che ha incoraggiato la riscoperta della Chiesa locale è stata la nuova sensibilità per rapporti ecclesiali che si vogliono meno formali e più veritieri sul piano umano. Questa singolare congiunzione di antropologia ed ecclesiologia ha contribuito non poco a intensificare ulteriormente il movimento della localizzazione per ricreare vecchie organizzazioni bloccate come la parrocchia e per inventare cellule ancora più piccole come il movimento, l'associazione o il gruppo che fossero capaci di offrire un'esperienza più significativa della vocazione fraterna della Chiesa con la realizzazione di rapporti realmente interpersonali. Un riconoscimento particolare andrà ai nuovi soggetti, in macro come quello delle unità pastorali, e in micro, come le comunità di base. Parlando sempre in termini di futuro il citato Rahner scrive: «La Chiesa sarà sorretta, necessariamente, dalla fede libera dei suoi membri e dalle comunità di base che non si limitano a ricevere le cure della Chiesa ufficiale, ma costituiscono la chiesa in modo responsabile, autonomo e attivo» (5).

L'ecclesiologia della comunione dispiega inoltre una teologia della corresponsabilità, portando ogni Chiesa locale (ogni gruppo, ogni cristiano) ad elaborare processi autonomi di decisione e collaborazione, perché è solo nella libertà reale che si può comunicare e produrre un autentico consenso. Il problema punta qui su una questione centrale: come accordare il principio dell'autorità con il principio dei carismi? Come risolvere i conflitti che, nonostante la buona volontà, ancora si presentano su questo terreno?

La soluzione potrà essere cercata operando su due fronti: creare una classe di ministri ordinati capace di pensare in un'ottica di cooperazione e promuovere in modo concreto il laicato. Sul primo è da condividere questa intensa opinione di J.M. Tillard. «Il ministro non manifesta la sua natura se non nell'atto di tutta la comunità in cui esso si trova esercitato. Considerarlo semplicemente nella sua attività propria, isolata dalla sinfonia delle attività che lo Spirito suscita, significa condannarsi a non comprenderlo» (6). Occorre allora superare le scorrette forme di esercizio dell'ufficio ministeriale, il clericalismo, l'atteggiamento autoritario, la supponenza, che fanno del prete un separato dal resto dell'ecclesia. Uscire dalla sterile contesa sulle competenze del potere implicherà l'attuazione di una collaborazione vasta del popolo di Dio, favorendo e non semplicemente «rassegnandosi» alla maturazione di una coscienza adulta dei fedeli (laici o altri) anche nel vasto campo del fare.

Parlare di sinodalità significherà, infine, imparare ad acquisire uno stile ecclesiale che sa dare alla collegialità, intesa nelle sue diverse forme, la forza di un sogno sacramentale. Il modello sinodale non nega l'autorità ma afferma che essa non può «fare» e «decidere» senza impegnare gli altri, mettendo in pratica, nelle diverse questioni della vita ecclesiale, il principio relazionale. A livello universale c'è il nodo della collegialità episcopale e delle sue diverse espressioni come le conferenze episcopali, mentre a livello di Chiesa locale il riferimento è ai rapporti fra vescovo, presbiteri e laici. Possono un vescovo o un parroco prendere decisioni che interessano la vita delle comunità in modo autarchico, senza comunicare, informare, consultarsi? Tutto impone la necessità di costruire un'ecclesiologia relazionale che sul piano dell'organizzazione diventi un'ecclesiologia sinodale dove nessuno può essere escluso.

Il vero passo in avanti, inaugurato dal concilio, è qui consistito nella creazione di strutture finalizzate a una collaborazione vasta per dare ai fedeli la possibilità di esprimersi a livello personale, di gruppo, di Chiese locali, di Chiese particolari e di Chiesa universale. Un'intensificazione e una seria attuazione di queste strutture di comunione, che ancora stentano ad essere attuate nella pratica, non può che essere una via profetica per chi vuole attuare in modo serio il modello di una ecclesiologia sinodale. Va letto in questa prospettiva l'auspicio di Giovanni Paolo II che al n. 21 della Tertio millennio adveniente, parlando dei sinodi, scrive: «Questi sinodi costituiscono già per se stessi parte della nuova evangelizzazione: nascono dalla visione del concilio Vaticano II sulla Chiesa; aprono un ampio spazio alla partecipazione dei laici, dei quali definiscono la precisa responsabilità nella Chiesa; sono espressione della forza che Cristo ha donato a tutto il popolo di Dio, facendolo partecipe della propria missione messianica, profetica, sacerdotale e regale».

I nodi da sciogliere su questo tema sono numerosi ma si concentrano nel tipo di rapporto che deve stabilirsi fra comunione e istituzione. La fisionomia giuridica diventa rilevante per il rischio insito alla teologia della comunione di rimanere sul piano della pura interiorità o di esaurirsi in intenzioni di carattere nominalistico. Sembra evidente, infatti, che senza un riconoscimento empirico della sinodalità, la communio non avrebbe alcuna garanzia realizzatrice e verrebbe affidata alla buona volontà dei singoli, riportandola sul piano delle intenzioni.

Il nodo ecumenico

Alla chiusura del concilio la consapevolezza dello scandalo della divisione e il desiderio dell'unità sono stati i sentimenti più condivisi che si sono tradotti in una serie di passi concreti, nella convinzione che il dialogo fosse la via migliore per avanzare nell'unione, dialogo da condurre nel rispetto dell'altro sul piano della prassi e della dottrina. Alcuni osservatori ritengono che se sul primo si sono fatti passi da gigante, almeno a livello ufficiale, il secondo conosce una fase di ristagno. Si tratta di un luogo comune che occorre sfatare perché la lettura dei documenti ecumenici mostra un'incredibile convergenza su numerose questioni in altri tempi ritenute irriconciliabili Lo testimonia il documento “Chiesa e giustificazione. La comprensione della Chiesa alla luce della dottrina della giustificazione”, firmato a Wurzburg nel 1993 (7). Il riavvicinamento teologico raggiunto è senza precedenti: cattolici e luterani, dopo quattro secoli di lotte non solo ideologiche, si sono ritrovati a condividere il principio fondamentale del Vangelo che è salvezza per l'uomo, senza che comporti una negazione del ruolo della Chiesa. Per la profondità con cui sono state affrontate le tematiche ma anche per il rigore con cui si è stati in grado di offrire una comunicazione capace di realizzare un punto di contatto, questo documento si presenta come una sorta di «carta» sulla quale costruire concretamente l'unità. Gli stessi vescovi firmatari si sono chiesti se questo e gli altri documenti, ormai, «non costituiscano un consenso sufficiente per permettere alle nostre Chiese di avviare passi concreti, diventati sempre più urgenti verso l'unità visibile». Mai le precedenti commissioni ufficiali si erano spinte a tanto.

L’attesa di questi passi concreti è dunque il nodo ecumenico che occorrerà sciogliere. Nella citata Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ha inserito una profezia prevedendo un improvviso gesto di accelerazione ecumenica tale da far sperare di giungere alla soglia del duemila «se non proprio tutti uniti, almeno più prossimi a supérare le divisioni del secondo millennio». Espressione profetica è anche quella in cui Luigi Sartori indica una possibile strada: «Occorre partire dalla comunione nello Spirito Santo per far uscire le Chiese dall'angustia dell'egocentrismo, e recuperare già in partenza un'apertura pienamente ecumenica, ossia universale» (8). È allora necessario saper uscire dai pretesti per dare mano coraggiosamente a possibili progetti di riunificazione che in ogni caso siano però leali e non accomodanti. Più che un'impasse, il cammino ecumenico dà l'impressione di dibattersi in uno strano circolo vizioso: quando si vive la comunione della prassi ci si lamenta dei ritardi causati dal consenso teorico ma quando si riesce a raggiungere un consenso su questa materia si sostiene che non basta la comunione dottrinale se non si raggiunge una presa di coscienza ecclesiale. Insomma i tempi sono sempre considerati immaturi e nessuno riesce a spezzare questo cerchio fatale. Non può essere qui la causa di quell’inverno ecumenico cui tutti vanno parlando?

Il nodo dell'impegno nel mondo

La Chiesa conciliare ha preso particolare coscienza del fatto che la sua missione è «in ordine all'elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane» (Ad gentes 12). Ma anche questo punto nel dibattito successivo si è tramutato in un nodo ecclesiologico, acceso dalle diverse interpretazioni che fanno capo alle diverse scelte della teologia della liberazione. Si tratta di chiarire con maggiore precisione i contenuti della missione, il rapporto che c’è tra salvezza e liberazione, il valore evangelico di attività come la responsabilizzazione sociale e la costruzione terrestre. Le soluzioni offerte sembrano non accontentare nessuno con conflitti che a volte appaiono insanabili: da una parte c'è una Chiesa che, avendo emarginato il problema della sua identità a livello dell’eterno, si esaurisce nell'impegno sociale, dall’altra chi critica questo modello richiedendo un maggiore nutrimento a livello di spiritualità. I primi si appellano al Cristo solidale e liberatore, i secondi denunciano un adattamento all'opinione dominante. Così in un libro di Luigi Accattoli si può leggere: «Se dovessi scegliere tra una comunità cristiana che riduce tutta la sua attività comunitaria all'impegno per la giustizia e un’altra che lo trascura totalmente e si limita a predicare la risurrezione di Cristo e la fine del mondo, scegliere la seconda» (9).

Seguendo il principio guida di una Chiesa che non vive per sé ma per-gli-altri le cose non dovranno mai essere poste sul piano delle alternative: la responsabilità nei confronti della fede (l'amore per Dio) e sempre, nello stesso tempo, anche una responsabilità nei confronti del mondo (amore per il prossimo).

L'una si comprende nell'altra, ma si dovrà anche riconoscere il principio locale, dando alla situazione il diritto di pensare le priorità. La presenza di una duplice anima non dovrebbe nemmeno essere motivo di guerre ecclesiali: azione e contemplazione, impegno e preghiera si ispirano a due modelli teologici specifici, quello dell’incarnazione e quello dell’escatologia.

Un punto irrinunciabile sarà quello di uscire dalla spiritualizzazione del concetto di salvezza perché la missione conferisca piena dignità teologica a contenuti riguardanti la vita, la salute, la fraternità, la giustizia e la libertà. Ma anche la spinta escatologica verso il regno richiama la responsabilità nella costruzione di questo mondo: «Il cristiano è "collaboratore" per questo regno promessoci di pace e di giustizia universale (cf. 2Pt 3,13). L’ortodossia della sua fede deve sempre "avverarsi" nella ortoprassia della sua azione escatologicamente orientata, in quanto la verità promessa e una verità che deve essere "fatta"» (10).

Un elemento chiarificatore riguarda i destinatari. Se il regno viene come compimento e come speranza, allora il compito si rivolge di preferenza proprio a coloro che vivono l'incompiuto e che sono senza speranza, diventando sazietà per chi ha fame, consolazione per chi piange, liberazione per chi è oppresso, giustizia per chi è perseguitato (Lc 6,20-25). Per la Chiesa ciò vuol dire prendere posizioni concrete che devono condurla decisamente dalla parte dei poveri. Nei citati Orientamenti, i vescovi italiani scrivono; «Il cristianesimo non può accettare la logica del più forte, l'idea che la presenza di poveri, sfruttati e umiliati sia frutto dell'inesorabile fluire della storia: Gesù ha annunciato che saranno proprio i poveri a regnare, a precederei nel regno dei cieli. Sono essi i nostri "signori". Su questo punto il cristianesimo non può scendere affatto a compromessi: il povero, il viandante, lo straniero non sono cittadini qualunque per la Chiesa, proprio perché essa è mossa verso di loro dalla carità di Cristo e non da altre ragioni» (43).

La Chiesa non è spazio chiuso, non è luogo extraterritoriale, ma è nel mondo, vive del mondo. Esaurire il campo della sua responsabilità solo all’interno di attività propriamente sacrali significherebbe tradire il senso della missione. Anche questa è una linea ecclesiologica per il futuro. Lo Spirito spinge a farsi protagonisti della trasformazione del mondo perché questo si liberi dalla corruzione, dall'odio delle guerre e dall'ingiustizia, progredendo verso la maturità del regno di Dio che verrà per il dono di Cristo Salvatore. Ogni epoca ha i suoi testimoni, la nostra che è così sensibile alla storia ha bisogno di testimoni e di protagonisti concretamente impegnati nel campo di una salvezza intesa in senso integrale.

La soluzione di tutti questi nodi ecclesiologici è certamente in linea con lo spirito del concilio. Molti altri problemi potevano essere affrontati, primo fra tutti quello della comunicazione, da non intendersi solo sul piano etico-pastorale ma su quello ben più urgente di un certo modello di Chiesa. Occorreva però fare delle scelte e i temi elencati costituiscono certamente una sfida sufficientemente motivata per fondare gli sforzi di una Chiesa che intenda proiettarsi nel futuro.

Note

(1) K. RAHNER, Trasformazione strutturale della chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973, 32.

(2) Y. CONGAR, Vrai et fausse rèforme, Cerf, Paris 1968, 16.

(3) Id., L’Avenir de l’Eglise, in L’Avenir. Atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, 212.

(4) Relatio finalis, II C, 1 (85), in Enchiridion Vaticanum, 9/1779-1818, EDB, Bologna 1987.

(5) K. RAHNER, Sollecitudine per la chiesa, in Nuovi saggi VIII, Paoline, Roma 1982, 391.

(6) J. M. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 201.

(7) Cf. Il Regno-documenti 19 (1994).

(8) L. SARTORI, Brevi note di bilancio prospettico, in Studi ecumenici XI (1993) 230.

(9) L. ACCATTOLI, La speranza di non morire, Paoline, Cinisello Balsamo 1992, 85.

(10) J. B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974, 89.

Pubblicato in Teologia

Gesù Cristo unico Signore
nella fede dei primi cristiani

di Daniel Marguerat
(Facoltà di teologia protestante – Università di Losanna)

Come hanno confessato i primi cristiani la signoria di Gesù? Cosa esprimevano quando dicevano «Gesù Signore»? A quale vocabolario, a quali immagini, a quale immaginario collettivo hanno attinto per dire la grandezza del loro maestro?

A questa questione non è nata tutta d'un tratto, immediatamente, come se confessare Gesù Signore si fosse imposto per una necessità imperiosa. È stato necessario un lungo cammino perché scaturisse una parola davanti all'Indicibile. I primi cristiani non hanno prodotto una sola parola, ma una profusione di parole, talmente l'indicibile che avevano da dire non poteva essere racchiuso in una formula unica. Questo Indicibile, questo sovrappiù di senso da esprimere, non era ciò che la Chiesa antica ha formulato molto più tardi con i termini di «unità senza confusione di due nature in una sola persona» (come farà il concilio di Calcedonia). Il mistero da esprimere non era: «Com'è accaduto che un uomo fosse Dio?»; ma: «Com'è accaduto che nella vita di quell'uomo, Dio abbia detto la sua ultima parola?». E per tentare di avvicinarsi a questo mistero, che doveva svelare il segreto di Gesù senza mettere in pericolo il monoteismo, la fede dei primi cristiani ha prodotto una profusione di parole. Il Nuovo Testamento ci dà accesso a questa splendida fioritura di linguaggi che dicono la signoria di Gesù. Questa fioritura denota l'intensa creatività teologica di cui il primo cristianesimo fu teatro.

La creatività dei primi cristiani si era resa necessaria perché Gesù non si era preoccupato di precisare i suoi titoli, non aveva posto limiti ai tentativi di definir

e la sua identità. Il Nuovo Testamento abbonda certo di titoli cristologici (Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Signore, Figlio dell'uomo), ma per lo più nascono dalla fede post-pasquale.

In seguito, quando il maestro non era più con loro, i discepoli hanno potuto mettere in parole ciò che egli era stato per loro. Si può notare infatti che, a parte il quarto Vangelo (più tardivo), quasi mai Gesù fa dichiarazioni di questo genere: «Io sono il Figlio di Dio» o «Io sono il messia». Al contrario, è lui che interroga: «E voi, chi dite che io sia?» (MC 8,29). La fede dei primi cristiani s'inscrive nel solco aperto da questa domanda, e come un tentativo multiforme di rispondervi. Confessare Gesù Signore non implicava, all'indomani della Pasqua, un lavoro archeologico di memoria per esumare quello che il maestro aveva detto di sé; si trattava piuttosto d'esprimere ciò che egli rappresentava per loro, e di trovare le parole per dirlo. Queste parole, i primi cristiani le hanno prese in prestito dal loro ambiente religioso, dalla loro cultura, dal loro mondo.

Ma la diversità di forme nella confessione della signoria di Gesù può anche spiegarsi in altri modi. Tra Gesù e le prime comunità che si radunano nel suo nome si interpone lo stupore della Pasqua. Secondo la percezione unanime degli evangelisti, la Pasqua ha preso in contropiede gli amici di Gesù, cambiando il loro sentimento d'insuccesso in speranza, confermando che Dio era dalla parte della vittima immolata sul legno. Pasqua segna l'irruzione dello Spirito nella comunità dei credenti.

Poiché la fede dei primi cristiani è frutto del lavoro dello Spirito, non bisogna essere sorpresi della diversità dei linguaggi usati. Lo Spirito Santo non è forse la firma del lavoro di Dio nel cuore di ciascuno? La stessa convinzione attraversava tutte le diverse correnti del cristianesimo primitivo: tutto ciò che si può dire del Cristo Signore deve verificarsi nella vita dell'uomo di Nazareth. I parametri sono così posti, irreversibili: la confessione di Cristo non uscirà dai limiti che le sono stati assegnati dal gesto dell'incarnazione. Il Cristo è Signore nell'esatta misura in cui Gesù, il Galileo, lo è stato.

Come cogliere la confessione di Gesù Signore nel Nuovo Testamento? Quattro vie d'accesso sono possibili; io elaborerò l'ultima.

Sino al 1950, si è creduto di poter parlare di «una» cristologia nel Nuovo Testamento. Uno sguardo più attento ha fatto concludere che riunire in uno stesso sistema dottrinale il modo differente con cui Paolo, Matteo, Giovanni e gli altri parlavano di Cristo, mutilava la particolarità di ciascuno.

Le teologie del Nuovo Testamento scritte negli anni Sessanta-Ottanta hanno eliminato questo sogno unitario; si parlerà così delle cristologie di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, ecc.; al limite, si può dire che ci sono offerti 27 piccoli trattati cristologici, quanti sono gli scritti del Nuovo Testamento. La coerenza dell'insieme sparisce a profitto di un quadro frantumato. Come mantenere la tensione tra unità e pluralità?

Nè i differenti autori neotestamentari danno allo stesso titolo il medesimo significato nei loro diversi scritti. Risultato: le stesse definizioni cambiano di senso seguendo gli autori biblici, e la signoria di Gesù non viene detta solamente attraverso il titolo di Signore.

È stata proposta una quarta via: seguire le «traiettorie». Esisterebbe una continuità teologica reperibile nei diversi scritti del cristianesimo primitivo, che può essere ricostruita; è identificabile quando diversi scritti attestano dall'uno all'altro un fenomeno di continuità e di ripresa. Si può parlare di una traiettoria giovannea o d'una traiettoria paolina.

Io m'interesso al concetto di traiettoria, ma per applicarla differentemente ai grandi orientamenti della fede dei primi cristiani. Seguendo quali linee di forza questi hanno confessato Gesù Signore? Si tratta, in qualche modo, di utilizzare uno scanner storico per tentare di identificare le linee di fondo che corrono sotto gli scritti del Nuovo Testamento. Si eviterebbe così una lettura frammentaria del primo cristianesimo ritrovando, dietro gli scritti, le convinzioni che hanno prevalso all'origine.

Le traiettorie sono quattro. La prima celebra in Gesù Colui che verrà. La seconda vede in lui l'uomo dai poteri soprannaturali. La terza proclama il Giusto rivelato tra i morti. La quarta si interessa al Gesù sapiente. Si tratta di quattro linee di forza che, a monte della redazione degli scritti del Nuovo Testamento, contribuiscono a costituire all'origine la fede cristologica dei primi cristiani. Queste quattro linee si sono costruite con l'aiuto di categorie religiose disponibili nell'ambiente culturale in cui vivevano i cristiani. Prima di depositarsi negli scritti (Vangeli e lettere), esse si sono articolate l'una all'altra, sovente legate, talvolta fuse.

Questa traiettoria è la più antica; ha avuto per effetto di spingere a raccogliere le parole di Gesù per farne memoria. Le rappresentazioni che sono all'origine di questa traiettoria sono da ricercarsi nell'attesa dei circoli apocalittici nel tardo giudaismo dell'era cristiana: è l’attesa intensa di un intervento liberatore che assicurerà la fine della dominazione degli empi sulla terra d'Israele, e secondo scenari vari, che installerà la sovranità d'Israele sulle nazioni del mondo.

La cristianità primitiva non ha solamente visto in Gesù la prefigurazione di colui che verrà ad animare la scena della fine dei tempi; essa ha identificato in Gesù l'atteso. L'attesa giudaica s'è dunque trovata modificata; la fine dei tempi non vedrà apparire una figura immaginata, supposta, ma vedrà venire colui che si è fatto conoscere nei tratti del Nazareno. È per questo che nella liturgia appare molto presto l'invocazione «Signore, vieni! » (Marana tha: I Cor 16,22; Ap 22,20).

La tradizione evangelica ci trasmette l'immagine di uno scenario della fine dei tempi, con sconvolgimenti cosmici, come i giudeo-cristiani se li rappresentavano. Le parabole della venuta del Regno richiamano alla vigilanza davanti all'ultima scadenza, specie nel libro dell'Apocalisse. Il titolo cristologico decisivo è quello di «Figlio dell'uomo».

Un'importanza cruciale è qui accordata alle parole di Gesù. Si comprende il perché: sono le parole pronunciate da colui che, alla fine dei tempi, interverrà come giudice del mondo. Si tratta sin da ora di custodire con cura le parole di colui che, al momento della sentenza finale, giocherà un ruolo determinante. «Io vi dico: chiunque si dichiarerà per me davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo si dichiarerà per lui davanti agli angeli di Dio; ma colui che mi avrà rinnegato davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9)

Una tale speranza non sorge a caso. Ci si può fare un'idea del luogo sociologico dove è stata coltivata? Lo spazio privilegiato di questa confessione del Signore dell'avvenire mi parrebbe essere il circolo millenarista, il gruppo di credenti che coltiva l'attesa del cambiamento dei tempi. La sua speranza nel futuro gli permette di sopportare la durezza del presente, in una società che nega gli ideali cristiani e sostiene il trionfo del male. I cristiani attendono qui, con terrore e speranza, il crollo di un mondo che nega Dio e la vittoria di colui che detiene la promessa di pace.

La società antica dava molta importanza e prestigio a coloro che si chiamavano «uomini divini»: guaritori, maghi, astrologi. In un modo o in un altro, dicono, i loro poteri soprannaturali testimoniano un legame particolarmente stretto con il divino. Parlare di un Gesù guaritore, d'un Gesù esorcista, d'un Gesù dai poteri meravigliosi, era per i primi cristiani partecipare al flusso dei racconti di miracoli attribuiti agli uomini divini.

Nei primi secoli dell'era cristiana, il mercato religioso si faceva molto concorrenziale, e quindi ogni gruppo sviluppava una propaganda missionaria in cui erano al primo posto i miracoli del suo eroe. La narrazione del miracolo era raccontata seguendo una forma stereotipata che si ritrova anche nel Nuovo Testamento. Ognuno si sforzava di vantare e di ingrandire gli atti di potenza del guaritore nel quale credeva, come nel culto degli dei guaritori, nella rilettura della vita di Mosè, nella biografia dei saggi che fanno miracoli o nei racconti dei rabbini guaritori.

Senza dubbio Gesù di Nazareth fu un grande guaritore. La tradizione evangelica abbonda dì narrazioni di guarigioni che gli sono attribuite. L'insistenza che gli evangelisti mettono nel raccontarle (in primo luogo Marco), provano a quale punto importava loro di mostrare come Gesù prendeva a carico la situazione precaria degli altri. Essi hanno raccontato anche dei piccoli miracoli, perché quello che li interessava non era la spettacolarità1 ma il modo con cui Gesù aveva rimesso in piedi gli esseri abbattuti per la malattia: «Andarono... nella casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone era coricata, aveva la febbre, e subito parlarono di lei a Gesù. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendole la mano: la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli» (Mc 1,29-31).

Non è la dimensione del futuro che qui interessa, come nella precedente traiettoria. Al contrario, la sofferenza è percepita e alleviata nel presente. Ma perché richiamarlo, visto che Gesù non c'è più? In effetti, ripetere i racconti dei miracoli non mirava a commemorare un passato glorioso ma compiuto, dove il Figlio dell'uomo alleviava la sofferenza dei corpi ammalati. È invece una forma di protesta contro il male. La comunità credente proclama così che la sofferenza non è una fatalità per l'individuo; essa sfata il mondo richiamando che Dio si mette dalla parte di colui che soffre, e non dalla parte della sofferenza contro l'umanità.

Il luogo della confessione di fede di Gesù guaritore? È il gruppo terapeutico, dove i credenti vivono la convinzione che la forza di guarigione di Cristo è a tutt'oggi operante quando il Signore è invocato. La prima Lettera ai Corinti (12, 9-10) iscrive il dono di guarire tra i doni concessi dallo Spirito alla Chiesa; questa forza non era riservata a dei personaggi carismatici straordinari, ma rimessa alla comunità, come una delle caratteristiche dell'agire di Dio nel suo seno. In ogni caso ciò che si celebra è una signoria di Gesù che rinuncia al linguaggio del potere per manifestare la sua autorità nell'amore offerto gratuitamente ai sofferenti.

La nozione d'esaltazione escatologica del giusto, è una delle prime categorie alle quali hanno fatto ricorso i primi cristiani per trasmettere il mistero di Pasqua. In seno al giudaismo, in effetti, la speranza della resurrezione dai morti alla fine dei tempi non rispondeva a una preoccupazione di vita post mortem. La questione in gioco non era di sperare un supplemento di vita per i morti, ma d'essere certi che sarebbe stata loro resa giustizia da Dio. Nel libro di Daniele e in Maccabei, la resurrezione dei morti permette la riabilitazione dei martiri morti per fedeltà a Dio. Ugualmente, i salmi del giusto sofferente (in primo luogo il Salmo 2) esprimono la certezza che Dio non abbandona i suoi alla vergogna e all'aggressione dei cattivi.

La croce è così vista come l'abbassamento supremo del giusto, e la Pasqua rende noto che Dio lo ha accolto. La resurrezione di Gesù manifesta, già da ora, che Dio è solidale con la vittima appesa al legno. Una tale comprensione va evidentemente a mettere l'accento sulla sofferenza del giusto e sul suo valore espiatorio; la morte di Gesù è compresa come una morte «per noi», una morte liberatrice, una morte da cui scaturisce una parola di perdono. «Se dalla tua bocca, tu confessi che Gesù è Signore e se nel tuo cuore tu credi che Dio l'ha risuscitato dai morti, tu sarai salvato» (Rm 10,9). Il primo posto nella memoria cristiana non è accordato alle parole del giudice degli ultimi tempi, nè al ricordo degli atti di compassione; la memoria si concentra sulla fragilità di quest'uomo e la sua accettazione della sofferenza futura.

I luogo dove si fissa la memoria del giusto riabilitato da Dio non è il rapporto maestro-allievo, nè il rapporto malato-terapeuta, ma la comunità di riconciliazione. Il «per voi» della croce è ritualizzato nel corso della celebrazione della Cena, dove ciascuno è chiamato ad accogliere il dono della grazia e a confermare il suo posto nell'alleanza. Paolo ha magnificamente formulato l'importanza di questo spazio di riconciliazione parlando della Chiesa come «corpo» del Signore: essa diviene il luogo dove, per i legami che si tessono gli uni con gli altri, Cristo prende forma nel mondo. La traiettoria del giusto esaltato non coincide immediatamente con quella dell'uomo dotato di poteri soprannaturali: d'un lato un itinerario della sofferenza dove la fragilità fa senso, dall'altro il potere carismatico di realizzare grandi fatti. Una delle più grandi sfide lanciate alla riflessione teologica nella Chiesa delle origini fu precisamente d'articolare queste due traiettorie, a prima vista contraddittorie. Questa sintesi fu opera della seconda generazione cristiana.

Paolo afferma che la potenza di Dio non si mostra che nella miseria di un Crocefisso: «I giudei domandano dei segni, i greci ricercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un messia crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, tanto giudei che greci, egli è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,22-23). Marco, creando il genere letterario del Vangelo, reinterpreta una forte tradizione di miracoli in supporto ad una teologia della croce. Giovanni mostra come il più grande dei miracoli, rendere la vita a Lazzaro, conduca Gesù a perdere la sua.

Paolo dice di Cristo che è «la sapienza di Dio». La formula non è scelta a caso. Tutti i cristiani di origine giudaica, cresciuti in seno al giudaismo di lingua greca, conoscono l'importanza data alla sapienza nella riflessione della sinagoga. Ne possiamo oggi cogliere sempre più l'importanza. Affermare che Gesù è «sapienza di Dio» vuol dire entrare in pieno in un dibattito dove si cerca chi possa essere colui che detiene la sapienza che fa vivere. Da una parte la sinagoga vive della convinzione che la saggezza umana è emanazione della sapienza divina. D'altra parte, la sophia (sapienza) è divenuta una figura mistica, celeste che media l'agire di Dio. L'inno di Giovanni 1,1-18 è impregnato di questa meditazione giudaica sulla sapienza: vi si vede bene sia chi crea il mondo («tutto è fatto per mezzo di. lui») sia l'ispiratore della Torah, la legge.

Nella memoria cristiana, Gesù prende la figura del sapiente. Il suo insegnamento abbonda di forme letterarie di tipo sapienziale: sentenze, proverbi, parabole, paradossi escatologici, ecc. Non c'è che da citare il paradosso «i primi saranno gli ultimi» oppure «chi si esalta sarà abbassato» per convincersene. Formule simili si trovano presso i rabbini.

Ma più ancora, è tutto il destino di Gesù che è visto come la sapienza che viene dal mondo di Dio, che condivide la condizione umana e poi torna alla sua dimora celeste. Si riconosce questo movimento di discesa/salita nel sottofondo dell'antico inno citato da Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,6-1): «Lui che è di condizione divina non ha considerato come tesoro geloso l'essere uguale a Dio...». Si ammira una volta di più l'estrema audacia dei cristiani di quel tempo, che non esitavano a usare una struttura di pensiero forgiata dalla riflessione giudaica della sapienza per fare comprendere l'inaudito dell'incarnazione. Stessa constatazione per l'inno di Colossesi 1,12-20. Il luogo di questa riflessione è la scuola, dove si preserva l'insegnamento della sapienza del maestro, ma anche la comunità mistica, dove si esalta la comunione con colui che è l'incarnazione della sapienza eterna di Dio.

Le quattro traiettorie che ho delineato valorizzano, ciascuna, una dimensione di Gesù Signore. Esse non utilizzano lo stesso linguaggio. Il distinguerle permette di ben misurare le differenti sfaccettature della signoria riconosciuta al maestro dai primi cristiani.

Messe a confronto per esempio con la questione della sofferenza, hanno un'eco differente. Seguendo la prima traiettoria, si confessa la signoria di colui la cui venuta permetterà alla fine di fuggire ai mali del presente. La seconda permette di supplicare il guaritore compassionevole di prendere in carico la tristezza umana come ha fatto altre volte. Seguendo la terza si celebra il giusto la cui morte ci immette in una comunità di riconciliazione. La quarta traiettoria infine ci richiama il passaggio nel nostro mondo di colui nel quale Dio ha abitato la nostra condizione umana sin nella sua precarietà estrema. Gli scritti della seconda e terza generazione di cristiani hanno operato tra queste diverse traiettorie degli incroci e delle sintesi. Paolo mette in evidenza la croce come luogo della giustificazione del peccatore e come rivelazione dell'insondabile sapienza di Dio. Marco rilegge i miracoli a partire da una teologia della croce. Matteo dipinge Gesù come l'uomo dai poteri soprannaturali e come giudice della fine dei tempi. Giovanni tira tutte le conseguenze possibili di una cristologia della sapienza.

Le lettere ai Colossesi e agli Efesini rileggono il «mistero nascosto fin dal principio» (che è il radunarsi nella Chiesa dei giudei e dei pagani) nell'esaltazione di Cristo nel mondo. Solo l'Apocalisse di Giovanni sembra navigare in un'unica direzione, ma la lettura dell'avvenire ingloba la fragilità del Crocifisso (Ap 5,5-6): è all'«agnello immolato», dice il veggente dell'Apocalisse, che è stata rimessa l'autorità suprema. Per noi, oggi, chiarire le linee di forza che sottendono gli scritti del Nuovo Testamento ci permette di ritrovare le dimensioni nascoste della signoria di Gesù. Questo ci conduce così a costatare come le traiettorie si incrocino in composizioni ogni volta originali. I primi cristiani hanno adottato il contrario di una lingua fissa, di una espressione rigida. Un esempio da seguire.

(da Mondo e Missione, aprile, 1999)

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