In ricordo di P. Franco

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Martin Lutero (1483 – 1546)

di Anne-Cécile Huprelle

Appassionato, angosciato, intellettuale accanito, predicatore impetuoso, l’uomo della Riforma protestante produsse anche alcuni scritti ingiuriosi per i suoi nemici, in contraddizione con l’innegabile spiritualità della sua opera. Il suo obbiettivo: ricollocare il sacro nell’unica relazione di fiducia fra Dio e l’uomo.

Martin Lutero nasce il 10 novembre 1483 a Eisleben in Germania. Molto dotato per gli studi, suo padre, operatore minerario, lo spinge, dopo la maturità, verso studi di diritto. Secondo Lutero, il suo destino avrebbe avuto una svolta in una notte del 1505. Sorpreso da un violento uragano, vede giunta la sua ultima ora: prega allora sant’Anna per chiedere la grazia, in cambio della quale sarebbe divenuto monaco. Qualche tempo dopo entra nel convento degli Eremiti di sant’Agostino di Erfurt. Considerando la sua esperienza come una chiamata di Dio, comincia a riflettere seriamente sulla morte e sulla salvezza. Le sue angosce ricorrenti tradiscono una sensibilità esasperata, quella di un uomo che dubita per sé, come per i fratelli, di fronte al giudice divino.

È ordinato sacerdote a 24 anni, poi diviene insegnante all’università di Wittenberg, pur imponendosi una vita di ascesi e di mortificazione. Vuole credere che la sua vocazione e la sua pietà lo faranno giungere al paradiso. Ma le sue azioni meritorie lo sono anche davanti a Dio? Lutero non è mai in pace. Cosciente della sua inclinazione verso il male, si sente indegno di essere sacerdote, un intermediario consacrato.

Trova liberazione nella Bibbia, in particolare nella lettera di Paolo ai Romani: “Il giusto vivrà per la fede”: secondo la sua interpretazione, se l’uomo crede nel Vangelo è salvo. Dio non sarebbe dunque quel giudice vendicatore che la Chiesa insegna; al contrario sarebbe misericordioso. Anche se l’uomo fosse peccatore per tutta la vita, l’amore e la giustizia di Dio sono doni che Cristo ha ottenuto per lui sulla croce. La religione non è una legge schiavizzante, è una fede liberatrice. Questa scoperta è vitale per Lutero. Da quel momento non cesserà di farne la chiave di lettura dei Vangeli. Liberato dalla preoccupazione individuale della salvezza, il cristiano può darsi a una vita in seno a una comunità non gerarchizzata, dove ciascuno vuole essere libero servo del Cristo.

Traffico di indulgenze

La questione delle indulgenze spinge la teologia luterana a uscire dalle mura dell’università. Nell’ottobre 1517, levandosi contro il traffico delle indulgenze i cui guadagni dovevano servire per la metà alla ricostruzione della basilica di san Pietro a Roma, mette in discussione 95 tesi che contengono l’essenziale delle sue convinzioni. Al principio Lutero non ha la pretesa di riformare la Chiesa: propone delle piste di riflessione per ritornare a una fede spoglia da ogni convenzione. La reticenza papale darà tutta un’altra dimensione a quel che per il momento non è che una disputa teologica.

Accusato di eresia durante un processo di tre anni, continua la redazione di rapporti e continua a provocare il papa, come quando brucia sulla pubblica piazza la bolla papale della sua scomunica. Nella dieta di Worms del 1521 è messo al bando dall’Impero da parte di Carlo V. Ma troppo tardi:la polemica ormai è partita, le tesi di Lutero infiammano la cristianità di Germania e firmano l’atto di nascita della Riforma.

Fra' Lutero impegna una polemica nazionale fra i teologi come fra i cristiani più modesti, grazie a un “media” di scelta, la stampa, e quello dei predicanti che proclamano il Vangelo a suo modo. Si rifugia dal suo amico e protettore Federico di Sassonia, nel suo castello di Wartburg. Seguono anni di produzione intensa, in cui Lutero, per nulla intimidito dal suo esilio forzato, approfondisce la sua dottrina, preoccupato di riconfigurare il rapporto uomo – Dio e renderlo comprensibile: traduce il Nuovo Testamento in tedesco e mette a punto i Grandi scritti riformatori – il Papato di Roma, appello alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, Preludio sulla cattività babilonese della Chiesa, Trattato della libertà cristiana. Vi si ritrovano in maniera coerente e sviluppata le questioni concernenti la salvezza dell’uomo, la pratica della religione e la comunità dei credenti.

Per Lutero non c’è differenza di natura fra il prete e il laico. Con il “sacerdozio universale” il laico acquista una posizione centrale nella Chiesa, luogo di comunione spirituale fra gli uomini. Per lui i sacramenti, oltre il battesimo e la cena, sono inutili, come anche la gerarchia clericale, la supremazia del papa e del concilio. Infine egli nega il carattere definitivo dei voti monastici e i pratica non è più l’ascesi a fungere da modello della vita cristiana, ma la famiglia. Tutte queste idee sono coerenti con la sua esperienza personale, poiché, rinunciando alla vita monastica, sposa Caterina de Bora, un ex-monaca che gli dà sei figli.

Nel 1522 Lutero rientra infine a Wittemberg, quando la Riforma si è allargata: monaci hanno lasciato il convento, principi si sono riformati per prendere, fra gli altri, la loro distanza dal papato… La Riforma prende un colore politico e spinge principi e contadini a prendere posizione nella questione religiosa. Sorpassato dai suoi discepoli, come Thomas Müntzer, Ulrich Zwungli e Andrea Carlstadt, che reclamano una radicalizzazione del movimento, egli si mette dalla parte dei principi contro i contadini in rivolta, rifiutando di alleare la Riforma a rivoluzioni sociali.

Si rende conto allora che la Riforma deve essere organizzata più solidamente. Modifica il suo messaggio, dando impulso al “luteranesimo”, religione del popolo, dotata di princìpi e di istituzioni ecclesiastiche. Nel 1529 scrive due catechismi e fissa un nuovo culto tedesco. L’anno seguente accetta la Confessione di Augusta, redatta da Filippo Melantone, che giustifica la fede luterana. Fino alla morte rimane a Wittemberg, città che diviene per i suoi discepoli la “contro-Roma” e dove mette in pratica il suo talento pastorale. Scrive anche dei canti religiosi che sono per lui i trasmettitori privilegiati della parola.

Discorsi conviviali

Invecchiando, deluso dalla piega che prende la Riforma, moltiplica le crisi di angoscia e si mostra sempre più virulento, anzi grossolano, contro il papa, gli ebrei, il diavolo. I suoi Discorsi conviviali, aneddoti raccolti dai suoi amici (più di 7.000 a partire dal 1529), lo attestano. Il pastore Lutero, a cui piace invitare alla sua tavola ogni sorta di persone, fa delle battute salaci per far colpo sul suo uditorio, ama il buon vino e dimostra una allegria comunicativa in società. Si occupa anche di decorare il suo studio con caricature incise su legno. Una di esse avrebbe rappresentato il papa, “l'anticristo”, che cavalca una scrofa o portato via del diavolo. Questo diavolo di cui Lutero afferma che è venuto di persona a fargli visita per rimettere in causa il suo impegno personale.

Lutero, l'uomo dal carattere tutto d'un pezzo, non fa concessioni su quel che è o su quel che produce. Rispondendo all'attesa di certi cristiani, creando un nuovo linguaggio teologico, è intimamente legato all'evoluzione intellettuale e religiosa dell'Occidente. Contemporaneo dell'Umanesimo, Lutero rifiuta di appartenere a questa filosofia. E tuttavia ritornare alla fonte, toccare la stessa essenza della fede, cercare una verità trascendente non è forse, in fondo, concepire l'uomo come il punto di partenza di ogni riflessione?

(in Le monde des religions, 17, pp. 44-45)

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6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

2. Cristo unico sacerdote della Nuova Alleanza

Per i cristiani parlare di Cristo come unico sacerdote del NT è una cosa non tanto ovvia, in quanto hanno dinanzi a sé l’immagine di tanti sacerdoti e vescovi, cosicché per loro è chiaro piuttosto il contrario. I sacerdoti sono tanti, perché il popolo di Dio è numeroso e diffuso in tutto il mondo. Eppure questa non è la verità, perché nel NT c’è un unico sacerdote, in quanto è l’unico che abbia potuto compiere ciò che si richiede al sacerdote: stabilire il rapporto fra Dio e gli uomini. L’unicità del sacerdozio di Cristo è fondata sulla identità personale di Cristo, sul suo essere il Verbo di Dio fatto uomo. In questo senso dobbiamo dire che Cristo non è solo l’unico sacerdote del NT, ma di ogni possibile sacerdozio, perché in nessuna religione è possibile stabilire il rapporto con Dio. Al massimo si può esprimere un desiderio, una preghiera, ma la realtà è più alta e più ardua. Il desiderio perenne dell’umanità di raggiungere Dio e il suo mondo è stato realizzato in modo inaudito e fantastico nella persona di Gesù il Cristo. Proprio perché egli è il Figlio di Dio e proprio perché è diventato uno di noi, ha realizzato nella sua persona e poi nell’opera che ha compiuto sulla terra quanto l’umanità intera da sempre ha sognato.


2. a. Originalità della lettera agli Ebrei

Non sono molti i testi che si occupano del sacerdozio di Cristo; in realtà uno solo, la lettera agli Ebrei, come è già stato ricordato. <<La legge infatti non condusse nulla a perfezione. Invece è stata fatta entrare nel mondo una speranza superiore, per la quale ci avviciniamo a Dio…E quelli sono divenuti sacerdoti in molti, perché la morte impediva loro di rimanere. Questi invece, per il fatto che rimane in eterno, ha un sacerdozio non trasmissibile. Onde può anche salvare per sempre quelli che, mediante lui, si avvicinano a Dio, essendo sempre vivente per intercedere in loro favore>> (7, 19.23-25).

Intanto una affermazione di grande rilievo e di fortissimo impatto: la legge non condusse nulla a perfezione. Se essa fu incapace di portare alla perfezione, pur essendo un dono divino, è chiaro che ancora meno potevano le altre istituzioni religiose dell’umanità; salva la loro buona volontà. Ritroviamo qui un pensiero familiare a san Paolo sul tema della giustificazione: questa non viene dalla legge. Ma poi il discorso continua e coinvolge anche i sacerdoti dell’AT. In altre parole, risulta chiaro quanto da sempre afferma la teologia della grazia, sulla base di un semplice ragionamento: la creatura non può mai raggiungere il Creatore, se questi non le si dona in modo gratuito e libero. Il primato della grazia non è un dogma così arduo, perché il semplice buon senso lo fa capire e accettare.

 

2. b. Unicità e originalità del sacerdozio di Cristo

Nel caso specifico del sacerdozio della Nuova Legge, il discorso del testo agli Ebrei si rifà ad una constatazione che è sotto gli occhi di tutti: ‘la morte impediva loro di rimanere’. La funzione di un sacerdote, secondo la logica biblica, è quello di intercedere per sempre. Dunque l’intercessione è quanto individua e specifica il compito di un sacerdote. Finché esiste questo mondo di essa si avrà sempre bisogno. Ma chi può garantire una intercessione perenne, se non chi ha in sé la vita imperitura? La tesi del testo biblico è del tutto coerente e logica: nel NT non ci possono essere altri sacerdoti, se non il Cristo Signore, perché in forza della sua vita immortale rende superfluo il compito di altri sacerdoti. E la tesi è ribadita con un nuovo argomento, quando si dice: <<(Cristo) dopo aver offerto un unico sacrifico per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando che i suoi nemici siano posti sgabello ai suoi piedi. Infatti con unica oblazione ha reso per sempre perfetti quelli che vengono santificati>> (10, 12-14).

Intercede in nostro favore assiso alla destra di Dio. Chi può vantare un tale titolo ed una tale intercessione? Ci sono due concetti che si inseguono: l’intercessione perenne e la santificazione perfetta. Sembrerebbe, a prima vista, che la santificazione perfetta rendesse inutile l’intercessione, ed invece restano assieme l’una e l’altra, perché ciò che è reso perfetto una volta per sempre, ha bisogno di essere distribuito nel tempo della storia. C’è da fare una ulteriore osservazione a questo proposito. Il testo citato Eb 7,24 nella versione delle Edizioni Paoline, parla di un sacerdozio ‘non trasmissibile’, quella della CEI invece parla di un sacerdozio ‘che non tramonta’. Il traduttore S. Zedda gioca abilmente sul termine greco, che in senso traslato può essere espresso anche come ‘non trasmissibile’. Si dice infatti che è ‘aparàbaton’. I cultori del greco potranno approfondire le cose.

 

2. c. Sacerdozio unico e partecipato

Ma per quel che ci riguarda, la cosa non è senza importanti significati. Se si tratta di sacerdozio unico, è evidente che non è trasmissibile, perché altrimenti perderebbe la sua unicità. Qui però potrebbe insinuarsi un dubbio di non lieve entità: dunque quelli che noi chiamiamo sacerdoti cristiani oggi, in realtà non lo sono, anzi appaiono addirittura degli usurpatori. È noto che questa è stata una interpretazione di alcuni Riformatori del XVI secolo. Non è detto che si debba leggere così. Infatti se il sacerdozio unico di Cristo non può essere trasmesso, può essere partecipato, nella linea sacramentale. Infatti è questa che da una parte congiunge con Cristo e dall’altra relativizza o ridimensiona il ruolo dei ministri del NT. Non si tratta di una identificazione fisica con Cristo, nel senso di una formula che si presta ad equivochi: ‘sacerdos alter Christus’, ma di una comunione nella linea sacramentale appunto, che dice partecipazione e differenziazione. La linea sacramentale è quella che impedisce ogni esagerazione ed ogni negazione. Non sostituiamo Cristo, né siamo soltanto dei portavoce, ma siamo veramente uniti a lui, mediante lo Spirito, rendendolo presente nel nostro tempo, in forza di ciò che i sacramenti significano e realizzano. Se non siamo il Cristo, lo rendiamo presente nella storia di oggi nella forza dello Spirito Santo. Dunque, è sempre lui che salva e redime e santifica, secondo la splendida teologia di sant’Agostino: Pietro battezza? Giuda battezza? È sempre Cristo che battezza.

 

2. d. Compiuto nel santuario di Dio

E l’ultima attestazione del sacerdozio unico di Cristo è dato da Eb 9, 11-12.15 :<<Cristo, però, apparso come sommo sacerdote dei beni futuri, per una tenda più grande e perfetta, non manufatta, cioè non di questa creazione, né mediante sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue è entrato nel santuario una volta per tutte, perché ha trovato un riscatto eterno…Perciò egli è il mediatore dell’alleanza nuova, affinché, essendo intervenuta una morte in redenzione delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, i chiamati ricevessero la promessa dell’eterna eredità>>.

Il sommo sacerdote entrava una volta nel santuario del tempio per chiedere il perdono dei peccati di tutto il popolo. Cristo è entrato in un altro santuario, quello del cielo; dunque la sua mediazione, la sua opera non è simbolica, ma reale; è giunto nel santuario di Dio, presentando a lui la lista dei nostri peccati e ottenendone il perdono. Solo lui è giunto al trono di Dio, perché egli è venuto da questo trono, in quanto Figlio. Questa è dunque la novità che fonda la redenzione definitiva e la nuova alleanza. Quindi è il mediatore unico della nuova alleanza, per tutti i motivi già detti. Tuttavia, questa unicità non è la chiusura per una mediazione che perdura nel tempo, in virtù della Pasqua di Cristo,come testimonia san Paolo: <<E tutto ciò è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro>> (2Cor 5, 18-20).

L’opera unica di Cristo è resa presente da coloro che sono stati resi ambasciatori di Cristo Signore e dell’opera della riconciliazione.

Pubblicato in Teologia
Gesù nelle grandi confessioni
e nelle ideologie

di Bruno Secondin

ISLAM

Gesù rimane sempre «sorpassato» da Maometto, l’ultimo e il più grande dei profeti. Ancora oggi non è assolutamente ammissibile per l’islam non solo l’incarnazione nel tempo del Dio unico e invisibile; ma anche la morte in croce del Figlio di Dio. Un profeta non può essere lasciato da Dio nell’umiliazione.

È importante notare che ciò che l’islam pensa e crede di Gesù è radicato in certi capitoli del Corano, in particolare quelli che trattano di Gesù e della sua madre Maria. Essi rimangono ancora oggi fattore determinante e centrale del giudizio islamico su Gesù Da qui deriva una notevole stima sia del cristianesimo - considerato religione rivelata da Dio - che di Cristo, considerato mandato da Dio, taumaturgo, originato da nascita verginale, portato in cielo col corpo (ma senza soffrire la morte).

Maria è l’unica donna citata per nome nel Corano - da lei prende nome perfino un capitolo del testo - e che insieme a Cristo ha goduto di particolare simpatia e venerazione nei secoli tra i musulmani1. Ma sempre alla luce e nell’orizzonte generale di quello che il Corano dice di loro.

Nel Corano sono anche descritte qualità distintive dei «seguaci di Cristo»: mitezza e misericordia, assenza di superbia, attenzione ininterrotta alla preghiera, liberalità nelle elemosine e attesa dell’ultimo giorno. In questo senso di vita cristiana come «ascesa» mediante la povertà, la mitezza e l’umiltà si è anche sviluppata e tramandata l’immagine di Gesù nell’islam.

Inoltre oggi si tende a studiare ancor di più la «cristologia» del Corano perché la sua «teologia» riflette la posizione del giudeo-cristianesimo: cioè la cristologia siriaca e semitica dei primi secoli (che privilegia la categoria del servo, come appunto fa il Corano), che poi abbiamo perduto, con la «ellenizzazione».

Un fatto nuovo rispetto alla storia è l’attuale interesse nell’islam per il così detto Vangelo di Barnaba: un testo italiano e spagnolo, databile al secolo XVII (edito però in questo secolo), ma che pretende essere una traduzione di un testo scritto al tempo di Gesù, dal suo discepolo Barnaba. Ciò che ci interessa è come Gesù è presentato: è un Gesù musulmano, ma in stile simile a quello dei Vangeli canonici cristiani. Non contiene nulla che sconcerti un musulmano: né la divinità di Gesù, né la crocifissione, né affermazioni che non siano nell’ortodossia del Corano. C’è di più: l’annuncio chiaro ed esplicito della venuta d’un profeta dopo Gesù, con la rivelazione perfetta2.

Ma se nel Corano Gesù viene chiamato «Parola» di Dio e annunciatore del «Vangelo», come possono i musulmani disinteressarsi di questo Messia e del suo Vangelo?

Fra i teologi musulmani, citiamo Mahmoud M. Ayoubl

«Noi vediamo perciò che - come il Cristo della fede e della speranza cristiana - il Gesù del Corano e della successiva pietà musulmana è molto più di un semplice essere umano e di un semplice banditore di un libro. Mentre il Gesù dell’islam non è il Cristo della cristianità, il Cristo del Vangelo parla spesso attraverso il semplice, umano Gesù della pietà musulmana»3.

Purtroppo le attuali situazioni di conflitto e di tensione fra nazioni cristiane/occidentali e nazioni/culture islamiche hanno fatto crescere tra i musulmani un fondamentalismo esasperato, che non c’era nella storia passata, in questa forma almeno.

Note

(1) Un recente interessante contributo in Maria nell’ebraismo e nell’islam oggi, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1987.

(2) Il testo: L. CIRILLO-M. FREMAUX, Évangile de Barnabé Recherches sur la composition etl’origine. Texte et traduction, Paris 1977. Una valutazione cristiana:.J. SLOMP, The Gospel in Dispute. A crirical Evaluation of the first french Translation, with the italian Text and Introduclion of the so-called Gospel of Barnabas, in «Islamocristiana», 4(1978), pp. 67-111.

(3) E’un noto teologo musulmano, che ora vive in America. La frase è ripresa da un suo saggio in «The Muslim World» 66(1976), p. 187.

BUDDISMO

Gesù appare una grande «personalità», supremo maestro della via alla saggezza sconosciuta, che ha tante somiglianze con Budda4. E un’ammirazione che però non intende accettare gli aspetti «divini» di Gesù. Si tace di fronte alla «divinità per natura».

Non mancano delle proposte di «rivedere le formule cristologiche» per i cristiani che vivono in un contesto culturale buddista. Per es. il gesuita singalese A. Pieris5 insiste soprattutto sulla lotta per essere povero e la lotta a favore del povero.

Noi citiamo alcuni passaggi dal grosso saggio di H. Küng sulle religioni6.

Il primo testo è la ripresa di una considerazione, molto audace per vero, ma suggestiva, di un teologo americano.

«Quello che ha da dire il teologo americano John Cobb ... dovrebbe far riflettere: “Il buddismo shin non ha ancora affrontato la crisi del rapporto tra storia e fede. Se esso si confronta con questa crisi, i suoi problemi si presentano, sotto parecchi aspetti, più pressanti di quelli di fronte ai quali si è trovato il cristianesimo; la sua base è infatti ancora più lontana dal corso reale della storia. Esso può certamente trovare molti appoggi nel Budda e nella storia del buddismo, ma là dove la sua dottrina è più caratteristica esso trova un appoggio minimo in questa tradizione, che precede lo stesso Shinran».

Poi Cobb compie: un grande passo, che certamente solo pochi buddisti sono disposti a imitare:

«Tuttavia, niente nell’autocomprensione buddista presuppone la necessaria ammissione che la storia cercata possa venir trovata soltanto in India o nell’Asia orientale. Al contrario, il buddismo tende all’universalità. Pure esso richiede una visione inclusiva di tutte le cose,e oggi una tale visione deve abbracciare la storia universale. Ma la storia universale comprende anche la storia di Israele e l’evento Gesù. Quella storia che comprende la visione cristiana della benevolenza di Dio, sostiene anche la concezione, propria del buddismo shin, della sapienza e della compassione, che caratterizzano la realtà ultima... Appena questo atteggiamento [di sospetto e di difesa] venga superato realmente, non esiste più un motivo di principio perché i buddisti non possano accogliere anche il passato palestinese, come hanno accolto quello indiano. E’ più in Palestina che in India che la storia, quando venga letta come incentrata in Gesù, offre la base più solida per la fede, e che noi veniamo redenti dalla grazia ia virtù della fede».

Ed ancora:

«Quando impara a conoscere la figura del Budda, che fu un uomo che pensava in maniera elitaria, il cristiano avvertirà la grande sfida a mettere radicalmente in questione e a ristrutturare la propria vita orientata forse troppo sul successo e sull’attivismo. Viceversa, quando il buddista accetta di confrontarsi con Gesù di Nazaret, con il Cristo, che aveva compassione del popolo e accoglieva i falliti, percepirà un invito a superare “per il bene di tutti gli uomini” la divisione in due classi dei credenti, a dare al laico, ritenuto inferiore, non soltanto una funzione di secondo grado, ma anche un accesso diretto alla liberazione, un diritto e una dignità propri, a venire in aiuto dei deboli, degli sfortunati e degli sfruttati, per trasformare proprio in questo modo il mondo qui e ora, nella compassione e nell’amore, per il bene di tutti».

Note

(4) Cf. lo studio di P. NGUYEN VAN T0T, Le Bouddha etle Christ, Urbaniana Press, Roma 1987.

(5) A. PIERIS, Buddismo: sfida ai cristiani, in «Concilium», 22(1986), pp. 97s. Per un’analisi più ampia:: rimandiamo ad un importante numero di «Concilium», 14(1978) 6: Buddismo e cristianesimo.

6) H. KÜNG, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori, Milano 1986, pp. 513s e 424. Nella prima citazione egli si riferisce allopera di. COBB, Beyond Dialogue. Toward a Mutual Transformation of Chrislianity and Buddhism, 1982, pp. 139-140.

INDUISMO

Qui il rapporto è invece molto più complesso e anche la letteratura è abbondante. C’è un fatto molto interessante: l’affermazione frequente di molti convertiti dall’ induismo al cristianesimo, e anche di molti cristiani profondamente «induizzati», i quali dicono che il Vangelo non sarà mai compreso appieno sinché esso non riceverà anche l’interpretazione «induista». Questo lo si dice specialmente al riguardo del Vangelo di Giovanni: «I cristiani non riusciranno a capire il Vangelo di san Giovanni se non quando l’India sarà cristiana». In generale possiamo dire che:

— Gesù Cristo si innesta bene nella religione bhakti, un ramo non secondario dell’induismo, praticamente tutta la religione del popolo indù. Il motivo di fondo è che la religione bhakti si basa su un dialogo d’amore tra il fedele e il suo Dio (o Krisna o Visnu o Siva), in maniera non dissimile da quello che può avvenire per il cristianesimo per un cristiano «medio».

— Gesù Cristo - trasportato nella visione indù - avrebbe così una funzione simile a quella di Krisna e sarebbe visto come un’avatara di Visnu. La Bhagavad-gita e alcuni Purâna sono essenzialmente i testi della bhakti a cui si ispira una simile visione.

I primi tentativi consapevoli di collaborazione tra cristianesimo e induismo risalgono all’opera missionaria di Roberto de Nobili (1577-1656), esempio di un’autentica inculturazione: si fece brahmino, imparò le lingue sanscrito e tamil, accettò le caste e l’intoccabilità. Altro pioniere è stato Bartolomeo Ziegenbalg (1683-1719), tedesco luterano.

Ma soprattutto importante va ritenuto il ruolo del rinascimento indù del XIX secolo. Esso raggiunse l’apice nel «Brahmo Samaj» fondato da Raja Ram Mohan Roy (1830). Si volle rinnovare l’induismo nel senso di un monoteismo ispirato ai Vedanta e al discorso della montagna, con chiari obiettivi umanistici.

Altre figure che emergono: Keshab Chander Sen (Cristo è un «orientale», logos della nuova creazione); Ramakrishna (1836-1886) (e il suo discepolo continuatore del movimento: Vivekananda), estatico grandissimo, ebbe anche una visione di Cristo. Considerò Gesù come un orientale, dei più grandi maestri di tutti i tempi, a ragione chiamato Dio. Gli europei lo avrebbero interpretato male e abusivamente trasformato in un testimone di una storia missionaria imperialista; è invece maestro dell’interiorità e dei senza patria.

Altri nomi da ricordare: Mahatma Gandhi: per lui Cristo non è un monopolio del cristianesimo, ma un modello per tutti gli uomini, specie in alcuni principi: come la forza della verità, la non violenza, il servizio al prossimo. Vinobba (discepolo di Gandhi): Gesù fu il più grande dei satyagrahi: cioè di coloro che credono nella forza della verità e si impegnano per essa.

Da parte cristiana va notata l’esperienza di «inculturazione» (attraverso gli Ashrams cristiani) di J. Monchanin (+1957), H. Le Saux (Swami Abhishiktananda + 1973; che nel 1968 si ritirò sull’Himalaya a fare l’eremita), Bede Griffiths (autore del libro noto: Ritorno al centro).

Una menzione particolare anche per R. Panikkar, nel suo libro noto, Il Cristo sconosciuto dell'Induismo7: egli sviluppa un notevole parallelismo tra Cristo e Isvara (creatore, signore e manifestazione suprema di Brahman).

Interessante anche il caso del Giappone: dove si riscontrano sia condizioni culturali favorevoli al messaggio cristiano, sia un profondo e quasi «insuperabile» sentimento di rifiuto della visione cristiana.

Note

(7) Vita e Pensiero, Milano 1976.


NEO-MARXISMO

Non è curiosità inutile rivolgere uno sguardo anche nel campo marxista e ascoltare cosa hanno da dire su Gesù Cristo coloro che credono nella visione marxista della storia e dei progetti: è una visione materialistica e atea per principio. Ma vi sono anche a volte interessi culturali per la figura di Cristo che possono dire qualcosa.

Vi sono sì - e ancora tantissimi - marxisti che negano storicità alla figura storica di Gesù, lavorando a smontare la credibilità dei testi e delle fonti. In questo più che Engels e Bauer, maestro indiscusso e caposcuola classico è Karl Kautsky, con l’opera Der Ursprung des Christentums, Kautsky spiega l’insorgere, il chiarificarsi e la definitiva fisionomia del cristianesimo non come derivante da Cristo (che non si sa se è esistito), ma da cause storiche; oppressioni, schiavitù, ribellione. Gesù è per lui un «ribelle», che ha tentato un colpo di stato; nell’orto degli olivi il gruppo (che era armato) era pronto al colpo di mano, da una posizione strategicamente importante. Ma la cosa fallì, anche per il tradimento di Giuda. Il Vangelo è «storicizzazione» di speranze rivoluzionarie che di fatto non si realizzarono. Subentrò invece l’istituzione, che a sua volta divenne potenza e oppressione. «Non fu la fede nella risurrezione del Crocifisso che ha creato la comunità e gli ha dato vigore; ma, al contrario, la vitalità della comunità creò la fede nella sopravvivenza del suo Messia»8.

Ci sono altri studiosi (non russi) che accettano la storicità (sostanziale) delle testimonianze, e vogliono trovare in Gesù un insegnamento che non sia monopolio del solo cristianesimo.9 Questi sono soprattutto coloro che sono chiamati neo-marxisti; da catalogare più come filosofi che critici storici. Fra questi vogliamo ricordarne alcuni.

E. Bloch (1885-1977); autore dell’opera in tre volumi Das Prinzip Hoffnung10. L’idea da tener presente è che, per Bloch, l’uomo è connotato dalla categoria del poter-essere, dalla continua tensione verso ili futuro. «Homo absconditus» è il titolo che egli usa; significa identità non ancora svelata (quindi in cammino, nomade), da inventare in un qualcosa non ancora realizzato. Nella religione, specie quella ebraico-cristiana egli scopre (come tanti altri marxisti) anche un’alienazione; ma soprattutto una tensione verso il futuro, il «regno», verso un avvenire migliore.

Gesù per Bloch non pare relegabile al dolce rabbi nazareno: egli è piuttosto un ribelle, colui che si mette contro ogni forma di schiavitù, pagando anche il prezzo di questa ribellione; che è la croce. La croce non è - come per i cristiani - «gesto supremo d’amore e di fedeltà» al Padre, ma viene dal di dentro dei conflitti: come ultimo segno di una ribellione allo statu quo che non può essere sopportato, ma che bisogna pagare con l’eliminazione fisica. Con plastiche immagini Bloch parla di Gesù come eschaton, come speranza mai domata, come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi (e viene inchiodato sulla roccia), a favore dei poveri, o come «serpente» che invita «eritis sicut deus».

V. Gardavsky (cecoslovacco). Anch’egli sviluppa il concetto di Gesù come modello aperto di umanità e ricorre alla concezione veterotestamentaria dell’uomo come essere storico aperto, soggetto di azione creatrice, come Giacobbe incapace di sopportare il ruolo di secondogenito, e «lottatore» perfino contro Dio per strappargli la benedizione. Così appare come la massima incarnazione dell’ideale di un uomo dalle infinite possibilità, in continua esperienza di autotrascendimento. La sua riflessione è legata al momento politico della Cecoslovacchia del 1968

R. Garaudy (francese), filosofo marxista dissidente, oggi passato all’islam. Egli si muove sempre sulla linea dell’autotrascendimento. Per lui l’uomo ha per qualità primaria la capacità di autotrascendenza, la capacità di rompere il cerchio dell’ordine costituito, egli è libertà, progetto, creatività continua. Questa qualità/situazione di fondo è anche un’impresa da compiere: e questo lo porta a superare anche le strutture del socialismo storico. In Gesù si ritrova questa verità di un Dio che non si rassegna, ma con amore rischia, andando incontro al superamento continuo di ogni schema rigido. Nel suo morire e risorgere egli è appello al superamento di ogni limite, anche della morte, come annuncio che tutto è possibile. Ogni nostra azione rivoluzionaria e nuova rende vivente tra noi lui, Gesù di Nazaret.

Ha scritto in un saggio:

«Ogni qualvolta riusciamo a romperla con il nostro vivere di routine, con la nostra tendenza alla rassegnazione, con la nostra facilità a cedere, con le nostre alienazioni nei confronti dell’ordine costituito o della nostra meschina individualità, e grazie a tale rottura, riusciamo a compiere un atto creativo sia in campo artistico o scientifico; sia nell’azione rivoluzionaria o nell’amore: ogni qualvolta contribuiamo con qualcosa di nuovo alla realizzazione della vita umana il Cristo è vivente in noi; da noi e tramite noi si continua la creazione. La risurrezione si compie ogni giorno».

M. Machovec (cecoslovacco): ricordiamo di lui l’opera Gesù per gli atei. Egli parla con grande simpatia di Gesù, anche se utilizza le categorie teologiche post-bultmanniane (dalla cristologia diretta a quella indiretta), ma mette in dubbio un gran numero di dati evangelici. Egli legge la vicenda Gesù con un’ottica «marxista» attenta ai rapporti fra classi sociali.

Senza dubbio appare affascinato dalla personalità di Gesù, e ne sottolinea il tema della povertà-ricchezza che si associa strettamente anche con l’esaltazione dell’infanzia, come situazione non alienata, tempo di libertà e mitezza; amore-non violenza: un amore radicale che raggiunge una profondità straordinaria, come appare dal precetto dell’amore anche verso il nemico; lotta al fariseismo.

L. Kolakovski (polacco), fra l’altro autore di Senso e non senso della tradizione Cristiana. Presenta Gesù come un «profeta e un riformatore». Egli dice di muoversi da un punto di vista puramente filosofico, come laico, fuori delle chiese, attento al posto di Gesù nella cultura europea in generale (cita ad es. Pascal, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, ecc.). Individua nell’insegnamento di Gesù «cinque nuove regole»: abolizione della legge a favore dell’amore; non violenza. nei rapporti umani; non di solo pane vive l’uomo (cioè ci sono anche altri valori); abolizione dell’idea di popolo eletto (cioè Dio ora è accessibile a tutti); precarietà dell’esistenza umana.

Osservazioni. Per riuscire a capire l’interesse dei «neo-marxisti» per la figura storica di Gesù Cristo, non si deve dimenticare che essi si sono trovati di fronte alla crisi di «ispirazione» del marxismo, e al bisogno di riscoprire il soggetto, il senso della vita, la dimensione «trascendente» dell’uomo. Per questo il messaggio etico di Gesù, specie l’enfasi sull’amore, sull’uguaglianza, sul valore della persona, sulla resistenza al male fino a morire, li attrae e sembra loro un modello di «correzione» anche per il marxismo. Horkheimer direbbe che si tratta della «nostalgia del totalmente Altro», come nostalgia «di perfetta e consumata giustizia».

Di recente anche altri valori vengono presi in seria considerazione, come la pietà, il perdono, la misericordia, il peccato, l’amore, Lo ha dimostrato il simposio di Budapest (8-10 settembre 1986) su «Società e valori etici», organizzato dal Segretariato vaticano per i non credenti e dall’Accademia ungherese per le scienze.

Possiamo dire che queste considerazioni proposte dai neo- marxisti hanno un certo interesse e senz’altro hanno influito sulla cultura e sulla stessa teologia in tempi recenti.

Tirando un po’ di conclusioni, possiamo dire che la linea neomarxista, sommata ad altri elementi filosofici, psicologici, culturali, e anche a specifici impulsi «teologici» - come quello di Bonhoeffer: Gesù come «uomo per gli altri» - ha trovato accoglienza e sviluppo (in termini più specificamente cristiani) in non poche riflessioni dei teologi attuali. Citiamo per tutte la «teologia della speranza», esplicitamente ispirata a Bloch, per attestazione dello stesso Moltmann.

Echi e analogie si ritrovano anche nella teologia politica, nella teologia della rivoluzione, in alcuni testi della teologia della liberazione (non i più noti). In particolare per quanto riguarda la comune preoccupazione di delineare una fisionomia di Gesù ricca di sovversività, vittima dei giochi e degli interessi dei potenti, simbolo di tutti gli oppressi della storia, ribelle che vuole e vive una prassi diversa, uomo che muore-risorge come supremo testimone dell’alterità, e la cui memoria rimane pericolosa e sovversiva. Di tutto questo avremo modo più avanti di offrire indicazioni maggiormente puntuali.

L’enfasi su Gesù «uomo libero e aperto» ha contagiato, per osmosi culturale, anche il linguaggio catechetico, gli schemi omiletici, perfino molti testi di meditazione. E questo è un interessante apporto della cultura attuale alla spiritualità cristiana. Ma dobbiamo fare attenzione a conservare completa la verità su Gesù Cristo e non ridurla solo ad alcuni, interessanti, stimoli prassiologici o antropologici.

Il dialogo interreligioso ha infine condotto a rileggere la verità che sta prima e oltre la formulazione «dogmatica» dei concili, per sceverare gli elementi ancora non «fissati» in formule, eppure preziosi e vitali. Perché anche a tutti i popoli e alle tradizioni sia concesso di «vedere Gesù» (cf. Gv 12,21) ed essere accolti da lui con il «giubilo nello Spirito», e così possano guardare a colui che, «innalzato da terra, attira tutti a sé» (cf. Gv 12,32), e credendo alla luce «diventare figli della luce» (Gv 12,36).

Il Cristo è destinato «a ricapitolare tutte le cose» (Ef 1,10), perché le ha riscattate col suo sangue sulla croce; ma anche perché tutto è stato «eletto in lui fin dalla fondazione del mondo» (Ef 1,4) e tutto esiste «in vista di lui» (Col 1,16s). Con l’incarnazione il Verbo ricapitola in sé, in modo visibile, il primato sul cosmo intero, che gli apparteneva in modo invisibile.

Le ricerche e i «cammini» delle religioni abramitiche, come le «vie» e i «sentieri» delle grandi religioni asiatiche o delle tradizioni a sfondo cosmico o animista, ci hanno fatto vedere quanto siano numerosi e preziosi i «semi del Verbo» e i segni di santità, e quanto numerosi siano coloro «che lo cercano con cuore sincero».

Di tutto questo Cristo è artefice e pienezza, spiegazione e fondamento, misteriosa presenza e talora anche figura deformata; rimane implicito soprattutto redentore e signore. Alla nostra epoca tocca «assecondare» gli impulsi dello Spirito, mediante il dialogo rispettoso e sincero, e condurre alla piena realizzazione questa signoria universale di Cristo (cf. GS 92).


Note

(8) KAUTSKY, Der Ursprung, p. 400

(9) Per una migliore e diretta conoscenza cf.: J.M. LOCHMAN, Gesù o Prometeo?, Cittadella, Assisi 1975; T. PRÖPPER, Jésus: raison et foui, Desclée, Paris 1978; I.FETSCHER-M. MACHOVEC, Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1976.

(10) Sono tre volumi editi a Berlino (est) negli anni 1954-1959. Tenere presenti anche Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971 e Religione in eredità, Queriniana. Brescia 1979.

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6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

1. Il popolo sacerdotale dell’Antica e Nuova Alleanza

È giusto parlare del popolo sacerdotale delle due Alleanze, per indicare al contempo una continuità ed un superamento. Allo stesso modo, del tutto pertinente, parliamo di una Chiesa che non sorge all’improvviso con Gesù Cristo, ma è preparata già nell’antica alleanza. Il primo riferimento biblico fondante e previo ad ogni discorso è Es 19,1-9. Lì c’è la premessa ed il punto di partenza per la teologia sul popolo sacerdotale. Ed è interessante notare, fin dall’inizio, che si parla di ‘popolo’ sacerdotale. Lo stesso avverrà anche nel NT. Tuttavia lo sviluppo successivo metterà in ombra questa verità elementare per concentrare quasi tutta l’attenzione sulla classe sacerdotale. Ha senz’altro il suo posto ed il suo ruolo, ma non deve oscurare quello più universale del popolo sacerdotale.


1.a. Un popolo sacerdotale con l’alleanza

Così leggiamo in Esodo 19, 1-9: “Il terzo mese dall’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono al deserto del Sinai. Partirono da Refidim e arrivarono al deserto del Sinai, dove si accamparono. Israele si accampò di fronte al monte. Mosè salì verso Dio. Il Signore lo chiamò dalla montagna, dicendo:”Così parlerai alla casa di Giacobbe e annuncerai ai figli d’Israele:’Voi avete visto quello che ho fatto all’Egitto: vi ho portato su ali di aquile e vi ho condotto da me. E ora, se ascoltate la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa’. Queste cose le dirai ai figli d’Israele”. Mosè andò a convocare gli anziani del popolo ed espose loro tutte quelle cose che il Signore gli aveva ordinato. Tutto il popolo, insieme, rispose dicendo:”Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo”. Mosè riportò le parole del popolo al Signore”.

La celebrazione dell’alleanza viene descritta nel capitolo 24, ma qui è già considerata un fatto compiuto e la base della scelta da parte di Dio. Ora essere ‘proprietà’ di Dio e ‘regno’ di sacerdoti e ‘nazione’ santa, dice una stessa cosa: un rapporto del tutto speciale con il Signore, dove valgono non i termini di possesso, ma di affetto. In realtà, Israele è proprietà di Dio, nel senso che egli la considera sua, in termini di affetto, come il padre dice al figlio : ‘mio figlio’. Nella stessa linea corrono le altre due espressioni, ma acquistano un significato più dinamico o missionario. Infatti questo popolo sacerdotale svolge un ruolo di mediazione con gli altri popoli, ad analogia di quanto Mosè fa all’interno del suo popolo. E così quando si parla di ‘nazione santa’ si pensa non tanto ad una qualità astratta e spiritualizzata, quando invece al compito di testimonianza che Israele è chiamato a svolgere verso i popoli vicini. È anche la convinzione che traspare dal libro di Tobia:”Celebratelo, Israeliti, davanti alle nazioni, perché egli vi ha disperso in mezzo ad esse, e qui vi ha fatto vedere la sua grandezza” (13, 3-4).

 

1.b. Riconfermato con la nuova alleanza

Sulla base di questa convinzione, continua nel NT il discorso sul popolo sacerdotale. Ci limitiamo a presentare solo alcuni testi, perché possiamo vedere la continuità in un servizio e la sua novità, costituita dall’evento di Gesù Cristo. Il primo testo solenne che la tradizione apostolica legata a Pietro, ci ha tramandato, è il brano classico di 1Pt, 2,4-10. E’ singolare il fatto che esso risulta a sua volta, di citazioni, la più importante delle quali è il testo dell’Esodo sopra citato. La lettera di Pietro può essere considerata come una omelia pasquale, in cui vengono richiamate le linee essenziali della salvezza operata da Cristo e il nuovo statuto dei battezzati, resi partecipi della giustizia di Dio. A questi il testo si rivolge richiamando la loro nuova dignità.

“Avvicinandovi a lui, la pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore, siete costruiti anche voi come pietre viventi in edificio spirituale per formare un organismo sacerdotale santo, che offra sacrifici spirituali bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Per questo si trova nella Scrittura: Ecco, pongo in Sion una pietra scelta, angolare, di valore, e chi crede in essa non rimarrà confuso. Il valore è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati. Ma voi siete una stirpe scelta, un organismo sacerdotale, regale, un popolo santo, un popolo destinato ad essere posseduto da Dio, così da annunziare pubblicamente le opere degne di colui che dalle tenebre vi chiamò alla sua luce meravigliosa, voi che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio, eravate non beneficati dalla bontà divina, ora invece siete beneficati”.

 

1.c. Lo statuto del nuovo popolo

Possiamo dire che qui abbiamo una specie di statuto generale dell’essere e dell’agire del nuovo popolo di Dio. L’essere è descritto da ciò che i battezzati sono divenuti per mezzo di Cristo, appunto il popolo sacerdotale. Questo evento non è un fatto pacifico, perché è il risultato della passione di Cristo, del suo rifiuto, della sua morte. Il richiamo al dramma della pasqua è esplicito e forte, per dire che l’inserimento in Cristo non è una cosa scontata, ma frutto di lotta e di fatica. I cristiani non possono dimenticare la loro origine dalla pasqua di Cristo. Del resto anche la nascita del primo popolo sacerdotale era avvenuta nel travaglio dell’Esodo e delle peripezie conseguenti. Ma poi ciò che resta ed è decisivo è la nuova dignità acquisita.

Questo nuovo popolo ha due compiti ben precisi e distinti. Il primo consiste nell’offrire sacrifici spirituali, a Dio bene accetti. Non si precisa in che cosa consistano, forse si dà per noto ai lettori che cosa ciò significhi. Comunque c’è un aggettivo importante che può orientare in modo sicuro: si tratta di sacrifici ‘spirituali’, celebrati cioè nello Spirito Santo. Non è difficile vedere in questo termine il superamento dell’apparato sacrificale del tempio antico e la designazione del nuovo sacrificio di Cristo, comprensibile solo nello Spirito di Dio. Tutto l’argomento viene ripreso ed analizzato in modo esauriente nella lettera agli Ebrei.

 

 

1.d. Identità e missione

Il secondo compito è l’annuncio al mondo di quanto Dio ha fatto con il suo popolo: il passaggio dalle tenebre alla luce, il passaggio dalla morte alla vita. E’ in breve l’annuncio del Vangelo nel segno della nuova vita ricevuta in dono. Quanto sia superata la sola ed univoca dimensione cerimoniale della liturgia cristiana è del tutto perspicuo nel nostro testo, ed è altresì annotata la necessità per il nuovo popolo sacerdotale di non limitarsi ad una fede che non conosca annuncio, nel fatto stesso che è vissuta dinanzi al mondo e a beneficio del mondo.

Nel libro dell’Apocalisse abbiamo altri due passaggi significativi sul nostro tema. Gesù Cristo “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (1,6). Tu o Cristo, “Acquistasti per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù e lingua e popolo e nazione, ne facesti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sulla terra!” (5,9-10). Qui è evidenziato in modo molto più forte che nel testo precedente l’opera di Gesù Cristo, anche in considerazione dell’impostazione dell’Apocalisse. Ma è del tutto chiaro che in ogni testo del NT quando si parla di qualcosa in riferimento alla nuova condizione dei redenti, l’accentuazione dell’opera di Cristo è particolarmente forte, perché da esso e su di essa tutto consiste e sta.

 

1.e. Riscoprire l’identità del popolo di Dio oggi

Da questa sintetica presentazione possiamo fare due brevi considerazioni conclusive. La prima è che nel corso dei secoli si è persa la prospettiva di questo popolo sacerdotale, a vantaggio di una impostazione più clericale, che ha raggiunto il suo vertice all’inizio del secondo millennio. Questa sfasatura ha arrecato i suoi danni, che sono all’origine neanche tanto nascosta anche della contestazione luterana del modello ecclesiale del suo tempo. La seconda consiste nel ricuperare il senso di questo popolo sacerdotale, composto dai battezzati, in vista di una rinnovata coscienza dell’essere Chiesa e della sua missione nel mondo.

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5. La comunità in cammino
verso il Regno

di Marino Qualizza


6. L'eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l'eucarestia

Nel maggio del 1983 la Conferenza Episcopale Italiana pubblicò un documento pastorale dal titolo Eucarestia, comunione e comunità. Esso aveva lo scopo di orientare l’impegno della Chiesa italiana per gli anni ottanta proprio sul tema della comunione. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la comunione nasce in modo speciale dall’Eucarestia. Da essa prende vita e forma la Chiesa, che a sua volta è chiamata a celebrare l’Eucarestia, rendendo così presente l’azione salvifica di Cristo. Nel numero 61 di questo documento vengono ripresi i temi di cui stiamo parlando nei termini seguenti: “Non si può essere Chiesa senza l’Eucarestia. Non si può fare Eucarestia senza fare Chiesa. Non si può mangiare il Pane eucaristico senza fare comunione nella Chiesa. Queste affermazioni, che raccolgono l’esperienza viva e la tensione costante della comunità cristiana di ogni tempo, riconducono a interrogarci, nell’oggi, sulla nostra fede, per verificare la reale portata di questo vincolo indissolubile tra Chiesa ed Eucarestia. Molti cristiani vivono senza Eucarestia; altri fanno l’Eucarestia ma non fanno Chiesa; altri ancora celebrano l’Eucarestia nella Chiesa, ma non vivono la coerenza dell’Eucarestia. Una autentica comunità ecclesiale, che voglia vivere la comunione, pone al suo centro l’Eucarestia e dall’Eucarestia assume forma, criterio e stile di vita: l’Eucarestia è la vita, ed è la scuola dei discepoli di Gesù.”.

Il testo citato ripropone il titolo di questo capitolo e mette in luce la circolarità dinamica che esiste tra l’Eucarestia e la Chiesa. Il primato va all’Eucarestia, perché essa fa la Chiesa. L’affermazione non va presa in senso giuridico o autoritativo, ma in senso sacramentale, perché in essa agisce il Cristo risorto. È dunque da Lui che prende forma e vita la Chiesa di oggi e di sempre. Essa non vive di vita propria né vive staccata da Cristo. Il costante riferimento a Lui determina la sua identità, come aveva detto in modo splendido il Concilio Vaticano II nel 1° paragrafo della Costituzione Lumen Gentium .
Ma se la Chiesa riceve la sua vita da Cristo, essa a sua volta lo rende presente, attuale, nel mondo d’oggi. Una volta ricevuta forza ed energia da Cristo, la Chiesa celebra l’Eucarestia, che è sintesi e somma della salvezza. Ciò che è importante nella celebrazione dell’Eucarestia è questa duplice consapevolezza, con il conseguente impegno di non limitarsi alla cerimonia in sé ma di rendere attivo nella vita il contenuto della celebrazione, che consiste nella comunione con il Cristo e con i fratelli, come il testo della CEI ha richiamato. Nel 1972, a Udine, nel mese di settembre, fu celebrato il 18° Congresso Eucaristico Nazionale, che vide anche la partecipazione di Papa Paolo VI. Il tema generale del Congresso era Eucarestia e comunità locale. Ma il sottotitolo e – per certi versi – il cuore stesso del Congresso era proprio la circolarità di Chiesa ed Eucarestia nel senso indicato dal titolo del nostro capitolo. Superate le difficoltà iniziali, soprattutto in fase preparatoria, e anche certe dissonanze dei relatori nella settimana conclusiva, il tema si è rivelato particolarmente fruttuoso ed efficace nel far prendere coscienza alle comunità locali dell’importanza della celebrazione eucaristica oltre l’aspetto cerimoniale e devozionale che le aveva caratterizzate per lungo tempo. Un’indicazione particolarmente autorevole per dar vita alle comunità ecclesiali ci viene dal testo paolino di 1Corinzi 11,23 – 27. È il caso di riprodurlo interamente, perché ci dà le linee generali di come intendere la pluralità di una vita comunitaria: “Io, ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Quindi tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore, finché egli venga.
Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore.”. Il testo paolino è una delle quattro testimonianze sulla istituzione dell’Eucarestia. In ordine di tempo è la prima. Ma è già collegata alla tradizione ecclesiale. Paolo infatti annota scrupolosamente di aver trasmesso ai cristiani di Corinto quanto egli a sua volta aveva ricevuto riguardo al Signore. La testimonianza di Paolo non si fonda direttamente su una rivelazione ricevuta da Cristo Signore ma sulla trasmissione ecclesiale.

Ciò è di somma importanza, perché ci aiuta a comprendere che la tradizione non è un corpo morto, ma è la vita stessa della Chiesa, che diventa tale soprattutto nella celebrazione dell’Eucarestia. Questa poi è contemporaneamente comunione con il Cristo e comunione con la Chiesa. Paolo ce ne dà conferma nei versetti iniziali del testo sull’Eucarestia, precisamente dal verso 17. Egli biasima il comportamento dei Corinzi, perché non avevano messo in pratica il significato dell’Eucarestia, che dalla comunione con il Cristo doveva portare alla comunione con i fratelli. Ciò non avveniva a Corinto. A tal proposito abbiamo un testo ancora più significativo in 1 Corinti 10, 16 -17, dove viene messa in luce l’efficacia dell’Eucarestia come composizione di un corpo solo: “ Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane.”. Se la partecipazione all’unico pane e all’unico calice fa dei molti un corpo solo, ciò significa che l’unità ecclesiale suscitata dall’eucarestia deve manifestarsi nella vita quotidiana ben oltre i tempi e gli spazi di una cerimonia, per quanto solenne. Forse non è improprio parlare di una dimensione sociale e “politica” dell’Eucarestia. Essa infatti non può ridursi ad una cerimonia, ma deve rinnovare ed ispirare la vita laddove essa si svolge. In realtà questo è avvenuto lungo tutti i secoli della storia cristiana, anche quando il collegamento teologico non era percepito con l’evidenza che i testi biblici e la teologia attuale mettono in luce. Data però la rinnovata coscienza che la riflessione di oggi ha suscitato, i cristiani non possono sfuggire ai nuovi impegni, anche gioiosi, che l’Eucarestia suscita e chiede. Viverla in questi termini vuol dire anche riscoprire e rilanciare l’attualità del Vangelo per il nostro tempo.

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Lo Spirito Santo nella vita della Chiesa

di P. Pelagio Visentin osb

Non è tanto facile parlare dello Spirito Santo: tutti conoscono la definizione del «grande Dimenticato», come si è detto, e da vari anni si sta cercando di rimediare a questa carenza della teologia e della spiritualità occidentale. Tutti sanno infatti che i nostri fratelli separati d’Oriente, in particolare, sono molto sensibili a questo tema e trovano che la nostra teologia e, per conseguenza, anche la nostra spiritualità sono piuttosto povere a questo riguardo.

Già Leone XIII con alcune classiche encicliche sullo Spirito Santo ha tentato di rimediare a questa insufficienza teologica; anche il concilio Vaticano II ha dato preziosi elementi per un approfondimento ed un arricchimento della riflessione cristiana sullo Spirito Santo. Dobbiamo però essere sinceri e dire che c’è ancora molto da indagare e da meditare perché la teologia dello Spirito Santo sia veramente una realtà viva e presente.

1. La «Chiesa di pentecoste» e lo Spinto Santo 

Per nostra fortuna lo Spirito Santo è presente anche quando noi non ci pensiamo, ma è ovvio che una presa di coscienza più immediata potrebbe essere un grande aiuto anche per la Chiesa di oggi. Penso che il rinnovamento della Chiesa, oggi come domani e sempre, non potrà essere ottenuto soltanto aggiornandosi alle esigenze ed ai segni dei tempi, ma tornando ad uno studio, ad una riflessione, ad una meditazione profonda su quello che vuol dire il dono dello Spirito Santo da parte di Gesù, l’ultimo dono che egli ci ha la sciato prima di salire al cielo.

E per questo credo che la Chiesa, di oggi e di sempre, abbia bisogno di pensare al suo primo modello inarrivabile: quella che potremmo definire la «Chiesa di pentecoste», la comunità di pentecoste, dove il dono dello Spirito era ancora un elemento freschissimo, nuovo.

I Vangeli ci hanno narrato prima di tutto la discesa dello Spirito Santo sul Signore Gesù. Già nell’incarnazione l’arcangelo Gabriele diceva alla Madonna: «lo Spirito Santo scenderà su di te e ti riempirà della sua forza divina»; poi lo Spirito Santo scende su Gesù al Giordano.

Dopo i Vangeli, il libro classico, fondamentale a questo riguardo è, come tutti sanno, il libro degli Atti degli Apostoli, dove si narrano le varie discese dello Spirito Santo sopra la Chiesa, sopra la comunità dei discepoli di Gesù. Siamo quindi in continuità con i Vangeli, anzi gli stessi Atti degli Apostoli sono stati definiti «il Vangelo dello Spirito Santo».

Questo libro, scritto da Luca, nel capitolo 2 narra prima di tutto la discesa spettacolare nel mattino di pentecoste; poi, successivamente, ripetute volte, ricorda ua venuta, un dono, una missione dello Spirito Santo: sopra Pietro e Giovanni con la comunità dopo la persecuzione (4, 31); nel caso di Filippo, che aveva battezzato in Samaria, quando gli Apostoli vanno poi a dare lo Spirito Santo (8,17); importantissima è la discesa dello Spirito Santo nella casa di Cornelio, dopo la predicazione di Pietro (10,44); infine su un gruppo di discepoli a Efeso (19,6).

Parecchie volte Luca ritorna su questo dono che è conferito a tutti. E’ stato notato anche che tutte queste discese dello Spirito Santo hanno alcune tematiche fondamentali in comune: per esempio lo Spirito discende là dove una comunità di fratelli è unita, e per accrescere questa unione. La mattina di pentecoste i discepoli erano tutti «congregati in unum», in unità di spirito: lo Spirito discende ed aumenta, intensifica questa unità. Lo Spirito scende volentieri dove trova la Chiesa in preghiera come nel Cenacolo dove è in attesa del dono dello Spirito.

La venuta dello Spirito Santo è messa in connessione col battesimo come un suo completamento, cioè quello che chiamiamo oggi la cresima o la confermazione. Altro nesso con la parola di Dio, che ha una forza irresistibile, un’espansione missionaria proprio per il dono dello Spirito. Infine coi carismi: dove c’è lo Spirito c’è abbondanza di carismi.

Ecco dunque che la Chiesa di pentecoste è tutta permeata, vivificata da questa presenza, da questo dono dello Spirito ed è proprio la sua venuta che inaugura e porta a maturità la nuova comunità messianica. Si può dire che la Chiesa è nata già quando Gesù ha chiamato i discepoli; oppure che la Chiesa è nata, secondo la teologia dei Padri, da Cristo che si offre sulla croce, dal suo costato aperto dalla lancia. Tutto questo rimane vero, però la Chiesa appare come un fatto pubblico e solenne, si presenta davanti al mondo precisamente la mattina di pentecoste.

E avviene veramente qualche cosa di grandioso. questa Chiesa, che era nata prima nel cuore di Gesù ed era limitata ad un piccolo gruppo, diventa la vera comunità della nuova economia ed il discorso di Pietro la mattina di pentecoste spiega precisamente perché essa è la nuova comunità messianica: quel dono dello Spirito Santo che i profeti avevano predetto e promesso tante volte, adesso è disceso con abbondanza su tutti i presenti e questo, Pietro spiega, vuol dire che sono arrivati i tempi messianici, definitivi.

Lo Spirito è la garanzia, ormai, della presenza e dell’azione di Dio, azione permanente. Ireneo riassumerà meravigliosamente questa fede della Chiesa: « Ubi Spiritus, ibi Ecclesia» una bellissima, sintetica definizione della Chiesa. Egli in lotta con gli gnostici, voleva dire che lo Spirito non si comunica per via esoterica, segreta, di certi discepoli che pretendevano di avere rivelazioni attraverso canali particolari, ma piuttosto attraverso la trasmissione ufficiale della Chiesa, quella apostolica, attraverso i successori degli Apostoli in particolare. La Chiesa diventerà d’ora innanzi una dimora stabile dello Spirito Santo, il segno permanente di questa azione divina in mezzo agli uomini.

Del resto questa connessione dello Spirito Santo con la Chiesa la ricordiamo continuamente anche negli articoli del Credo. Purtroppo parecchi fedeli, quando recitano il Credo pensano forse che esso sia una lista, un elenco di verità indipendenti una dall’altra o pensano anche che non vi sia un nesso logico tra i vari articoli del Credo. Lo studio storico più approfondito dimostra invece che il Credo non è un elenco di verità ordinate secondo un principio sistematico, ma piuttosto presenta la storia salvifica, l’opera creatrice del Padre; segue l’opera del Figlio, incarnato, morto e risorto; e finalmente si arriva all’ultima parte del Credo, allo Spirito Santo.

Ora subito dopo il «Credo nello Spirito Santo» si aggiunge «Credo la santa Chiesa cattolica»: non vi è un accostamento soltanto casuale, una giustapposizione, ma un nesso profondo perché per lo Spirito Santo esiste la Chiesa, e la Chiesa è santa proprio per l’azione dello Spirito Santo. Segue la «remissione dei peccati» perché è precisamente lo Spirito Santo, come vedremo più avanti, che santifica e rimette i peccati, purifica la Chiesa.

Si passa poi a «risurrezione della carne», la vita escatologica di cui lo Spirito Santo è la primizia, la caparra. Tutto dunque è articolato secondo la storia salvifica.

Si vuol esprimere una connessione in radice, fondamentale tra la Chiesa e il dono dello Spirito Santo. Proprio allora vediamo che quel piccolo gruppo, quel manipolo di discepoli di Gesù poteva sembrare, ad un osservatore esterno, una piccola setta separatista dal giudaismo ufficiale: diventa invece la Chiesa «cattolica», cioè universale, portatrice di una salvezza universale che abbraccia il mondo intero.

Se leggiamo attentamente i primi capitoli degli Atti degli Apostoli, troviamo narrata una vicenda meravigliosa: nessun giudeo avrebbe avuto il coraggio allora di aprire la Chiesa al torrente impetuoso dei gentili, se non fosse avvenuto quello che è avvenuto la mattina di pentecoste, col dono delle lingue, in cui lo Spirito Santo prendeva possesso di tutte le razze, di tutte le culture.

Ancora più significativo su questo tema specifico, il fatto riferito nei capitoli 10-11 degli Atti degli Apostoli, dove si narra la piccola ma importante pentecoste nella casa di Cornelio, quando Pietro parla e poi «cadde» lo Spirito Santo sui presenti approvando la sua apertura ai gentili, il suo coraggio di ammettere anche i gentili alla pari, nella Chiesa, con tutti i fratelli giudaizzanti.

Osservano molto bene gli specialisti degli Atti che quei capitoli, in cui è narrata in tutti i particolari la vicenda di Pietro che - dopo la visione del lenzuolo a loppe e dopo il battesimo di Cornelio - deve giustificarsi a Gerusalemme davanti ai giudeo-cristiani di quello che aveva fatto, proprio quei capitoli sono estremamente importanti: sono la cerniera tra la prima parte degli Atti in cui il perno è Pietro e la seconda parte, in cui entra in scena Paolo.

Luca, abilissimo, da discepolo di Paolo, indirettamente polemizza contro i giudaizzanti e vuol far capire che non è stato Paolo a portare questa novità, ma è stato Pietro, nella casa di Cornelio, che ha avuto questa rivelazione: lo Spirito Santo stesso ha preso possesso ormai definitivo di tutti i popoli: allora la Chiesa è nata universale, per questo dono dello Spirito Santo.

Nell’economia dell’incarnazione anche Gesù si chiama Paraclito. «Vi manderò un altro Paraclito», egli dice: Gesù era l’assistente a fianco degli Apostoli e quindi interveniva personalmente per tutti i loro bisogni. Egli promette però «un altro Paraclito», un altro assistente: all’economia dell’incarnazione succede ora l’economia dello Spirito Santo, non per antitesi ma per un compimento, da quando Cristo, ormai, è partito per il cielo.

Senza dubbio Gesù non ha abbandonato la Chiesa, è sempre vivo e presente in essa, ma agisce in un altro modo, su un altro piano, in parte servendosi di mezzi visibili, sacramentali, che prolungano la sua umanità, concreta, appartenente al nostro mondo e in parte attraverso il flusso misterioso, segreto dello Spirito Santo: la sua presenza e la sua azione, quindi, sono diverse, ma non meno reali ed efficaci.

ad agire in un altro modo Tertulliano ha scritto una frase mirabile, sempre sintetica e forte come è nel suo stile, ossia che Gesù, partendo, ha lasciato vicariam vim Spiritus sui, ha lasciato la vis vicaria, la forza che doveva agire al posto suo, svolgendo la missione stessa che egli aveva svolto fino allora in mezzo ai fratelli, nella sua Chiesa.

Questa Chiesa di pentecoste, con la sua fisionomia autentica, dovrà essere sempre il punto di riferimento, il paradigma a cui la Chiesa dovrà rifarsi continuamente, ogni volta che vuole rinnovarsi in profondità oggi e sempre.

2. La Chiesa e lo spirito di unità

Vediamo ora più specificatamente che cosa fa lo Spirito Santo nella Chiesa. Sempre in modo molto sintetico, globale, panoramico.

soltanto conquista da parte nostra ma dono, al quale poi dobbiamo adeguarci anche con le nostre virtù e con il nostro sforzo, la nostra collaborazione personale.

Lo stesso identico Spirito che era presente nel Cristo Capo (ricordiamo che la sua umanità era piena di Spirito Santo), si diffonde d’ora innanzi come dono pasquale in tutto il corpo della Chiesa: lo Spirito Santo diventa così precisamente l’anima della Chiesa, come dice la tradizione cristiana, il motore segreto, la molla che muove la Chiesa. Oppure sarà l’Io fondamentale, quello che sant’Agostino ha chiamato una mystica persona: un tema ricco e profondo.

La Chiesa è una “mistica persona” grazie a quest’unica presenza, invisibile e misteriosa ma reale, che unifica tutta la Chiesa: lo Spirito Santo. Un tema che un teologo recente, in un libro edito adesso anche in italiano, ha sviluppato ampiamente.

Del resto la Mystici corporis ha riassunto splendidamente la teologia tradizionale patristica quando ha detto che lo Spirito Santo è «totus in Capite, totus in Corpore, totus in singulis membris». Lo Spirito nella sua pienezza era in Cristo, adesso «totus» è presente nella Chiesa, «tutto» è presente anche in ogni singolo membro. E’ questo che fa «una la Chiesa, perché la sua anima profonda è questa presenza attiva dello Spirito Santo.

Dunque lo Spirito, adesso, dovrà animare e vivificare tutto all’interno della Chiesa. Unifica il singolo uomo sul piano personale e morale, in quanto in noi c’è una componente fisica e una spirituale e ci sentiamo attirati da tante passioni, da tanti interessi. Soltanto lo Spirito riesce a purificarci e a unificarci per farci vivere «secondo lo Spirito», direbbe Paolo, secondo cioè la vita nuova che viene da Dio.

E’ lo Spirito che purifica e ci unifica col dono dell’amore, ma lo Spirito opera anche l’unità sul piano sociale, ecclesiale unifica tutte le membra, col capo che è Cristo e le unifica nei corpo l’una all’altra, sulla linea orizzontale, per dire così. Lo Spirito che nella vita trinitaria è il «nexus amoris» o il «vinculum amoris» tra il Padre e il Figlio, crea anche nella Chiesa un vincolo profondo di ciascuno con il Capo-Cristo e anche tra noi. Ecco l’unità creata in profondità dallo Spirito Santo.

Nel dono di pentecoste vediamo come questo Spirito diventa efficacemente un dono di tutti, un bene di tutti, senza più distinzioni di razza, di sesso, di età, di condizione sociale.

Basta ricordare la profezia di Gioele, che Pietro cita nel giorno di pentecoste: «Sopra i miei servi e le mie serve, sopra i giovani e i vecchi...»: tutti profeteranno, tutti avranno questo dono della profezia dallo Spirito Santo presente. E’ interessante sottolineare che non c’è alcun riguardo al sesso e all’età (due volte si dice: «ancillas meais»: in riferimento alle donne). Quello che prima nell’A. Testamento, era un dono saltuario, di tanto in tanto, di alcuni privilegiati, diventa un bene comune permanente.

Questa verità, però, naturalmente, non toglie che lo Spirito Santo abbia anche un particolare dono, un carisma per i pastori della Chiesa, proprio con la funzione di servire all’unità. Tutti collaborano, tutti devono convergere verso questa unità profonda.

E questa unità, naturalmente, non è soltanto estrinseca, o poggiante su qualche elemento (potrebbe essere il diritto canonico, o la lingua latina come tanti pensavano ritenendo questi elementi quasi essenziali). Non sono i mezzi esterni soltanto a produrre l’unità, ma è questa anima interiore, questa carità questo vincolo di amore, frutto della presenza attiva dello Spirito.

E questa l’unità della Chiesa, in una profondità tale che diventa per noi misteriosa.

Il giorno di pentecoste lo Spirito Santo è sceso su tutti, prima sugli Apostoli, poi su tutto il corpo della Chiesa. Noi cattolici però affermiamo che lo Spirito Santo agisce anche mediante le istituzioni da lui volute: i pastori hanno ricevuto un triplice deposito - della fede, dei sacramenti, dell’autorità - proprio per un dono divino. Gli Atti degli Apostoli ricordano precisamente che accanto al dono comune, di tutta la Chiesa, c’è anche qualche dono e ruolo particolare: per esempio per l’elezione di Mattia, oppure in Atti 1,2 dove si dice che Gesù ha scelto gli Apostoli «per Spiritum Sanctum».

L’azione speciale diventa chiarissima al capo 13, quando lo Spirito Santo dice alla comunità cristiana: «Separatemi, mettetemi da parte Paolo e Barnaba per la missione che io darò loro»; oppure con Giacomo, al capo 6: un’altra volta lo Spirito Santo interviene per illuminare e dirimere una questione particolare. Chi non ricorda poi il discorso di Paolo agli anziani di Efeso, quando dice loro: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a reggere la Chiesa di Dio» (20, 28)? C’è, dunque, un’azione, una presenza, un dono dello Spirito Santo a tutta la Chiesa, senza nessuna distinzione, ma c’è anche una presenza, un dono particolare per alcuni che hanno una funzione, un ministero da svolgere dentro la Chiesa. Toccherà precisamente all’azione segreta ma delicatissima dello Spirito Santo unificare, far servire all’unità tanto il principio dell’autorità quanto i carismi.

E’ vero che nel passato, nella teologia occidentale, i carismi sono stati un po’ dimenticati; tutta l’attenzione era rivolta all’aspetto istituzione, all’aspetto gerarchico: la storia invece dimostra che molti rinnovamenti spirituali della Chiesa sono avvenuti non per una iniziativa dall’alto, ma da un dono suscitato dal basso. Chi non ricorda san Francesco d’Assisi? Anche il movimento monastico è venuto dallo Spirito Santo che spira in tutto il corpo della Chiesa e la rinnova, quando crede opportuno. E’ avvenuto diverse volte questo fenomeno nella storia.

Paolo, però, che è il grande teologo dei carismi, sa anche relativizzarli: di fronte alla carità, per esempio, che è il dono supremo, dice: «Cercate il dono più alto che è la carità» fra le virtù teologali o altre manifestazioni straordinarie (1 Cor 12,31). E sa anche subordinarli al principio dell’autorità apostolica: difatti proprio nella Chiesa di Corinto interviene per regolare il buon uso di questi carismi.

Non è vero, dunque, che la Chiesa, come sembra da un recente libro di Hans Küng, nella comunità di Corinto appaia soltanto carismatica, in quanto Paolo, proprio in quella Chiesa interviene per regolare lo svolgimento della vita carismatica e perciò fa appello alla sua autorità apostolica. La Chiesa ha dunque il compito di vigilare, di esaminare.

Naturalmente Paolo dice anche che non bisogna estinguere il dono dello Spirito, ma saper discernere, accettare tutto quello che di buono spira nel corpo della Chiesa... E proprio perché tanto l’autorità della Chiesa quanto i carismi derivano da uno stesso Spirito, è impossibile, per sé, sul piano obiettivo, un conflitto tra loro; quindi una ribellione, una rottura, la nascita di una setta non sono carismi autentici, non si può dire che ne abbiano la vera fisionomia.

Unità, però, non vuol sempre dire uniformità ed alle volte - anche questo appartiene alla storia della Chiesa - ci sono delle tensioni feconde che aiutano il cammino, l’approfondimento di certe verità nella Chiesa, naturalmente sempre nella carità e nel dialogo. Così possiamo trovare il punto di equilibrio, ma è lo Spirito Santo con la sua presenza che deve salvaguardare l’unità e la più ricca varietà nella vita della Chiesa.

Aggiungiamo tuttavia che la Chiesa non ha mai il monopolio dello Spirito Santo in modo da usarne come vuole, né si identifica totalmente con lo Spirito Santo, perché la Chiesa è fatta anche di uomini e peccatori. Lo Spirito spira sempre dove vuole e sappiamo - anche per una affermazione esplicita del Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo, n. 3 - che agisce anche al di là dei confini istituzionali e quindi è presente un’azione, un dono dello Spirito Santo anche presso i nostri fratelli non cattolici, perché lo Spirito Santo conserva sempre la sua libertà sovrana di agire dove vuole. Naturalmente se lo Spirito Santo agisce anche nelle comunità separate, è proprio per stimolarle e stimolarci tutti verso l’unità.

3. La Chiesa e lo spirito di verità

Vediamo ora un altro aspetto: la presenza dello Spirito Santo nell’ambito della verità.

Lo stesso Spirito, che scruta le profondità di Dio, come dice Paolo (1 Cor 2,10) quello che «ha parlato per mezzo dei profeti», si è servito di loro come strumenti (non tanto meccanicamente, ma rispettando il loro stile, la loro personalità), quello Spirito che riempiva l’umanità del Verbo incarnato, è presente anche oggi nella Chiesa, che deve proclamare questo messaggio al mondo, deve portare a tutti la parola di Dio, deve illustrarla, interpretarla.

Certo, è il Verbo la parola totale e definitiva inviata al mondo, ma lo Spirito è dato proprio perché questo dono della parola continui ad agire e lo Spirito Santo agisce tanto in chi predica e propone autorevolmente la parola da parte di Dio, col magistero ufficiale della Chiesa, se volete, quanto in chi ascolta. Anzi, sarebbe inutile che la Chiesa predicasse, portasse questo messaggio, se lo Spirito non agisse nel cuore di quelli che devono accogliere questo messaggio di fede: è lo Spirito che genera la fede nel cuore e quindi lo apre ad accogliere la parola di Dio.

La Dei verbum al n. 12 ha detto molto bene, ispirandosi ai Padri: «Bisogna leggere ed ascoltare la Scrittura con lo stesso Spirito, o sotto l’influsso dello stesso Spirito che ha ispirato la prima volta gli autori sacri». Se non è lui che apre il cuore, che tocca l’intimo dell’anima perché penetri la parola, il seme del Verbum Dei, e perché sia fecondo nell’anima, è inutile la predicazione esterna. Ecco quindi l’azione dello Spirito nella Chiesa dalla parte di chi predica e dalla parte di chi ascolta.

E’ compito speciale dello Spirito Santo inoltre attualizzare la parola di Dio, perché non rimanga un passato ma una forza attiva e presente. Tocca allo stesso Spirito personalizzare quella parola e ciò avviene quando il cristiano si trova sotto l’impressione netta e profonda che questa parola è rivolta a lui personalmente, in quel momento. Così pure lo Spirito Santo aiuta a interiorizzarla, cioè a farne alimento della propria vita, qualche cosa che continua a risuonare, a penetrare dentro, altrimenti «invano - direbbe sant’Agostino - risuona fuori il Verbum”.

La Scrittura presenta il nostro atteggiamento di fronte al messaggio con termini assai significativi, che sarebbero da meditare uno per uno: è un invito, un’offerta, una proposta, una attrazione, una rivelazione interiore, un’unzione dello Spirito. Siamo ben lontani da una trasmissione scolastica di nozioni, quando invece si tratta di una azione molto più intima, profonda e segreta.

Lo Spirito Santo con la grazia «preveniente» agisce nel momento in cui il cuore deve aprirsi al senso della fede, egli produce una mozione interiore all’anima perché aderisca alla verità, inevidente per se stessa, e quindi anche nell’oscurità sappia aderire alla parola di Dio, sull’autorità di Dio che parla. Lo Spirito Santo aiuta anche la crescita, la penetrazione, l’assimilazione interiore e così agisce anche perché ci sia una comprensione e applicazione sempre nuova delle verità eterne lungo tutto il cammino della Chiesa. Vedi le applicazioni concrete del Vangelo di oggi per esempio nel campo sociale.

E’ stato definito molto bene e in base agli stessi testi scritturistici: lo Spirito Santo è una memoria vivente che richiama nella Chiesa le verità che Gesù ha portato, la parola di Dio. Di fatto Gesù ha detto: «suggeret vobis omnia» (Gv 14,26), egli vi richiamerà alla mente quello che vi ho detto, vi annunzierà il futuro e vi farà penetrare dentro la verità. Così egli assisterà il magistero della Chiesa, perché, in certi momenti più solenni non erri, perché custodisca ed interpreti autorevolmente il deposito della rivelazione: «visum est Spiritui Sancto et nobis» (At 15,28) - è la definizione del concilio di Gerusalemme -. Analogamente egli agisce anche nel sensus fidei del popolo cristiano, diffuso in tutto il corpo della Chiesa, per uno sviluppo omogeneo della verità, che deve essere sempre fedele al dato, cioè a ciò che Dio ha consegnato una volta per sempre alla Chiesa.

Ma, mentre è fedele al dato, è anche sempre aperto a una crescita indefinita perché non finiremo mai di penetrare questa verità meravigliosa. Tutto questo intrecciarsi invisibile della causa divina con l’apporto dell’intelligenza umana, aiuta la Chiesa a scoprire sempre nuovi aspetti della verità.

E’ precisamente dono dello Spirito l’equilibrio dove si risolve una antinomia apparente: non l’atteggiamento di coloro che oggi si chiamerebbero i conservatori, i fissisti, i quali ritengono che tutto è stato risolto una volta per sempre, tutto è chiarito e penetrato; ma neanche l’altro atteggiamento antitetico dove tutto è sempre da rifare col relativismo che attende dal progresso storico nuove verità sconosciute. Si tratta invece di conciliare la fedeltà completa, profonda al dato rivelato con la novità imprevedibile della luce divina che si proietta sulle cose umane, e su tutto il cammino della storia. Qui possono affiorare aspetti nuovi della verità che prima sfuggivano: lo Spirito è sempre nuovo e rinnovatore.

4. La Chiesa e lo spirito di santità

Un quarto aspetto: lo Spirito Santo che è santità e amore all’interno della vita trinitaria, deve agire anche sotto questo aspetto nella Chiesa, anzi dipende da lui il fiorire della santità della Chiesa. E’ evidente che qui la santità non è soltanto una santità morale, di virtù, conquista da parte nostra, è una santità ontologica in quanto partecipazione alla vita divina, comunione con Dio, dal momento che Dio ha preso possesso di quest’anima o di questo popolo.

«Eritis mihi populus peculiaris. (cf. Dt 7,6), cioè che io ho messo da parte per santificarvi in particolare. Lo Spirito Santo così sarà presente in ogni santificazione ed in ogni consacrazione. Quando Dio comunica qualche cosa della sua vita divina, della sua santità, ecco che troviamo presente lo Spirito, anche se la nostra teologia scolastica occidentale non ne ha tenuto conto abbastanza. E’ impossibile, per esempio, dal punto di vista della teologia orientale, spiegare la grazia sacramentale di tutti i sacramenti senza un riferimento immediato allo Spirito Santo.

Si potrebbe illustrare questa verità cominciando dal battesimo. Giovanni Battista ha parlato del battesimo «in acqua e Spirito Santo» (cf, Gv 1,33) e nel Giordano scende su Gesù proprio lo Spirito Santo. Nella liturgia del sabato santo diciamo splendidamente: «Discenda nella pienezza su questa fonte la virtus dello Spirito Santo»: dipende da qui la forza rigeneratrice e santificatrice del battesimo. E lui il creatore, lui il rinnovatore. E come nel battesimo tanto più nella cresima che è il tema illustrato da altri.

Il sacramento della penitenza: lo cito subito perché è un prolungamento del battesimo. Anche qui la presenza dello Spirito Santo è presenza necessaria. Ricordiamo che proprio la sera di pasqua Gesù ha detto: «Ricevete lo Spirito Santo; a quelli a cui rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,22-23): ecco lo Spirito per rimettere i peccati, e in positivo farci partecipi della santità divina. E un’orazione pasquale alla fine dice esplicitamente: «Quia ipse est remissio omnium peccatorum”.

I nostri fratelli orientali hanno vivissimo il senso, proprio nella prassi penitenziale, di questa presenza dello Spirito a tal punto che certe volte - e qui forse noi latini non saremmo d’accordo ma bisognerebbe fare un discorso molto più a fondo sulla loro teologia - attribuirono il potere di rimettere i peccati anche a «dei pneumatici o carismatici», per la grazia dello Spirito che riempiva la loro vita anche senza essere sacerdoti.

E’ ovvio il discorso anche per l’eucaristia. Dopo le nuove anafore, tutti sappiamo, per grazia di Dio, come è tornata esplicita la invocazione (epiclesi) dello Spirito Santo prima di consacrare i doni e dopo la consacrazione dei doni, sui presenti che devono partecipare ai frutti dell’eucaristia.

Si può affermare altrettanto a proposito dei sacramenti sociali, per esempio il sacramento dell’ordine. Avviene sempre con l’imposizione delle mani e l’invocazione: «Emitte.Spiritum tuum». Il concilio di Trento ha definito che se qualcuno affermerà che inutilmente, o a vuoto, il vescovo dice: «Ricevi lo Spirito Santo, sia anatema», cioè sia scomunicato. Il sacramento dell’ordine è dunque legato all’azione profonda dello Spirito Santo.

Vale anche per il matrimonio. Se il matrimonio è un vincolo d’amore soprannaturale che lega due battezzati per la vita e per la morte, non ci può essere un nuovo legame d’amore che stringe due battezzati se non viene dallo Spirito Santo che è il nesso, il vincolo profondo anche tra le persone della Trinità.

Tutti i sacramenti dunque hanno questa presenza attiva dello Spirito Santo che nella Chiesa ci rende partecipi della vita divina attraverso questi canali, come è lui che unifica la nostra preghiera con quella del Figlio. La vera preghiera cristiana, nel suo carattere specifico, è una preghiera filiale, in quanto «tutti quanti siamo figli nell’unico Figlio». Perciò è lo Spirito che grida nel nostro cuore: «Abba, Padre» (cf. Gai 4,6).

Noi non sappiamo come pregare, dice Paolo (cf. Rm 8,26), è lo Spirito Santo che prega in noi, profondamente. Quindi è proprio lo Spirito che fa della nostra preghiera una sola preghiera con quella di Cristo, il Figlio che è infallibilmente ascoltato dal Padre. Così pure è lo Spirito Santo che fa della nostra offerta all’altare una sola offerta con quella di Cristo; è lo Spirito Santo che fa del sacrificio della nostra vita un solo sacrificio con quello di Cristo. E’ lui che unifica sempre le membra al Capo, in ogni momento della loro vita, specialmente nel momento della preghiera. Tutta la vita quindi diventa una liturgia, un’offerta continua a Dio, fino direi alle vette mistiche più alte.

C’è un volume delle rivelazioni di santa Maria Maddalena de’ Pazzi ricevute proprio nella settimana di pentecoste. Partendo dai testi liturgici, dallo Spirito Santo, si eleva su su fino alla contemplazione meravigliosa dell’intervento dello Spirito che nell’anima produce quest’intima unione con Dio, questa preghiera più elevata, più pura.

5. La Chiesa e lo spirito dl libertà

Un ultimo elemento. La Chiesa ha ricevuto lo Spirito Santo anche in quanto Spirito di libertà.

Nell’ambiente dove viveva Cristo tutta la salvezza si faceva consistere nella rigida osservanza della legge mosaica. La fedeltà alla legge era come la mediazione salvifica per gli ebrei, mentre nella nuova economia si è salvi per la fede in Cristo che ci dona il suo Spirito e ci restituisce, come direbbe san Paolo, alla libertà dei figli di Dio (cf. Gal 4,31).

La redenzione presentata in termini di liberazione, che oggi desta tanto interesse se è bene intesa, è profonda e Paolo ha affermato: « Ubi Spiritus, ibi libertas»: «dove c’è lo Spirito Santo, lì c’è la libertà» (2 Cor 3,17).

È precisamente lo Spirito che ci svela la vera anima della morale cristiana, per essere come il Cristo. Egli ci assimila a Cristo Gesù, interiormente, profondamente, dal di dentro. E quindi la morale cristiana viene illuminata da una nuova realtà. Noi, sì, osserviamo la legge, ma per piacere al Cristo, per essere simili a lui, per essere trasformati in lui.

Anzi, prima c’è una conformazione ontologica operata dallo Spirito Santo mediante i sacramenti e, in un secondo momento, la nostra vita cristiana diventa una risposta, un adeguarci, uno sforzarci di metterci alla pari col dono di Dio. Questo è il senso della morale cristiana vera e propria, e perciò Paolo presenta le virtù cristiane come frutti dello Spirito Santo, in uno splendido elenco che meriterebbe di essere meditato punto per punto: la carità, la gioia, la pace, la pazienza, ecc. (Gal 4,22-25).

La morale quindi, nell’economia cristiana, rimane, ma non più come riferimento a un codice estrinseco soltanto, bensì in dipendenza dall’azione intima dello Spirito che dal di dentro mi assimila sempre più a Cristo capo: mi libera dal mio io, e mi rende vero membro di Cristo, mi conforma a lui che si è fatto obbediente fino alla morte di croce, facendomi santo non per un formalismo legalistico ma per un processo di assimilazione e di amore, di amore alla volontà del Padre e dei fratelli.

Possiamo costatare veramente la liberazione dell’uomo quando egli scopre in sé questo principio nuovo dell’amore, come il Cristo che si è fatto obbediente fino alla morte ma per amore. Quindi la molla più profonda che ispira, unifica e dà valore a tutta la morale cristiana è precisamente la carità «diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo», come dice Paolo (cf. Rm 5,5).

E ricordiamo tutti, nella 1 Lettera ai Corinti c. 13, il famoso inno alla carità, dove Paolo insiste con un triplice niente: anche se facessi le opere più mirabili, e trasportassi le montagne, sono niente; e se dessi il mio corpo per sacrificarlo nel martirio, ma non avessi la carità, sono niente. Tutto è niente senza l’amore.

La morale non vale, l’osservanza della legge e la condotta esterna non valgono niente se non sono basate sull’amore. E’ invece l’amore che dà valore a tutto. E tutto passa, aggiunge Paolo, anche i carismi: rimane soltanto la carità.

Ecco l’anima profonda, la molla vera e autentica della morale cristiana quando lo Spirito Santo entra in un’anima e crea in lei un atteggiamento interiore, libero, puro, santo come quello del Cristo. Allora può veramente valere l’assioma di sant’Agostino: «Ama, e poi fa’ quello che vuoi».

E sant’Agostino ha pure detto: « Ubi amatur non laboratur, aut ipse labor amatur»: dove si ama non si sente più la fatica, oppure si ama la stessa fatica. Se, quindi, ci lamentiamo che la morale cristiana è troppo pesante, è un giogo troppo duro, vuol dire che non abbiamo scoperto questa molla, non siamo ancora entrati in questa anima profonda della morale e della vita cristiana.

Eppure Gesù ci aveva avvisati molto bene quando ci aveva insegnato a essere fedeli, a compiere sempre la volontà del Padre, aggiungendo però una premessa: «Se uno mi ama, osserva i miei comandamenti; Se mi amerete, osserverete i miei comandamenti» (cf. Gv 14,23-24).

La morale cristiana è possibile e diventa un fatto gioioso quando è viva questa premessa dell’amore. Molte volte invece noi abbiamo presentato la morale cristiana non bene illuminata dal principio interiore che la anima tutta, e quindi è parsa tanto pesante. Certe critiche moderne dimenticano questi principi fondamentali: che la morale evangelica è possibile e diventa perfino un fatto gioioso, quando si è capito il vero punto di partenza, che il cristiano è tale soltanto in quanto possiede lo Spirito Santo, Spirito di amore.

Concludo dicendo che la Chiesa, se vuole rinnovarsi anche oggi, deve diventare una «comunità dell’epiclesi», comunità, cioè, della perenne invocazione, dell’attesa, della implorazione continua allo Spirito Santo. Per una crescita incessante fino alla sua consumazione escatologica essa avrà sempre bisogno di questa presenza e di questa azione segreta dello Spirito.


Pubblicato in Teologia
Mercoledì, 17 Ottobre 2007 01:32

La ricerca del «principio» (Loris Maria Tommasini)

Assonanze e affinità di un'antropologia teologica

La ricerca del «principio»

nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano
e lo stato originario in Hans Urs von Balthasar

di P. Loris Maria Tommasini o.c.s.o.

Introduzione

Per questo mio lavoro mi sono concentrato sul primo ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo II (II Principio) accostandole ad una parte del libro di Hans Urs von Balthasar sugli stati di vita del cristiano. Non sarà un vero e proprio confronto analitico o comparativo: non è questo il luogo adatto e non vi sarebbe spazio per farlo in maniera soddisfacente e completa.

Presento solo delle sintesi del pensiero dei due autori in modo da permettere di scoprire le assonanze, le affinità teologiche e di linguaggio che a mio avviso sono molto evidenti.

Sappiamo che Hans Urs von Balthasar era uno dei teologi preferiti di Giovanni Paolo Il, da lui nominato cardinale per i suoi meriti teologici.

Non sono in grado di mostrare se ci sia una diretta dipendenza tra le due opere, ma è evidente la risonanza della teologia di von Balthasar nei testi del Papa. Mi riferirò in particolare alla «preistoria teologica» (Catechesi 1-1V), che von Balthasar chiama «stato originario».

1. La ricerca del «principio» nelle catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano

Il ciclo delle catechesi di Giovanni Paolo li sviluppa un insegnamento sull’amore umano nel mistero divino attraverso un’antropologia teologica sull’uomo e la donna e la loro comunione di vita. Come sintesi mi servirò di uno stralcio dell’introduzione scritta dal Cardinale Angelo Scola alla prima parte delle catechesi:

«Lo scopo del primo ciclo del presente volume è la ricerca del principio.

Il principio è individuato anzitutto, mediante il commento a Mt 19,3 ss. (riferisce del dialogo tra Cristo e i farisei sul matrimonio e sulla sua indissolubilità), con i due racconti della creazione contenuti nel Libro della Genesi.

Gen 1,1-2, è il primo racconto detto elohista, posteriore nella redazione al secondo Gen 2,5-25, detto jahvista, più compiutamente comprensibile, tenendo conto anche di Gen 3-4,1.

L’analisi articolata dei due racconti ne mostra l’obiettiva corrispondenza, che si distende per tutta la prima parte del volume. Il secondo racconto, il più antico, possiede un andamento per così dire soggettivo, psicologico, in cui per la prima volta si documenta una certa autocomprensione e coscienza umana. Ad esso corrisponde l’andamento oggettivo del primo racconto, più recente, che ha un impianto teologico, cui si connettono precise implicazioni metafisiche ed etiche.

Il principio coincide allora con la vita dell’uomo, originario dalla creazione fino al peccato originale. Anzi esso si illumina definitivamente proprio in relazione con il peccato originale, come fattore discriminante le due situazioni originarie, tra loro ben distinte, quella di innocenza originaria (status naturae integrae) e quello di peccaminosità originaria (status naturae lapsae). In questa ottica il richiamo di Cristo appare come un invito, carico di conseguenze etiche, a riconoscere l’esistenza di una continuità essenziale tra lo stato storico di peccato, proprio dell’uomo di ogni tempo, e quello, in un certo senso preistorico, di innocenza. Per quanto sia grave la rottura consumatasi nel peccato di origine, è impossibile capire l’uomo storico senza radicarlo nella sua preistoria teologica rivelata.

D’altra parte nel principio cui Cristo fa riferimento è obiettivamente implicata la redenzione. Nel testo jahvista l’uomo, dopo la rottura è collocato nella prospettiva redentiva del Protoevangelo (cf. Gen 3,15). Paolo la esprime nel celebre passaggio di Rm 8,23 in cui coglie l’anelito dell’uomo alla redenzione del proprio corpo».

2. Dallo stato originario allo stato finale in Hans Urs von Balthasar2

Il testo di von Balthasar cui faccio riferimento è la sezione intitolata Dallo stato originario allo stato finale, che costituisce la prima parte del libro in questione intitolata lo sfondo.

La ricerca del «principio» ha delle profonde conseguenze sull’esistenza dell’uomo. Questo è quanto von Balthasar ha ampiamente sviluppato in modo sistematico. Nel suo testo, egli mostra la diversità e complementarietà degli stati di vita all’interno del popolo di Dio, proprio a partire da quanto accaduto nello stato originario.

2.1. Creazione e servizio

Per sapere dove l’uomo ha da stare e dove ottiene stabilità ci si deve chiedere dove Dio lo ha collocato (Cf. Gen 1,26-27: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano su/la terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»; Gen 2, 7: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»).

«Il Signore Dio prese l’uomo e io pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse»3.

Secondo la sua destinazione, l’uomo è ciò che vi è di più alto (immagine e somiglianza di Dio); secondo la sua provenienza è ciò che vi è di più basso (plasmato dalla polvere del suolo). Così l’uomo nel suo primo stato è una doppia distanza: da Dio e dal nulla. Poiché l’uomo origina dal nulla, nella sua pur così grande somiglianza con l’immagine originaria mantiene sempre l’ineliminabile e ancor più grande dissomiglianza rispetto a Dio. L’uomo resta qualcosa di sempre altro rispetto a Dio e non è Dio. Solo rispettando questa distanza creaturale, l’uomo può partecipare all’autonomia, unicità, personalità e libertà del creatore. Se due amanti volessero tentare di possedersi l’un l’altro al punto di fondersi l’un con l’altro, se ciò fosse possibile, l’amore verrebbe annientato. L’amante per poter mettere in atto il movimento dell’amore abbisogna della non rimuovibile stabilità del suo proprio essere.

Immagine e somiglianza significa sottolineatura della distanza, affinché diventando essa ben visibile si evidenzi tanto maggiormente l’unicità dell’immagine originaria.

La creatura è presa e collocata a servizio dell’amore e questo fonda il suo stato originario.

La creatura non è essa stessa l’amore, poiché Dio è l’Amore. Essa è una natura che sta a servizio dell’amore. La destinazione dell’amore acquista per l’uomo la forma di un servizio. Ed è in questo che è alla base del concetto di stato di vita.

2.2. Grazia e missione

Il servizio alla sua vocazione imposta originariamente da Dio, di amare Dio e il prossimo, fonda lo stato umano come stato della grazia, in cui l’uomo è stato da Dio posto e deve rimanere. Un incarico, come un compito da eseguire nell’autonomia dall’archetipo (Dio) e per il quale è stato provvisto di mezzi e poteri.

Occorre guardare al Figlio e alla sua missione. Per capire come amare bisogna guardare al Figlio e alla sua obbedienza d’amore. Solo così l’uomo comprende la sua vocazione.

L’uomo è sostenuto dall’azione e dalla contemplazione. L’azione è la missione, come un compito da portare avanti. La contemplazione è la medesima missione, in quanto l’uomo può comprendere ed eseguire questo incarico tenendo fisso il suo sguardo e il suo pensiero nella volontà di Dio come già il Figlio.

Ciò significa che lo stato originario è uno stato di preghiera. Questo atto di riconoscimento della sovranità di Dio sta alla radice di azione e contemplazione che sono dunque inseparabili. Se l’uomo afferra la sua missione prega sempre, che si trovi nell’azione o nella contemplazione.

La preghiera è vera solo là dove l’uomo svolge la sua missione (Cf. Mt 7, 21: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»). L’essere collocati nella volontà di Dio è la realtà originaria che sta prima di tutto il resto, che lo condiziona e lo fonda.

Missione a gloria di Dio: se gli uomini intraprendono sin da principio la loro vita sotto il punto di vista della missione a gloria di Dio, non ci sarebbe nessun problema esistenziale.

2.3. L’uomo dell’eden

La separazione degli stati di vita non era prevista nella creazione originaria, come non lo era l’ordine visibile della Chiesa. Questa demarcazione è legata con lo stato della redenzione, che presuppone lo stato della caduta, del peccato. Partendo dallo stato originario come stato dell’uomo pensato, voluto e creato originariamente da Dio, deve poter venir dedotto e rischiarato alla fine quello stato posteriore che proviene esso pure da Dio. Gli stati posteriori, ognuno alla sua maniera, devono rispecchiare qualcosa di quella idea che Dio volle sin dall’inizio realizzare con la creazione dell’uomo.

Guardare indietro allo stato di Adamo nella posizione in cui Dio l’aveva posto. Tre caratteristiche:

assenza di pudore (Cf. Gen 2,25: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»);

• esistenza senza morte (Cf. Rm 5,12: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato»); 

• uomo senza conoscenza del bene e del male.

Noi solo difficilmente vediamo in questi tre aspetti qualcosa di positivo, poiché ne abbiamo un’esperienza diversa.

L’uomo in Eden ha la libertà piena su tutta la terra, a patto che questa libertà perseveri nella piena obbedienza a Dio, riferendosi a Lui come il centro di tutte le cose. La conoscenza e la vita l’uomo non deve prenderle da sé, ma riceverle da Dio.

2.3.1

Nell’Eden, l’uomo stava nell’obbedienza a Dio e da questa obbedienza dipendevail fatto che egli regnava libero e sovrano sulla terra intera. Questo non era affatto come un’oppressione data dal divieto di Dio: questa è piuttosto l’insinuazione del serpente (Cf. Gen 3,1-5: «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?’ Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”»). La libertà di Adamo ed Eva era protetta dalla loro obbedienza. Era come un rapporto di fede — fiducia totale. Essi conoscevano solo il bene e il male rimaneva loro nascosto. Essi vivevano nel fuoco dell’amore. Non vivevano ancora nella tiepidezza e nell’indifferenza di bene e male, punto in cui diventa possibile la decisione tra questi due.

2.3.2

In questo imprevisto evidenziarsi della loro nudità, nell’attimo in cui essi acquistano la conoscenza del bene e del male sta la chiave per il secondo problema: l’insorgere del pudore.

«Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»4.

Solo quando si infranse l’obbedienza di fede a Dio si accorsero di essere nudi.

Come le forze dell’anima a causa del peccato si emanciparono infelicemente dall’obbedienza di fede amante, così le possibilità del corpo si svincolarono dalla fecondità dell’amore, che a sua volta era stato stravolto dalla disobbedienza, e si impossessarono con violenza dell’amore sessuale. Solo a causa di ciò sorge una differenza tra verginità e fecondità. La verginità di Eva non sarebbe stata minacciata, all’interno dell’Eden, dalla sua maternità. Solo un’immagine può ricondurci dal nostro mondo decaduto verso la forma perduta della fecondità originaria: la Vergine Maria, al contempo vergine e madre.

Adamo ed Eva vivono nella completa verginità al punto che non conoscono nemmeno la concupiscenza. Nell’Eden, verginità non significa rinuncia, ma pienezza dell’amore, forma perfetta di fecondità.

Il peccato manda in frantumi l’ordine originario e gli istinti del corpo fuoriescono nudi e crudi dai velami dell’anima: questo porta alla nascita del pudore. Né l’istinto, né il pudore sono cattivi. È cattivo il disordine che lascia uscire gli istinti e rende necessario il pudore corporale come risposta a ciò. Il pudore c’era soltanto, sinora, nella forma del tutto incosciente dell’innocenza; poiché il peccato ha distrutto l’innocenza dell’anima, esso trapassa nella forma del vergognarsi. Così il rapporto immanente tra corpo e anima resta nell’uomo lo specchio esatto del rapporto trascendente dell’anima con Dio.

2.3.3

L’uomo come creatura è un essere finito: finitezza aperta a Dio. Questa finitezza è segnata dalla morte. Con questa maledizione, che punisce la cupidigia, gli uomini vengono condannati a ciò che si erano presi da sé: alla proprietà personale. Prima del peccato, non si preoccupavano di arraffare per sé, essi vivevano in uno stato che era contemporaneamente perfetta ricchezza e perfetta povertà.

La proprietà privata, la ragione critica, la libertà di scelta, il sentimento del pudore non sono qualcosa di cattivo, ma appartengono all’esistenza tipica del dopo la caduta del peccato.

Nessuno è più libero di colui che obbedisce a Dio; nessuno è più fecondo di colui che è casto; nessuno è più ricco di chi non vuol possedere niente in proprio.

Nello stato originario i tre atteggiamenti d’amore non significano in alcun modo rinuncia; essi sono piuttosto l’espressione di un amore che possiede in sé ogni ricchezza, ogni benedizione, ogni pienezza. Chi invece vuole accaparrarsi la benedizione senza l’atteggiamento di obbedienza, castità e povertà, riceverà in cambio la maledizione.

2.4. Il cielo

Dio non congeda l’uomo dall’Eden gettandolo nella disperazione. Verrà «Una» che muterà in benedizione la maledizione di Eva. Maria, nella perfetta obbedienza del suo si, spegnerà ciò che la bramosa disobbedienza di Eva ha acceso. Poiché l’uomo soggiacque alla tentazione, deve ritrovare per strade più lunghe l’accesso allo stato finale, che partendo dallo stato originario sarebbe stato più vicino e privo di fatica.

L’anticamera del cielo è rinunciare ad ogni volontà propria, ad ogni ricerca di sé e autonomia personale che si contrappone come istanza autosufficiente alla volontà di Dio.

Nel cielo la verginità dell’Eden ritroverà il suo compimento, fecondità primariamente spirituale e solo secondariamente sessuale.

Così il cielo sarà da ultimo anche la perfetta povertà. «Quella fredda parola di mio e tuo» (Giovanni Crisostomo), là non ci sarà più, poiché tutto sarà comune a tutti. Nel cielo si dona e si riceve tutto gratis. Così lo stato finale nel cielo sarà il compimento dello stato originario dell’Eden.

Nel piano originario di Dio gli stati di vita che la Chiesa oggi conosce non avrebbero avuto bisogno di differenziarsi staccandosi dalla sua unità.

Povertà, verginità e obbedienza non sarebbero stati in opposizione alcuna rispetto a ricchezza, fecondità e libertà, ma sarebbero stati invece la loro più valida espressione e nel compimento del cielo la loro definitiva conferma. Così l’uomo avrebbe potuto adempiere la sua prima destinazione: la destinazione all’amore; povertà, verginità e obbedienza sarebbero state solamente le tre forme in cui si sarebbe manifestata la piena figura del suo amore.

3. Conclusioni

3.1

Il contesto e le finalità delle catechesi di Giovanni Paolo Il e quello dell’opera di Hans Urs von Balthasar sono differenti. Cosa li accomuna? Una visione antropologica e teologica fondata a partire dal dato biblico, attraverso una meditazione teologico-sapienziale che va scoprendo nuovi livelli interpretativi.

Comune è la ricerca di un principio teologico fondante che abbia delle ricadute esistenziali e personali sull’ethos della vita del credente.

Il Papa mostra questa continuità essenziale tra stato storico del peccato e stato preistorico di innocenza.

Von Balthasar tratteggia un vero e proprio affresco storico-salvifico completando il quadro in tutte le sue implicazioni che interessano il popolo di Dio (stati di vita del cristiano) fino all’ultima conseguenza del comune destino dello stato finale: il cielo a cui tutti sono chiamati. In questo contesto, ampio spazio è dato alla vita religiosa caratterizzata dai tre voti, Per von Balthasar, l’amore perfetto5 — offerta di sé senza condizione 6 —, a cui tutti sono chiamati, ha la forma interna del voto, mentre il raggiungimento della carità perfetta nello stato di vita dei religiosi7 si esprime istituzionalmente anche attraverso la forma esterna della professione pubblica dei voti8.

La vita religiosa riporta, fin da ora, come anticipazione profetica, allo stato delle origini. Stato delle origini (arkhé) e stato finale (éskhaton) vengono così a ricongiungersi. Il cielo, come stato finale, èla pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. i Cor 5, 28). La vita religiosa è profezia escatologica di ciò a cui tutti sono chiamati nel tempo e per l’eternità come insegna il Concilio Vaticano Il:

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana»9

«La professione dei consigli evangelici meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna»10

DIO TRINITA’ D’AMORE                                            STATO DEL CIELO

quello finale

CREAZIONE

Progetto originario

Immagine e somiglianza

ADAMO

Chiamato a servire Dio

Obbedendo alla Sua volontà

STATO DELL’EDEN

Obbedienza-povertà-verginità

Libertà-ricchezza-fecondità

PECCATO ORIGINALE

L’uomo deforma

Incapacace di amare

Disobbedienza

Superbia-concupiscenza

autonomia

STATO DELLA CADUTA

Morte-pudore-conoscenza

del bene e del male

REDENZIONE

Cristo riforma

Mistero pasquale

CRISTO

Obbediente-vergine-povero

STATO DELLA REDENZIONE

Figli nel figlio-conformi

all’immagine del Figlio

Battesimo

CHIESA

STATI DI VITA DEL CRISTIANO

Sacramento di salvezza

Comandamento dell’amore perfetto

STATO DEI CONSIGLI EVANGELICI

Castità povertà obbedienza

Dio unico amore-unica ricchezza-unica volontà
valore escatologico, anticipazione
del cielo

RITORNO AL PADRE IN CRISTO E NELLO SPIRITO SANTO

«La vita religiosa manifesta chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana» (AG 18)

« La professione dei consigli meglio manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna» (LO 44).

li cielo, come stato finale, è la pienezza dello stato originario dell’Eden, dove «Dio sarà tutto in tutti» (cf. 1Cm 15,28).

lo presento questo insegnamento teologico ai giovani professi come introduzione e significato della consacrazione della vita monastico religiosa e dei voti.

Tutto ciò è un forte stimolo dal punto di vista esistenziale e spirituale, perché mostra dove Dio ci ha collocati: la bontà, la bellezza e verità del nostro genere di vita che si fa compito e missione, nella Chiesa e nel mondo, attraverso una luminosa testimonianza dei beni futuri.

Nella mia esperienza di formatore, dal punto di vista pedagogico, posso dire che questa potente visione teologica può aiutare a focalizzare l’identità della nostra vocazione monastica e a nutrire ed accrescere il desiderio della sequela radicale, propria del nostro stato di vita, che deve a Gesù Cristo giungere all’amore perfetto che ci rende sempre somiglianti.

* Monaco dell’ Abbazia Trappista, Frattocchie, Roma

NOTE

lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova — Libreria Editrice Vaticana, Roma — Città del Vaticano 1985, Introduzione al primo ciclo, p. 27

(2) Cf. Hans Urs von Balthasar, Gli stati di vista del cristiano, Jaka Book, Milano 1985, Parte prima: Lo sfondo. B. Dallo stato originario allo stato finale, pp. 61-110.
(3) Gen. 2,15.

(4) Gen 2. 25; Cf. Gen 3, 8-11: «Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”».

(5) Mt 22,34-40: «Allora i farisei, udito che egli avevo chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? “. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tua come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”»; cf. Gv 15, 12-14: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amari. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando». 

(6) IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 231, citato in von BALTHASAR, Op. cit., Parte prima: Lo sfondo, A, La vocazione all’amore, 4. Amore e voti, p. 54. Ne proponiamo la versione tratta dal volume IGNAZIO Dl LOYOLA, Esercizi spirituali, a cura (traduzione, introduzione e note) di P. Pietro Schiavone SJ, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 307-309: «l’amore consiste nella comunicazione reciproca, cioè nel dare e comunicare l’amante all’amato quello che ha, o di quello che ha o può, e cosi, a sua volta l’amato all’amante».

(7) Cf. Perfectae Caritatis, I.

(8) VON BALTHASAR, Op. Cit., Parte Prima: Lo sfondo. A. La vocazione all’amore, pp. 21-59.

(9) Ad Gentes, 18.

(10) Lumen Gentium, 44.

Pubblicato in Teologia
Teologia africana.
E continuiamo a interrogarci

di Benoît Awazi Mbambi Kungua

Una carrellata sulla teologia africana ci rivela come questa disciplina abbia fin dall’inizio trovato il suo senso fuori dalle biblioteche, là dove il cammino di liberazione dei popoli africani cerca di aprirsi un sentiero.

1956. Esce in libreria Des prêtres noirs s’interrogent (Éditions du Cerf), lavoro collettivo di un gruppo di preti neri, africani e haitiani che a Roma stavano approfondendo la loro formazione teologica. Avevano voluto affrontare apertamente, per iscritto, la questione della loro identità nella chiesa cattolica romana. Erano consapevoli di come l’impiantazione della chiesa nell’Africa subsahariana fosse andata di pari passo con il processo di colonizzazione militare, politica ed economica. La collusione storica e tragica fra l’impresa colonizzatrice e l’evangelizzazione aveva determinato in grande misura la ricezione del cristianesimo da parte degli africani. Quel libro - pubblicato alla vigilia delle indipendenze politiche formali - svelava la fonte e l’orientamento teologico-politico ed emancipatore del “discorso teologico neroafricano”.

A cinquant’anni di distanza, il pensiero teologico neroafricano contemporaneo può essere individuato in alcuni assi principali che andiamo a esaminare concisamente.

Nel 1960, anno dell’indipendenza dell’attuale Repubblica democratica del Congo, nella capitale Léopoldville (oggi Kinshasa) si svolse una pubblica disputa tra un giovane sacerdote, Tharcisse Tshibangu Tshishikuiku - attualmente arcivescovo di Mbuji-Mayi - e un suo professore belga, padre Alfred Vanneste. Oggetto del contendere era la possibilità scientifica di un discorso teologico neroafricane autonomo, culturalmente nonché politicamente e socialmente incarnato. Era una possibilità che il giovane prete difendeva con fermezza e che il suo oppositore escludeva con altrettanta decisione. Per Vanneste, la cattolicità della chiesa comportava ipso facto l’adozione pura e semplice delle elaborazioni teologiche, canoniche e dogmatiche europee e romane.

Sostenere quest’ultima posizione era, all’epoca, perfettamente comprensibile; non lo è più oggi, quando una pluralità di teologie neroafricane hanno voltato le spalle alle “tenebre” e agli appesantimenti dell’etnocentrismo occidentale e coloniale.

Nell’attuale congiuntura mondiale è più che mai necessario interrogarsi seriamente sulle alternative teologiche e spirituali provenienti dalle giovani chiese d’Africa, Asia e Sud America: qui si sperimenta una rapida crescita demografica e un’evidente vitalità della loro prassi teologica, liturgica, politica, sociale ed ecclesiale. Nelle alternative teologiche neroafricane va riconosciuta una netta volontà di resistenza spirituale e culturale alle ideologie nichiliste, consumistiche e atee propagate anche da certe reti occulte che controllano i movimenti dei capitali e del sapere su scala planetaria.

L’opera che ha saputo ripercorrere con talento e genialità le grandi tappe del processo di riappropriazione neroafricana del cristianesimo è indubbiamente Discours théologique négro-africain del congolese Oscar Bimwenyi-Kweshi: edita a Parigi da Présence Africaine nel 1981, mise il punto finale al dibattito sulla legittimità di una teologia africana autonoma.

Le cristologie

Il Nome - con il connesso processo del nominare - rappresenta in tutte le culture una modalità ontologica di conoscere l’altro e di penetrarne il mistero. Nelle tradizioni neroafricane, dove la scrittura non ha lo stesso significato filosofico e politico che riveste nelle culture occidentali di radici greco-latine, la parola viva, orale, pronunciata su una persona permette di iniziare un dialogo e una relazione di conoscenza reciproca. Per chi si sia preso il tempo di osservare con attenzione le società africane nella loro quotidianità, la preponderanza delle relazioni interpersonali e orali appare come un’evidenza. Il primato del relazionale, dell’orale e dell’invisibile costituisce un criterio epistemologico importante per capire dall’interno le culture neroafricane.

L’etnografia coloniale ha a lungo diagnosticato questa propensione all’oralità come un mero deficit di filosofia, civiltà, cultura e pensiero scientifico. L’assenza di tracce scritte assimilabili a quelle esistenti nelle civiltà europee è servita da base “scientifica” agli ideologi della colonizzazione, con le conseguenze catastrofiche che sappiamo. Si rivela, perciò, particolarmente importante prestare interesse alle elaborazioni teologiche e orali delle chiese afrocristiane e terapeutiche “del risveglio” (di derivazione evangelica) che si vanno sviluppando. Cristo diventerà africano nella misura in cui riceverà dei Nomi culturalmente, spiritualmente e teologicamente significativi, probanti e pertinenti per le culture neroafricane.

Le cristologie rappresentano, dunque, dei tentativi originali e popolari di rendere familiare e comprendere il mistero del Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, e di entrare in relazione con esso. Per questo, gli africani chiamano Cristo “Proto-antenato”, “Maestro d’iniziazione”, “Capovillaggio”, “Liberatore”, “Salvatore”...., Il titolo più utilizzato dalle comunità carismatiche e terapeutiche del risveglio per definire Cristo è, invece, “Esorcista” e “Taumaturgo”. Il rilievo dato dai cristiani africani delle chiese carismatiche, pentecostali e terapeutiche alla guarigione divina costituisce una dimensione primordiale ed esemplare nelle cristologie africane contemporanee.

Liberazione

Non si darà vera liberazione teologico- politica senza la volontà tenace degli africani di guardare in faccia la propria storia. La disintegrazione totale delle strutture istituzionali, sociopolitiche e religiose impiantate dalla colonizzazione nel 19° e 20° secolo è il sintomo palese dell’aggravarsi della crisi postcoloniale.

Il teologo che più di altri ha espresso e incarnato questa storia tragica - nella sua azione, nell’impegno intellettuale, sacerdotale, artistico e sociopolitico, nella sua stessa vita - è Engelbert Mveng. Lui, che vedeva con lucidità come il complesso di cause della crisi neroafricana si collocasse a livello antropologico e ontologico, visse tutta la sua vita cosciente del destino tragico che attende ogni profeta. Denunciò - a tempo e fuori tempo, come una sentinella - le potenze di morte che stanno alla base delle strutture capitaliste e militari internazionali che strangolano i paesi africani. Fu assassinato il 23 aprile 1995, nella sua abitazione di Yaoundé (Camerun): gli furono esportati gli organi genitali e il cervello, senza dubbio utilizzati in qualche rito satanico e magico.

Siamo qui nel baricentro del discorso teologico neroafricano. Il futuro del cristianesimo nel continente si sta giocando sulla capacità delle chiese di gestire in modo lucido, teologico e responsabile la vasta e problematica questione della stregoneria e dei riti magici, in evidente recrudescenza. Quale cristologia promuovere per attrezzare teologicamente e politicamente i cristiani africani costretti a esercitare la loro storicità in società guidate da regimi apertamente cannibali, diabolici e macabri?

A proposito di questo orientamento profetico della teologia neroafricana della liberazione, è giusto fare memoria dei vescovi che hanno obbedito alla loro vocazione profetica con audacia e intrepidezza, fino al dono della vita. Christophe Munzihirwa ed Emmanuel Kataliko, per esempio, due vescovi congolesi che non hanno indietreggiato davanti alla tirannia sanguinaria del dittatore ruandese Paul Kagame - sostenuto da una impressionante logistica, garantita dalle potenze occidentali - nel suo tentativo di annettersi il Kivu, la ricca regione orientale della Repubblica democratica del Congo, i cui minerali sono tanto necessari alle industrie occidentali.

Alla stregua di Mveng, Kataliko e Munzihirwa sono figure di primo piano della patristica neroafricana.

Ed è nell’atmosfera sociopolitica e culturale di proliferazione e banalizzazione della stregoneria e delle pratiche magiche che va salutata l’audacia profetica e teologica delle cristologie carismatiche e mistiche promosse dal gesuita camerunese Meinrad Hebga. Con l’aperto incoraggiamento dato a una cristologia terapeutica e mistica della liberazione, il teologo hanno anticipato con perspicacia, fin dai primi anni Ottanta, la questione della gestione teologica dei problemi legati alla stregoneria nei grandi agglomerati urbani.

Il completo controllo esercitato dalle società esoteriche e occulte internazionali sulla quasi totalità dei paesi africani rende urgente la promozione di una cristologia terapeutica della liberazione teologico-politica. E’ la sovranità assoluta, escatologica e terapeutica di Dio sulle potenze della morte che viene invocata dai teologi esorcisti come Hebga e Milingo. Le nuove chiese del risveglio nelle loro liturgie praticano abitualmente l’esorcismo e la preghiera di guarigione spirituale. Siamo davanti a un turbine nel quale si sta già giocando l’avvenire del cristianesimo nelle società neroafricane: non solo nelle megalopoli del continente, ma anche nelle diaspore europee (Londra, Amsterdam, Berlino, Losanna e Bruxelles, Parigi e Roma…..) e dell’America settentrionale (New York e San Francisco, Chicago, Ottawa, Quebec...).

Ma non possiamo chiudere questa pagina dedicata alla teologia della liberazione senza segnalare l’opera prolifica e profetica di Jean Marc Éla, teologo camerunese in esilio a Montréal. Da trent’anni Éla incarna una tendenza vigorosa e iconoclasta della teologia dell’emancipazione teologica, politica ed economica delle classi popolari. La sua teologia è una lettura neroafricana del libro dell’Esodo a partire dalle preoccupazioni teologiche, spirituali, terapeutiche, politiche ed economiche degli emarginati e dei più poveri, che rappresentano la grande maggioranza delle società africane. E’ una teologia che stigmatizza la dominazione politica, economica, ideologica e teologica che continua a essere esercitata dalle chiese occidentali sulle chiese locali d’Africa in nome di una visione e di una pratica eurocentriche ed etnocentriche della cattolicità.Jean Marc Éla ha consegnato la sintesi della sua teologia in una sorta di summa, uscita due anni fa: Repenser la théologie africaine (Karthala).

Ben più che un cenno fugace meriterebbe la critica teologica e filosofica al cristianesimo coloniale operata da Fabien Eboussi Boulaga, anch’egli camerunese. Di cui citiamo almeno due opere: La crise du Muntu (Présence Africaine, 1977) e, per lo stesso editore, Christianisme sans fétiche (1981). Melchior Mboninmpa ha attualizzato il pensiero di Eboussi Boulaga in Défjs actuels de l’identité chrétienne (L’Harmattan, Paris,1996).

Ricostruzione

È il pastore luterano congolese Kä Mana il principale esponente della teologia della ricostruzione in ambito francofono. La problematica della “ricostruzione” è nata fra i teologi protestanti della Conferenza delle chiese di tutta l’Africa (Aacc/Ceta), nell’intento di proporre un nuovo paradigma - epistemologico, pastorale, etico, politico e teologico - ai cristiani africani, in una situazione in cui i paesi africani hanno raggiunto una sovranità politica formale e in Sudafrica è stato smantellato l‘ultimo bastione del razzismo e del totalitarismo, il compito fondamentale della teologica africana oggi non è più tanto quello di inculturare la fede cristiana o di liberare gli africani dal giogo del razzismo colonialista, ma di ricostruire, a livello teologico, etico, politico, economico, sociale e culturale, le società acefale e senza legge dell’Africa postcoloniale.

La ricostruzione s’ispira al modo in cui Dio gestisce le grandi crisi dell’umanità nella Bibbia (la caduta originale, l’espulsione dall’ Eden, l’esodo, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, l’esilio, il ritorno e la riedificazione del tempio...). Questa teologia sollecita gli africani a scuotersi da un torpore secolare e a dare vita a società politicamente, economicamente e moralmente viabili, capaci di far fronte agli attacchi della globalizzazione neoliberista, i cui criteri di competitività, di produttività e di crescita marginalizzano e indeboliscono considerevolmente le società neroafricane contemporanee.

Le opere fondamentali di questa corrente teologica sono quelle di Kä Mana: da LAfrique va-t-elle mourir? (Karthala, 1991) a Bousculer l’imaginaire africain (Cerf, 1993), seguite da Théologie africaine pour un temps de crise, Christs d’Afrique, La nouvelle évangélisation de l’Afrique (tutte per Khartala, fra il 1993 e il 2000).

In Africa occidentale

Dovendo scegliere tra i numerosi teologi di questa regione del continente (Éfoé-Julien Pénoukou, Anselme Titianma Sanon, Jean-Claude Djéréké…), ci soffermiamo su Barthélemy Adoukounou, che ausculta dall’interno la religione vodù, con un’analisi al contempo etnologica e teologica.

Il vodù del Benin riconosce l’esistenza di un Dio sovrano, trascendente e creatore di tutte le sfere ontologiche. Gli adepti dei vodù lo chiamano Mahou. Ma poiché Mahou è lontano dalle vicissitudini quotidiane degli uomini e distante dalla trama storica e cosmica della loro vita, ha delegato il potere di giurisdizione sugli affari umani a dei - o spiriti - subalterni: i vodù, i loa…... Ogni vodù controlla una porzione cosmica e ontologica. Esiste così un dio del fulmine, un dio della pioggia, del fuoco, della fecondità, della guerra…... Gli uomini devono offrire loro dei sacrifici animali e umani per assicurarsene il favore.

E qui che Adoukounou ingiunge agli adepti del vodù che si convertono al cristianesimo di troncare con i sacrifici sistematici di bambini in occasione delle cerimonie occulte di purificazione del re di Abomey, che hanno luogo a settembre, quando inizia l’anno nuovo. L’opera fondamentale del teologo beninese a questo soggetto è del 1980: Jalons pour une théologie africaine - Essai d’une herméneutique chrétienne du Vodun Dahoméen (Lethielleux &Culture et Vérité). Analoghe letture sono applicate anche al vodù di Haiti: Dieu dans le vaudou hatien, di Laënnec Hurbon (Maisonneuve &La- rose, 2002), e Le vodou haïtien: reflet d’une société bloquée, di Fridolin Saint-Louis (L’Harmattan, 2000).

Prospettiva storica….

Dopo avere insegnato teologia alle facoltà cattoliche di Kinshasa, Alphonse Ngindu Mushete vive oggi nella sua diocesi di origine, Mbuji-Mayi, nella Repubblica democratica del Congo. Appartiene alla generazione dei pionieri della teologia africana. insieme con MvengTshibangu Tshishiku, Meinrad Hebga. Vincent Mulago, Eboussi Boulaga, BimwenyiKweshi, Adoukounou…..

È stato l’avvocato della causa della teologia neroafricana attraverso numerosissimi articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste internazionali di settore: “., Concilium, Bulletin de Théologie Africaine, Spiritus…. . . La sua tesi di teologia verteva sulla conoscenza religiosa in Lucien Laberthonnière, filosofo cattolico messo all’indice durante la controversia modernista a cavallo tra 19° e 20°secolo. Ngindu Mushete è uno dei primissimi teologi ad avere tentato, dopo quell’anno 1956, una presentazione sistematica e panoramica delle ricerche teologiche africane. In italiano è apparso un suo importante titolo, La teologia africana in cammino (Edizioni dehoniane, Bologna, 1988), oltre a diversi articoli.

….Biblica….

Paulin Poucouta, biblista del Congo Brazzaville, dopo aver insegnato in diversi seminari maggiori, è attualmente professore di esegesi all’Università cattolica dell’Africa centrale a Yaoundé (Camerun). Aveva fatto i suoi studi all’Istituto cattolico di Parigi e alla Scuola biblica di Gerusalemme. Sta gettando le basi per una lettura decisamente neroafricana della Bibbia. Si dedica, in particolare. alla ricerca del significato dell’Apocalisse per le chiese dell’Africa d’oggi e all’attualizzazione teologica del profetismo biblico in chiave neroafricana. Di lui la Queriniana ha pubblicato nel 1999 Letture africane della Bibbia.

…..E metodologica

Il camerunese Eloï Messi Metogo s’interroga sulle questioni di metodologia, sulla scia di Bimwenyi-Kweshi, Tshibangu, Nathanaël Yaovi Soédé, Syvain Kalamha Nsapo.... Ma la sua tesi principale - e anacronistica - consiste nel sostenere l’esistenza dell’ateismo nelle società neroafricane. E una tesi dal carattere inconsistente, fantasioso, ideologico e concordista, totalmente montata su istigazione dei circoli “africanisti” parigini che credono di poter continuare a controllare indefinitamente la riflessione di carattere teologico, religioso e antropologico sulle società neroafricane contemporanee.

La battaglia pubblica e accanita, che su questo terreno si combatte fra gli africanisti eurocentrici di Parigi e gli egittologi africani, avrà sicuramente delle ripercussioni di prim’ordine sullo scacchiere teologico neroafricano. Ho già chiaramente espresso nel mio libro, Panorama de la théologie négro-africaine contemporaine (L’Harmattan, 2003), una ferma ed energica opposizione alla tesi artificiale dell’ateismo in Africa, che non resiste alla prova dell’esuberanza religiosa e spirituale che osserviamo oggi nel continente e nelle diaspore nere d’Europa,dei Caraibi e delle Americhe

I messianismi politico-religiosi

I messianismi. che hanno proliferato in Africa centrale e occidentale nel periodo coloniale e postcoloniale, sono tentativi radicalmente endogeni, africani, di riappropriazione teologica, metafisica, mistica e politica del cristianesimo coloniale da parte dei ceti popolari delle società coloniali e postcoloniali. sotto la guida di profeti taumaturghi ed esorcisti come Simon Kimbangu, André Matsoua, William Harris, Albert Atcho... Questi messianismi costituiscono il vero atto di nascita della teologia della liberazione, negli anni Cinquanta-Sessanta e anche prima.

E, dunque, tempo di correggere un errore monumentale, abitualmente commesso negli ambienti teologici universitari europei, dove si considera l’America Latina la culla della teologia della liberazione. Occorre avere il coraggio e l’onestà di tornare all’empiricità, alla positività e alla storicità di fatti che resistono a ogni lambiccata Costruzione ideologica. La teologia della liberazione è nata in Africa, con l’irruzione e l’esplosione dei messianismi politico-religiosi di chiaro orientamento mistico e terapeutico.

Domande all’egittologia

Non è questo il luogo di enumerare i presupposti teologici, filosofici, politici e storici che sottendono le erudite opere di grandi egittologi africani come Cheikh Anta Diop. Théophile Obenga, Mubabinge Bilolo, Jean Charles Gomez, Kotto Essomé, Kangue Ewane….. i quali reperiscono nella civiltà egizia origini radicalmente neroafricane. Ci limitiamo a segnalare l’esistenza della rivista di egittologia Ankh, pubblicata da Présence Africaine e diretta dal congolese Obenga, direttore del dipartimento di studi africani all’Università di San Francisco. Un documentato punto della questione si può inoltre leggere nell’opera di Doue Gnonsea, Chcikh Anta Diop, Théophile Obenga - Combat pour la Renaissance africaine (L’Harmattan, 2003).

Ora, nei contesto di un dialogo teologico e critico fra cristologia neroafricana della liberazione teologico-politica ed egittologia faraonica, ci appare necessario porre con franchezza due domande agli egittologi: a) in che cosa e in quale forma il modello dell’Egitto faraonico può servire da archetipo all’organizzazione sociopolitica ed economica attuale delle società neroafricane, corrose al loro interno da dittature militari sanguinarie, autocratiche e corrotte?; b) per un cristiano africano che si interessi intellettualmente nonché spiritualmente alle ricerche filosofiche e teologiche sull’antico Egitto, come è possibile articolare l’universalità e l’unicità della rivelazione trinitaria di Dio nel mistero pasquale, con le numerose divinità (astrali, cosmiche, animali…..) degli antichi egizi?

Come possono i cristiani africani - che vivono in società dove proliferano stregoneria e culti magici e occulti - riferirsi alle magie egiziane in una dinamica di liberazione teologica e politica globale?

Sinodo africano

Il sinodo svoltosi a Roma nel 1994 ha cristallizzato le energie e le riflessioni teologiche, politiche e pastorali delle chiese cattoliche dell’Africa postcoloniale. Dagli anni Settanta, teologi come Mveng, Eboussi Boulaga, Pénoukou, il cardinale Joseph Malula, rivendicavano un concilio in cui le chiese d’Africa potessero riflettere in piena libertà e responsabilità sul loro avvenire. Com’era prevedibile, Roma ha concesso solo un “sinodo romano per le chiese d’Africa”, sotto l’alta e paterna vigilanza della curia. Al cuore dei dibattiti e delle deliberazioni dei padri sinodali stavano la democratizzazione politica, la giustizia e la pace, i mass media, le guerre…. Ma, soprattutto, il sinodo ha promosso l’ecclesiologia della “famiglia di Dio”. La sintesi più completa e pertinente di tale ecclesiologia africana si trova nel libro del congolese Augustin Ramazani Bishwende, Eglise-farnille-de-Dieu (L’Harmattan, 2001).

(da Nigrizia, febbraio 2006)

Pubblicato in Teologia
C –GESU’ CRISTO PRESSO GLI EBREI
ED ALTROVE

di Bruno Secondin

L’interesse per Gesù e per il suo messaggio di salvezza e di sapienza ha da sempre superato le frontiere della sua comunità costituita e storicamente definita. La curiosità per questa figura «straordinaria» ha preso i sapienti fin dalla prima ora, e ne sono stati sovente affascinanti, senza tuttavia per questo entrare tra i suoi «seguaci»

Nel nostro tempo questo «interesse» e questo «fascino» continuano a mantenersi vivi. Passiamo in rassegna alcuni settori.

I

... Gesù l’ebreo

Non c’è dubbio che in questi anni è andato crescendo l’interesse per la figura storica di Gesù e per il suo significato «spirituale» negli ambienti religiosi ebrei culturalmente più sensibili al dialogo con la religione cristiana. Soprattutto importante è stato il tentativo di recuperare la figura di Gesù alla cultura ebraica del tempo e di riscoprire la «simpatia» che tanti rabbini ebrei hanno avuto per questo famoso «rabbino».

Si è arrivati così a leggere in forme nuove il ruolo del cristianesimo di fronte all’ebraismo. La «giudaicità» di Gesù affascina oggi sia gli ebrei che i cristiani. Per questi è un recupero dell’umanità storica di Gesù, del suo rapporto con la cultura e le sue forme regionali, del riflettersi in lui dei vari movimenti messianici. Per gli ebrei è come una «reclamazione» della ebraicità di Gesù, un «bringing home» di questo famoso rabbi.

Per capire la novità e anche la causa dell’ostilità storica fra i due gruppi, bisogna non dimenticare la situazione conflittuale cui furono sottoposti gli ebrei per secoli: da una parte l’accusa di deicidio e dall’altra la persistente pressione per indurli a «conversione».

Gesù e la sua croce nella storia sono diventati per gli ebrei il segno/sintesi della sopraffazione e delle violenze. Solo alcuni isolati e ammirevoli dissenzienti - come Maimonide (1135-1204) che riconosce come «provvidenziale» il cristianesimo - andavano oltre le solite accuse raccolte e diffuse nelle famose Tôledôth Yéshü (Vita di Gesù) piene di leggende infamanti (Gesù figlio di Pantèra...). Tali testi (la loro origine risale al sec. VIII) sono una specie di anti-evangelo, diffusi in ebraico e yiddish, erano molto conosciute negli stati popolari e spesso venivano letti durante la veglia di natale. (1)

Di recente ha preso l’avvio uno studio più esatto delle «concezioni» ebraiche (e anche islamiche) di Gesù nel medioevo, contestualizzando con maggiore cura le affermazioni nelle situazioni di conflitto, di polemiche culturali, di interessi economici, di modelli di società. E appare un mondo finora sconosciuto, in cui il rifiuto dell’accettazione di Gesù e della sua «chiesa» ha molteplici ragioni, non tutte senza peso. Si pensi alle critiche dei giudei e dei musulmani medievali della Spagna a certe forme «cristiane» di praticare la fede in Gesù Cristo, con fanatismo sanguinario.

Nel secolo scorso, quando i ghetti si smantellarono e cominciò una storia nuova per gli ebrei, più rispetto e libertà anche per loro, qualcuno comincia a riconoscere il valore spirituale dell’insegnamento del rabbi di Nazaret. Così H. Graetz, grande studioso ebreo, che riconosce in Gesù «nobiltà di cuore, profonda serietà morale e santità di vita», ma la cui stima viene contestata nell’ambiente ebraico. Così C.G. Montefiore, che lo definisce un autentico «profeta».

Il movimento sionista - cioè il grande revival del ritorno alla terra dei padri - con la fine del sentimento di emarginazione e di insicurezza, conduce più facilmente a riconoscere in Gesù di Nazaret un grande figlio di Israele. Ammiratori di Gesù sono tra gli altri: Moshé Hess, Max Nordau, Max Bodenheimer, Theodor Herzl, Klausner Joseph («Gesù è un grande artista delle parabole»).

Le conseguenze della visita storica del papa alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986) sono ancora da verificare, sul piano di eventuale «riflesso» nella cristologia. Per ora però si possono meglio valutare le conseguenze di dialogo e collaborazione provocate dal paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano Il.

Sono tanti coloro che dal lato dell’ebraismo rileggono la vicenda Gesù.

Citiamo alcuni autori che si sono distinti in particolare su questo tema.

Jules Isaac (+ 1965): con la sua opera. Gesù e lsraele (2) inaugura una nuova era nei rapporti reciproci. E’ un invito ad una rimeditazione più equilibrata e onesta degli scritti neotestamentari. L’opera si divide in quattro sezioni: Gesù detto «il Cristo» era ebreo secondo la carne e la cultura; predicò il «Vangelo» nella sinagoga ebraica e nei luoghi sacri ebraici, fu in buone relazioni con il suo popolo, esclusa una piccola minoranza fanatica che lo condannò; del crimine di deicidio è imputabile una minoranza di «collaborazionisti» invasa da orgoglio dottorale, mentre il vero ebraismo non ha consegnato Gesù al potere occupante. Tipico tono dell’opera è quello del rispetto e dell’attenzione a tutte le fonti, per riscoprire la profondità ebraica di Gesù e del suo messaggio.

Martin Buber (+ 1965): l’autore dei famosissimi Racconti dei Chassidim. Egli affermava in una conferenza a Gerusalemme (1948): «lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita. riconoscerà Gesù.

Shalom Ben-Chorin: sostenitore dell’ebraismo progressivo e del dialogo ebraico-cristiano e autore di un famoso libro: Fratello Gesù. (3) Gesù vi appare come un maestro giudaico, vicino alla linea dei farisei, che ha proposto l’interiorizzazione della Legge condensandola nell’amore.

Pinchas Lapìde: autore del libro Ist das nichtJosephs Sohin? Jesus in heutigen Judentum.. Questo teologo ebreo ha dimostrato, anche con altri studi e pubblicazioni, come oggi fra gli ebrei sia altissimo l’interesse per Gesù di Nazaret:.

Egli sviluppa anche la ricerca sulle opinioni dei rabbini circa Gesù: e da questo studio sulle testimonianze di 18 secoli risulta evidente la stima per la qualità sapienziale del «rabbi» di Nazaret. In un dialogo con Hans Küng egli ebbe a dire:

«Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa come compagno, come connazionale e consanguineo... anzi, perfino come sionista e compagno di lotta». (4)

Franz Rosenzweig (+ 1929): interessante la sua teoria nella difficile opera La stella della redenzione, di recente tradotta in italiano. (5) Prendendo lo spunto dai due triangoli incrociati della «stella davidica» egli vede che l’ebraismo rappresenta la santa vita che anticipa l’eterna pienezza della redenzione: il popolo ebraico per questa vita è chiamato a star fuori del tempo, è da sempre presso Dio. Il cristianesimo invece rappresenta la via, perché il cristiano cammina nel tempo e nello spazio e, camminando, conduce al Padre i pagani attraverso il Figlio. Con riferimento alla stella davidica, l’ebraismo è il fuoco che brucia in eterno, mentre il cristianesimo è l’insieme dei raggi che sono lanciati, in tutte le direzioni.

«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti ad una stessa opera. Egli non può far a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto...". (6)

David Flusser: con l’opera Jesus egli vuole recuperare le radici ebraiche e anche la personalità profetica e l’originalità dell’amore ai poveri e agli emarginati (e anche ai nemici) di Gesù. Egli difende decisamente la storicità della vicenda di Gesù, e anche la specificità («gli influssi ricevuti da Gesù non bastano a spiegare tutto il suo comportamento morale sulla dottrina dell’amore»). Accetta anche la situazione gloriosa del Cristo:

«Non abbiamo alcun motivo di dubitare che il crocifisso sia veramente “apparso” a Pietro, poi ai dodici, poi a più di 500 fratelli alla volta!...., poi a Giacomo e a tutti gli apostoli». (7)Anche se trascura Giovanni (non lo ritiene storico) e rifiuta di accettare le opere di potenza, il Gesù di Flusser appare un profeta impegnato per la conversione individuale e radicale a Dio, tuttavia non il Salvatore dell’umanità. Accetta però che Gesù si sia autoidentificato coni il «Figlio dell’uomo» di Daniele, senza che sia accettabile il «Figlio di Dio» in senso cristiano. In sostanza Flusser si interroga continuamente sul significato della figura e accetta che si «possa scrivere una vita di Gesù».

Molti altri nomi si potrebbero citare: Robert Aron con l’interessante operetta Gli anni oscuri di Gesù, Paul Winter, Samuel Sandmel, Harvey FaIk , letterati come Shalôm Asch (autore del romanzo Il Nazareno), Max Brod. J. Sinclair, J. Bor, A. Chouraqui (noto traduttore del NT in bellissimo francese). Infine il grande artista Marc Chagall che ha più volte dipinto la crocifissione, ma come «simbolo» del destino del popolo ebraico, non come segno «cristiano» .

Infine un fenomeno che sta suscitando parecchio interesse è il moltiplicarsi di gruppi di ebrei che permanendo nell’ambito ebraico, considerano Gesù come Messia vero: si chiamano Jews for Jesus. Si trovano diffusi in particolare in California.


Osservazioni

In conclusione quello che per un ebreo medio oggi può essere ammesso circa Gesù, è che si può considerare un grande profeta di Dio, maestro di sapienza, dalla morale elevata, che nella tradizione spesso è stato molto stimato, e che oggi ancor di più si può stimare, come una figura «eccezionale» della storia ebraica.

Però del «Verbo fatto ebreo» si continua a lamentare la trasformazione - ad opera di Paolo specialmente (cf. R. Aron) - della figura e del messaggio di Gesù in un qualcosa di «universale», però de-ebreizzato, e fatto figura teologica, rispondente ai canoni ellenistici. E qui il contrasto non è sanabile.

Note
1) Un’antologia dei testi: J.P. Osier, L’évangile du ghetto, ou comment les juifs se racontaient Jésus, Berg International, Paris 1984, importante per le varie redazioni delle Tôledôth. In italiano c’è anche R. Di Segni, Il Vangelo del ghetto, Newton Compton, Milano 1985, con intenti simili al precedente. Per un primo approccio più panoramico cf. Ben-Chorin, Jesus im Judentum, Wuppertal 1970, specie pp. 7-46.


2) Ed. Italiana Cardini, Firenze 1976 (originale tedesco 1948).

3) Morcelliana, Brescia 1985. originale tedesco: Bruder Jesus, der Nazarener in jüdiscer Sicht, Paul List, München 1967.

4) H. Küng-P.Lapide, Gesù segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 15.

5) Marietti, Casale Monferrato, 1985.

6) Rosenzweig, La stella, pp.444-445.

7) Gesù, p. 165.

II

... ed altrove…..

Bisogna chiarire subito una cosa: che in questo settore si può cadere facilmente nell’equivoco: o del riduttivismo (disprezzo dei valori altrui) o del parallelismo (somiglianze che non sono omogenee). Perciò poniamo alcune indicazioni di partenza.

Le domande vitali che l’uomo si pone. si ritrovano praticamente con eguale frequenza in tutte le religioni: sono le domande sulla nostra origine, sulla morte, sul dolore, sulla felicità, ecc. Dall’esperienza ellenistica, alle Svetasvara Upanishad (1,1) e alla Nostra aetate, (n. 1): ovunque sono espresse praticamente con gli stessi termini. Citiamo da questo ultimo testo:

«Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (NÆ 1).

Alla varietà delle domande religiose - seppur consonanti - corrisponde la pluralità della forma delle risposte. Qui nasce storicamente la varietà delle religioni, che risentono sia della peculiarità etnica (genio dei popoli), sia delle condizioni ecologiche, storiche, culturali, sia della presenza di leaders influenti, ecc.

Il cristiano che si incontra con la molteplicità e la varietà delle forme di religione, ha spesso rifiutato globalmente tutto, ritenendolo inutile e «estraneo”, o superstizione. Oggi il problema si pone invece in termini nuovi, molto interessanti, che propongono una possibile convergenza di tutta la varietà verso l’unità.

Nei documenti conciliari vengono riconosciuti «elementi di verità e di grazia» (AG 9) anzitutto a livello di persone seguaci di altre religioni, e anche come dati oggettivi propri delle stesse tradizioni religiose: «riti e culture» (LG 17), «iniziative religiose» (AG 3), «ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» e si riscontrano nelle loro «tradizioni religiose» (AG 11). E inoltre mostra una consapevolezza importante dell’influenza universale dello Spirito santo in tutto il mondo. «Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato» (AG 4). Lo Spirito chiama tutti gli uomini a Cristo, col Vangelo predicato, con i «semina Verbi» sparsi ovunque (AG 15) e offrendo a tutti «nel modo che Dio conosce.., la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale» (GS 22). Forse il passaggio più «cattolico» del concilio sta nel paragrafo 92 di Gaudium et spes dedicato al dialogo fra tutti gli uomini, attraverso quattro cerchi concentrici. Termina accennando «a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi e umani». E si augura che «un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e portarli a compimento con alacrità». Il dialogo interreligioso appare elemento costitutivo intrinseco alla missione della chiesa.

Esempi recenti di testimoni profetici di questo incontro - da Ch. de Foucauld a Monchanin, da Peryguère a Le Saux, a Griffiths, ecc. — rendono questo discorso sempre più fecondo e carico di promesse.

Per il cristiano il centro dell’universo e della storia è Cristo Gesù: per cui la figura del «pantocrator» esprime bene il ruolo centrale rispetto ad ogni esperienza religiosa. Ma oggi questa universalità non è solo un concetto più o meno astratto e vago, è di fatto diventato un grosso problema; di fronte alla vitalità e al dialogo con le altre religioni.

Si parla oggi di «Cristo dentro le religioni»: è la posizione assunta dal concilio, specialmente in Nostra aetate e anche espressa dal teologo K. Rahner sui «cristiani anonimi». Ci sono tuttavia delle resistenze, perché questo fa delle altre religioni una «praeparatio evangelica», cioè del materiale grezzo che viene assorbito dal cristianesimo, una volta che il Vangelo sarà annunciato. E quindi le altre religioni hanno un valore subordinato e secondario, in fondo.

Altri parlano di «Cristo al di sopra delle religioni»: in questo modo di vedere le altre religioni non sono pura preparazione evangelica, ma di fatto sono autentiche «vie di salvezza», al di fuori dell’esperienza «chiesa cristiana». Questo toglierebbe a Cristo la normatività unica e ultima, perché Dio avrebbe da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo. Il pluralismo di «figure» religiose sarebbe volontà di Dio, e Cristo sarebbe né contro, né sopra, ma «insieme» con le altre religioni. I diversi sentieri, quasi vie differenziate di salvezza, «portano» a Dio, e non più solo a Cristo.

C’è infine la «teologia della liberazione» delle religioni: che accentua il criterio della capacità non tanto di «affermare» verità e unicità, ma di «migliorare» la storia dell’umanità. Quindi il valore unico di Cristo si misura su questa capacità di essere l’unico che «libera» oppure di essere in compagnia di altri efficaci «liberatori». Quest’ultima posizione di fatto rinnega completamente quello che la rivelazione su Gesù Cristo (gli Evangeli) afferma in maniera non equivoca: che cioè egli è l’unico «liberatore» definitivo.

Mi pare meglio accettabile la posizione di chi suggerisce anche una lettura universalistica del messaggio biblico (che è attestata specialmente nelle correnti sapienziali), in modo da riuscire a cogliere le «tracce di Dio» o i cosiddetti «semina Verbi» in mezzo alle molteplici tradizioni religiose le quali risalgono a Dio, perché lui ne è l’autore.

Come bene spiega Rossano (8) le varie «risposte religiose» possono considerarsi risposta a quell’ interiore «instinctus Dei invitantis» con il quale Dio chiama tutti gli uomini a sé. C’è un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo: ma non esiste un tempo senza salvezza (Unheilzeit ) e un tempo con la salvezza (Heilzeit). La così detta «economia sapienziale» - cioè l’azione salvifica di Dio tramite la Sapienza e il suo Spirito - è attestata ampiamente sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Si pensi alle molteplici alleanze attestate nel Pentateuco dal codice sacerdotale. Si pensi a testi come questi: «Dio ama i popoli» (Dt 33,3), è «amante della vita» (Sap 11,26), «la terra è piena del suo amore» (Sal 32,5), «la potenza di Dio riempie l’universo» (Sap 1,7; Pro 8,31).

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, soprattutto Giovanni e Paolo hanno assunto il criterio dell’universale sovranità di Cristo. Nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi Cristo è proclamato fondamento e chiave di volta di tutta la storia: tutto fu creato in lui, tutto sussiste in lui, tutto tende alla conciliazione ultima in lui (Col 1,15-20; Ef 1,10). Sempre secondo Paolo lo Spirito opera per la giustificazione in ogni uomo che opera il bene e che segue la legge dell’amore (Rm 2,25-29; cf. At 10,34-35). Ancor più splendida la testimonianza di Giovanni: nel prologo l’azione del Verbo è descritta come «presenza» nel mondo, «illuminazione» e vita spirituale per tutti (Gv 1,9). Nell’Apocalisse Cristo è «il Primo e l’Ultimo, il Vivente» (1,18), agnello vittorioso prima della fondazione del mondo (5,13) e nel libro che tiene in mano sono segnati i destini della storia (5,6-9).

La riflessione teologica di questi anni ha cercato di percorrere la strada degli epiteti cristologici come Logos, sapienza, manifestazione, ecc., per valorizzare tutto il patrimonio di «beni spirituali e morali» e i valori socio-culturali (NÆ 5) che si trovano nell’universo religioso delle grandi tradizioni religiose mondiali. E’ una riflessione ancora aperta e che già i Padri fecero (come Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Origine, Agostino, Gregorio Nisseno), ma rimangono da affrontare molti settori.

Non solo quello del riconoscimento di Gesù Cristo come «rivelatore e salvatore unico», ma anche quello del valore dei «libri sacri», degli «archetipi religiosi» propri dell’antropologia universale, dell’apporto delle religioni alla fede in Cristo e all’esperienza cristiana della salvezza. Si tratta cioè di un apporto di esplicitazione soltanto, o di scoperta di valenze nuove non ancora percepite, o vi sono addirittura degli elementi «nuovi» da «assumere»?

Così il dialogo interreligioso diviene un processo di annuncio e di ascolto, di accoglienza e di offerta: e non una pura presa di coscienza delle differenze esistenti, storiche ed esistenziali. Come appunto viene suggerito anche da documenti ufficiali più recenti.

Evangelii nuntiandi (n. 53) a riguardo delle altre religioni ossserva:

«Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a pregare a generazioni di persone».

E in un altro documento recente, del Segretariato per le religioni non cristiane, che offre delle «riflessioni e orientamenti» per il dialogo interreligioso dice:

«A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere la loro esperienza di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto».

Il valore di quello che altre religioni possono dire oggi di Gesù Cristo (o arricchire il già detto) deve essere visto in questa prospettiva: che tenga conto delle ricchezze espressive e sacre delle altrui tradizioni, della capacità di ciascuna tradizione di assimilare in maniera creativa il messaggio di Cristo. L’esperienza del resto s’è già verificata per tutto l’occidente nei secoli IV e seguenti, e si sta ripetendo nei luoghi dove l’inculturazione spinge verso nuove «sintesi».

E’ tutto ancora da verificare l’impatto storico della grande riunione, ad Assisi dell’ottobre 1986, dei rappresentanti delle varie religioni del mondo. Ma certamente quell’esperienza ha aperto la strada ad una forma nuova di dialogo fra le religioni, e di rapporto tra religioni e storia comune.

È interessante che siano soprattutto gli asiatici e gli africani a sentire questo problema in maniera intensa. Essi amano oggi parlare di «Christus cosmicus», cioè «universale». Mentre la teologia occidentale ha posto l’accento di più sulla persona storica di Gesù di Nazaret e sulla chiesa come istituzione storica, la giovane teologia asiatica e africana è più attenta a cogliere le implicazioni universali del «primato» di Cristo.

Scrive il teologo dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya (9):

«Cristo il Signore implica una dimensione di essere molto più vasta che non Gesù di Nazaret, sebbene Gesù sia il Cristo».

Lo studio di alcuni passi del Nuovo Testamento (es. Ef 1 e Col 1) in cui si parla del pieno compimento della rivelazione divina nella universale signoria del Risorto, invita ad una visione «cristica» di tutta la realtà. umana e cosmica.

Se una teologia centrata sulla figura di Gesù e la fondazione storica della chiesa ha indotto i cristiani - argomenta Balasuriya - a reclamare un monopolio su Dio, ritenendosi gli unici depositari della salvezza, la riflessione sul primato di Cristo e l’universale presenza del suo Spirito conduce a ripensare la creazione nei termini della presenza di Cristo in tutta la realtà creata. Se è vero il «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), allora bisogna cercare il messaggio di Dio in tutti gli strati dell’esistenza: storica, cosmica, sociale, individuale.

C’è una «teoprassi» nei valori «religiosi» dei popoli: tale patrimonio deve essere capito, assunto, letto in Cristo, purificato in lui. Bisogna far attenzione per non confondere l’universalità di Cristo come unico mediatore con la universalità del cristianesimo come religione storica.

Dice un altro teologo asiatico, A. Pieris: se la chiesa vuole conoscere e mostrare il «volto asiatico di Cristo», deve

«essere abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e abbastanza forte da essere crocifissa sulla croce della povertà asiatica»

La religiosità profonda e ricca dell’Asia e la sua immensa povertà (80% dei poveri del mondo) sono l’impasto per una chiesa cristiana a misura dell’Asia? Egli sostiene anche che vi sono quattro modelli di inculturazione: cultura e religione (latino); filosofia e religione (greco): questi sono impraticabili nel contesto asiatico. Il terzo: religioni cosmiche (animiste) e cristianesimo (nordeuropeo): potrebbe andare bene in Asia, ma per pochi ormai; altre grandi religioni sono già arrivate. E sono le religioni «metacosmiche»: cioè con una realtà trascendente che agisce in maniera immanente nel cosmo e nell’uomo, attraverso l’agape (amore redentore) e la gnosis (conoscenza salvatrice). Per cui conclude che il modello monastico è il più vicino al genio asiatico: per la solidarietà con i poveri (agape) e per la comprensione del linguaggio dei monaci (gnosis) asiatici.

Interessante è anche la «Minjung Theology», cioè la teologia coreana che ritiene il «popolo» (= minjung) come soggetto della storia. La «Minjung Theology» non intende essere né una teologia politica coreana, né una teologia coreana della liberazione. Essa si basa sulla convinzione che il messaggio cristiano si radica nell’esperienza storica e culturale di un popolo. Uno dei termini usati è han (da cui anche «Theology of han»): significa il sentimento collettivo del popolo oppresso, carico di tutti i soprusi e le violenze, è la «giusta indignazione» che permane oltre i tiranni e le tragedie, e indica una coscienza collettiva messianica di speranza e libertà.

In linea generale: si può dire che nelle grandi religioni non cristiane, Gesù Cristo è visto non solo come via all’uomo maturo e realizzato, ma anche come via a Dio, come mediazione al trascendente e al divino.


Note

8) P. Rossano, Teologia delle religioni: un problema contemporaneo, in R. Latourelle, (ed.), Problemi e prospettive di Teologia fondamentale. Queriniana, Brescia 1980, pp. 359-377.

9) Teologia planetaria.

Pubblicato in Teologia
Quelli che furono convertiti dal Concilio.
E quelli che no

di Marco Ronconi

Recentemente, al convegno di presentazione per una mostra fotografica organizzata dal­l’Azione cattolica italiana sul Concilio ecumeni­co Vaticano II ho ascoltato con piacere la vicepresiden­te del settore giovani ragionare su come il Vaticano Il corra i rischio di diventare solo un mito per le nostre ultime generazioni. "Solo", perché la mitizzazione è una delle più pericolose riduzioni di quell'evento che ha prodotto una gamma di documenti ricchissimi e ha introdotto uno stile ecclesiale adeguatamente aggiornato (bisognerebbe dire «nuovo», ma evito l'aggettivo per non distrarre alcune anime giustamente sensibili). Tali tesori non vanno posti sotto una campana di vetro e ammirati, ma vanno fatti circolare, verificati e recepiti fino all'osso. Ascoltavo e condividevo.

Il tentativo di ricezione riduttiva che conosco meglio è quello che cerca di incastrare i protagonisti del Concilio in categorie sociologiche comprensibili, ma tuffo sommato inadeguate (destra-centro-sinistra...). E altrettanto vero però, che anche fare del Concilio un evento "mitico", significherebbe isolarlo dal presente, levandogli quella carica propositiva che è ancora lonta­na non solo dall'esaurirsi, ma forse anche dal manifestar­si in tutta la sua forza. Non mitizziamo, dunque. È diffici­le, a ben guardare, ma lo si può fare. Soprattutto, rac­contiamo le storie tutte intere, senza paura, affrontan­do la fatica della loro complessità. Pretendiamo che ci vengano raccontate nella loro interezza.

Da tempo, discutendo e ascoltando di Vaticano II, io che ne ho letto solo sui libri, ho maturato l'idea che il dittico progressisti-conservatori (non) funziona esattamente come il dittico credenti-non credenti: a proposito di questa distinzione, ad esempio, il cardinale Martini rifletteva che «ogni credente dialoga con il non credente che è in lui» e proponeva perciò di ragionare abbandonando tale distinzione che non corrisponde alla realtà, preferendole invece la distinzione tra "pen­santi" e "non pensanti . Non sono in grado di propor­re un'analogia simile per inquadrare il Vaticano II, i suoi protagonisti e i suoi diversi modi di recepirlo, ma mi sembrerebbe una buona idea che qualcuno lo faccia. Qualcuno che, afferrando la mole di lavoro preziosissi­mo che gli storici stanno offrendo, dia vita a una tradi­zione rispettosa della complessità e dell'intelligenza di molti dei suoi protagonisti, da non ridurre, ma da cono­scere per discernere e progettare.

Faccio un esempio con la storia del cardinale canadese Paul-Emile Léger Nato nel 1904, entrato in seminario a 12 anni, prete di una congregazione auste­ra e rigorista, arcivescovo di Montreal a 46 anni, in occasione della porpora cardinalizia, si firma «principe della Chiesa» (dal linguaggio, sembra conservatore): grande oratore e predicatore radiofonico (atteggiamen­to progressista verso i mezzi di comunicazione?), si distingue nei primi anni di episcopato per la sensibilità verso le cause sociali dei malati e degli anziani (qui è difficile: conservatore o progressista?), nonché per una vigorosa campagna di moralizzazione contro l'alcool, le danze modeme, Elvis Presley, il cinema, il bingo e l'abbi­gliamento sulle spiagge (ok è conservatore). Nelle file dei prelati "tradizionalisti" si presenta al Concilio (an­che se alcune sue affermazioni sui poteri da riconoscere ai laici mi sembrano "progressiste" ancora oggi...), dove fa parte di alcune delle commissioni più importan­ti. Come "esperto", si avvale però di A. Naud, per il quale parla il titolo del suo libro più celebre: Il magistero incerto. Al termine del Concilio, nel 1967, il cardinale Léger lascia Montreal per trasferirsi a Yaoundé, in Ca­merun, dove resta 12 anni dedicando energie e denaro alla cura dei lebbrosi. Apparentemente, un mito. Per evitare quanto dicevamo prima, tuttavia, basta continua­re la storia fino in fondo. Il suo volontario trasferimento africano - che lascia tutti di stucco - non coincide infatti con un lieto fine. Léger incontrerà molti e difficili problemi con il clero locale, venendo costretto a un ulteriore ripensamento del suo modo di vivere l'aspetto missionario del cristianesimo, fino al ritorno in Canada.

Un'altra volta racconterò di come mi sia stupito a scoprire che è stato il cardinale Ottaviani a introdurre la prima volta frère Roger Schutz in Vaticano, o rievo­cherò la "conversione" del cardinale Parente che, da esponente della minoranza curiale si ritrovò nel post­concilio a difendere vigorosamente la dottrina della collegialità episcopale, avendo riconosciuto il valore degli studi del giovane prof. Alberigo ed essendo rima­sto colpito dagli interventi di alcuni confratelli, come l'allora ausiliare di Bologna, monsignor Luigi Bettazzi. Per ora penso basti ricordare che «ognuno può dire che il Concilio non è stato niente per lui, se non l'ha convertito, se non gli ha cambiato la vita, se non gli ha risvegliato responsabilità sino ad allora insospettate o troppo neglette» (cardinal Paul-Emile Léger).

(da Jesus, gennaio 2006)
Pubblicato in Teologia

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