Introduzione
Tempo fa ho letto da qualche parte che lo scrittore Italo Calvino desiderava essere capace di dar vita a racconti di una sola riga. Il suo collega guatemalteco Augusto Monterroso ha fornito un esempio di tale capacità nel repentino testo Il dinosauro [1]. Gli haiku giapponesi rappresentano un altro modello di brevità e concentrazione letteraria [2]. Si potrebbe continuare a lungo con le citazioni ed i richiami: dagli aforismi alle favole, dai detti ai contraddetti, dai proverbi alle massime… Anche le parabole evangeliche sono emblematiche nella loro concisione.
La brevità obbliga a misurare le parole. Non ci si perde nel descrivere circostanze o paesaggi, dettagli e dati secondari. Si preferisce coltivare l’allusione ed il paradosso. Il non detto può svelare il profilarsi di un vasto orizzonte narrativo [3] che resta consegnato al lettore. Si cerca di andare presto al nocciolo delle questioni. La critica si preoccupa di osservare che alcune narrazioni sarebbero potute essere modulate con molte parole, ma non è la quantità a rivelare la qualità. L’una e l’altra possono coesistere, ma non necessariamente.
Qui, una parte della pagina resta bianca. Non è spazio sprecato, ma segno, invito a soffermarsi per una riflessione personale. Perché il testo resta aperto per il lettore. Chi scrive realizza soltanto un piccolo frammento. La pretesa di una narrazione totale e compiuta è, spesso, votata al fallimento e defrauda il lettore della sua parte: la capacità di aggiungere senso al testo. Compito della scrittura è anche quello di far risuonare il silenzio dentro di noi ed intorno a noi. Quel silenzio che ci permette di abitare il mondo ed entrare in relazione con esso – e di aprirci anche alla sua dimensione trascendentale. Mentre i molti rumori di fondo che invadono le nostre giornate rischiano di renderci estranei a noi stessi ed in difficoltà nelle relazioni umane – magari ripiegati autisticamente su qualche ritrovato elettronico che prolunga il nostro isolamento e ci conserva nell’abisso in cui siamo precipitati.
Per far abitare la parola in noi – in questo tempo che conosce un proliferare di parole che non ha precedenti nella storia umana – abbiamo bisogno del silenzio, dello spazio bianco e del tempo per la memoria. La parola che non ha possibilità di risuonare in noi stessi, di lasciarvi una sua traccia, anche una seppur sua debole impronta, è una parola perduta, smarrita, vanificata. Non sono le tante parole a farci abitare il mondo, ma sono le parole custodite. Ed anche il nostro essere in relazione con gli altri – il nostro farci prossimo a loro – nasce dalla capacità di saper custodire la parola.
Questi brevi racconti possono essere annoverati nello spazioso campo della spiritualità [4]. Ma ho un certo pudore nell’usare una tal espressione. Forse, perché spesso se ne fa un dubbio uso. Diciamo che non mi rassegno al fatto che la nostra esistenza possa essere ridotta al divertimento [5] e al solo consumo d’oggetti, esperienze, persone, viaggi, amanti… e che, quindi, cerco di restare aperto ad un vasto mondo fatto di paradossi e desideri, di pensiero e di sogni, di volti e di nomi, di passioni e di ansie, di speranze e rischi.
In ogni esperienza spirituale si prospetta la necessità di compiere uno o più passaggi. Nel cristianesimo questo cambiamento è chiamato conversione [6] e richiede un mutamento nella vita. Siamo di fronte ad una novità in relazione al precedente comportamento agito [7]. Nel buddismo l’esperienza di trasformazione è chiamata illuminazione (nello zen giapponese, satori): è il risveglio spirituale, la comprensione della vera natura dell’esistenza. Dopo una simile esperienza, tutto non è più come prima – anche se tutto resta come prima. Nell’ebraismo la cerimonia di bar mitzah [8] sancisce la raggiunta capacità di distinguere tra il bene ed il male. Nell’islam, invece, il pellegrinaggio [9] a La Mecca, che ciascun fedele mussulmano deve compiere nella propria vita, rappresenta un merito particolare. Il pellegrino, in certi casi, indosserà un segno specifico nell’abbigliamento ed è tenuto a conservarsi buon osservante delle pratiche religiose fino alla morte. Nell’esperienza mistica si va oltre alla conoscenza sensibile e razionale. Gli autori mistici usano un linguaggio simbolico, parlando spesso di varie tappe successive, ma per tutti i cammini c’è sempre l’idea del movimento e del passaggio.
La società dei consumi tende a far scomparire i riti di passaggio [10]. Bambini o anziani, adulti o giovani, si è tutti appiattiti sull’unica dimensione a cui si riconosce valore. Per rendere possibile l’acquisto, il possesso ed il consumo continuo di beni, essa ha ridotto il genere umano ad una sola categoria, variamente declinata: la categoria del cliente. Si esiste e si è riconosciuti in quanto consumatori. È un mondo ove non ci si pone più l’urgenza di una giustizia e di una solidarietà, la capacità a pensarci sempre in relazione, l’idea di costruire patti ed esperienze d’incontro e comunione, ma esalta l’individuo nel suo immediato, narcisistico soddisfacimento di bisogni (spesso indotti). È una società che ci sommerge con la quantità di beni, di dati, d’informazioni e di consumi. Tutto ciò ha delle conseguenze notevoli sull’esistenza spirituale della persona umana. È ancora possibile sperimentare il passaggio da uno stato dell’esistenza all’altro? Possiamo ancora parlare di conversione, di cambiamento di vita, d’illuminazione, di comunione o anche solo di rinnovamento? Possiamo affermare di restare aperti al mistero della vita, nel suo sorgere, nello svilupparsi e nel compiersi? Possiamo ancora nutrirci di nostalgie, aspirare a gettare il nostro sguardo oltre la contingenza, verso un orizzonte un po’ più vasto?
Gli studiosi dei fenomeni religiosi, non a caso, ci parlano di supermercati delle religioni, ove ognuno accede a quanto più gli aggrada, consumando riti, cerimonie, pratiche, maestri, ecc. senza alcuna continuità ed in una fluidità [11] esperienziale che ha rotto tutti i ponti con le età e le generazioni precedenti.
Eppure la nostra esistenza è ancora segnata da innumerevoli passaggi: varchiamo soglie, confini, limiti… L’intera vicenda umana può essere letta come un perenne andare oltre. Come modulare i cambiamenti di un’esistenza spirituale? Ha senso parlarne usando ancora le immagini del principio e della fine, della soglia e dell’itinerario? O ci deve limitare (rassegnare?) ad aggirarsi in una selva di sentieri interrotti?
Oltre all’esperienza del cammino, alcuni testi della raccolta rimandano anche ad immagini del cambiamento. A cesure, a simboli che, in qualche modo, ricordano altre figure usate per indicare le esperienze spirituali. Un mutamento, un taglio, una rottura, una trasformazione, il decidersi per un rinnovamento… Si tratta di quei passaggi che segnano l’esistenza, in profondità. Per quanti siano ancora disposti a mettersi in cammino. Mentre i primi passi comportano fatica, impegno, coerenza ed i frutti giungeranno in un’altra stagione…
Si suggerisce di leggere alcuni di questi brevi testi non soltanto con la lettura mentale, ma a voce sommessa o, meglio ancora, a bassa voce. Lasciandosi trasportare dal ritmo delle parole, dal loro fluire. Magari, rileggerli – consiglio, questo, pur sempre stravagante se proposto da colui che li ha scritti. Ma i testi, talora, sono come le canzoni. Non basta udirli una volta soltanto. Ci devono entrare in testa. Come la musica, che giunge a possederci.
Da ultimo, si consiglia di prendere il contenuto a piccole dosi. Ed anche di non fidarsi troppo delle Introduzioni: possono rivelarsi fuorvianti!
Note
[1] «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì».
[2] Nella forma classica, gli haiku sono composizioni di tre soli versi per un totale di diciassette sillabe.
[3] Tratteggiamo due passaggi, tratti l’uno dalla Divina Commedia (“Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse”, Inferno, V, 137) e l’altro dai Promessi sposi (“La sventurata rispose”, Cap. X) come esemplificativi di questo modo di procedere.
[4] Il termine va inteso nel senso più ampio.
[5] Etimologicamente, dal latino divèrtere (volgere altrove, in direzione opposta, deviare) significa, quindi, allontanarsi dalle preoccupazioni, compiere azioni piacevoli, ma oggi si parla di industria del divertimento ed esso è diventato uno stile di vita.
[6] In greco metanoia, vale a dire andare oltre le solite cose, cambiare il proprio pensiero.
[7] In realtà, tutti sacramenti rappresentano una sorta di passaggio. Per alcuni di essi questo è evidente, per altri la realtà trasformante è ben presente anche se, di primo acchito, meno manifesta.
[8] Bat mitzvah per le ragazze, (figlio/a del comandamento) indica la cerimonia che sancisce il raggiungimento dell’età matura e rende responsabile circa l’osservanza della Halakhah (la legge ebraica). Si tiene a 13 anni e un giorno per i maschi, 12 anni e un giorno per le femmine.
[9] L’hajj è il pellegrinaggio canonico e costituisce uno dei cinque pilastri della fede musulmana.
[10] Per riti di passaggio si intendono i cambiamenti che riguardano il ciclo della vita individuale: nascita, iniziazione, matrimonio, morte, ecc. L’etnologo Arnold Van Gennep è stato il primo a descrivere la tipologia di tali riti.
[11] Cfr. Zygmunt Bauman e la sua definizione di società liquida.
(in Faustino Ferrari, Viandanti di sogni e d'infinito, Cantalupa, Effatà, 2013)