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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 21 Ottobre 2005 22:28

La grande fede (Giovanni Vannucci)

L'insopprimibile aspirazione alla "grande fede" tipica di ogni uomo non si è spenta. Oggi come ieri, Cristo universale vive nel cuore degli uomini...

Ecumenismo
e rinascita spirituale
di Luca Maria Negro


Quarant'anni fa nasceva il Gruppo misto di lavoro (Gml) tra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Per celebrare questo anniversario, così come i quarant'anni del decreto sull'ecumenismo del concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio), il Cec e il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani hanno organizzato una consultazione a Ginevra dal 17 al 19 novembre. Tema dell'incontro sarà una riflessione sul contributo del Gml al rinnovamento dell'ecumenismo nel XXI secolo. La consultazione si aprirà con un evento pubblico al Centro ecumenico di Ginevra (presenti fra gli altri il cardinal Walter Kasper e il moderatore del Comitato Centrale del Cec, il Catholicos Aram I), per poi proseguire all'istituto ecumenico di Bossey (Ginevra), dove si svolse la prima riunione dei Gml, nel maggio 1965.

Il Gruppo misto di lavoro è un forum consultivo che ha il compito di avviare, di valutare e di sostenere la collaborazione fra Cec e Chiesa cattolica, rispondendo del suo lavoro alle rispettive autorità, che sono l'Assemblea e il Comitato centrale del Cec e il pontificio consiglio per l'unità.

Il Gml ha appena pubblicato il suo ottavo rapporto. Si tratta di un utile strumento non solo per conoscere il Gruppo e le sue attività, ma anche per «sentire il polso» del movimento ecumenico ed in particolare per osservare l'impegno cattolico negli organismi ecumenici. In un momento di apparente stagnazione è incoraggiante scoprire la miriade di iniziative ecumeniche in cui la Chiesa cattolica è impegnata. Per esempio, anche se formalmente non fanno parte del Cec, i cattolici sono ufficialmente rappresentati in tutte le aree dl attività programmatica del Consiglio ecumenico: dalla Commissione teologica «Fede e Costituzione», ai programmi relativi a missione ed evangelizzazione, formazione ecumenica, dialogo interreligioso.

Anche se molto del lavoro teologico è passato a «Fede e Costituzione», il Gml continua a produrre propri studi su temi specifici. Tre documenti sono stati pubblicati nel corso dell'attuale mandato (1999-2005). Il primo studio riguarda le implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune. Il secondo affronta la natura e gli obiettivi del movimento ecumenico, soffermandosi in particolare sulle recenti difficoltà (il risorgere dei confessionalismi, la difficoltà nella ricezione dei dialoghi teologici). Il terzo studio, intitolato «ispirati dalla stessa visione», riguarda la partecipazione cattolica nei consigli nazionali e regionali di Chiese. Vale la pena di notare che la Chiesa cattolica è membro di tre Consigli regionali (Conferenza delle Chiese dei Caraibi, Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e Conferenza delle Chiese del Pacifico) e di ben 70 Consigli nazionalI di Chiese. L'Italia, purtroppo, non fa ancora parte di questa lista...

Infine, è interessante soffermarsi sulla raccomandazioni che l'attuale Gml, alla conclusione del proprio mandato, formula per il futuro. Il Gruppo individua tre aree che richiedono una speciale attenzione per il lavoro comune di Chiesa cattolica e Cec. La prima area riguarda la necessità di tornare alle «radici spirituali» dell'ecumenismo. La seconda area critica è quella della formazione ecumenica per laici e clero, visto che «una nuova generazione di cristiani a volte non è cosciente di come stessero le cose e di come siano cambiate» negli ultimi decenni. La terza area è quella delle difficoltà che, in misura crescente, le Chiese incontrano nel dare una testimonianza comune nel campo dell'etica personale e sociale. Il Gml si riferisce a temi quali la bioetica, i diritti umani, civili e religiosi, la pace e la giustizia sociale, la «guarigione delle memorie», la sessualità umana e la riproduzione. L'area dell'etica sembra dunque essere la più problematica. Per superare l'attuale impasse, il Gml propone di sviluppare una «esplorazione congiunta dei fondamenti filosofici e teologici della antropologia cristiana». Ma forse - è il mio commento - sarà proprio la prima raccomandazione del Gml, cioè lo sviluppo di un «ecumenismo spirituale» che valorizzi la ricchezza di ciascuno, a consentirci di superare questa e altre difficoltà del cammino ecumenico.


(da Mondo e Missione, ottobre 2005 p. 27)

Dio si manifesta, con il suo Spirito, come colui che è in comunione profonda con l'intera creazione e soprattutto con la persona umana. Lo Spirito di Dio fa sì che Dio non stia fuori del raggio della sofferenza umana.

Apartheid brasiliano:
il colore fa la differenza
di Marcelo Barros

Un osservatore attento della realtà brasiliana non può fare a meno di notare come negli ultimi anni sia venuto crescendo nel Paese il numero di gruppi e comunità negre che prendono sempre più coscienza dei valori della cultura di cui sono portatori. Ciò che ancora deve forse trovare una risposta soddisfacente e generalizzata e l’esigenza di una decisa coesione di intenti e di azione, al fine di ridare spazio, visibilità e significatività a tale presenza, nel contesto di una popolazione, nella sua grande maggioranza negra o mulatta. Quello che infatti a tutt’oggi, sfortunatamente e paradossalmente, la nostra storia anche più recente ci porta a rilevare è che siamo un popolo razzista. La democrazia razziale e l’uguaglianza di condi­zioni tra le persone di razza e origine diverse sono obiettivi ancora lontano dal considerarsi conseguiti.

Giocando con le statistiche

Durante il 20 Forum Globale sullo Sviluppo Umano, che si è svolto a Rio de Janeiro nel settembre dello scorso anno, l’economista Marcelo Paixào ha presentato i seguenti dati: “Se l’Indice di Sviluppo Umano (IDH) del Brasile tenesse conto solo dei dati della popolazione bianca, il paese occuperebbe il 480 posto nella graduatoria di 174 paesi elaborata dall’ ONU. Questo significa che, essendo attualmente al 74 posto, il Paese salirebbe di 26 livelli nella lista ONU, se i negri godessero delle stesse condizioni di vita dei bianchi. Per converso, se si analizzassero solo le informazioni su reddito, istruzione e speranza di vita alla nascita di negri e meticci, l’IDH nazionale cadrebbe alla 108 posizione”. La nostra popolazione negra e meticcia vive in condizioni peggiori di quella dell’Africa del Sud, paese che solo recentemente è uscito dal regime, condannato internazionalmente, dell’apartheid.

Ultimo paese a liberare gli schiavi nelle tre Americhe, la società brasiliana si porta appresso fino ad oggi i pesante retaggio dell’antico regime di sfruttamento razziale. Liberi, ma senza diritti, gli ex-schiavi formavano, già all’inizio del XX secolo, la grande massa dei brasiliani esclusi. Si diceva che in Brasile non c’era razzismo, solo per il fatto che i negri non erano considerate neanche persone. Oggi, nonostante qualche piccolo progresso, la situazione è ancora largamente insoddisfacente.

I dati forniti dal censimento del 2000 dimostrano una volta di più che negri e meticci

costituiscono la grande massa delle vittime dell’ingiustizia in questo regime di disuguaglianze sociali. In Brasile, i discendenti degli africani sono tra coloro che risultano aver la minore possibilità di accesso agli studi, mentre rappresentano statisticamente la maggior parte dei disoccupati, degli involontari ospiti dei peniten­ziari e dei senza tetto. Inoltre, nel mondo professionale, a parità di mansioni con i lavoratori di altre razze, sono coloro che percepiscono i salari inferiori.

Chi libera chi?

Ricordo che quando ero giovane e cominciavo a lavorare con la Pastorale della Terra, fui invitato una sera a cena da un’amica francese e da sua madre, una signora finissima, ma molto semplice e discreta. Il pasto prevedeva verdure, un pane delizioso e alcuni formaggi il cui profumo e sapore non mi attiravano più di tanto. Ad un certo punto, nel bel mezzo della conversazione, l’anziana signora mi chiese a bruciapelo: “Domani è il 13 maggio. Che cosa pensa della principessa Isabella e del suo gesto di firmare la legge che aboli la schiavitù in Brasile?”

Senza esitare, risposi che la principessa l’aveva deciso più per risolvere una crisi di governo che per una qualche preoccupazione circa le condizioni dei negri e per una sua volontà di liberarli. La signora mi disse allora: “La principessa era mia zia

Ebbi tempo di riprendermi dalla sorpresa e dalla vergogna di aver commesso un’indelicatezza, quando lei aggiunse: “Sono d’accordo con lei. La liberazione dei piccoli non viene mai da re o regine. Nella migliore delle ipotesi questi possono essere alleati, ma solo il povero può liberare il povero”.

Da allora sono passati molti anni, ma nelle orecchie mi risuona ancora la voce di quella signora francese, più lucida e aperta a una lettura critica della realtà di molti libri di Storia della nostra scuola.

Oggi, nei campi come nelle città, la schiavitù continua. Non è necessario chiedersi il colore della pelle dei bambini che, a migliaia, sono ancora schiavizzati nelle carbonaie del Minas Gerais o del Mato Grosso, per constatare che in questo Brasile dell’ “imperatore Fernando Il” (Henrique Cardoso) non è entrata in vigore neanche la “Lei do Ventre Livre” (1).

Se anche Dio è bianco

Sul piano della fede e della spiritualità, ci sono ancora molti cristiani che riservano lo spazio delle rivelazioni di Dio alle formulazioni che di esse sono state date in contesto bianco e occidentale, come se anche Dio fosse razzista. Si alimenta un immaginario religioso in cui Dio è bianco, Gesù ha gli occhi azzurri e il diavolo è un negro, con corna e coda di animale. Alcuni gruppi ecclesiali predicano che la cultura negra é in se stessa sottosviluppata e idolatrica e accusano le religioni giunte qui dall’Africa di essere culti demoniaci.

Eppure, la verità è che oggi, con l’eccezione delle Chiese ortodosse orientali, tutte le altre Chiese hanno la maggioranza dei loro fedeli nel sud del mondo, in primo luogo in Africa e in America Latina. Ma i leader di queste chiese e le loro espressioni teologiche e pratiche sono assolutamente occidentali e bianche.

Le Chiese saldino il loro debito

Più specificamente, le Chiese cristiane hanno un debito pesante con le culture e le religioni afro-brasiliane. Con l’eccezione di alcune voci profetiche, la Chiesa nel suo insieme, fu connivente con il crimine rappresentato dal sistema schiavista e, in diversa misura, beneficiò di questa istituzione perversa, arrivando ad elaborare argomenti teologici che intendevano giustificarla.

Ciò nonostante, le comunità negre riuscirono a resistere, rafforzarono le loro espressioni culturali e religiose ed oggi sono in grado di offrirci una profonda spiritualità comunitaria, legata alla madre terra e alla natura, incentrata nella gioia di vivere (axé) e nella dignità di tutti i figli e le figlie di Dio.

Al di là delle religioni autonome, come il Candomblé, molti gruppi negri, che hanno ereditato la fede cristiana, la vivono e la esprimono originalmente, a partire dalla loro propria cultura. Fa parte della vittoria sul razzismo essere capaci di esprimere la fede, come brasiliani e meticci che siamo, e rispettare le diverse manifestazioni culturali e religiose degli altri come genuine ricerche di Dio e “rivelazione” del suo Spirito. Sant’Agostino diceva che nessuno cercherebbe Dio se Egli non l’avesse già attirato a sé. Uno sguardo davvero spirituale è capace di vedere la presenza di Dio in tutti i cammini. Il mio amato maestro, Dom Hélder Càmara diceva: “Le mie vie, le mie strade non hanno margini, non hanno inizio né fine” (2).

In questo inizio di terzo millennio è necessario che le Chiese saldino il loro debito con queste culture e religioni, convertendosi dall’arroganza con cui, in passato, le discriminarono e impegnandosi a valorizzarle, come esse meritano. Potranno essere, cosi, più profondamente vere le parole cantate dalle nostre comunità: “Arriverà, si, arriverà, un nuovo giorno, un nuovo cielo, una nuova terra, un nuovo mare. E in questo giorno, gli oppressi, ad una sola voce, canteranno libertà”.

1) Letteralmente “Legge del Ventre Libero” Si tratta della legge approvata il 28/9/1871, in forza della quale venivano dichiarati liberi i figli degli schiavi nati a partire da quella data.

2) dom Hélder Camara, Mil razoes para viver, Rio de Janeiro, Civilizaçao Brasileira, 1978.

Gesù nei Vangeli apocrifi
Un Cristo «così umile e così nobile»
di Rémi Gounelle
(Università di Losanna)



Il dibattito sulla natura di Gesù, che inizia già alla fine del I secolo, è presente in alcuni Vangeli apocrifi. La fede in Gesù come fonte della salvezza segna in profondità la rappresentazione che essi propongono circa la figura di Gesù: numerosi sono i testi che insistono sulla sua origine celeste e sulla sua divinità per spiegare come egli ha portato all’umanità la salvezza. Gli apocrifi riflettono lo stato della riflessione teologica sull’umanità e la divinità di Gesù dell’ambiente che li ha prodotti.

Tutti gli apocrifi cristiani che ci sono stati conservati non s'interessano all'identità di Gesù. Una parte di questi è dedicata alle avventure degli apostoli, messaggeri del Vangelo in lontane contrade, o ad altri protagonisti delle gesta cristiane, come Anna e Gioacchino (i genitori di Maria), Pilato, Erode o Maria Maddalena. Un certo numero, inoltre, di quelli che narrano l'infanzia o la morte di Gesù permangono talmente vaghi circa la sua identità che è difficile riportarli all'una o all'altra delle correnti che si sono confrontate su questo argomento. L'esempio più chiaro è costituito probabilmente dagli Atti di Pilato, composti in un'epoca in cui l'arianesimo era al centro dei dibattiti teologici: l'autore di questo racconto della passione e della risurrezione di Cristo non mirava a dire chi era Gesù, ma a dimostrare la conformità degli eventi che gli erano accaduti con le profezie dell'Antico Testamento; si limita dunque a designare Gesù ricorrendo al titolo di «figlio di Dio», ripreso dai Vangeli canonici, e non dice nulla dei suoi rapporti con il Padre. È pertanto estremamente difficile stabilire se l'autore degli Atti di Pilato era favorevole o contrario alle decisioni adottate dal Concilio di Nicea nel 325. Il silenzio di questo apocrifo sull'identità di Gesù non significa necessariamente che il suo autore ignorasse del tutto le vivaci polemiche del suo tempo. Poiché ha evitato gli argomenti che all'epoca erano in discussione, si può ben credere che ne avesse conoscenza, e che abbia preferito non affrontarli perché inutili allo scopo che si prefiggeva: indurre gli Ebrei a convertirsi al cristianesimo.

Un essere celeste

Un certo numero di apocrifi ha partecipato in modo più esplicito alla riflessione sulla natura di Gesù, che è iniziata sin dai primi tempi del cristianesimo. Così, nella parte più antica dell'Ascensione di Isaia (6-14), databile alla fine del I secolo, Gesù è rappresentato come «l 'Eletto il cui nome non è stato rivelato e di cui nessuno dei cieli può conoscere il nome» (8,7-10); questo «prediletto» (cf Mt 12,18) «scenderà [...] negli ultimi giorni»; sarà «chiamato Cristo dopo che sarà disceso e avrà assunto il vostro aspetto e si crederà che sia carne e uomo» (9,13). Egli scenderà, senza essere riconosciuto, di cielo in cielo sino alla terra; entrerà in Maria, di dove uscirà senza conoscere una vera nascita (10,11.16.18). Gesù dunque non è veramente un essere umano, ma un essere celeste, che ha indossato diverse identità - tra cui quella di uomo - per liberare l'umanità dal dominio delle potenze angeliche. Questo gioco di apparenze gli ha permesso di scendere incognito dai cieli, e di risalirvi come Signore vittorioso.

Rappresentazioni datate

Per quanto possa apparire sorprendente agli occhi del lettore moderno, questa rappresentazione di Gesù come essere celeste preesistente, la cui incarnazione è soltanto apparente, non è strana alla fine del I secolo o nel II, epoca in cui la dottrina della doppia natura non era stabilita.

Il fatto è che gli apocrifi non sono fuori del tempo: che i loro autori lo abbiano consapevolmente voluto oppure no, essi hanno riflettuto nelle loro opere gli interessi e le idee dei loro ambienti. L'accentuazione che numerosi apocrifi pongono sulla divinità o sull'origine celeste di Gesù si spiega in questo contesto: gli autori di questi apocrifi hanno cercato di comprendere come Gesù ha portato la salvezza agli uomini, e quale beneficio l'umanità ha tratto dalla sua venuta. Questa riflessione sulla salvezza li ha indotti a interessarsi più a quanto faceva di lui il Signore e il Salvatore che del carattere umano di Cristo.

Le soluzioni che hanno trovato riecheggiano la riflessione teologica del loro tempo: gli apocrifi più antichi, come l'Ascensione di Isaia, rappresentano la figura di Cristo in modo «arcaico», mentre i più recenti dipendono dai sistemi teologici più «elaborati» del loro tempo, articolando in maniera più o meno sottile divinità e umanità. Da questo punto di vista la letteratura apocrifa porta alla storia dei dogmi e delle idee soltanto testimonianze simili a quelle conservate nelle omelie, nei trattati e nelle liturgie, anche se permette, talora, di capire meglio una rappresentazione della natura di Cristo altrimenti poco conosciuta -è uno dei contributi dell'Ascensione di Isaia.

Il Signore e il Salvatore

Una rappresentazione particolarmente elaborata della natura di Gesù si trova nel racconto della discesa di Cristo agli inferi, aggiunta - probabilmente nel VI secolo - agli Atti di Pilato greci per formare il Vangelo di Nicodemo latino. Per l' autore di questo racconto, come per quello dell'Ascensione di Isaia, si tratta di determinare come l'umanità sia stata liberata dal potere della morte e di Satana.

L'autore dei cc. 17-27 del Vangelo di Nicodemo latino (recensione A) vede nella salvezza dell'umanità la conseguenza della «maestà divina» di Cristo e della sua onnipotenza (cf 18,1; 22,2; 26). Cristo, coeterno al Padre (18,1), è il «Re della Gloria» (21,1), un «Dio forte e possente, dotato di poteri anche nella sua umanità» (20,3), come dice il salmo 24(23),7-10. Divenuto uomo, ha potuto ingannare le potenze infernali: esse hanno creduto che egli fosse un uomo come gli altri, e hanno pensato di potersi impadronire di lui dopo la morte (20); ma significava dimenticare che, se Gesù «è potente nella sua umanità [perché opera miracoli] [...] è onnipotente nella sua divinità, e nessuno può resistere alla sua potenza» (20,2) Nel mondo degli inferi, Cristo ha vinto Satana e ha liberato l'umanità dal suo potere, ridandole la sua originaria libertà (22,1).

L'autore di questo racconto della discesa agli inferi si è preso cura di articolare in modo ortodosso le due nature - umana e divina - di Cristo: in quanto Dio, Cristo è incorruttibile; in quanto uomo, è corruttibile. Egli è di volta in volta «così grande e così piccolo, così umile e così nobile, di volta in volta soldato e generale, guerriero ammirabile sotto aspetto di schiavo, e Re della Gloria morto e vivente» (22,1).

Discorso di fede

Opera di credenti di altri tempi, gli apocrifi cristiani sono testi che testimoniano la fede dei loro autori, e dei loro lettori. La loro rappresentazione della figura di Gesù è al servizio di questa fede in un individuo che porta la salvezza. Per capire perché un apocrifo definisce in un certo modo l'identità di Gesù, è importante essere attenti al modo in cui concepisce la storia della salvezza, e il ruolo di Gesù in essa. Questa non è una particolarità degli apocrifi: la questione della salvezza dell'uomo è al centro delle controversie sull'identità di Gesù nei primi secoli della Chiesa, e modella le nostre rappresentazioni attuali, per quanto umanistiche possano essere.

Il martirio nell'Islam
prima parte
di Maria Domenica Ferrari

Nel Corano la parola šahîd (1) è impiegata con il significato di testimone in senso legale. Per i commentatori musulmani in alcuni versetti, però, šahîd si deve interpretare nel senso di martire (2).

Gli islamologi Wensinck e Goldziher pensano invece che il sovrapporsi dei sensi sia post-coranico e si debba a un prestito dal siriaco. Tra i cristiani della Siria si era infatti stabilito una connessione linguistica tra l'atto di testimonianza ed il martirio. Per i musulmani questa equivalenza non è però così evidente. Nel Corano non c'è legame tra l'idea di morte sul “sentiero di Dio” e l'atto di testimonianza e questo per le condizioni storiche in cui si sviluppò l'islam: i primi martiri furono i morti in combattimento. I dotti musulmani si trovarono così di fronte al problema di giustificare in che modo il martire fosse divenuto anche testimone. Dalle soluzione adottate sembra che in realtà non sapessero perché le due idee si unirono.

Come detto, i primi martiri sono i morti nelle battaglie e la devozione popolare ricorda in particolare questi compagni di Muhammad che si lanciavano in combattimento con coraggio mentre la tradizione letteraria riporta le loro gesta e li abbellisce.

Ai martiri vengono risparmiate le sofferenze della morte, andranno direttamente in Paradiso senza passare per il Giorno del Giudizio e sederanno presso il trono di Dio. Il Paradiso promesso dal Corano viene così descritto: “ma coloro che credono e operano il bene li faremo entrare in giardini alle cui ombre scorrono i fiumi dove resteranno in eterno, sempre, e avranno ivi spose purissime, e li faremo entrare in ombrosa ombra.” (IV; 57).

I martiri sono divisi in due gruppi che si differenziano per lo speciale rito di sepoltura, riservato al primo “i martiri di questo mondo e dell'altro” cioè i “martiri in battaglia” e al secondo gruppo coloro che sono martiri solo nell'altro mondo.

Il corpo del martire del primo gruppo, per la maggioranza dei giuristi, non deve essere lavato, come previsto dal rito della sepoltura e viene sepolto con i vestiti che indossava al momento della morte, ma non con le armi.

Sul fatto di pregare sui martiri vi è divisione; alcune fonti dicono che Muhammad l'abbia fatto in occasione della battaglia di Uhud, altre lo smentiscono. La preghiera non è necessaria poiché in virtù del martirio viene purificato dai peccati.

Con il la fine dell'espansione territoriale l'idea di martirio ebbe uno sviluppo interno alla Comunità musulmana. L'ideale del martirio marcò i Kharigiti (3), che si definivano i “venditori” in quanto vendevano la propria vita terrena in cambio del Paradiso. Non combattevano contro gli infedeli, ma per un ideale di giustizia e purezza e il martirio era lo scopo perseguito.

I conflitti interni alla Comunità musulmana sono la base su cui si appoggia la formazione del pensiero sciita del martirio. A Karbalâ’ nel 680 Husayn, figlio di ‘Ali e nipote di Muhammad, fu ucciso con il suo seguito, tra cui donne e bambini, per ordine del califfo ommaiade Yazîd. Nel pensiero religioso sciita la morte di Husayn assumerà il significato di morte redentrice di valenza cosmica. La rievocazione del fatto è l'avvenimento principale del calendario religioso degli sciiti, ma i dotti, se da un lato lo venerano, dall'altro si sono ben guardati da farne un modello d'imitazione.

L'influenza del sufismo, che privilegia la spiritualità rispetto agli atti esterni e il quietismo musulmano che si contrappone all'islam militante di gruppi ribelli come quello kharigita, accentuano l'allargarsi del concetto di martirio raggiungibile da tutti i devoti musulmani.

Il martirio è alla portata tutti coloro che coscientemente vivono gli obblighi del buon musulmano, e la morte diviene un elemento secondario.

La categoria dei martiri con il passare del tempo si allargò sempre più includendo morti di vario genere:

a) i morti per morte violenta o prematura: comprende chi muore mentre sta servendo Dio, chi è ucciso per il proprio credo, chi muore per incidente o malattia, incluse le donne morte per il parto, chi muore per un'amore non corrisposto, rimanendo casto e chi muore lontano da casa emigrato a causa di persecuzione.

b) i morti di morte naturale come coloro che stanno compiendo il pellegrinaggio, chi sta pregando, chi durante la vita si è comportato virtuosamente.

c) coloro che si impegnano nel “grande jihâd", quello all'interno di se stessi.Un famoso hadîth dice che l'inchiostro dei dotti ha maggior peso del sangue dei martiri.

Tra i sufi abbiamo uno sviluppo indipendente del martirio che culmina con al-Hallâj (m. 922) crocifisso con l'accusa di essere blasfemo per aver affermato l'unione mistica con Dio con la celebre frase: “Ana 'l -haqq” Io ( Dio) sono la Verità.

In seguito al colonialismo l'idea di martirio da pio ideale si trasforma e riacquista le caratteristiche di lotta militante. Contro il quietismo medioevale e i moderni riformisti si colloca Hasan al-Banna (1906-1949) il fondatore dei Fratelli Musulmani per cui non solo il jihâh è un dovere individuale, ma invita ogni musulmano a prepararsi all'idea di martirio. Questa ricerca del martirio ricorda quella dei Kharigiti condannati dai dotti musulmani. I recenti atti di suicidi con bombe sono germogli di questa idea militante.

Nella Sciia moderna si è assistito a un processo simile: il martire cede la sua vita per un'ideale più importante e duraturo. L'ayatollah al-Taliqanî ( 1910-1979) citando il poeta sufi al-Rûmî dice che il martirio è parte di una catena di sacrificio che rende perfetto l'imperfetto.

Note

(1) Nell'arabo odierno šahîd indica il martire, šâhid invece è il testimone giuridico. (2) III, 140 “.....e noi alterniamo fortuna e sfortuna fra gli uomini, perché Dio possa riconoscer coloro che credono e trasceglierne Martiri; ma Dio non ama gli iniqui”. Altri traduttori hanno scelto invece testimoni. (3) Sono coloro che non accettarono l'arbitrato tra ‘Ali e il governatore della Siria Mu‘âwiya, contestarono l'istituzione di un tribunale umano per questioni divine ed uscirono dalla comunità (Kharaja in arabo). La maggior parte di questi primi musulmani dissidenti erano lettori di Corano.



Saliti dunque tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco giungerà presto a quell'amore di Dio, che quando è perfetto, scaccia il timore.

Nei quarant'anni trascorsi dalla promulgazione della Sacrosanctum concilium gli autori non hanno mancato di rilevare la dipendenza della concezione di liturgia dall'enciclica Mediator Dei di Pio XII, che sedici anni prima l'aveva preparata, e le novità che da essa la distinguono (1).

Venerdì, 30 Settembre 2005 01:56

Il cantico di Maria (Elena Bosetti)

Il cantico di Maria
di Elena Bosetti

L'evangelista Luca inserisce il canto del Magnificat nel racconto della visita di Maria a Elisabetta, in risposta alle parole di lode che la cugina le rivolge.

Elisabetta scorge nella vergine di Nazaret ciò che lo Spirito, e non il semplice sguardo umano, le permette di vedere: una maternità che non ha precedenti. La riconosce madre di quel signore che anche lei accoglie nella fede: il «mio» Signore. L’arca della nuova alleanza è entrata nella sua casa e lei, come già David, si proclama indegna di tale visita:

Come potrà  A che debbo che
l'arca del Signore  la madre del mio Signore
venire da me?  venga a me?
(2 Sam 6,9) (Lc 1,43)

E come David, anche Elisabetta loda e benedice: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). Inno di esultanza per la madre del Messia, gioia escatologica sperimentata anzitutto dal precursore: «Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44).

La grandezza di Maria, proclama estatica la cugina, sta proprio nella sua fede, nella sua piena obbedienza al volere del Signore: «Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Così la madre del precursore è la prima a proclamare beata (makária) la madre del Messia, la prima a pronunciare una beatitudine destinata ad essere accolta e rilanciata da «tutte le generazioni» (Lc 1,48).

Magnificat

Maria fa eco alle parole della cugina, tuttavia non si rivolge a lei ma direttamente al Signore. E le sue parole, più ancora di quelle proferite da Elisabetta, hanno struttura e forma poetica.

Un testo poetico interpella non solo per quello che dice, ma per «come» lo dice. È importante sintonizzare l'animo e mettersi in ascolto profondo, e ciò non è facile come potrebbe sembrare. Le difficoltà aumentano se la poesia viene da lontano, come il Magnificat. Un cantico nato duemila anni fa è lontano anche per linguaggio e forma letteraria. Ragione in più per ascoltare con attenzione, come fosse la prima volta, cercando di coglierne le risonanze, il gioco dei contrasti, la forza delle immagini, il ritmo e la musicalità, così da godere dell'insieme poetico. Può essere di aiuto la seguente disposizione del testo, tradotto il più possibile letteralmente, senza tralasciare, anzi valorizzando, tutte le particelle di collegamento:

46 Magnifica l'anima mia il Signore
47 ed ha esultato il mio spirito in Dio mio salvatore
48 perché ha guardato la bassezza della sua serva.
Ecco perciò da ora mi diranno beata tutte le generazioni.
49 perché ha fatto per me grandi cose il Potente e Santo il nome suo,
50 e la sua misericordia per generazione e generazione su quelli che lo temono.
51 Ha fatto prodezze con il suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili;
53 gli affamati ha ricolmato di beni e i ricchi ha rimandato vuoti.
54 Ha soccorso Israele suo servo ricordandosi della misericordia
55 come parlò ai padri nostri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.

Una doppia direttrice

Il cantico percorso da una doppia direttrice, una ascendente, l'altra orizzontale.

Il movimento ascendente ritrae Maria in rapporto al suo Signore (le forme verbali sono al singolare, vv. 46-50).

Il movimento orizzontale la colloca dentro un popolo di umili e credenti (le forme verbali sono al plurale, vv. 51-55).

Si potrebbe parlare di due strofe, ma così collegate che la seconda è piuttosto un prolungamento della prima. Solo nella prima strofa troviamo propriamente le «ragioni» del cantico, espresse da due «perché» (hóti: vv. 48 e 49).

Non si danno altri «perché» nel seguito del cantico. Sotto il profilo grammaticale non c'è alcuna particella di collegamento nel passaggio dalla prima alla seconda strofa (v. 51).

Come interpretare questo fatto? Indubbiamente chi si esprime in questo modo vede continuità tra l' evento posto in primo piano (la maternità di Maria) e il suo sfondo storico e comunitario (il soccorso a Israele). Maria legge l'opera di Dio in lei alla luce delle opere antiche, ma anche, viceversa, vede il futuro del popolo mutuato dall'opera che il Signore ha fatto in lei. Quest'opera costituisce il compimento delle promesse fatte ai padri. Non è quindi un' opera qualsiasi, che si inserisce nella scia delle tante, ma il loro compimento e culmine.

La serva e il suo Signore

Il cantico lascia totalmente nell'ombra Elisabetta, la casa, il marito, le vicine, ed ogni altro particolare. Al centro della scena c' è solo lei, la madre e serva del Signore, tutta protesa verso di Lui. Il suo canto sale verso il Potente che si è degnato di guardare alla sua serva rinnovando per lei le meraviglie dell'esodo.

Un movimento ascendente apre dunque il Magificat, un salire dell’anima e dello spirito. La psyché, l’animo di Maria, «fa grande» (magnifica) l’unico grande, il Signore. E il suo spirito pneuma trasale di gioia. Perché tanto giubilo? La ragione sta nel previo movimento discendenteda parte del Signore: egli «ha guardato giù» all'umiltà (letteralmente «alla bassezza») della sua serva. Sale il canto di Maria perché lo sguardo del Signore è disceso e l'ha innalzata. La vergine di Nazaret è centro di attenzione da parte di Dio, che ha guardato proprio a lei, e da parte dell'umanità, giacche afferma: «tutte le generazioni mi diranno beata». Ma il suo «stare al centro» risulta totalmente decentrato. Maria è lì per proclamare unicamente le meraviglia del Signore.

La serva tra i poveri del Signore

Ecco che la scena si allarga. Mentre le generazioni umane si levano a proclamarla beata, Maria sembra quasi scomparire all'interno di una moltitudine che si muove nella stessa sua direzione. Sono i timorati del Signore, sui quali si dispiega, come su di lei, la misericordia dell'Onnipotente. Schiere di piccoli e di poveri, un popolo di umili.

La scena si popola ulteriormente. Sul palcoscenico della storia, da un lato stanno i superbi, i potenti, i ricchi. Sul lato opposto stanno gli umili, gli affamati e indigenti, ossia quanti temono il solo Potente e si fidano di lui. Le grandi opere, compiute dal Signore a favore della sua serva, innalzata dalla tapeínōsis («bassezza», nel senso di povertà e umiltà) si ripetono con forza impressionante vantaggio di tutti i tapeinoí, i poveri e gli umili della terra. Questi sono la vera discendenza di Abramo. Il canto di Maria è anche il loro canto. Si loda e si danza insieme, come sulle rive del Mar Rosso.

Il paradigma dell'esodo

In effetti il Magnificat riecheggia il canto di un'altra Maria, la sorella di Mosè, la profetessa che danza e inneggia al Dio che «ha fatto» meraviglie, capovolgendo le parti e le situazioni. Al riguardo non può sfuggire la rilevanza del dato lessicale. Il verbo epoíesen, «ha fatto», compare due volte nel Magnificat: la prima in riferimento a Maria, «ha fatto per me grandi cose» (v. 49), la seconda in posizione enfatica all'inizio del v. 50 dove introduce il settenario di azioni a favore di Israele:

- «ha fatto prodezze

- ha disperso i superbi

- ha deposto i potenti

- ha esaltato gli umili

- ha colmato di beni gli affamati

- ha rimandato vuoti i ricchi

- ha soccorso Israele».

Sette azioni puntuali, indicative di un' azione piena e totalizzante. L'espressione iniziale, «ha fatto prodezze con il suo braccio», è chiaramente evocatrice dell'esodo, quando Jahweh manifestò la sua potenza contro l'arrogante prepotenza del Faraone. Inoltre, l'ultimo verbo della serie menziona Israele, oggetto di affettuosa misericordia da parte di Dio e da lui soccorso per fedeltà ad Abramo e alla promessa. L'orizzonte è quindi tracciato con nitidezza. Sulle rive del Mar Rosso l'unica Maria di cui parli l'AT inneggia alla vittoria del Signore:

«Cantate al Signore perche ha mirabilmente trionfato:
ha gettato in mare cavallo e cavaliere» 15,21).

Sul crinale del Nuovo Testamento le fa eco Maria di Nazaret celebrante gli eventi di cui è fatta protagonista:

«Magnifica il Signore la mia vita...
perché ha fatto per me cose grandi.
Ha fatto prodezze con il suo braccio,
ha disperso i superbi...
ha deposto i potenti e ha innalzato gli umili...».

Chi sono questi «potenti e ricchi» contro cui si dispiega il braccio, ossia la forza del Signore? Non sembrano presi di mira i potenti perché costituiti in autorità, o i ricchi perché ricchi. Piuttosto «potenti e ricchi» sono visti come concretizzazioni dei «superbi» che nel testo vengono menzionati al primo posto. Costoro pongono se stessi al posto di Dio, pretendono governare il mondo secondo i propri giudizi, senza alcun timore del Santo. Fanno e disfanno a piacimento, in base al proprio tornaconto. :Non si preoccupano dei miseri, della vedova e dell’orfano. Non si preoccupano di stabilire la giustizia, ma di rendere stabile il loro trono. Sono i faraoni. Pensano di potere tutto, anche ai comprare il cielo con la ricchezza e la potenza. Ma non è così. Illudono se stessi e la loro sorte è già segnata, come quella del ricco egoista nella parabola raccontata da Gesù. Il povero Lazzaro siede accanto ad Abramo sul trono di gloria mentre l' epulone, di cui neppure si dice il nome perché non merita memoria, precipita in mezzo ai tormenti (cf Lc 16,19-31).Dio è sempre dalla parte dell’oppresso contro l’oppressore, dalla parte di chi lo teme, del povero e dell’infelice contro i gaudenti chiusi nel proprio egoismo.

Il braccio potente del Signore farà dunque uscire dalla miseria i poveri della terra, come un tempo fece uscire Israele dall'Egitto. La sua opera di liberazione supererà l'ostacolo frapposto dai «potenti» di questo mondo che spesso siedono su un trono di violenza e di oppressione come l'antico Faraone. Così il cantico di Maria, come gli antichi inni biblici che esso evoca, è una potente esplosione di speranza messianica.

La luce della risurrezione

Quando Maria canta: «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili», sul trono degli ebrei c'e un re usurpatore che incute paura. Erode darà prova e a sua violenza ordinando la strage dei bimbi di Betlemme e dintorni (Mt 2,16), in linea di continuità con quanto fece il Faraone verso i primogeniti degli ebrei in Egitto. Cosa è mai, dunque, quel cantare: «i potenti liha deposti dai troni»? Illusione poetica? Ricordo estasiante degli eventi passati ? Vivo desiderio che sia così, che Dio faccia finalmente giustizia ai deboli, alle donne e ai poveri della terra? Come tradurre in definitiva questi verbi all'aoristo: con valore di passato o di futuro?

Per rispondere in modo soddisfacente è necessario fare attenzione all'orizzonte complessivo in cui si colloca il Magnificat. Da un lato, il paradigma dell'esodo; dall’altro lato, un evento che ha realizzato lo schema dell’esodo in maniera del tutto sorprendente e radicale, la risurrezione di Gesù. Intessuto su questi eventi decisivi di salvezza, il Magnificat si dischiude al non-ancora della speranza fino a proferire il giudizio critico sulla storia presente e futura.

Lette alla luce della risurrezione le parole del cantico suonano già compiute. Infatti, quando tutto sembrava per sempre finito, la morte si capovolse in vita e l’umile figlio di Maria fu innalzato nella gloria. I potenti restarono attoniti e increduli; tentarono di arginare l'evento, ma inutilmente (cf Mt 28,11-15).

Gesù è il povero innalzato dal suo volontario abbassamento. E così Maria. Non vi è forse un preludio di risurrezione nel suo grembo? Se già Elisabetta, la sterile che partorisce nella sua vecchiaia, evoca il prodigioso aprirsi del grembo sepolcrale, quanto più la vergine-madre che sperimenta in se una fecondità totalmente inedita! L'esaltazione di Gesù e dell'umile sua madre è preludio di gloria per tutti gli umili della terra, per tutti i poveri e i credenti nel Signore.

La storia della salvezza è coerente. Sappiamo come andrà a finire perché Dio ha reso noti i suoi gusti, i suoi pensieri. In tal senso il Magnificat può spostarsi liberamente sull’asse temporale e cantare il futuro con le azioni del passato. I credenti (nella fede) come andrà a finire e perciò inneggiano «ha deposto i potenti dai troni», anche se sull'asse storico-temporale non è ancora scoccata l'ora della detronizzazione.

La Chiesa canta il Magnificat nella liturgia vespertina, mentre si va incontro al tramonto e alla notte. Come a dire che ha il coraggio di affrontare l'oscurità e la notte con il cantico di Maria. Quel cantico garantisce infatti che viene la luce, che la misericordia del Signore è per sempre.

NOTA BIBLIOGRAFICA

La bibliografia sul Magnificat è molto vasta. Segnaliamo alcuni studi specifici che accostano il testo privilegiando l'analisi della composizione:

R. C. TANNEHILL, The Magnificat as Poem, in Journal of Biblical Literature 96 (1974), 263-275; J. DUPONT, Le Magnificat comme discours surDieu, in NRT 112 (1980),321-343; D. MINGUEZ, Poética generativa del Magnificat, in Biblica 61 (1980), 55-77 (metodo strutturale); A. VALENTINI, Il Magnificat. Genere letterario. Struttura. Esegesi (Supplementi alla Rivista Biblica 16), Bologna 1987. Sotto il profilo esegetico-spirituale si possono vedere con utilità i commenti di E. BIANCHi in: Magnificat, Benedictus, Nunc Dimittis, Edizioni Qiqajon, Magnano 1989, pp. 9-55 e di C. GHIDELLI, Magnificat. Il cantico di Maria, la donna che ha creduto, Edizioni Paoline, Milano 1990.

Abramo e Isacco:
modelli di amore e libertà
di Claudio Stercal




Nel Trattato dell'amore di Dio, pubblicato nel 1616, san Francesco di Sales (1567-1622) si propone di «ripresentare con semplicità e naturalezza, senza arte e ancor più senza finzioni, la storia della nascita, del progresso, della decadenza, delle operazioni, proprietà, vantaggi ed eccellenze dell'amore divino» (S. Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, prefazione).

A conclusione dell'opera offre Alcuni suggerimenti per il progresso dell'anima nel santo amore e tra questi una Esortazione al sacrificio del nostro libero arbitrio a Dio. Abramo «viva immagine dell'amore più forte e leale che si possa immaginare in qualsiasi creatura» (Ivi, 1, XII, c. X), è proposto tra i modelli più significativi di quel «santo amore». Il riferimento è, in particolare, ai suoi due grandi sacrifici: quello dei «più forti affetti naturali» (cf Gn 12,1-5) e la disponibilità al sacrificio del figlio Isacco (cf Gn 22).

Non senza l'intenzione di sorprendere il lettore, san Francesco di Sales mostra la sua ammirazione non solo per la «longanimità» di Abramo, ma anche e, forse, soprattutto, per la «magnanimità» del figlio Isacco: «È veramente una meraviglia, ma non così grande, vedere Abramo, già vecchio e molto sperimentato nella scienza di amare Dio, e fortificato dalla recente visione e parola divina, fare quest'ultimo sforzo di lealtà e di dilezione verso un Maestro, di cui aveva così spesso sentito e assaporato la soavità e la provvidenza; ma vedere Isacco, nella primavera della sua età, ancora novizio e principiante nell'arte di amare il suo Dio, offrirsi, sulla sola parola del padre, al coltello e al fuoco per diventare olocausto di obbedienza alla divina volontà, è cosa che sorpassa ogni ammirazione (Ivi).

Gli esempi di Abramo e Isacco sono, quindi, proposti per muovere non solo gli anziani, ma anche i giovani a donare a Dio non solo ciò che hanno, ma anche ciò che sono: «Signore Gesù, quando sarà mai che, dopo avervi sacrificato tutto quello che abbiamo, vi immoleremo tutto quello che siamo?», E con il linguaggio «sacrificale» e «immolazionista» - lontano dalla nostra sensibilità, ma ricco per i suoi riferimenti al sacrificio della croce e all'eucaristia - san Francesco precisa che per donare ciò che siamo dobbiamo donare la nostra libertà: «Quando vi offriremo in olocausto il nostro libero arbitrio, unico figlio del nostro spirito?». E proprio il dono dell'«unico figlio del nostro spirito» - bella espressione per indicare la nostra libertà -, lasciato «ardere» dall'amore per Gesù, ci consente di partecipare al suo sacrificio: «Quando lo legheremo [= il libero arbitrio] e stenderemo sul rogo della vostra Croce, delle vostre spine, della vostra lancia, affinché, come un agnellino, sia vittima gradita al vostro divino beneplacito, per morire e ardere a causa del fuoco e del col.tello del vostro santo amore?» (Ivi).

La simbologia «sacrificale» non deve impedire la lettura e la comprensione di questi testi. Il richiamo al sacrificio, infatti, non vuole proporre l'imitazione degli aspetti cruenti del dono di Isacco e di Gesù, ma vuole aiutare a coglierne e rinnovarne l'intenzione: un dono di amore, libero e totale.

In questa prospettiva si può comprendere anche il richiamo, certamente paradossale, ma significativo, alla schiavitù e alla morte: «II nostro libero arbitrio non è mai così libero come quando è schiavo della volontà di Dio, ne è mai così servo come quando serve alla nostra volontà: non ha mai tanta vita come quando muore a se stesso, ne mai tanta morte come quando vive per sé». L’obiettivo da perseguire non è, evidentemente, la ricerca della schiavitù e della morte, ma l'abbandono alla volontà e all'amore di Dio; solo questo renderà veramente vivi, liberi e felici, «più felici dei re»: «Rendiamoci schiavi della dilezione, i cui servi sono più felici dei re. E se mai la nostra anima volesse usare la propria libertà contro le nostre risoluzioni di servire Dio in eterno e senza riserve, allora, per amore di Dio, sacrifichiamo questo libero arbitrio e facciamolo morire a se, affinché viva in Dio» (Ivi).

Solo questa «schiavitù di amore» ci consentirà di «inabissare» il nostro libero arbitrio nel godimento della bontà di Dio e di superare, nella vita eterna, ogni tensione tra amore e libertà: la libertà sarà convertita in amore e l'amore in libertà, dolce e infinita. «Chi gli concederà [= al libero arbitrio] la libertà in questo mondo, l'avrà servo e schiavo nell'altro, e chi lo asservirà alla Croce in questo mondo, l'avrà libero nell'altro, dove, inabissato nel godimento della divina Bontà, la sua libertà si troverà convertita in amore e l'amore in libertà, ma libertà di dolcezza infinita; senza sforzo, senza fatica e senza alcuna ripugnanza, ameremo invariabilmente per sempre il Creatore e Salvatore delle nostre anime» (Ivi).