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Domenica, 18 Maggio 2025 08:49

Quarta domenica del tempo di Pasqua - Annno C In evidenza

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Quarta domenica del tempo di Pasqua - Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura At 13,14.43-52

Dagli Atti degli Apostoli
 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: "Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra"».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.


Salmo Responsoriale Sal 99 (100)

Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.

Oppure:

Alleluia, alleluia, alleluia.

Acclamate il Signore, voi tutti della terra, 
servite il Signore nella gioia, 
presentatevi a lui con esultanza.

Riconoscete che solo il Signore è Dio: 
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.

Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.

Seconda Lettura Ap 7,9.14b-17


Dal libro dell'Apocalisse di san Giovanni apostolo

Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
 
Canto al Vangelo (Gv 10,14)


Alleluia, Alleluia

Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.

Alleluia, Alleluia

Vangelo Gv 10, 27-30
 
Dal Vangelo secondo Giovanni


In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».


OMELIA

«Tuffarci in fondo all’abisso,
sia Inferno o Cielo, che importa?
Per trovare qualcosa di nuovo
nel grembo dell’Ignoto» (C. Baudelaire, Il viaggio).
Le rivoluzioni, intese come apportatrici di novità, si son sempre dimostrate pericolose. Voler modificare la realtà imponendo la nostra idea, le nostre personalissime letture, alla lunga si rivelerà nocivo, provocando qualcosa di peggiore di ciò che si desiderava cambiare.
Gesù di Nazareth non è stato un rivoluzionario; egli ha piuttosto inteso avviare una sorta riforma, che è qualcosa di profondamente diverso dalla rivoluzione. Tutti ricorderemo quel passaggio in cui Gesù afferma: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5, 17).
Gesù non ha mandato all’aria il pregresso, ma ha preso questo e ci ha gettato dentro un po’ di lievito (cfr. Gv 13, 33). La pasta – la realtà, la storia – è sempre la medesima, ma ciò che fa la differenza è come l’abitiamo, come la trattiamo, come ci stiamo dentro: se come lievito di luce che trasforma le tenebre, o con un atteggiamento egoico che spegnerà anche il lucignolo fumigante (cfr. Mt 12, 20).
«La felicità è amare ciò che si ha», dice Agostino, e non desiderare sempre qualcosa di nuovo. Amare ciò che si ha significa ‘insistere’ – letteralmente stare con ostinazione – sulla realtà, senza perdersi in sogni o sterili fantasie. Per questo Jacques Lacan dice che la parola più alta dell’amore è ‘ancora’.
Se il cambiamento impone di passare da un oggetto all’altro, per poi sperimentare magari a sera che è già vecchio, l’amore reclama lo sforzo titanico dell’approfondire, di stare, di scendere in profondità, per poi dire ‘oggi guardo ancora il tuo volto, e anche se è sempre il medesimo, non mi stanco perché è profondo come l’infinito’.
Stiamo morendo di superficialità.
Ci si stanca presto di tutto, confondendo vita con vitalità. Ci accontentiamo della spuma del mare, quando lo splendore è racchiuso negli abissi.
Gesù ha amato in questo senso. Non ha cambiato nulla ma trasformato tutto, cominciando con l’acqua in vino alle nozze di Cana, per finire con la morte. Non ha sostituito la morte con una vita biologica senza fine, l’ha attraversata, e attraversandola l’ha trasfigurata in vita d’una qualità così alta in grado di superare anche la morte.
Le sue pecore, per le quali darà la vita, sono quelle di sempre: testarde, fragili, paurose; infatti queste lo tradiranno, lo rinnegheranno e l’abbandoneranno. Ma lui insiste, sta ancora con loro, un altro giorno, e un’altra notte ancora. L’amore non abbandona, sta.
Ecco cosa fa l’amore: rende eterno ciò che ama.
Ma che significa ‘rendere eterno’ qualcosa? Dargli compimento, condurlo a fiorire.
L’amore sottrae a quella data realtà il tarlo della morte; lo salva dal disfacimento, dalla dimenticanza.
“Dire ti amo significa dire: tu non morirai” ci ricorda Gabriel Marcel.
Per questo che coloro che amiamo non li perderemo mai. È il nostro amore a renderli ‘per sempre’.
Gesù sta con i suoi, e ci starà anche quando questi non staranno più con lui. Ci starà anche quando la sua amicizia verrà tradita e quando i suoi coltiveranno pensieri di morte contro di lui. E qui l’insegnamento è grande: avere fede non significa credere in un Dio, quanto credere che c’è un Amore che si fiderà ancora di me, non malgrado tutto ma attraverso tutto: senza se e senza ma.
L’amore è cosa strana, più lo si dona, più aumenta. Non s’impoveriranno mai d’amore coloro che amano. Anzi, ne acquisiranno sempre di più. Ce lo ricorda Shakespeare quando in ‘Romeo e Giulietta’ mette in bocca a quest’ultima queste parole: «Più ti do più ho».

 
Paolo Scquizzato
 
Letto 2 volte Ultima modifica il Domenica, 18 Maggio 2025 08:54
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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