"Tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore" (Gb 2, 11-13).
Il comportamento iniziale di questi tre personaggi è esemplare. Venuti a conoscenza delle disgrazie del loro amico Giobbe, si recano da lui per consolarlo. Gli stanno accanto per sette giorni e sette notti in una silenziosa compartecipazione. Si può parlare della sofferenza e della malattia? Si può fare su di esse un discorso teorico? Oppure, di fronte alla sofferenza, non ci resta che il silenzio degli amici di Giobbe? Il racconto biblico non si ferma di fronte al silenzio degli amici. Dopo sette giorni essi iniziano a parlare. E qui le cose si complicano. Quando Elifaz, Bildad e Zofar vogliono parlare al povero Giobbe e trovare una spiegazione alle sue sofferenze non fanno altro che mostrare la distanza abissale che li separa dal loro amico.
La posizione dei tre amici "consolatori", inoltre, è quanto mai "religiosa". Essi sanno - secondo le concezioni teologiche del loro tempo - che se c'è una sofferenza questo è dovuta ad una colpa nascosta, ad un peccato. Il primo passo da compiere, per il sofferente, è, dunque, secondo questa concezione, il riconoscimento della propria colpa. Giobbe si rifiuta di accettare questo concetto così semplicistico - ma ancora oggi così spesso usato. E lotta contro i tre amici. A lui non interessa trovare una giustificazione, un senso alla sua malattia e alla sua sofferenza. Perché lui, a differenza dei suoi tre amici, sta soffrendo.
Ci è dunque facile parlare di malattia e di sofferenza quando non si è ammalati e non si sta soffrendo. All'opposto, quando stiamo male, oltre ad essere preoccupati, non ci piace sentir parlare di queste cose. Abbiamo piuttosto bisogno di vicinanza, di comprensione, di presenza. Ci sentiamo più deboli. Ci sentiamo, irrimediabilmente, costretti a fare i conti con il limite estremo della nostra esistenza. Malattia e sofferenza ci mettono di fronte all'esperienza della morte, alla possibilità della morte. Per questo nella nostra esistenza assumono una valenza così importante e particolare.
Spesso ci troviamo a porci la domanda del perché della sofferenza, del perché della malattia. Che senso hanno? E, soprattutto, perché la sofferenza dell'innocente e della vittima? Senza entrare in merito a questa linea di riflessione, tentiamo di "balbettare" qualche pensiero, mettendolo per iscritto sulla carta. Ed anche se riusciamo a trovare un senso, una possibile risposta, questo non toglie il fatto che la sofferenza c'è e resta.
Continuamente mettiamo in atto tutto ciò che ci è possibile per allontanare da noi la malattia e la sofferenza. Questo non è soltanto il compito della medicina. Un compito nobile ed importante. Si tratta piuttosto di un aspetto culturale, sociale, che ci porta, oggi, a cercare di eliminare qualsiasi elemento che possa causare sofferenza. Analgesici e ansiolitici sono tra i medicinali più venduti ed usati. Non voglio con questo dire che si debba soffrire. Mi sembra che oggi abbiamo sempre più difficoltà a parlare di malattia e di sofferenza perché viviamo con la speranza (o nell'illusione?) di poterla eliminare totalmente dalla nostra vita. Credo, tuttavia, che sia più opportuno continuare a considerare queste due esperienze come importanti, essenziali, nella nostra vita. Altrimenti si finisce con l'assumere prospettive etiche che hanno come punto di partenza proprio l'assoluta pretesa di eliminare malattia e sofferenza dalla nostra esistenza. Eugenetica ed eutanasia sono due aspetti che si inseriscono in questa prospettiva. Un "buon nascere" ed una "buona morte" che presuppongono nessuna malattia e nessuna sofferenza. Ci si può anche scandalizzare che ci siano persone che sostengono tali opinioni, ma per esse, nel proprio orizzonte di valori (l'eliminazione della sofferenza) queste opinioni non sono altro che le dovute, necessarie conseguenze.
Ma si può dare valore e "dignità" alla malattia e alla sofferenza? Posta in questi termini, la questione può apparire scandalosa. Abbiamo, però, conosciuto e possiamo conoscere persone che hanno vissuto o stanno vivendo con grande "dignità" la propria esperienza di malattia e di sofferenza. Soltanto stoicismo? Masochismo? Illusione?
Una delle grandi critiche mosse da pensatori atei o anticristiani al cristianesimo è quella di essere una religione della sofferenza e del sacrificio. Per cui, il buon cristiano sarebbe colui che accetta, anzi ricerca, nella propria vita l'esperienza della sofferenza e del sacrificio. Bisogna, dunque, liberarsi da questa perniciosa prospettiva di vita e muoverci all'insegna della gioia, del piacere e dell'appagamento. Secondo questi pensatori, dare troppa importanza alla sofferenza e al sacrificio, impoverisce la vita, la rende un'esistenza tutta sbilanciata sull'illusione della ricompensa dopo la morte. La vita va vissuta ora per quello che è. E se il caso ci pone di fronte alla sofferenza, meglio allora sottrarci da essa, anche a costo di abbandonare volontariamente questa vita.
Cosa ci resta, dunque? Il silenzio degli amici di Giobbe? Le loro risposte "teologiche"? Ci resta un senso di fatalità, di assurdo? L'illusione (a detta di alcuni) di una ricompensa dopo la morte? L'aulin e la cibalgina? La ricerca di una nuova panacea farmacologica? L'impegno a pensarci il meno possibile? La speranza di non essere segnati (o almeno il meno possibile) dalla malattia e dalla sofferenza?
Gli amici di Giobbe hanno mille spiegazioni possibili per la sua sofferenza. Ma c'è un fatto indiscutibile: non sono essi a soffrire. Loro stanno bene. Nella scena finale, come in una rappresentazione teatrale, l'intervento divino darà torto ai tre amici e alle loro argomentazioni teologiche. Hanno parlato in nome di Dio, mentre avrebbero dovuto stare zitti. Giobbe viene ricompensato con nuove ricchezze e nuovi figli. Sembrerebbe una conclusione a lieto fine. Non fosse altro che resta un problema. I figli e le figlie morti non ritornano in vita. Nella sofferenza sperimentata c'è sempre qualcosa che non può essere a pieno recuperato. L'esperienza della sofferenza segna l'esistenza umana. Rappresenta lo spartiacque tra un prima ed un dopo. E dopo non tutto può ritornare come prima. Non tutto è riconducibile a prima. La sofferenza rappresenta sempre una cesura nella nostra vita.
E cos'è la malattia per noi? La conseguenza di un virus o di un batterio preso? Una parte di noi che non funziona più come dovrebbe? Il nostro corpo che è debole e non funziona più a dovere? Una disgrazia che ci è capitata? Per noi moderni la malattia si affronta con medicine, con operazioni e con interventi medici. Per gli antichi la malattia rappresentava anche un messaggio divino. E non poteva essere semplicemente curata. Si trattava anche di capire. Francesco d'Assisi ed Ignazio di Loyola, soltanto per fare due nomi, ad un certo punto della loro vita sperimentano la malattia e l'infermità. Il riposo forzato è, sì, per loro l'occasione per fermarsi a pensare e a considerare la propria vita. Ma questo perché vivono ancora nell'orizzonte della malattia come comunicazione, come irruzione del divino nella propria vita.
Noi siamo ormai lontani da una simile concezione di vita. Lo spirito scientifico ci porta a considerare la malattia in termini organici, chimici, virali. Come cause ed effetti. In termini scientifici. Eppure, questo non ci soddisfa completamente. L'approccio scientifico alla malattia non riesce a rispondere a tutte le nostre domande. Ci sono molteplici segni che questa risposta scientifica alla malattia non è sufficiente. Non ci basta sapere che ci fa male la testa e che questo dipende dal fatto che abbiamo una vertebra spostata. Vogliamo anche sapere il perché, non tanto della vertebra spostata, ma della sofferenza che ne deriva. Possiamo anche avere giudizi contrastanti sulle cosiddette medicine alternative. Sull'omeopatia o sull'agopuntura. Sulla cura con i massaggi o con l'utilizzo di certi metalli. E sulle mille altre forme di cura che si stanno diffondendo - o recuperando. Ciò che lo spirito scientifico aveva cacciato dalla porta ora sta rientrando dalla finestra. Quando siamo ammalati, non vogliamo semplicemente essere considerati per la malattia, ma come persone perché siamo sempre e comunque persone, soggetti unitari ed unici. E questi diversi approcci alla malattia spesso tendono a considerare la persona nel suo insieme e non soltanto una parte malata del suo corpo. E se la malattia può essere anche considerata come la spia di qualcosa che non sta funzionando nella nostra vita possiamo allora cercare di scoprire che la nostra vera "guarigione" non dipende soltanto dal fatto di ritornare a stare bene, ma dal fatto che dobbiamo ricercare un nuovo equilibrio, un nuovo senso, una nuova prospettiva per la nostra vita. Ed allora, con questo approccio, può anche passare in secondo ordine l'immediata, effettiva guarigione fisica del nostro corpo perché è interiormente che ci sentiamo "guariti".
Perché la sofferenza? Domanda a cui la medicina scientifica sa rispondere soltanto con una serie di cause e conseguenze, ma senza porsi nella prospettiva del senso. Domanda a cui nei secoli si è cercato di rispondere in vario modo. Anche il libro di Giobbe ha cercato di rispondere.
"C'era una volta in Africa, e precisamente in Uganda, un maestro europeo (altri dicono che fosse africano, ma educato all'europea), che insegnava in una piccola scuola elementare. Un giorno stava spiegando la malaria ai suoi scolaretti africani. Parlava, in modo altamente scientifico, delle cause, degli effetti e del decorso della malattia. Dopo un po' si sentì quasi scoraggiato, perché gli sembrava che dei suoi bambini nessuno capisse niente. Ad un certo punto, uno di quei bravi bambini alzò la mano e disse:
- Signor maestro, perché si prende la malaria?
- Perché si è punti dalla zanzara, la quale trasmette il parassita, rispose il maestro. E si rassegnò a ricominciare tutto da capo. Ma anche questa volta nessuno di quegli scolaretti sembrava persuaso. Anzi, alla fine, per esprimere la loro simpatia al bambino che aveva osato fare la domanda, gridarono in coro:
- Ma chi è che manda le zanzare a pungerci?
Per questi bambini dell'Uganda, era il maestro che non aveva capito nulla. A loro interessavano non già i fatti, le spiegazioni scientifiche o le cause efficienti, ma il mondo vivente (o tutto al più la causa finale) ed i problemi di importanza esistenziale. Malaria, per loro, voleva dire essere ammalati: essi o uno dei loro cari. L'importante era dunque sapere come mai proprio uno di loro fosse stato punto proprio da quella zanzara" (da Concilium).
Cosa ci dice la rivelazione biblica riguardo al problema della sofferenza? Oltre al libro di Giobbe, abbiamo i canti del "Servo sofferente di Dio" in Isaia, nei quali viene prospettata la funzione vicaria della sofferenza dell'innocente. Abbiamo i Salmi ed il profeta Geremia. Ed abbiamo molti altri testi che affrontano il problema della sofferenza, del male e della morte.
Ma è partire dai racconti evangelici della passione che possiamo confrontarci con una prospettiva molto particolare della sofferenza. Non vi troviamo un trattato sul significato della sofferenza e neppure sul senso o l'origine del male. Abbiamo narrate le vicende di un uomo tradito dai suoi, giudicato e condannato ingiustamente e che muore appeso ad una croce. Una morte simile a migliaia di altre morti. In cosa è diversa questa morte da quella di uno dei settantamila schiavi crocifissi lungo la Via Appia durante la rivolta di Spartaco? Nulla, dovremmo dire…
Ciò che fa esemplare - unica - questa morte è il fatto che in questa vicenda è stata percepita la presenza di Dio. Non solo la presenza, ma il anche il suo coinvolgimento. Nella vicenda di Gesù Cristo abbiamo la partecipazione di Dio stesso all'esperienza più estrema e difficile per l'uomo: quella della sofferenza e della morte. Nella vicenda del Golgota non abbiamo una risposta teoretica al problema della sofferenza e della morte, ma abbiamo Dio che si fa partecipe, si fa compagno dell'uomo nella sua esperienza di sofferenza e morte. Sono esperienze delle quali non si cerca di dare un senso, un significato, quanto vengono assunte su di sé, vengono sperimentate fino in fondo.
Proprio per questa partecipazione da parte di Dio alla storia umana, fino all'assunzione della sofferenza e della morte, per il cristiano queste esperienze sono pur sempre avvolte nel mistero, ma cominciano ad acquistare un diverso significato. Come cristiani, infatti, possiamo sperimentare che nella sofferenza non siamo soli, ma che abbiamo per compagno Dio stesso. Per cui la sofferenza che resta sempre avvolta dal silenzio, diventa ora un silenzio carico della vicinanza e della com-passione di Dio.
La critica ad un cristianesimo che si compiace della sofferenza resta allora gratuita. Il cristiano non si compiace della sofferenza. Il cristiano può sperimentare anche nella sofferenza la presenza e la vicinanza di Dio. Non in modo teorico, ma a partire da quella esperienza esemplare che è il Golgota. "Ed era ben giusto che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza" (Eb 2,10).
Per il cristiano la sofferenza è e resta un'esperienza transeunte. "E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1Pt 5, 10). Egli è chiamato a vivere ben altro. Non è soltanto l'esperienza del Golgota, ma soprattutto quella del mattino di Pasqua che deve contraddistinguere la sua vita. Sperimentiamo le sofferenze del Golgota, ma già da ora possiamo partecipare alla luce della risurrezione. Già da ora il Cristo sofferente e glorioso ci fa partecipe della sua vita. I tempi messianici non sono qualcosa di lontano nel tempo o dei sogni irrealizzabili. Attraverso la Pasqua noi possiamo già iniziare a sperimentarli. Certo, nell'attesa del loro compimento definitivo.
"Allora si allieterà la vergine della danza; i giovani e i vecchi gioiranno. Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni" (Ger 31, 13).
Udii allora una voce potente che usciva dal trono: "Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate". E Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: "Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci" (Ap. 21, 3-5).
Faustino Ferrari