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Venerdì, 17 Settembre 2004 22:40

23. Offerte per il corpo di Cristo (Ildebrando Scicolone)

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Nel presentare globalmente la struttura della celebrazione eucaristica, abbiamo già accennato che il termine "offertorio" è tuttora non solo legittimo, ma molto importante per la comprensione del senso della celebrazione. Alcuni, anzi molti, affermano che sarebbe meglio chiamare questa parte "preparazione dei doni", perché noi non offriamo al Padre pane e vino, ma il sacrificio di Cristo, cosa che faremo all'interno della preghiera eucaristica.

Ci sono tuttavia tanti motivi per mantenere il termine tradizionale. È vero che il testo italiano della preghiera che accompagna il gesto di presentazione suona così: "lo presentiamo a te...”, ma l'originale latino usa ancora il termine "quem tibi offerimus", "quod tibi offerimus". E le preghiere che concludono questo rito non si chiamano “sulle offerte"? E se guardiamo dentro tali preghiere, quante volte non incontriamo il termine "offerte"?

È vero: il Signore non ha bisogno di pane e di vino. Questi sono elementi che servono per la celebrazione dell'eucaristia. Ma essi stessi hanno tanti significati:

  • il pane ricorda la pasqua come liberazione, se pensiamo che gli ebrei in Egitto mangiarono il pane dell’afflizione;
  • il vino (sangue) ricorda la pasqua come alleanza (vedi le parole sul calice);
  • come frutto della terra, sono doni di Dio, e offrirli a lui significa riconoscere che sono suoi, anche se servono a noi;
  • come frutto del lavoro dell'uomo, esprimono l'offerta di tutta la nostra vita, secondo quello che dice S. Paolo in Rom 12, 1: "vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come vittima santa, gradita a Dio: è questo il vostro culto spirituale”.

Potremmo però dire ugualmente: cose se ne fa Dio di noi, misere creature? L'offerta che soddisfa pienamente il Padre, e che salva il mondo è quella perfetta di Cristo. Però, nel sacrificio eucaristico, Gesù "associa a sé la Chiesa, sua sposa direttissima". Nell'offertorio, allora, noi ci offriamo. La preghiera eucaristica, con l'invocazione dello Spirito Santo, ci trasformerà in “corpo di Cristo" (come il pane e il vino diventeranno "corpo e sangue" sacramentali), e così saremo offerta gradita al Padre, perché diventati "il corpo totale" del Figlio suo.

Oltre al pane e al vino (con l'acqua), i fedeli sono invitati a portare altre offerte o in natura o in denaro. La prassi è antica quanto il cristianesimo. S. Paolo, in I Cor 16, 2 scrive: "ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrà io" (su questa raccolta,vedi 2 Cor 8-9). Paolo non dice che si debba fare durante la "santa Cena", come lui chiama la celebrazione eucaristica, ma

  • dice di farla "nel primo giorno della settimana”, cioè in quella dell'eucaristia;
  • per indicare questo "servizio" che si fa ai poveri di Gerusalemme, usa il termine "liturgia", anche se non nel senso rituale.

La prassi attestata in seguito ci fa risalire dunque a questa colletta. Un importante testimone successivo è S. Giustino, nella prima Apologia. In esso, dopo averci dato lo schema dell'eucaristia del "giorno del sole", dice: "coloro che possono, portano offerte a colui che presiede, e questi provvede ad aiutare gli orfani, le vedove e coloro che sono in difficoltà" (cap. 67). Anche la Tradizione Apostolica d'Ippolito ha due capitoli su queste altre offerte: "se qualcuno offre dell'olio" (cap. 5); "se qualcuno offre formaggio e olive..." (cap. 6). La colletta ha dato luogo in seguito alla processione offertoriale. Quando è venuta meno la partecipazione del popolo, la materia per il sacramento, è stata portata (dalla credenza) all'altare dai ministri; le altre offerte si sono ridotte solo alla "colletta" del denaro, non più portato all'altare, ma direttamente in sagrestia. Oggi, il Messale riformato dopo il Concilio, ha voluto che fosse ripristinata la processione con i doni (anche il denaro!) all'altare.

Il rito d'offertorio allarga l'orizzonte dell'assemblea. Se i riti d'ingresso hanno come scopo quello che "i fedeli formino una comunità”, i riti d'offertorio aprono gli occhi di questa comunità alle necessità dei fratelli. Noi con loro formiamo il corpo di Cristo (quello che oggi chiamiamo "mistico"). Possiamo dire quindi che le offerte presentate servono tutto al "corpo di Cristo", o a quello sacramentale (il pane e il vino) o a quello ecclesiale (altre offerte). Tra i due "modi di essere" del corpo di Cristo viene quindi a stabilirsi un rapporto tale, perciò il corpo eucaristico è "sacramento" (cioè segno che rende presente a suo modo) non solo del corpo "fisico" di Cristo (che è in cielo e siede alla destra del Padre), ma anche del corpo ecclesiale di Cristo (che è la Chiesa).

Dati questi principi, si comprende facilmente che all'offertorio non vanno portati oggetti che hanno altri significati simbolici. Non ha senso portare all'altare strumenti di lavoro, per significare la propria fatica (portiamo il frutto, che serve agli altri); non si portano all'altare quelli che sono i segni della propria professione cristiana o religiosa (la Bibbia, la Regola, il Crocifisso, la corona del Rosario, e simili): queste cose ce le dà il Signore o la Chiesa, non siamo noi a portarle a Dio. Ancora peggio sarebbe portare qualche opera, pur prodotta dal lavoro dell'uomo, ma che è un regalo per il sacerdote o per la chiesa (materiale), come un quadro, o una scultura o un calice o anche una busta con denaro. Cosi facendo, viene snaturato il significato dell'offerta "per il corpo di Cristo".

Il rito di offertorio, così come lo abbiamo presentato, può essere chiamato "il rito della carità" (cfr C. VALENZIANO, L'Anello della Sposa, Ed Qiqaion). La processione offertoriale infatti è un gesto di carità. Il canto che accompagna tale processione (lo dico tra parentesi, si può cantare anche quando non si facesse la processione, mentre il sacerdote fa la presentazione a Dio e depone le offerte sulla mensa. Le preghiere che accompagnano tali gesti sono da dirsi sottovoce. Il sacerdote può dirle ad alta voce, se non si fa il canto) dovrebbe esprimere tale valore. Nel messale non viene riportata nessuna antifona di offertorio, perché non spetta al sacerdote, e se non si canta, non si dice (a differenza dell'antifona di ingresso e di comunione). L'unica eccezione è fatta per la Messa in “coena Domini" il giovedì santo. Il Messale riporta come canto di offertorio l’Ubi caritas est vera, Deus ibi est (Dov'è carità e amore, lì c'è Dio). Dovremmo rimettere a posto questo canto, visto che abitualmente viene consigliato ed usato come canto di comunione.

Ildebrando Scicolone

 

Letto 6897 volte Ultima modifica il Martedì, 18 Febbraio 2014 09:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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