Mi chiedo spesso - mi è tema ricorrente - se l'assenza dei roghi ai nostri giorni sia soltanto un dettaglio culturale. Il rogo non è "politicamente corretto", così come non lo è la lapidazione. E tuttavia resta una gran voglia di appiccarli i roghi (come di seppellire sotto le pietre). Solo che proprio non si può: ricusiamo ogni barbara forma di violenza - ci è stato autorevolmente ricordato.
Lo dico perché nell'entroterra dell' "ammonire i peccatori" si vede affiorare, tumultuosamente direi, una serie ininterrotta di condanne; una schiera di uomini e di donne a volte più che peccatori - e sul concetto bisogna proprio ritornarci - rei semplicemente di pensarla diversamente. Costoro, magari li si è ammoniti, ma di una ammonizione formale, interlocutoria, pesante, che alla fine quasi di buon grado li ha consegnati al braccio secolare e dunque ai roghi, alle forche, alla mannaia, in quel perverso -sadico - gioco di immaginazione da cui noi cristiani stessi non siamo rimasti estranei. E poiché da sempre mi sento borderline - non mi rassegno, e seguito a sognare una Chiesa "conciliare" - oggi come ieri in sogno le vedo quasi le scintille e le fiamme, magari poi svegliandomi all'improvviso e prendendo atto - lo si voglia o no -che certo medioevo è senza ritorno ...
Il peccato d'opinione - meglio la divergenza d'opinione - è nodo antico anche nella Chiesa. Non so quando e come abbiamo voluto e operato l'omologazione, E non mi riferisco al sacrosanto dovere di riconoscersi in un "segno"; ma, piuttosto, alla impossibilità quasi d'interpretarlo e di tradurlo nelle forme corrispondenti alla propria identità carismatica e socialmente (culturalmente) ecclesiale.
Un prezioso e utile ministero
Ammonire è diventato un chiodo fisso. Ma non di ammonimento si tratta, quanto piuttosto di diktat neghittoso, duro, intransigente, che spesso non raggiunge l'interlocutore, ma ne esalta le difese, suscitando barriere insormontabili, chiudendo la possibilità d'aprire una qualsivoglia breccia o qualsivoglia opportunità dialogica. L'ammonimento insomma minaccia/provocazione, spesso già in partenza condanna, lasciando cadere la sua ragion d'essere fondativa; quella che per noi cristiani è iscritta nella mediazione salvifica della comunità e di quanti ne facciamo parte, ossia la narrazione, la memoria della misericordia.
In altre parole, ammonire dovrebbe essere evocare, richiamare, rendere presente, nell'immediatezza della propria congiuntura vitale, il disegno misericordioso di Dio, il suo farsi prossimo alla creatura. Dovrebbe, a chi vede oscurarsi la comprensione di sé, del suo rapporto con gli altri, del suo essere Chiesa, suggerire il percorso certo che di nuovo lo restituisce a se stesso, agli altri, alla comunità cui appartiene. E se c'è un ministero dell'ammonire, personale e comunitario, esso non può esercitarsi se non nella direzione del supportare questa memoria, questa presa di coscienza. Ammonire è richiamare il dovere proprio a ciascuno di fedeltà al disegno di Dio, disegno solidale, amorevole, esigente, prossimo, radicato nella cifra del perdono prima e più che della condanna. Due frasi evangeliche mi hanno sempre colpita - e non ne faccio questione di correttezza esegetica quanto di seduzione affettiva: le parole di Gesù alla peccatrice -le sono perdonati i suoi molti peccati perché molto ha amato (cf Lc 7,47); le parole all'adultera-neppure lui la condanna (cf Gv 8,11 ). Ebbene, c'è in queste come in altre parole, in questi dialoghi come nei tanti altri veicolati nella Scrittura, l'evidente manifesto della prossimità di un Dio che ripropone la fedeltà al suo disegno, non attraverso la minaccia o la condanna, quanto attraverso l'evidente suo porsi su un piano di liberalità accondiscendente.
Ma può la logica dell'essere umano e della Chiesa, raccolta di uomini e donne convocati dalla Parola e dallo Spirito, disattendere la logica di Dio? Non è piuttosto il paradigma della condiscendente partecipazione al nostro limite che deve informare l'ammonimento? Possiamo proporre l'ammonire come opera di misericordia spirituale allontanandoci da questo paradigma? In altre parole, può la Chiesa essere matrigna e non madre; possono i cristiani farsi giudici gli uni degli altri, assumere come chiave interpretativa della fede e della prassi, la loro personale comprensione della fede e della prassi? Non occorrerebbe - opera di misericordia nativa e originaria - che tutti facessimo un passo indietro così da far veramente emergere ciò che conta, ciò che unisce, ciò che ci costituisce, anziché innalzare l'un contro l'altro la propria percezione del messaggio, ideologizzandola e assolutizzandola senza alcun pudore?
Tornerà la Chiesa a narrare la misericordia? Torneremo noi cristiani a chinarci operosamente gli uni sugli altri. accettando la sfida delle diversità come dono e non come peccato? Torneremo mai a capire che peccato è proprio il pervicace sostituirsi a un Dio venuto a salvarci prima e più che a giudicarci? No, non è l'ateismo scientista che mi disturba, ma l'ateismo pratico e ideologico di quanti si sostituiscono a Dio lo interpretano con tale sicurezza da renderlo superfluo. Gli si sono sostituiti e tanto basta. Più e più volte ho ripetuto che il massimo della sacralizzazione, in verità, è assunzione mascherata della massima secolarizzazione,
Esercitare la misericordia
È chiaro che se non c'è più spazio per l'ammonire nella sua valenza memoriale e confessante, non c'è più spazio neanche per il consolare. Le due opere di carità sono strettamente congiunte. Consolare, confortare, ossia: mettersi insieme per dare forza. Dare conto, realizzare la costitutiva chiamata all'interscambio, all'interrelazione, al dialogo, all'incontro. Consolare, confortare, come rafforzarsi mutuamente l'uno nell'altro, l'uno nel tutto, e non per svanire in una omogeneità indifferente e indifferenziata, ma al contrario per trarre dagli altri la capacità/forza di riconoscersi nel proprio dono, costruttivo, indispensabilmente costruttivo, all'armonia del tutto.
Consolare, confortare è traduzione pratica delle figure storiche della misericordia. E riproposizione efficace del farsi prossimo di Dio, del suo sanare ogni limite, non elidendolo, ma piuttosto assumendolo. Consolare è far proprie le ragioni dell'indigente, quale che sia la sua indigenza. Fare proprie le ragioni e la pena disperata del peccatore, quale sia il suo peccato. Confortare è poter confortare sull’altro,sempre e comunque nella parabola della vita,nelle sue forzature e lacerazioni,nello scacco che prima o poi ci mette alle corde.
Mi ha sempre colpito che nella colorata e spumeggiante elencazione paolina dei carismi venga incluso sia l’esortare-consolare che il compassionare(cf Rm 12,8).Il che ci dice,indipendentemente dalla loro valenza epifania,ossia del loro manifestare la sovrabbondante potenza di Dio,che non è indifferente,ecclesiologicamente parlando, fare affidamento all'uno e all'altro dono. Tanto più che l'esortare e consolare (ossia l'ammonire nella sua dimensione propositiva) e, analogamente il compassionare-esercitare misericordia, entrambi collocabili nella sfera variegata della parola, mai sono venuti meno nella comunità ecclesiale. Come avremmo superato l'insidia del tempo se, consapevoli o meno, non fossimo stati consolati o ammoniti? Se non ci fosse stato qualcuno/a che, avendone ricevuto il carisma, non lo avesse poi esercitato? E, si badi bene, che si tratta di carismi umili, poco appariscenti, eppure così necessari al nostro vivere. Certo, possono assumere forme potenti e intriganti, si pensi alle "sante vive", ossia a quelle donne al cui discernimento anche politico ci si affidava nelle corti rinascimentali. Si pensi alla valenza nascosta dell'accompagnare il nascere, e soprattutto il morire, quest'ultimo evocato in un prezioso intreccio di scrittura femminile, nell'Accabadora, il romanzo di Michela Murgia, uscito vincitore del Campiello 2010.
Ebbene, consolare e ammonire, autorevoli o umili che siano, diventano opere di misericordia forse proprio in quell'eclisse dello Spirito, malgrado tutto mai davvero tale, affidati alla traduzione compiuta del proprio dover essere cristiano più che alla gratuità del dono come tale. Ovviamente sta a noi riconoscerli nella loro radice carismatica, condizione e appello alla comune costituzione cristiana che da tutti esige di praticarli nell'ordinarietà battesimale, ma proprio per questo chiede il correttivo di restituirli alla misericordia come nome proprio di Dio e come orizzonte obbligato del vivere e tradurre la nostra fede in lui, "il misericordioso".
Cettina Militello
(da Vita Pastorale, n. 10, 2010)