Il contesto
I cc. 36-39 costituiscono un'appendice narrativa che conclude la prima parte del libro di Isaia e gli studiosi sono concordi nel ritenere che questa sezione, che trova il suo parallelo in 2 Re 18,13-20,19, non provenga da Isaia.
Nella trama del racconto si individuano quattro fili: due resoconti dell'assedio di Gerusalemme da parte del re assiro Sennacherib, intrecciati insieme in modo unitario (cc. 36-37); l'episodio della malattia di Ezechia e la sua guarigione (c. 38); l'ambasceria del re di Babilonia Merodach-Baladan a Ezechia in occasione della sua infermità (c. 39). Gli ultimi due capitoli sono collegati redazionalmente a quanto precede mediante la formula «in quei giorni» (38,1 e «in quel tempo» (39, l), in modo da dare l'impressione di eventi cronologicamente concomitanti: in realtà si tratta di tre momenti distinti. L'unico fatto che si può circoscrivere con certezza è l'intervento di Sennacherib contro Gerusalemme che risale al 701 a.c. La malattia di Ezechia è di incerta datazione: il Signore promette al re ancora 15 anni di vita e se la notizia è attendibile, l'episodio dovrebbe essere anteriore all'assedio di Sennacherib. La morte di Ezechia avviene probabilmente nel 699/97 e quindi la malattia dovrebbe cadere nel 714/712. Insicura è anche la collocazione cronologica dell'ambasceria del re babilonese: il motivo dell'infermità e della guarigione di Ezechia sembra giocare un ruolo marginale e forse questo episodio può addirittura precedere quello del capitolo 38. I tre racconti, dunque, sono assemblati senza seguire un criterio cronologico: il fattore unificante è da ricercare nel ruolo dei protagonisti, Ezechia e Isaia. Ricostruire il percorso di formazione di questa raccolta resta difficile: il confronto dettagliato tra Is 36-39 e 2 Re 18,13-20,19 suggerisce che questi capitoli costituissero una raccolta già rielaborata, inserita prima in 2 Re e poi nel libro di Isaia; (1) entrambe le versioni hanno ricevuto in seguito ulteriori rimaneggiamenti e ampliamenti. Il testo isaiano presenta un minus e un plus rispetto al racconto corrispondente del secondo libro dei Re: manca in Isaia quanto viene riportato in 2 Re 18,14-16. mentre in Is 38,9-20 si trova un salmo pronunciato da Ezechia che non ha parallelo. L'omissione e l'aggiunta sembrano rispondere al medesimo criterio teologico: si cerca di rendere più edificante il resoconto storico e di dare risalto alla pietà del re Ezechia. È probabile, dunque, che l'inserzione di questa appendice nel libro di Isaia e la sua rielaborazione siano alquanto tardive: sicuramente postesilica è la parte narrativa, mentre l'aggiunta del salmo potrebbe essere ancora posteriore. (2)
L'architettura letteraria di Is 38
Il racconto della guarigione di Ezechia è articolato chiaramente in due parti (vv. 1-8 + 21-22; vv. 9-20), marcate anche dall'uso della prosa e della poesia. Il v. 1 funge da introduzione, presentando i protagonisti e la nota cronologica redazionale: una grave malattia colpisce il re e questo avviene «in quei giorni», cioè durante l'assedio di Gerusalemme da parte di Sennacherib. La situazione politica di minaccia e di urgenza è resa ancora più grave dall'infermità di Ezechia che acquista uno spessore diplomatico. In questo frangente, Isaia preannuncia al re la sua morte con un oracolo secco, privo di motivazioni (v. 1b). Ezechia reagisce con la preghiera e il pianto (vv. 2-3) e il Signore lo esaudisce, ordinando a Isaia di proferire un contro-oracolo (vv. 4-8a). Dio prolungherà la vita del re (v. 5) e proteggerà Gerusalemme dalla mano degli Assiri (v. 6). Il v. 6 è redazionale e rafforza il collegamento tra la malattia di Ezechia e il destino della città che è al centro dei cc. 36-37. La promessa di guarigione è accompagnata da un segno (vv. 7-8a) di cui si riporta il compimento (v. 8b).
Al v. 9 una frase di collegamento introduce la seconda parte del capitolo che contiene un salmo di ringraziamento pronunciato da Ezechia (vv. 9-20). I versetti conclusivi (21-22) riprendono il filo narrativo, interrotto al v. 8: Isaia ordina di applicare un impiastro di fichi sulla ferita del re per agevolarne la guarigione; poi Ezechia chiede un segno che possa confermare la sua prossima visita al tempio (v. 22). Questo versetto sembra del tutto fuori luogo perché non ci sono antecedenti nella narrazione che appoggino tale richiesta, e non è usuale che un capitolo termini con una domanda a cui non viene data risposta. L'interpolazione si può spiegare a partire dall'espressione bêt Jhwh che lega 38,20.22 e dal confronto con 2 Re 20,8 in cui la battuta ha una collocazione molto più coerente. (3)
La malattia e la preghiera
Ezechia è malato a morte e l'oracolo che il profeta Isaia gli riferisce per ordine del Signore non lascia alcuno spiraglio di speranza: «Tu morirai e non vivrai» (38,1). Quando un re muore, solitamente si verifica un periodo di instabilità politica: la successione può rivelarsi problematica, si moltiplicano gli intrighi di corte, i nemici approfittano della debolezza interna. Per questo Isaia ordina ad Ezechia di impartire disposizioni per provvedere alla successione al trono. Il re reagisce all'oracolo profetico con un gesto di rifiuto: volta «la faccia verso la parete» (v. 2), non si rassegna e comincia a pregare. Per la connessione veterotestamentaria tra malattia e peccato (Sal 32,5), ci si attenderebbe da parte di Ezechia una preghiera di penitenza; il re, invece, implora il Signore, appellandosi alla propria condotta irreprensibile. L'affermazione di innocenza (Sal 7; 17; 26), tipica dei lamenti, costituisce un motivo valido per indurre la divinità ad esaudire la preghiera. Ezechia afferma di aver camminato davanti al Signore «con fedeltà (be'emet) e con cuore sincero (belēb šālēm)» (v. 3). ‘emet indica la stabilità nella relazione con Dio, mentre l'espressione lēb šālēm «cuore perfetto, integro, indiviso» appartiene alle qualità regali apprezzate nella storiografia deuteronomistica e nei libri delle Cronache (4) e designa un atteggiamento religioso irreprensibile dal punto di vista cultuale e conforme alle norme. La preghiera di Ezechia è rafforzata un grande pianto, espediente che serve a muovere il cuore della divinità (6,9-10).
Il segno
La risposta del Signore è rapida (5) e viene introdotta al v. 4 con la formula de l'evento della parola a cui segue la formula di invio: Isaia deve tornare e annunciare a Ezechia un oracolo di guarigione. Al v. 4 l'appellativo «Dio di Davide tuo padre» attira l'attenzione. Si tratta di un titolo raro che compare
solo in 2 Cr 21,12 e 34,3: l'intervento salvifico del Signore si radica in ultima istanza nella fedeltà alle promesse fatte a Davide che è presentato come modello di regalità e garante della continuità dinastica. Per questo Dio decide di aggiungere 15 anni alla vita di Ezechia, discendente di Davide, e di salvare Gerusalemme dalla mano degli Assiri (cf Is 37,35). Ma il testo sottolinea che un altro contratto: Dio esaudisce l'orante non per la sua condotta ineccepibile, ma per il fatto di aver pregato e pianto: chi prega, riconosce la propria impotenza, si affida con umiltà e questo gesto di consegna è importante agli occhi di Dio. La promessa di guarigione è accompagnata da un segno di conferma: Dio fa retrocedere di dieci gradi l'ombra sulla meridiana di Acaz.
Anche se il v. 8 presenta notevoli difficoltà testuali che pregiudicano una chiara comprensione della meccanica di questo orologio, il segno resta altamente suggestivo. La sua efficacia non consiste solo nel capovolgere il corso normale degli eventi, ma nel mostrare che Dio detiene una piena signoria sul tempo; Egli ha il potere di togliere e aggiungere, può far tornare indietro l'ombra del sole che è già scesa e anche prolungare la vita del re.
Il cantico di Ezechia
Con il v. 9 viene introdotto in modo piuttosto brusco un salmo che è collegato solo redazionalmente alla malattia e alla guarigione di Ezechia. Dal punto di vista del genere letterario, la composizione si avvicina più ad un canto di ringraziamento individuale, che ad un salmo di lamento. Infatti, inizia con i ricordo dell'angustia passata, ma termina con la lode, in quanto la supplica è stata esaudita. Così, il contrasto tra il prima e il poi si acuisce e questo conferisce al testo una particolare sfumatura: cominciare con il ringraziamento avrebbe forse tolto spessore alla situazione di necessità passata, il lieto fine avrebbe minimizzato la profondità del dolore. Invece, il lettore deve prima immergersi nell'angoscia di una malattia devastante, deve sentirsi senza d'uscita, per sperimentare la gioia inattesa della salute ritrovata e aprirsi alla lode. Il Salmo è corrotto in alcuni punti, ma ciò non oscura la bellezza delle immagini poetiche.
Ai vv. 10-11 attraverso la ripetizione della forma verbale ‘āmartî (ho detto = ho pensato) si dischiude il mondo interiore dell'orante che sente vicina la fine. La morte, come termine di una vita vissuta in pienezza, appartiene alla creaturalità dell'uomo e come tale non costituisce un dramma per la mentalità dell'AT; ma che l'esistenza personale sia spezzata, quando ancora si è nella giovinezza o nel pieno delle forze, risulta inaccettabile, suscita ribellione e angoscia, è percepito come una rottura dell'ordine delle cose. Si comprende così l'amaro lamento: «Io dicevo: a metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi; sono privato del resto dei miei anni» (v. l0). L'espressione «porte dello Sheol» è unica nell'AT ebraico (6) e forse tradisce un influsso greco poiché in alcuni testi del giudaismo recente si parla di «porte dell'Ade» (pylai ha[i]dou: Sap 16,13; 3 Mac 5,51). Nel salmo lo Sheol non è il luogo di punizione dei malvagi, ma semplicemente la dimora dei morti, dove continua una specie di esistenza umbratile, dimezzata, insensata. Il passivo «sono privato» ha come soggetto agente Dio, il solo che ha il potere di fissare il destino dell'uomo. La morte si profila come interruzione drammatica e come privazione, in quanto toglie ciò che rende dolce e significativa la vita, ovvero il vedere Dio e i rapporti con gli altri uomini (v. 11). L'espressione «vedere Dio» può sembrare strana, dato che nell' AT più volte si ripete che chi vede Dio, deve morire; (7) il contemplare Dio, però, è tipico del culto e indica la compagnia e la presenza di Dio che si possono sperimentare solo in questo mondo (Sal 27,4). Infatti, il potere del Signore non arriva nello Sheol che resta il luogo delle potenze ctonie, delle forze del caos. Per questo i defunti sono esclusi dal contatto con Dio e, a maggior ragione, dalle relazioni umane.
Nel v. 12 la sofferenza legata alla malattia ed il senso di stroncamento doloroso sono descritti attraverso due metafore suggestive, l'una tratta dal mondo dei pastori, l'altra dall'ambito della tessitura. L'orante sente che la propria vita viene divelta e arrotolata come una tenda. Quando un pastore deve spostarsi da un luogo all'altro, distrugge il suo bivacco e avvolge la tenda che funge da riparo; qui l'orante subisce queste azioni, ciò che gli consente di vivere, il suo rifugio è strappato e gettato via. L'esistenza terrena è un cammino di nomadi, un pellegrinare, ma senza la tenda è impossibile andare avanti. La seconda immagine, desunta dall'attività tessile, è piuttosto rara nell'AT: la vita viene recisa come quando si stacca un tessuto dall'ordito. Il mondo greco conosce bene le nere Parche, le dee del destino che intessono e tagliano i fili della vita: una necessità ineluttabile schiaccia l'uomo e davanti ad essa anche gli dèi devono riconoscere la propria impotenza. Nel salmo, invece, chi recide i fili è Dio, Egli porta a termine la vita dell'uomo, ma può anche avere compassione di chi lo invoca e rimandare il destino di morte.
Nei vv. 13-14 il grido di lamento si alterna alla dissoluzione e alla oppressione che il malato sperimenta. Il paragone con il pigolio della rondine e della colomba rende in modo icastico un gemito di dolore che diventa progressivamente inarticolato, come un sordo lamento. Emerge il tratto paradossale della preghiera: l'orante sa che è il Signore che stritola le sue ossa come un leone e nello stesso tempo non può che rivolgere a lui la sua supplica; solo Dio può proteggerlo. Il verbo 'ārab (proteggere) al v. 14 è desunto dalla terminologia giuridica e indica chi garantisce a favore di un altro quando c'è un debito e anche l' «oppressione» che angustia il malato, è quella di un debitore messo alle strette dai suoi creditori. Dio è insieme colui che opprime e che libera: il monoteismo giudaico, nella sua radicalità, non lascia spazio per l'attribuzione del male e della malattia ad altre entità divine contrapposte o a demoni malvagi. Così l'orante si trova in una aporia difficile da risolvere: «Che dirò?» (v. 15). L'esitazione viene superata con uno slancio audace: anche se i vv. 15-16 sono gravemente corrotti (8) si intravede un'attesa fiduciosa: «Signore, in te spera il mio cuore... guariscimi e rendimi la vita».
Il capovolgimento improvviso della situazione di angoscia è ben delineato v. 17 attraverso i termini estremi mar e šālôm: si passa dall'amarezza del dolore disperato alla salute che è anche pienezza di vita, pace, prosperità. Due motivi diversi spiegano il benessere ritrovato: il Signore ha gettato dietro alle sue spalle i peccati del supplice (v. 17) e lo ha risparmiato perché nessuno fra i morti loda Dio (v. 18). Attraverso il primo motivo affiora la connessione tra colpa, peccato e malattia che non era ancora esplicitata, ma certo si trovava nello sfondo. Questo tratto crea una tensione tra la parte narrativa di Is 38 che sottolinea l'ineccepibile condotta di Ezechia e il salmo in cui l'orante ammette il proprio peccato. Il secondo motivo, invece, ripropone la limitazione del potere divino al campo della vita: lo Sheol e la morte non riconoscono Dio, chi scende nella fossa non ha più speranza nel Signore. La contrapposizione tra gli inferi e il mondo dei vivi continua al v. 19: solo chi vive, può ringraziare Dio, può raccontare agli altri la fedeltà del Signore. La lode così diventa corale e investe le relazioni familiari, per estendersi nel v. 20 a tutta la comunità dei credenti. La fede vive nel racconto che il padre fa al figlio, si radica e prolunga nella testimonianza che una generazione dà all'altra. A sua volta la lode, che presuppone un contesto liturgico allargato, unisce alla memoria la prolessi del futuro. Lodare significa riconoscere i benefici di Dio nel passato e anticipare la salvezza grazie ai segni noti.
Conclusione
Al di là delle implicazioni politiche che stanno sullo sfondo di Is 38, nella Parabola della malattia e guarigione di Ezechia prevale il sapore didattico. Il Signore ascolta la supplica dell'uomo che si affida e prega con cuore sincero e la testimonianza di chi ha sperimentato la salvezza di Dio si trasforma in motivo di ringraziamento da parte di tutta la comunità dei fedeli. In questo modo Ezechia diventa non solo paradigma del re esemplare, ma anche modello per ogni credente.
Cristina Termini
(da Parole di Vita, n. 3, 1999)
1) Per una discussione critica del problema si può vedere H. WILDBERGER, Jesaia. 3. Teilband: Jesaia 28-39. Das Buch, der Prophet und seine Botschaft, Neukirchener Verlag, Neukirch- Vluyn 1982, pp. 1370-1374.
2) Un caso analogo è offerto da 1 Sam 2,1-10 e Gio 2,3-10.
3) In 2 Re 20,5-6 1'oracolo di Isaia prevede la guarigione di Ezechia e la sua salita al tempio, non include il segno; al v. 8 è il re Ezechia a chiedere un segno che viene precisato ai vv. 9-10 attraverso il dialogo tra il profeta e il re.
4) Cf 1 Re 11,4; 15,3.14; 2 Re 20,3; 1 Cr 28,9; 29,19; 2 Cr 15,17; 25,2.
5) Questo particolare viene amplificato in 2 Re 20,4.
6) Si conoscono le porte della morte, ma non quelle degli inferi: Sal 107,18; Gb 38,17.
7) Cf Es 33,20; Lv 16,2; Gdc 13,22; ci sono però dei casi in cui si vede Dio: Gn 16,13; 32,31; Es 24,11; Gdc 6,22-23.
8) Cf N. AIROLDI, «Nota a Is 38,16», in Bibbia e Oriente 15 (1973) 255-259; J.A. SOGGIN, «Il "salmo di Ezechia" in Isaia 38,9-20», in Bibbia e Oriente 16 (1974) 177-181.