L’uomo dovrebbe avere un affondamento
e una caduta senza fondo nel Dio senza fondo.
(Enrico Suso, Sermones)
È più faticoso scendere che salire. Quando si va in montagna i muscoli delle gambe sono sottoposti a maggiore tensione e sforzo mentre si discende, anche se apparentemente ci sembra un cammino più facile rispetto a quello della salita.
Così è anche per l’esperienza religiosa. Tutto va bene finché usiamo le immagini della progressione, dell’elevazione, della crescita, dell’ascesa – e la maggior parte dei cammini spirituali fa un largo uso di queste rappresentazioni. Ci risulta più ostico accostarci alle immagini dell’abisso, dello sprofondamento, dell’immersione, dell’abbandono. Qui non si vede il fondo – la meta ci resta non solo sconosciuta, ma mistero.
Mentre le immagini della salita ci propongono anche l’idea dell’avvicinamento – la meta è a nostra portata, è solo questione di tempo e di percorso – tutte le immagini della discesa ci restituiscono l’idea dell’allontanamento, del distacco, del mistero e dell’oscurità.
La fatica della salita è supportata dall’idea della meta – ed è una rappresentazione che poggia sulla consapevolezza del nostro impegno. Siamo noi a raggiungere la meta, anche se a volte essa può scomparire dalla nostra vista, coperta momentaneamente dalle nubi, dalle nebbie o dalla tortuosità del cammino. C’è una somma soddisfazione nel sentirsi i conquistatori dell’obiettivo! Mentre il fallimento viene subìto se non si ha il raggiungimento del traguardo…
Le nostre immagini della discesa sono state poi strettamente annodate a quelle della caduta. La caduta comporta anche rovina, crollo, colpa. Figurazione doppiamente negativa nell’ambito del cristianesimo poiché la caduta è quella del peccato o, ancora, dell’antica credenza gnostica dell’essere stati gettati nel mondo da un demiurgo malvagio – idea, quest’ultima, che ha ritrovato vigore nella filosofia contemporanea ed in molta spiritualità new age.
L’abisso suscita in noi ansia. La mancanza, l’assenza ci turba. Ed il nulla ci fa sempre paura. Poiché rappresenta ciò che è maggiormente lontano dalla nostra esperienza. Anche perché è ciò verso cui siamo irrimediabilmente attratti – noi viviamo sotto lo scacco della morte, della caduta nell’oblio, del dissolvimento nel nulla.
Ma possiamo anche scoprire che Dio è il Nulla che ci avvolge.
Ed allora, possiamo lasciarci andare? Possiamo abbandonarci in quest’abisso?
Per rifarci ad un’immagine biblica, la cerva che anela all’acqua (cfr. salmo 41) non troverà il suo ristoro nelle vette, ma dovrà scendere a fondo valle per dissetarsi.
La fede come discesa ad inferos, come kenosi. Ed è un’immersione verso se stessi. L’umiltà, avendo il suo fondamento nella cristologia, non sarà più una virtù da relegare al piano morale. Diverrà il filo conduttore per questo cammino di discesa verso Dio.
Faustino Ferrari