I dieci comandamenti sono decisamente di moda. Da ultimo la pubblicazione nel 2010 presso Il Mulino di dieci volumetti (più un undicesimo), ciascuno avente a tema uno di essi, per altro nell'intreccio di voci diverse (teologiche e filosofiche, queste ultime anche "laiche"), ce ne dà conferma. Significativa anche la molla ispiratrice: "I dieci comandamenti anche per chi non crede". Per professione sono più prossima alla teologia sistematica: i comandamenti si iscrivono tradizionalmente nella teologia pratica. Questa di scriverne è una sorta di sfida con me stessa oltre che un dovuto gesto di dialogo verso quanti con attenzioni e metodiche diverse hanno fatto spazio alle "dieci parole".
Cinema e letteratura; pubblicistica e saggistica; etica filosofica e teologia morale in tempi e modi diversi hanno tematizzato il decalogo nell'insieme o nelle sue singole f1essioni; senza dimenticare l'approccio ermeneutico proprio delle scienze bibliche o le provocazioni nuove legate al dialogo interreligioso e interculturale. Le "dieci parole" non attraversano infatti la sola tradizione ebraica e cristiana - anzi almeno in parte la precedono; presenti nella tradizione islamica e in altre tradizioni religiose, toccano, alcuni almeno, e assai radicalmente, l'orizzonte comune del diritto, del reciproco porsi/riconoscersi degli esseri umani tutti, uomini e donne, oltre le stesse varianti storico-culturali.
Nel nostro immaginario sta di sicuro il colossal I dieci comandamenti di C. B. De Mille (1956). Malgrado il titolo, l'epopea era piuttosto quella dell'esodo, della liberazione d'Israele dall'Egitto e dunque di Mosè suo condottiero. Ma quelli che giovanissimi eravamo ricordiamo ancora lo stupore del dito di Dio e dell'imprimersi delle lettere sulle tavole non meno fantasmagorico dell'aprirsi delle acque di un improbabile Mar Rosso. Oggi ci è evidente l'incongruenza, la non scientificità di un prodotto ormai lontano nelle sue modalità tecniche e narrative (fotografia, dialoghi, effetti speciali). Più incisivo e provocante, più prossimo a noi, il Decalogo di K. Kieslowski (1988) nei suoi dieci distinti filmati, occasione ripetuta di lungo, proficuo e appassionante dibattito.
Un'ampia, proficua trattazione
Senza voler aprire la finestra narrativa - e limitandola alla seconda delle "tavole" - si pensi alla connessione implicita o esplicita al dettato dei singoli comandamenti presente nella Lettera al Padre di Kafka (IV);in Se questo è un uomo di Levi (V); nella Lolita di Nabokov (VI); in Fontamara di Silone (VII), ne Gli occhiali d'oro di Bassani (VI - II); nella Sonata a Kreutzer di Tolstòj (IX); in Dal tuo al mio di Verga (X). Al centro di questi scritti c'è in un modo o nell'altro la lettura polemica, la narrazione di una infrazione, la messa in discussione del valore tassativo del comandamento riguardo il furto, l'omicidio, l'impurità, il desiderio insano verso beni appartenenti all'altro e perso- ne che stanno in rapporto con altre.
Sarebbe intrigante esaminare l'elenco composito della pubblicistica teologica relativa ai comandamenti. Avverto soltanto che a scorrerne i titoli (cf. la bibliografia di semplice orientamento, allegata in ordine cronologico) e lasciando fuori i "manuali" - senza considerare gli scritti a carattere divulgativo e catechetico, talora anche simpaticamente dirette a bambini e ragazzi - troviamo presenti anche le donne sin dall'immediato post-Concilio. A scriverne insieme ad Häring (teologo morale) e Vögtle (biblista) è addirittura la teologa tedesca Dorothee Sölle, purtroppo poco tradotta in Italia. La segue qualche anno dopo la biblista Helen Schüngel Straumann e, con congruo lasso di tempo, sr. Joan Chittister, singolare e battagliera benedettina americana. Il che ci allerta su una lettura di "genere" alternativa e intrigante nell'approccio al decalogo. Senza dimenticare, le pagine che lo riguardano nel volume I de La Bibbia delle donne (Claudiana 1996, Torino).
Elencazioni a parte, le ragioni per mettere a tema i comandamenti sono davvero tante. E al dialogo dovuto, ossia all'attenzione a quanti in prospettive diverse li hanno tematizzati, soprattutto nella contestualità del post- moderno, resta per me, nell'intraprendere un cammino, lungo quanto sarà necessario, l'ineludibilità della domanda: che senso hanno per gli uomini e per le donne del nostro tempo le "dieci parole"? Sono davvero parole fondative, originarie, incontrovertibili e inconfutabili nella progettualità dell'umano; nel suo rapportarsi all'alterità che gli è compagna, sia che lo trascenda o appartenga al suo medesimo piano? E a fondarle è l'Alterità trascendente o il reciproco consenso? Detto altrimenti, qual è la soglia liminare tra comandamento e legge naturale; tra legge naturale e diritti umani? Perché la primordialità del non uccidere, non rubare, non mentire, garanzia reciproca di pacifico essere al mondo, di fatto viene messa in discussione e talora negata dalle asimmetrie di genere, prossimità, cultura?
Percorso catechetico
E, più a monte, sono davvero nostri, cristiani dico, i dieci comandamenti? Dobbiamo il ruolo che essi hanno nella vita e nella moralità cristiana alla mediazione di Agostino - anzi, al condizionamento di Agostino. Senza di lui, senza la sua assunzione del decalogo all'interno del percorso catechetico, forse nella tradizione cristiana i dieci comandamenti non li avremmo enfatizzati così tanto, come del resto avviene nella tradizione ebraica. Invece ne abbiamo fatto condizione attuativa (riduttiva?) dell'esistenza cristiana. Da Agostino in poi ce li hanno ripetutamente commentati. Sono entrati nella struttura stessa della Catechesi, sino alla ratifica finale del Catechismo tridentino e poi dello stesso Catechismo della Chiesa cattolica e del Compendio. Generazioni e generazioni li hanno mandati a memoria facendone la magna cartha del proprio dovere verso Dio e verso i propri simili.
Agostino, si sa, è stato quel gran genio che sappiamo. Forse però nel nostro caso la sua attenzione al decalogo è stata un po' "fuori scala". Si noti come nella pubblicistica sui comandamenti ricorrano in alternanza (già nei titoli) i termini legge-libertà; e prossimi, soprattutto a quest'ultimo, i termini amore/gioia/cuore. A pensarci bene, infatti, la comunità cristiana non avrebbe dovuto far propria la “legge”, l'antica legge - sempre che la stessa avesse avuto nella tradizione del primo testamento il senso che noi le abbiamo dato. Piuttosto avrebbe dovuto aver luogo, finalmente, la sua iscrizione non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne dei nostri cuori (cf 2Cor 3,3b), compiutezza attesa di nuova e definitiva alleanza (cf Ez 36,26).
A ciò si aggiunga la difficoltà di ritrovare le dieci parole nel Nuovo Testamento. Mentre è evidente il registro della nuova legge dell'amore nella sua doppia scansione verso Dio e verso il prossimo. Certo troveremo nel Nuovo Testamento la condanna dell'omicidio, dell'adulterio, dell'impudicizia, del furto, dell'idolatria, ma non in connessione immediata ed esplicita con le dieci parole della tradizione ebraica, giunteci per altro nella doppia e diversa articolazione di Es 20,2-17 e di Dt 5,6-21. Cose tutte su cui torneremo nei numeri successivi. Ci preme, però, in questa ricognizione introduttiva offrire la chiave, ambiziosa per altro, del nostro progetto. Vorremmo, infatti, sì accostare i comandamenti nella direzione obbligata del "ri-dire la fede".
Recepire oggi il decalogo
Facendolo, però, vorremmo colmare l'incongruenza che l'attenzione al decalogo, meglio che la collocazione del decalogo, nella tradizione dei catechismi ha comportato. Si prenda il Catechismo della Chiesa cattolica. Nell'architettura dell'opera siamo alla parte III: "La vita in Cristo". La sezione I è coerente alla titolatura. Non altrettanto la sezione II, quella appunto dei comandamenti. Recepire il decalogo, sia pure con gli adattamenti di cui daremo ragione, inevitabilmente riconduce alla legge antica. In qualche modo così viene meno la dialettica: «... vi è stato detto, ma io vi dico...» (cf Mt 5,21-22). Che cosa guadagniamo oggi nel recepire e collocare a questo punto dell'architettura del discorso di fede i dieci comandamenti?
Nella vita in Cristo, nel percorso che ci riconduce per il Figlio e nello Spirito al Padre è il comandamento a fare la differenza? Come esso rende plausibile, come promuove il percorso che dall'immagine donata, costitutivamente donata, ci conduce alla somiglianza? Che cosa infatti è la vita in Cristo se non il conformarsi a lui immagine del Padre, nell'umanità assunta compiutezza piena e archetipale del nostro tradurre in somiglianza il dono originario dell'immagine? E’ questione di comandamento, di legge, o non piuttosto di incontro, di dialogo, di "alleanza" nel senso forte del farsi a noi prossimo di Dio sicché possiamo diventare come lui?
Cettina Militello
(da Vita Pastorale, n. 1, gennaio 2011)