Formazione Religiosa

Domenica, 21 Ottobre 2012 16:52

Una vita buona onora Dio (Cettina Militello)

Vota questo articolo
(1 Vota)

Rilettura dei dieci comandamenti. Il termine “invano” connota quotidianamente il senso e lo spessore del secondo comandamento; è porsi con leggerezza il nodo della crisi che oggi viviamo, rifiutarsi di discernere e progettare.

Altri, professionalmente adusi alle Sante Scritture, hanno ragionato linguisticamente e teologicamente sul termine "invano" che connota qualitativamente il senso e lo spessore del secondo comandamento. Cosa vuol dire "invano"? Facciamo presto, senza ricorrere a lessici e vocabolari sofisticati, a dire che l'avverbio vuol dire inutilmente, a vuoto, senza effetto o profitto. Il che, al contrario, fa supporre che sia possibile - o si debba - nominare Dio in modo utile, compiuto, con congruo effetto o profitto.

L'utilità, l'efficacia, il valore del nominarlo li abbiamo elencati nella dialettica relazionale del vocare. E a quanto detto aggiungiamo, ma anche questo in qualche modo è sotteso al nostro dire, che il Dio chiamato per nome non ci è estraneo, ma permea efficacemente la nostra vita e la nostra storia. Ora l'attenzione necessariamente si sposta sulla inutilità, vacuità e inefficacia sottese alla sua nominazione. In altre parole, «non nominare il nome di Dio invano» si riferisce all'uso improprio che si fa del suo nome. Improprietà che svuota di senso la stessa potenza del nome, rendendola vana e improduttiva.

Siamo ossessionati e condizionati dal nome di Dio, nel senso che, sotto ogni flessione, colta o incolta, religiosa o miscredente del suo nome facciamo utile bandiera, facile pretesto per un capovolgimento di senso che rende evanescente Dio e il suo potere e lentamente e subdolamente sostituisce a lui la nostra volontà di potenza. Il nodo rimane sempre lo stesso: farsi dèi, sostituirsi a Dio; intraprendere le proprie meschine battaglie dando ad esse il vigore, l’efficacia, il profitto, originariamente sottesi al nome di Dio e al suo rivelarsi.

Quante guerre – anche in tempi recenti -, quanti morti, quante ingiustizie, quante prevaricazioni! Si fa presto a imputarle agli altri, a dire, ad esempio, che l'orrore dell'l l settembre (è ricorso il decimo anniversario) è maggiore per il fatto che lo ha animato la pretesa di agire nel nome di Dio. Ma quale gruppo umano, in quale momento della storia sua o dell'umanità, può dirsi esente dalla pretesa d'avere Dio dalla sua parte e d'intraprendere nel suo nome il proprio disegno egemonico?

Si pensi al motto hitleriano Gott mit uns. E, senza le ambiguità neopagane del nazismo e d'altre ideologie affini, al "Dio lo vuole!" che ha accompagnato le crociate (senza dimenticare la domanda: "Cosa vuole Dio?", posta al riguardo da Pietro di Cluny, promotore della traduzione del Talmud e del Corano).

Le nostre responsabilità

I fondamentalismi ci ripugnano. Si fa bella figura prenderne le distanze. Ma, a ben pensarci, guardiamo sempre gli altri. Sono gli altri i “talebani”. Noi no. Sono gli altri i terroristi. Noi no. Sono gli altri gli infedeli. Noi no. Ebbene, occorre procedere diversamente, riconoscere le proprie responsabilità. Riconoscere che da cristiani ci si è comportati allo stesso modo degli ebrei, dei musulmani, dei fanatici di ogni credo, prossimo o lontano. Ci sconvolge l'idea di una guerra santa. Ma quante ne abbiamo combattute da quando il segno della croce ha ornato il labaro imperiale (a breve ne celebreremo la ricorrenza)? Quante guerre sante ancora combattiamo? In verità dietro l'idea della giusta causa, del nome di Dio che onoriamo, c'è ancora una volta il peccato d'idolatria.

Ribaltiamo la creazione a immagine di Dio e ci facciamo un Dio a nostra immagine. Difendiamo il nostro interesse, il nostro profitto, le nostre verità, e non "invano", ma proficuamente, utilitaristicamente. Abbiamo trasformato l'emblema di un Dio fattosi nostro compagno, nell'umiliazione del dolore e della morte, in pretesto aggressivo per disattenderne e renderne vano il messaggio. Paolo di Tarso, in una stagione di cristianità incipiente, aveva additato la potenza unificante, efficacemente rappacificante, dell'essere uno in Cristo Signore. Il che avrebbe dovuto sciogliere le contraddizioni e gli antagonismi culturali, sociali, di genere, di quelli, appunto, divenuti cristiani.

Credo che l"'invano", la scelta vanificante del nome di Dio, quale ci è stato rivelato in Gesù Cristo, corra proprio nell'incapacità di operare la svolta coerente che manifesta il valore costruttivo e reciproco della varietà umana. Schiavi e liberi, ebrei e pagani, uomini e donne, ormai al di fuori della perversa comprensione di steccati culturali, sociali, sessuali, sbandierati in nome di Dio. Cristiani, innanzitutto. E perciò capaci di guardare alla realtà tutta con ottimismo e speranza. Capaci di dare il giusto valore alla storia. Capaci di giudizio e cioè di contagiosa esperienza testimoniale della salvezza.

Eppure, da cristiani abbiamo seguitato a fare schiavi i nostri simili; da cristiani ci siamo considerati superiori ad ogni altra cultura; da cristiani abbiamo ritenuto di rispettare il disegno del principio negando le donne nella loro dignità di persone. Di più, da cristiani abbiamo scelto una scansione oppositiva, discriminante, al cui interno sempre ci fossero despoti e sudditi. Siamo cresciuti nella criteriologia del diverso-inferiore da contrapporre all'autentico-superiore. E, secolo dopo secolo, esperienza dopo esperienza, ci siamo trascinati un fardello di disprezzo, di incomunicabilità, di intollerante alterigia che di volta in volta ha avuto come destinatari gli altri, lontani, certo, ma anche i prossimi e vicini, segnati dallo stesso crisma, riconciliati dalla stessa croce.

L'erosione del nome di Dio

È chiaro che il modello ci è sfuggito dalle mani, al punto tale che la nominazione di Dio sembra retaggio degli atei devoti, mentre deliri di onnipotenza politica sembrano prerogativa degli addetti al sacro. Dinanzi alla dissoluzione dell'ethos nazionale, dinanzi agli scandali crescenti che testimoniano un uso disinvolto delle proprie "risorse" (corpo, furbizia, debiti persino) non ci resta che costatare quanto siamo stati buoni maestri nell'erosione del nome di Dio, nella vana vacuità del ricorrervi, fuori da ogni autentica progettualità cristiana, ma a beneficio totale del nostro piccolo (grande) interesse. Ci bastano le folle (in verità, sempre più contenute). Ci bastano le profferte di vantaggi che non sempre poi trovano attuazione. Ci basta l'assicurazione che gli assetti, le sfere di reciproca considerazione non muteranno. In cambio, ecco il nostro appoggio, la nostra connivenza.

Si può in nome di Dio rifiutare l'accoglienza? Si può in nome di Dio accettare la compravendita del corpo altrui? Si può in nome di Dio dare a intendere che è possibile comprare ogni cosa? Si può in nome di Dio violare ogni legge e dare a intendere che ciò è giusto, dovuto, meritorio? Si può mai accettare che il vizio, la depravazione suscitino ammirazione e consenso, emulazione addirittura? La questione morale, tristemente alla ribalta, pone certo la questione della casta, anzi delle caste. E, francamente, mutino pure il nome, nulla cambia nello stolto ricorrere al nome di Dio per avallare privilegi o impunità.

Ma, a livello ecclesiale, dove le caste non mancano, e ben oltre la distinzione socio logica di chierici, laici, religiosi/e, la connivenza con tutto ciò che consente la permanenza di un proprio privilegio, rovinosamente svuota il nome stesso di Dio. Nominarlo "invano", appellare "invano" al suo volere, al suo disegno, alla sua circoscritta benevolenza, svuota di senso l'esserci nella storia delle comunità cristiane, ormai quasi allo sbando e alla deriva.

Nominare il nome di Dio invano è porsi con leggerezza il nodo della crisi che viviamo; rifiutare di mettersi dalla parte degli oppressi; rifiutarsi di discerne e progettare. Nominare invano il nome di Dio e tirare a campare, come 'se dall'alto prima o poi dovessero venire soluzioni, iscritte invece nella responsabilità nostra di cristiani d'oggi. Ministri e ministeri a servizio della comunione; Chiese in reciproca relazione; pastori adeguati e non invisi al proprio gregge; uomini e donne compartecipi dell'originaria responsabilità battesimale. Chiese in cammino, in sinodalità permanente, capaci di condotta critica, capaci di sciogliere connivenze perverse, capaci di annunziare con efficacia, utilità, profitto il nome ineffabile di un Dio di misericordia.

Cettina Militello 

(da Vita Pastorale, anno 2011, n. 10, p. 64)

 

Letto 2350 volte Ultima modifica il Lunedì, 22 Ottobre 2012 09:06
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search