Non credo di rappresentare un caso eccezionale se dico di non aver mai avuto alcun dubbio sull’esistenza di Dio. Tale dubbio equivarrebbe per me ad accettare che il cosmo che abitiamo manchi di senso. Questa tentazione non mi ha mai assalito e di conseguenza non ho mai potuto cedere ad essa. Il senso del mondo e della sua storia è il rovescio dell’esistenza di Dio. Non ho dubitato neppure in quei momenti bui in cui sembra che si tocchi la mostruosità del male o ci si sente sprofondare nello sconforto e nel dolore. L’idea di Dio coincide con il risveglio della mia coscienza ed è come il libro bianco in cui si è venuta scrivendo la mia vita. Credo che sia una fortuna, perché avrebbe potuto benissimo non essere così. Per questo non mi viene da attribuire merito alcuno a questa realtà, non più che alla certezza che poi spunterà l’alba. In un certo senso, la convinzione che Dio esiste mi appare come la trama del tessuto della mia vita, per quanto sia chiaro che la mia "idea" di Dio non sia oggi quella della mia prima comunione.
La convinzione che Dio sia una realtà malgrado non sia un’evidenza mi appare così spontanea che non saprei dire in che modo potrebbe svanire. Non credo che possa accadere a causa delle trappole della ragione perché questa, al contrario, mi è stata di grande aiuto.
Dio mi appare tanto ovvio che, mentre si sono dissipate nella mia vita tante vecchie credenze, anche religiose, qualcuno potrebbe domandarmi: ma che è Dio per te? La domanda è maliziosa, perché Dio potrebbe essere benissimo un modello innato dell’intelligenza o un’abitudine del pensiero, senza che la mia vita debba girare intorno a lui. Ma qualcosa mi risulta chiaro: se Dio smettesse di essere un valore esistenziale per restare un’astrazione, allora sì che la mia fede sarebbe in pericolo. In definitiva, quando si agisce al margine di quello che si pensa, si finisce per pensare come si agisce.
Che è Dio per me o, più prudentemente, che intendo io per Dio? Certamente non è un’astrazione. Se qualche volta lo è stato, non lo è senza dubbio oggi, da quando, un certo giorno dell’estate del 1985, piansi nel rendermi conto di quanto tempo avevo perso prima di scoprire la sua vicinanza quasi sconvolgente. Quel giorno sentii con luminosa chiarezza che da quel momento in poi sarebbe stato l’Imprescindibile. Non ripercorrerò la presenza di Dio nella mia storia per quanto il dato esperienziale sia l’unico decisivo. Però, non smettendo di lavorare intorno a quello che chiamo nuovo paradigma, qualcosa dovrò dire di Dio come chiave di volta della mia cosmovisione. Tanto più che, in quanto cristiano, la mia fede in Dio, in Dio Padre-Madre, è l’unica fede su cui poggia tutto il resto. Oltre a questa, non trovo base alcuna per nessun’altra fede basata su una qualunque autorità, come avviene generalmente ai cristiani in virtù della presunta rivelazione storica di Dio. Il salto verso la Trascendenza a partire dalla capacità di pensare, dono fondamentale di Dio, è l’unico atto di fede propriamente detto che riconosco senza dubbio alcuno. Con il che, naturalmente, non ridimensiono l’accompagnamento nella mia vita di tante testimonianze vitali di uomini e donne esplicitamente o anonimamente credenti. La mia fede è così molto semplificata: Dio e la costruzione di quest’altro mondo possibile che Gesù chiamava Regno.
"Solo Dio basta"
Dopo più di mezzo secolo di navigazione sicura per coste e porti teologici di diverso tipo, ho dovuto cominciare di nuovo: quello che avevo studiato era una rotta sbagliata, ma almeno mi era servita per rendermi conto della spessa rete di aporie che venivano meno. Ho riannodato la riflessione con la massima cura e la massima precauzione: dovevo migliorare i metodi e fare attenzione a certi crocevia ingannevoli. Sono stati anni persi? Non è mai tempo perso smontare una tettoia e avvisare altri che, alla lunga, hanno detto di essersi sentiti ugualmente liberati.
1. È tanto quello che sappiamo di Dio?
Oggi non è una novità intendere il Dio oggetto di conoscenza come un paradosso. Se si ascoltano coloro che sembrano più addentro nella conoscenza di Dio per essergli più vicini, i mistici di qualunque religione o spiritualità, si osserva in essi un elemento comune quando parlano della conoscenza di Dio. Essi concordano insistentemente sul fatto che è Indicibile. Quando cercano di esprimere a balbettii, per quanto possano essere rinomati teologi, quello che sperimentano di una realtà che risulta loro tanto sfuggente, sembra come se, quanto più l’affrontano e la vivono da vicino, tanto meno trovano le parole. Sarebbe quasi più esatto dire che concetti e parole risultano loro di eccesso.
Tale comportamento gli eruditi lo hanno chiamato apofatismo, per sottolineare che Dio è indicibile. E per dire qualcosa di Dio ricorrono alla poesia o al simbolismo. È la cosiddetta teologia negativa, nel senso – e questo è di somma importanza – che di Dio è più giusto dire quello che non è piuttosto che quello che è.
All’altro estremo, quello così occidentale della hybris chiacchierona su Dio, tonnellate di libri sono state pubblicate sul tema: la sua struttura interna o ad intra (tre persone e una natura), i suoi attributi, la sua attività esterna o ad extra, i suoi portentosi interventi nella storia degli esseri umani, la sua speciale attenzione verso l’unico popolo eletto in milioni di anni, le sue incessanti rivelazioni e il loro totale venir meno con l’evento Gesù, la privilegiata istituzione scelta per prolungare la sua testimonianza, la permanente attività sacramentale e non sacramentale del suo Spirito… Ho vissuto immerso in questa cosmovisione, impregnato di essa. Dio era quasi giunto ad essere l’attore più noto della storia e il suo nome così invocato da diventare imprescindibile, attraverso giaculatoria o blasfemia, per sottolineare qualunque fatto o stato d’animo di un minimo rilievo.
Cosa fare tra il Dio familiare e quotidiano e quello che non si può nominare? Riconosco che mi meravigliò la prima menzione che udii dell’apofatismo, del Dio ineffabile. Abituato a sentir dire "parola di Dio" migliaia di volte nella liturgia cristiana, come si poteva sostenere che di Dio non sapevamo nulla?
Ah, la Parola di Dio! Non solo la mia cultura era un balbettio di allusioni a Dio, ma io mi ero formato nella convinzione che, se qualcosa era certo, era la presenza invasiva di Dio nel mondo. Paradossalmente oggi penso la stessa cosa… e tutto il contrario.
Perché Dio aveva parlato in maniera esaustiva in molteplici occasioni. La sua conoscenza era inesauribile.
Per intendere quello che aveva detto Dio dovetti studiare tre anni di filosofia, oltre al latino, al greco e all’ebraico. E poi, a cavallo tra l’Africa e Roma, sette lunghi anni consacrati alla scienza che tratta di Dio, la Teo-logia. Con il che si supponeva che, senza conoscere altre culture o saperi, io fossi un esperto di Dio e avessi competenze in abbondanza per insegnare a chiunque, compito a cui, certamente, mi destinarono.
La grande scoperta di quegli anni fu che la teologia più che di verità teoriche si occupava della "storia della salvezza" di cui Dio stesso era il principale artefice.
Io ero entrato completamente nel gioco. Per il resto, una volta stabilito nettamente che Dio era un Mistero, chi si poteva opporre a lasciarsi letteralmente assorbire dagli esperti del mistero, dall’autorità dei dottori e dei gerarchi eletti per gestire questa spessa trama di concetti, definizioni, assiomi, astrazioni, asserzioni nette, raffinate elucubrazioni, prove di ogni genere, dogmi, riti meticolosi, leggi, minuziosi precetti, canoni, sacramenti, strutture ecclesiali piramidali, ecc.? Entrai a tal punto nel gioco da arrivare a chiedere all’ambasciata spagnola dei documenti in cui l’illustre cardinale del Sant’Uffizio Ottaviani, sul tema della libertà religiosa e delle relazioni Chiesa-Stato, presentava il caso spagnolo come paradigmatico. Per tutti i Cieli, che buon Torquemada si è perso la Chiesa per non avere io seguito questo cammino! Ma terrò a bada i miei ricordi e sintetizzerò.
2. Pensando con la mia testa
Tutto questo andò in crisi… al primo conato di indagine personale. Il primo riguardò la "salvezza degli infedeli". Malgrado mi stessi preparando come missionario, non abbandonai questo tema finché non scoprii dei margini nel magistero per un’interpretazione più magnanima dello status dei poveri infedeli che, anche qualora non fossi giunto in tempo, si stavano salvando in mille modi. E così con vari altri temi.
Il colpo di grazia alle mie sicurezze dogmatiche mi giunse dalla storia, quella dei dogmi e quella della Chiesa. Quest’ultima assestò un colpo decisivo alla credibilità istituzionale e magisteriale. La storia dei manuali (quella che oggi conosce anche il popolo) era un grosso inganno e uno sfacciato tirar l’acqua al proprio mulino, come nella storia di Spagna della dittatura. Insieme alla storia arrivarono le mie prime scoperte bibliche. Dio attore della storia? Soprattutto nell’Antico Testamento, tanto "ispirato" come il Nuovo, c’era da faticare per scoprire un Dio buono in mezzo a lotte tribali, intrighi di palazzo, sanguinose stragi, cumuli di tradimenti e inganni, abusi di potere, persecuzione di profeti, alleanze con imperi, accumulazione clericale di denaro e prestigio, mezze verità o verità contraddittorie, trappole legali e un interminabile eccetera. Se Dio era l’attore principale, non è che avesse avuto molto successo. La Bibbia, oltre a non essere storia, teneva ben poco di sacro. Con la storia della Chiesa, dei dogmi come della nuova ermeneutica biblica, si demistificò del tutto la mia immagine della mia religione.
3. "Solo Dio basta"
Relativizzate le mie credenze in tanti campi, la mia cosmovisione religiosa faceva acqua da tutte le parti. Dio, malgrado ciò, restava intatto. Lo scoprii più che mai come la mia rocca. Sì, non so se contro ogni logica. Dio si era mosso poco dal suo posto centrale e assoluto. Attenzione al razionalismo!, ci mettevano in guardia i pastori. Ma io scoprivo che, quanto più acquistavo spirito critico, tanto più salda era la mia fede in Dio. La stessa scienza mi aiutava esigendo da me che non confondessi piani e rispettassi i metodi. In ogni caso, Dio e Gesù formavano nel mio cuore un tandem indiscutibile, mai messo in dubbio per quanto la teologia tradizionale ostacolasse l’articolazione tra i due. Quello che non mi quadrava più era che Dio si fosse rivelato in maniera tanto completa solo ai cristiani, e in grado, misura e chiarezza tanto privilegiati. Perché se Dio era un Mistero, il caso del mistero di Gesù non è che chiarisse le cose. Non mi preoccupò neppure eccessivamente. Per dirlo in breve: se mi cancellassero dalla collina vaticana tutti gli edifici, la basilica, i giardini, le piazze, i musei, i dicasteri, le biblioteche, le encicliche, i palazzi, il papa, i cardinali e i monsignori… apparirebbe allora salda e granitica la rocca di Gesù e del Dio della mia infanzia. Ma assai arduo e delicato era il compito che mi aspettava: ritessere l’intero mantello dall’altro estremo e con altri fili. Per quanto nell’esperienza spirituale di Dio dell' ‘85 il Maestro di Galilea non fosse stato presente, la sua portentosa grandezza mi conquistò quando la scoprii tanto semplice, umana, coerente e sovversiva: grazie alla Teologia della Liberazione, e malgrado le manovre dei grandi concili cristologici e le insostenibili elucubrazioni dell’indigesta scolastica. Senza sapere ancora come equilibrare o superare le contraddizioni, quello che percepivo era che la testimonianza forte di Gesù fosse una costruzione di granito in attesa solo di una ripulitura. E quello che mi si imponeva nettamente era che l’unico Dio era alla portata di tutti gli esseri umani e che, per fare in modo che lo raggiungessimo, ci aveva dotato, in maniera fiduciosa, della bella capacità di pensare, commuoverci ed amare. La nostra mente poteva dare ancora molto. Da dove cominciare? Subito pensai (grazie, naturalmente, a Vigil): bisognerà cominciare da quello che è comune a tutti gli esseri umani, dal Dio buono del Tao, del Budda, di Abramo, di Gesù, di Maometto, del Mahatma Gandhi, di Oscar Romero... E utilizzando ugualmente lo strumento comune a tutto il mondo, la capacità di pensare, in un processo logico caratterizzato da una mente aperta a tutte le verità e a tutti i testimoni, e con i piedi saldamente piantati sulla madre terra, nelle sue realtà più semplici, dai prati e dagli uccelli fino al cervello del mio nipotino che scopre parole nuove: portenti, tutti, che rivelano Dio. Senza interrompere la contemplazione interiore che assapora il silenzio e la profondità delle cose, faremo un esercizio di ascesi interiore, attenendoci a ciò che vi è di più profondo nella capacità di pensare: le grandi domande sul mondo e su noi stessi.
4. La realtà, unico cammino
Non sento la necessità di arrivare lontano come Cartesio. Non dubito dell’esistenza delle realtà che mi circondano né di una sufficiente capacità da parte dell’essere umano di conoscerle. Anzi, solo dall’ampio contesto di quanto circonda la mia esistenza posso partire per scoprire qualcosa su Dio. Non conosco cioè nessun’altra base che mi dia accesso a lui, se esiste. Per questo mi vedo costretto a interrogare le cose sulla loro origine e sul loro senso. Se non mi sbaglio, tali domande sono di sempre e non pregiudicano la risposta. Penso anzi che le realtà che ci circondano possano condurci a Dio o bloccarci il cammino se le trattiamo come idoli. Ma esse continuano a stare lì con le loro domande e ad un certo punto della nostra vita ci arriva il loro invito al dialogo: cosa ci aspettiamo da loro? Forse solo la soddisfazione di un momento? Forse la felicità totale? Il disincanto non tarda ad arrivare. Può essere che il loro compito sia questo: non poter colmare la nostra necessità di felicità senza limiti. Può essere che il loro ruolo sia più modesto: indurci a interrogarci sul senso. Hanno un senso? E noi? Abbiamo un senso o camminiamo senza direzione? La risposta non è ovvia. Forse la maggioranza non si fa alcuna domanda o si rassegna all’assenza di risposta. Ogni essere umano è un mistero. E quel che è certo è che non scarseggiano quanti, in un momento della loro esistenza, si sentono spinti a fermarsi e a prestare orecchio a interrogativi profondi e persistenti. Perché stiamo qui? È evidente che non è una domanda fittizia quella che si ripete una volta e una volta ancora, in un modo o in un altro, nel corso del tempo, in tutte le letterature. Rispetto la risposta che proclama il nonsenso e l’assurdo. Ma decisamente non è la mia.
Decisamente non è mai stata la mia. Lo stesso dico della mia fede nell’esistenza di Dio. Sono realtà complici, penso io, quella di credere in Dio e di credere nelle cose. Ed è coerente che così sia. Perché credo che le cose e io stesso "non stiamo semplicemente lì" né che i nostri aneliti profondi siano una "passione inutile"; per questo non mi è mai passato per la mente che Dio sia oltre l’orizzonte vitale.
Di Dio sappiamo appena qualcosa. Neppure abbiamo la certezza che abbia parlato a qualche profeta per dissipare le nostre tenebre. Ma un fatto sembra imporsi: tutte le culture assicurano che, se le cose sono spesso ostili, sono anche nostre complici lungo il cammino e ci parlano di Dio. Nessuna voce di nessun profeta mi darebbe più certezza di quella della mia propria facoltà di pensare e di sentire. E per questo mi ha sempre incantato Francesco d’Assisi che colpiva soavemente i fiori lamentandosi che parlavano troppo forte.
La domanda è stata formulata mille volte: poteva non esistere quanto esiste? Esiste questo mondo per necessità? Racchiude nelle ultime pieghe del suo essere la necessità di esistere o potendo non esistere punta il suo essere contingente a Qualcosa o Qualcuno più in là di se stesso? È il cosmo una realtà incurvata su se stessa, precaria e chiusa? Il nostro spirito è condannato alla precarietà e ad un’eterna insoddisfazione? E in una prospettiva anche più radicale: quando l’ostilità cosmica si scatena e, soprattutto, quando al povero ed emarginato si sottraggono il pane e la vita stessa, la fatalità inerte degli elementi o la malvagità cosciente del carnefice solo umano avranno l’ultima parola? Miriadi di poveri esseri umani che in milioni di anni di storia hanno sofferto crudeli dolori renderanno vera la blasfemia di un definitivo e disperato "Padre, perché mi hai abbandonato?". Viviamo realmente una storia crudele ed assurda?
Nessuno può dare risposta a tali interrogativi con l’evidenza di una luce accecante. È possibile tanto la risposta del nonsenso quanto quella del senso. Anche se per me la seconda è più dinamica. Per fortuna, sembrano costituire una legione coloro che scommettono sul senso e la trascendenza dell’empirico. Nonostante ciò, la cosa più decisiva sarà sempre l’impegno efficace affinché la speranza di salvezza si faccia carne e sangue nei più carenti di pane e di amore.
Nessuno avrà difficoltà ad intuire che il datore di senso e di speranza lo abbiamo chiamato Dio. Sapremo poco di lui, ma la sua semplice presenza assente o taciuta illumina la realtà intera di un mondo che senza di lui sarebbe una nave senza destinazione.
Juan Luis Herrero del Pozo
(tratto da Adista Documenti n. 36, 2008)