Ma è proprio vero
che Dio abiterà sulla terra?
Ecco, i cieli e i cieli dei cieli
non ti possono contenere,
quanto meno questa casa
che ti ho costruito.
1 Re 8, 27
1. ACCOGLIENZA NEI “NON-LUOGHI”
1.1 l’ambito della ricerca e le dimensioni del problema
La presente ricerca concerne una ricognizione sui luoghi appositamente predisposti per essere offerti alla meditazione e alla preghiera di persone diversamente credenti. Si tratta di edifici o ambienti che, proprio a prescindere da una specifica qualificazione religiosa, vengono collocati sempre più frequentemente in luoghi “profani”, nei “non-luoghi” dei viaggi, degli affari, delle cure mediche, in (non)luoghi cioè dove si passa, si transita e solo per caso si sosta (stazioni, autogrill, aeroporti…) o dove si è costretti a fermarsi (ospedali, cliniche, camere del cordoglio…) in condizioni soggettive particolari.
Per affrontare questo oggetto di studio, le cui caratteristiche insolite e ancora scarsamente acquisite dal senso comune si riflettono anche nella incertezza delle denominazioni (sale del silenzio, sedi del culto condiviso, eremi in città, cappelle inter-religiose), ritengo opportuno indagarne brevemente la pertinenza in relazione alla tematica del dialogo inter-religioso, area su cui ho in questi anni focalizzato il mio studio. E la connessione può, secondo me, essere trovata nella accezione più vasta e generale possibile di “dialogo”, così inclusiva da risultare problematica nei suoi confini, come è del resto attuale peculiarità di tutta questa materia.
Non è infatti né in senso stretto nè in senso lato dialogo tra uomini di fede diversa l’evento dell’alternarsi o dell’accostarsi nello stesso spazio fisico predisposto, trovandovi, identiche per tutti, le condizioni esterne per una esperienza interiore che ha come marca peculiare proprio il silenzio, l’assenza di rito e quindi di legame e di riconoscimento comunitario.. Ma come non riconoscere nella scelta dell’offrire questa opportunità proprio nei luoghi più… profani, amorfi: quelli delle più comuni necessità quotidiane, una volontà di custodire e garantire, in pieno rispetto delle differenze, la dimensione contemplativa, la rottura del banale, la sospensione, lo stupore, che sono tra le condizioni più profonde di quell’ascolto che può rendere autentico il dialogo?
A valle, poi, della esperienza dell’incontro inter-religioso, che qui resta una pura potenzialità, essendo la fruizione di questi luoghi strettamente individuale, credo si collochi, anche in termini di conquista culturale, non già il confronto tra verità affermate e vissute, né una eventuale reciproca contaminazione avviata a esiti sincretici, ma l’accettazione accogliente della incommensurabilità delle fedi, che mentalmente si esprime in un buon vicinato, in una forma sommessa di cordiale pluralismo: in questo stare fisicamente appresso senza disturbarsi, rispettandosi, disturbando semmai solo le proprie pretese di affermare verità.
La scarsa ed eterogenea documentazione che ho finora rinvenuto ha dato alla mia ricerca un ritmo rapsodico e un po’ casuale, limitandola alla ricognizione di esemplari in Italia settentrionale e in Svizzera, pur facendo riferimento come a suoi “fondamentali”, alla “stanza del silenzio” voluta da Dag Hammarskjoeld nel palazzo dell’ONU a NewYork, e alla Rothko Chapel di Houston, esempio di alta ricerca estetica ed episodio saliente dell’arte contemporanea. Ho visitato quindi gli spazi di cui avevo conosciuto l’esistenza attraverso la pubblicistica relativa, che li presenta univocamente come esempi di sobria e concreta assunzione delle condizioni di pluralismo culturale, o meglio, di multiculturalismo realizzato sul piano religioso.
Per quanto attiene alle esperienze lombarde (luoghi di silenzio o di cordoglio in 3 nuovi ospedali) ho riportato nel complesso impressioni deludenti: non tanto per il loro modesto livello di suggestione estetica, comune per la verità anche agli altri esempi transalpini, ma piuttosto per la percezione di incuria e di abbandono, che quegli ambienti trasmettono, per l’impressione di scarsa informazione circa la loro esistenza ed accessibilità, di conseguenza per la evidente svalorizzazione della proposta: essendo la loro finalità e il loro uso gravati da un contesto indifferente o ostile al loro significato.
La mia esperienza di visita, contatto, conoscenza con analoghi episodi in Svizzera, storicamente più antichi, è stata molto più ricca e mi ha permesso di riflettere, nel confronto tra situazioni analoghe eppur diverse negli esiti, sulle possibili articolazioni del tema di questa ricerca.
Essa si sviluppa con questa scansione:
- una riflessione a monte del fenomeno studiato: in quale cornice di maturazione culturale e di sensibilità secolarizzata si presenta e si accredita un servizio offerto “in termini non precisati a oranti non precisati”
- una ricognizione degli esempi individuati, approfondita su alcuni di essi, particolarmente significativi, accompagnata dalla formulazione di domande e dubbi relativi
- una esplorazione teorica delle possibilità e dei vincoli concreti che reggerebbero una progettazione ex-novo di una “sala del silenzio”
- alcune considerazioni conclusive, incluso un breve glossario relativo ad alcuni concetti suscettibili di comprensione ambigua o fuorviante.
1.2 Prima riflessione generale sul fenomeno
La domanda banale (come mai proprio ora, XXI secolo, e proprio qui, grandi città occidentali dell’ecumene cristiana) non può essere risolta con una risposta altrettanto banale, la seguente. La globalizzazione che ha interessato il Nord del mondo con ondate migratorie imponenti ha reso auspicabili e possibili forme di accoglienza e integrazione multiculturale anche negli spazi e nelle condizioni di praticabilità di culti religiosi diversi; e le chiese cristiane o altri soggetti aperti alle problematiche interculturali hanno proposto queste soluzioni adatte ad ambienti e a istanze diverse.
Una considerazione siffatta riduce e impoverisce lo spessore del problema, che potrebbe invece essere meglio formulato così: l’avanzare delle forme più invasive ed efficaci di secolarizzazione non ha forse indotto paradossalmente tensioni e sensibilità inedite proprio nell’ambito della esperienza religiosa , nei confronti della quale la modernità pare aver guadagnato una sempre più spiccata emancipazione e separazione? In questi termini, l’esistenza di spazi “religiosi” non connotati confessionalmente viene a presentarsi come offerta e insieme istanza per chiunque voglia esplorare il raccoglimento e la solitudine intensa di chi prega o medita o contempla o sogna…; tra questi gli un-churched men, che sembrano ormai essere una maggioranza imponente proprio nelle aree a più solida cristianizzazione. Le chiese, come edifici e come istituzioni, scontano l’eclissi della loro rilevanza anche nelle strutture dello spazio urbanizzato (visibilità – imponenza monumentale – gravitazione di flussi caratterizzanti il tessuto delle città) e del tempo vissuto (le campane - il ritmo dei riti religiosi nella vita quotidiana - le feste e il relativo calendario). Eppure non si può non constatare, in questi ultimi decenni di spiccata crisi della frequentazione religiosa tradizionale, che “Dio è tornato”, torna anzi sempre in maniera diversa, e in luoghi diversi da quelli da cui era stato cacciato. Il religioso, cioè, esercita oggi una attrattiva inversamente proporzionale proprio al suo peso sociale, dando luogo a una galassia di comportamenti, di movimenti, di “meticciati” che in questi ultimi anni sono stati a lungo indagati e interpretati.
Al di là delle contrastanti tesi sostenute dai sociologi sulla qualità e lo spessore delle nuove forme di religiosità (dai movimenti carismatici alle articolazioni varie della new age), resta rilevante agli effetti della mia ricerca il fatto che, nel comportamento religioso che persiste o sussiste dentro le società urbane secolarizzate, si profila un approccio sempre più individuale, soggettivo, spesso anche solitario, svincolato da riti e da consuetudini comunitarie, connotabile come evento silenzioso, privato, sospensione e interruzione del ritmo quotidiano alienante della famiglia e del lavoro. Ecco allora la plausibilità di una presenza come la “stanza del silenzio”, spazio – rifugio che offre raccoglimento e libertà di accesso, svincolato da codifiche confessionali e da statuti di appartenenza.
1.3 Articolazione dell’offerta inter-religiosa
Questa offerta religiosa plurale, potenzialmente concorrenziale, è stata di fatto gestita negli anni e nei luoghi secondo modelli mentali e intenzionalità differenti.
a) Antesignane e di straordinaria efficacia espressiva, perché pensate o realizzate da personalità di alto profilo spirituale, la “stanza del silenzio” al palazzo delle Nazioni Unite a NewYork e la Rothko Chapel a Houston, come ho già detto sopra, vanno considerate esempi non riproducibili, ma riferimenti di base per il vigore e il coraggio delle scelte progettuali e la novità delle forme estetiche; li ho esaminati come casi a sé, misurando semmai il loro potenziale di ispirazione e suggestione in questo ordine di ricerca; infine la più recente “sala de reflexiò” collocata nel 1996 in una cripta della Università Pompeo Favre di Barcellona ad opera dell’artista catalano Antoni Tapies è un suggestivo segnale del diffondersi, pur su scala limitata, di una cultura del silenzio resa in forme evocative di una religiosità ancestrale, ma non idolatrica.
b) Le scelte operate dalle società a più antica e collaudata integrazione multiculturale (vedi gli spazi del culto negli aeroporti di Parigi e di Londra) si sono concretizzate in offerte di ambiti di culto differenziate, distinte e giustapposte, vecchie ormai di qualche decennio: sinagoghe, moschee, cappelle cristiane compresenti, ma affiancate nello spazio pubblico, evidentemente espressivo di neutra tolleranza; oppure in stanze uniche, adibite volta a volta a culti diversi per mezzo di dispositivi luminosi, iconici, musicali, sonori, offerti come opzioni selettive su tastiere collocate all’entrata, riconferma minimalista della esperienza religiosa confessionale e della appartenenza identitaria: oggetti estranei al senso della presente ricerca.
c) Realizzazioni più recenti e più “impegnative”, che risalgono agli ultimi 10 anni circa, sono invece quelle che ho selezionato proprio per questo studio: esse svincolano il target e il luogo da appartenenze, suggeriscono in termini discreti e plurali segni e simboli delle diverse tradizioni, ma puntano sul richiamo della non-iconicità, del silenzio, della facilitazione alla preghiera silenziosa, ma anche all’incontro e alla ospitalità.
d) Il mio attuale interesse di studio su questo modello, non può però tacere di una terza serie di esperienze, paradossalmente più rarefatta e improbabile nel tempo, ma più celebrata e mediaticamente rilevante: l’“insieme per pregare”, cioè la convocazione in Assisi nell’ottobre 1986 dei rappresentanti delle religioni per iniziativa del papa Giovanni Paolo II, reiterato in forma attenuata e poco convinta da Benedetto XVI nel 2006; e, di impostazione analoga, ma in forma non verticistica, bensì partecipata e costruttiva, la sosta per la preghiera inter-religiosa sotto una tenda, simbolo altamente significativo, in occasione di manifestazioni per la pace, o per la commemorazione di grandi eventi dell’umanità o per la denuncia di situazioni storico-politiche di dolorosa attualità. In questo ambito collocherei anche l’esperienza della Bet-Dumia, “casa del silenzio” o Centro Pluralistico Spirituale creato in memoria di Bruno Hassar nel villaggio palestinese di Neve Shalom – Wahat as-Salam, il cui messaggio è ben noto. In tutti questi casi, io credo, il problema di fondo sarebbe sì il pregare “insieme”, ma soprattutto il contenere nel significato della contemplazione orante il ruolo di testimonianza, di rappresentanza, di visibilità mediatica.
e) un caso a parte è rappresentato dalla “funeral house”, tipica istituzione nord-americana che va diffondendosi anche in Europa; (in Italia ne ho censiti approssimativamente 5 esempi): questi edifici, funzionali ai riti delle esequie, che sono sempre più frequentemente connotati da richieste pluriculturali, da sensibilità religiose diverse, o da esplicita aconfessionalità, sorgono per iniziative imprenditoriali private, offrono le condizioni per ritualità funebri specifiche (nel trattamento delle spoglie…), aprono ambienti di dignitosa e raccolta serenità, difficilmente rinunciano a un qualche segnale cristiano, ma utilizzano elementi evocativi tradizionali: decori vegetali e arborei, citazioni poetiche sulle pareti, iconografie raffinate o banali. La loro crescente diffusione attesta il radicarsi della sensibilità religiosa che attiene anche alla tematica della mia ricerca, ma le loro peculiarità meriterebbero una analisi che esula dai limiti di essa.
1.4 Contestualizzazione
Ritorno con una riflessione più estesa sul fenomeno “sale del silenzio” o “chiese – non-chiese”, come mi viene spontaneo definirle, e per ora le vorrei contestualizzare sul versante del loro target implicito, tentando di abbozzare un profilo della domanda e delle condotte caratteristiche di chi si ritiene vi possa accedere, minoranze esigue oggi nella massa anonima che scorre nei non-luoghi.
Si tratta plausibilmente di un fenomeno di nicchia, si tratta, per il numero di persone che le frequentano, appunto, di episodi di “offerta” religiosa dalle dimensioni pressoché irrilevanti, eppure io credo che la ricognizione di queste presenze sia strumento di una certa fecondità per aiutare a sondare e a delineare alcune delle forme nuove della religiosità nelle società tardo-moderne.
Queste “non-chiese” stanno, quasi invisibili, innestate in ambiti riposti e marginali dei non-luoghi, di quei luoghi cioè che nel mondo urbanizzato si definiscono solo per i flussi di circolazione che li attraversano, privi di tratti identitari, di evocazione di memorie, di occasioni e sollecitazioni relazionali, di richiami simbolici di carattere storico o civile o genericamente culturale. La gente, di passaggio, esposta in pieno alla esperienza della mobilità odierna, rapida e senza radici, se li deve andare a cercare, e viene aiutata in genere da una segnaletica discreta e sommessa. Vi accedono di solito in modo sporadico fruitori solitari, silenti, tra loro estranei. Individui che scelgono di collocare lì una sosta, di cercarvi la quiete come di un rifugio tranquillo. Il fenomeno, apparentemente banale, è invece indice di una mutazione culturale: in questi ambienti chi entra intraprende una “preghiera” senza riti, senza supporti per la propria memoria confessionale, senza riferimenti visivi o acustici specifici. Può trattarsi della ricerca curiosa e superficiale di una gratificazione devozionale, o di una intima domanda di consolazione senza pretese. Può trattarsi invece dell’emergere di un “bisogno religioso” tutto privato, soggettivo, che ha definitivamente perduto i richiami comunitari, o sociali, o civili che hanno connotato la più vivaci esperienze cristiane dell’ultimo quarto del secolo scorso, e che viceversa si nutre oggi a pieno titolo delle culture della globalizzazione e della secolarizzazione.
Dalla lezione di Danièlle Hervieu-Leger, di Charles Taylor e di Maurice Gauchet, studiosi che ho trovato rispettosi e ottimisti sulla natura di questi fenomeni, ho appreso a rifiutare la ritrita polarità tra: secolarizzazione come matura emancipazione della laicità dal religioso - secolarizzazione come collasso valoriale e perdita del senso della vita. La religione e la modernità non sono, per questi autori, corpi separati in dialettica, ma aspetti di una varietà di processi che si modellano e si conformano reciprocamente.
………
E tra le manifestazioni già ampiamente studiate del fenomeno religioso nella post-modernità secolarizzata, il dato che qui mi si propone più congruo e fecondo è l’apporto che le culture religiose asiatiche, identificabile con tratti propri pur nel confusivo sincretismo della New Age, hanno messo a disposizione di strati amplissimi delle popolazioni occidentali. La ricerca di momenti di silenzio, ma soprattutto di passività profonda, forse di concentrazione e di contemplazione estatica hanno a che fare con la rarefazione del linguaggio; l’allentarsi e lo stemperarsi delle tracce di imprinting religioso fanno posto all’affidarsi interiore alla esperienza dello svuotamento.
L’esplorazione delle proprie silenziose profondità, che si raggiunge con pazienti training di cui segnatamente il respiro è protagonista, non assomiglia più al dialogo interiore di agostiniana memoria, che in forme diverse nutre la meditazione cristiana; è invece accoglimento del vuoto, che non è il nulla, ma la solida sensazione di appartenenza alla terra e alla corporeità. Dunque le… non-chiese di cui mi occupo credo siano anche modesti contenitori di queste suggestive sensibilità individuali, i cui brevi e spesso semplificati percorsi di scelta personale puntano sulla domanda di benessere, sulla assimilazione pratica di vie per il rafforzamento del sé, sul raggiungimento di un equilibrio emozionale armonioso anche se precario.
Certo, è facile abbracciare le forme di questa religiosità dentro uno sguardo che sfuma le differenze e che fa coincidere pratiche, imprinting, tracce dottrinali molto diverse nell’ottica della pura valorizzazione dei bisogni profondi del soggetto, e che accredita meditazione e preghiera, forse frettolosamente assimilate tra loro, come funzioni psicologiche della liberazione dalle pene e della armonizzazione del sé col tutto. Ma se le non-chiese di cui trattiamo vogliamo leggerle e valorizzarle come possibili ambienti adatti alla preghiera, si tratterà di cogliere la loro potenzialità fisica spaziale simbolica a ospitare anche oranti in dialogo con il loro Dio, a suggerire quindi non solo la quiete il silenzio , ma altresì l’ascolto, la lettura delle “parole” delle fedi, la contemplazione aperta all’incontro con l’assolutamente Altro. Dovrebbe trovarvi posto una sensibilità che rinunci a contare soltanto sulle disciplinate energie interiori di ogni soggetto, ma incoraggi a confidare in un Tu – presenza che si nasconde, a percepirsi in un possibile dialogo che lascia spazio all’annunciarsi di Dio.
Luoghi che si raccomandano come appartati punti di sosta per una varia umanità in ricerca devono poter salvaguardare quanto possibile tale ricerca dalla idolatria, anche nella forma di quel sottile compiacimento che consegue alla attenzione rivolta solo al proprio pregare e meditare.
Alla luce di queste considerazioni mi si profilano allora domande e spunti di attenzione e di osservazione selettiva nei confronti dei diversi esemplari esaminati, e anche delle peculiarità per connotarne altri possibili…
- come il luogo può indurre e valorizzare l’esperienza del silenzio, non solo acustico, ma in senso lato quell’equilibrio percettivo che favorisce l’acquietarsi delle voci interne: con la solennità della soglia, con la lentezza dei percorsi, con il ritmo delle pause e degli intervalli in suoni di sottofondo….
- come arricchire quindi un livello accettabile di silenzio fisico con presenze sonore, brani musicali, recitativi, rumori naturali a frequenze basse….
- come praticare il silenzio visivo, aniconico, eliminando le immagini specifiche delle diverse fedi, ma potenziando una visionarietà che induca autentica fruizione estetica….
- come, più sommariamente , liberare questi ambienti da suggestioni idolatriche ma insieme dalla sciatteria e dalla brutta banalità delle sale d’attesa, conferendo nobiltà e dignità all’entrare in contatto con un Altrove…
- come puntare all’espandere racchiudendo, come svuotare l’immaginario depurandolo con immagini limite…
Fin qui l’attenzione a contestualizzare, in linea di massima, la popolazione di riferimento e a ricavarne poche iniziali indicazioni analitiche. La ricognizione degli esempi selezionati fornisce qui di seguito ulteriore materiali di riflessione e di domanda.
(continua)
Francesca Bianchi
(Si ringrazia l'autrice per aver gentilmente permesso la pubblicazione di questa sua ricerca sulle stanze di silenzio e preghiera interconfessionali).