3. COSA SPERARE E INVENTARE SUL TEMA?
3.1 Progettare per una committenza implicita
Sono ora ad uno snodo: che vuol dire per me prendere una posizione responsabile in questa ricerca?
Puntare sulla paziente ricognizione e sulla relativa riflessione valorizzando in un povero ed esiguo territorio di nicchia il clivaggio verso forme di fede sempre più disperse e isolate nella ambiguità della secolarizzazione?
O ritagliare e indagare, in un contesto specifico, come in un laboratorio mentale, le condizioni per immaginare un luogo di silenzio “esemplare”, soffermandomi sulle risorse e sui vincoli che una progettazione consapevole dovrebbe assumere per poter ospitare fedeltà alla funzione e insieme flessibilità a situazioni diverse?
Optando per questa seconda via, mi espongo a fare i conti con l’idealizzazione del possibile da un lato e la censura mentale che, in termini di realismo, indurrebbe a delineare solo scenari minimalistici. Il progetto non è un “projectum”, un astratto dispositivo capace di staccarsi dal suolo delle condizioni reali, anzi: misurarsi con un compito progettuale significa assumere l’inerzia delle resistenze mentali, degli ostacoli teorici e delle circostanze banali attraverso cui passa un effettivo processo di elaborazione concreta.
La prima resistenza da vincere consiste nel coraggio di riconoscere senso al sorgere di queste non-chiese, collocandone l’esistenza e il valore in un futuro che, per dirla con Rilke, “…entra nei nostri pensieri e vi prende forma prima di accadere…”. E, di seguito, ovviamente, si tratta di vincere lo sconcerto di fondo: chi offrirà, e a chi, l’opportunità di fruire di questi luoghi, per esempio nella concitazione delle città italiane, in contesti sociali e urbanistici senza centro, senza confini identitari e culturali, senza stabili reti relazionali e simboliche? Contesti che sul piano religioso restano ostinatamente connotati dai segni salienti della confessione cattolica…
Se il progettare comporta un inventare rompendo gli schemi della routine, qui una fatica di tal genere impegna prima di tutto i responsabili delle chiese cristiane, quelle tra loro, (difficilmente lo potrà essere la chiesa cattolica) che siano capaci di suscitare interesse attenzione coinvolgimento anche da parte di responsabili di altre religioni e di identità culturali diverse, tradizionali o nuove (buddisti, umanisti, atei…), oltre che di dialogare in termini di collaborazione leale e concreta con le istituzioni pubbliche, spesso mentalmente disponibili, ma frenate nella decisione da vincoli burocratici reali o presunti… Resta chiaro comunque l’assunto di fondo: sono i cristiani in primis che dovrebbero assumere l’onere di far transitare la domanda di interiorità in ambiti di libere e condivise espressioni secolarizzate. E’ infatti la fede cristiana la responsabile e la protagonista più matura per conferire o custodire valore alle istanze spirituali delle società secolarizzate.
Ma, ne sono convinta, è come se in questo caso l’impegno di realizzazione fosse inversamente proporzionale alla entità delle risorse in gioco; si tratterebbe infatti di proporre esiti estremamente modesti dimessi semplificati, ma il cui livello di risonanza espressiva risiederebbe proprio nella sorvegliata povertà delle proporzioni, dei materiali, degli stimoli, giocati solo per risultare di una dimensione e di una portata segnica diversa da quella in cui comunemente viviamo uno spazio, percorriamo un passaggio, sostiamo in un luogo…
Pensata con rigore e messa a punto come svelamento della non-banalità di uno spazio chiuso, della sua luce, delle sue forme, la sala del silenzio deve poter raccontare quanto è possibile eliminare dallo sguardo per liberare concentrazione mentale ed energia psichica. Deve cioè esprimere il “levar via” come leggerezza, il coraggio e la purezza del perdere, l’impossibilità teologica del rappresentare. Questa essenzialità, fatta del primato del pensiero sul peso ridotto e impoverito delle cose, potrebbe incoraggiare soggetti istituzionali distratti e discordi a farsi committenza a poca spesa…
Per chi e quindi dove e come collocare allora il progetto?
Restringo la mia attenzione, anche per assenza di una esperienza più vasta nel merito, a due ambiti dove, mi risulta anche a livello informativo, questa progettazione potrebbe essere oggetto almeno di una esigenza implicita, pur marginale ma potenzialmente generativa di interesse: l’università e il carcere.
Ambiti lontanissimi nella fisionomia funzionale e nei vincoli di fruizione spaziale: massima mobilità il primo, massima costrizione il secondo, essi ospitano entrambi popolazioni denotate da crescente multiculturalità. Mi oriento verso l’ipotesi del progettare per il carcere, anche a partire dalla mia decennale esperienza di volontariato alla casa di reclusione di Milano – San Vittore. Lì la mia familiarità con la biblioteca del “femminile” mi ha permesso nel tempo e nella pazienza dell’ascolto, di raccogliere custodire accompagnare percorsi individuali e di piccolo gruppo di donne capaci di ricostruzione di memorie, di ricomposizione di significati, di concentrazione e chiarificazione interiore.
3.2 Un luogo di pace in carcere
Il carcere, sempre più luogo di “discarica sociale”, è senz’altro oggi in italia il terreno più esposto alle dinamiche della… integrazione, del… dialogo interculturale, fatto quotidianamente di dure prossimità e di legami di ostilità o di curiosità interessata e perspicua tra europei ed extra-europei, tra portatori di forti o vecchie incrostazioni religiose diverse e atei arrabbiati.
Un luogo offerto al bisogno di silenzio e di pace penso d’altronde possa rappresentare nelle case di reclusione un forte segnale di discontinuità nella esperienza quotidiana di chi sta stipato in celle esposto a intimità indesiderate, spesso indesiderabili, frastornato da rumori intensi e sgradevoli, sollecitato e vessato da costrizioni e vincoli che rappresentano il quotidiano carico delle “pene aggiuntive”.
In carcere la domanda di silenzio diventa allora terreno di straordinario interesse e ascolto inter-religioso. Le ormai prevalenti presenze musulmane impongono spesso una visibilità accentuata della loro fede: preghiere frequenti in luoghi ristretti, divieti alimentari, orari del ramadam; ciò sollecita, quando non irrita, i compagni di detenzione a porsi domande, a rinfrescare memorie, a sviluppare confronti e sfide.
Sono peraltro numerose le esperienze, nelle carceri italiane, di aiuto a percorsi di sensibilizzazione culturale offerte da volontari membri di minoranze religiose o da intellettuali motivati al dialogo e attrezzati all’ascolto: mi è stata per anni esempio saliente l’azione del filosofo quacchero Pier Cesare Bori, ordinario all’università di Bologna, che, fino a pochi mesi prima della sua morte, dedicava lunghi incontri settimanali coi detenuti alla lettura di testi delle diverse religioni o ad opere letterarie (Tolstoj, Leopardi,…) momenti sempre connotati da una paziente pedagogia del lungo silenzio e dell’ascolto attivo. In contesti come quello carcerario, anche dove le premesse di cultura diffusa del rispetto e dell’incontro inter-religioso non sono così sviluppate favorevolmente, trovo paradossalmente provocatorio scommettere per la dedicazione di uno spazio, (quanto di risulta o di scarto si può solo immaginare, nell’endemico sovraffollamento delle case di detenzione di buona parte del nostro paese) alla meditazione, alla preghiera, ad esperienze di estasi perfino.
Sì perché trovo consolanti e profetiche, riportandomi ad episodi di autenticità comunicativa ed espressiva di uomini e donne “ristretti”, le riflessioni di Bonhoeffer:
“…Non banalizziamo l’estasi, ma non cadiamo nell’errore di renderla rara, al punto da farla diventare un fatto eccezionale, riservato ad un piccolo numero di ispirati che il popolo dei credenti guarda da lontano, confinato nella propria inadeguatezza... Gli uomini d’oggi sono avvezzi allo straordinario, ma vibrano solo in superficie: occorre cogliere dove e come si affina in loro la nozione di esperienza, e quella di preghiera”
che permettono di correggere, arricchire e approfondire le valutazioni di Cottin:
“le protestant enseigne et agit, il apprend et il met en pratique: mais il ne médite pas…”,
ma soprattutto di Tillich: teologia sistematica IV pp. 155-164, 240 sgg, 270 sgg., (pneumatologia…).
La nostra corporeità abita necessariamente gli spazi e laddove si ragiona e ci si responsabilizza sul fatto che gli spazi ammettono e favoriscono, o tarpano e impediscono, le possibilità di restare o tornare umani, il progetto può trovare condizioni di fattibilità, fermo restando il rischio dell’abbandono, della trascuratezza, dello squallore che vi incombe, una volta realizzato, lì più che altrove.
L’elemento qualificante l’espressività che vi auspico resta la povertà, umile ma reale antidoto alla idolatria. La povertà e la semplicità non sono sinonimi di sciatteria e di squallore: nelle carceri italiane questa è una scommessa durissima. Si tratta di lottare con l’intelligenza dei limiti, con la pazienza delle lunghe ma non inoperose attese, perché la bellezza “avvenga”, una bellezza priva di estetismi e di richiami aggressivi o seduttivi, laddove le cose si lasciano contemplare nella loro alterità essenzialità nudità e rimandino al divino senza lontanamente evocarlo in immagini.
3.3. Povertà e ricchezza di mezzi espressivi
LA LUCE. Scarsa e mal filtrata dalle aperture caratteristiche dell’edificio carcerario, munite di sbarre o barriere come è richiesto dal sito, essa gioca in termini decisivi l’atmosfera dell’interno o restando diffusa, semmai rafforzata da colori chiari e solari di qualche parete riflettente, o penetrando ristretta e orientata da aperture ulteriormente ridotte, come da feritoie, che creano eventi luminosi ridotti e drammatici. L’essenziale è che nell’interno essa sia dispensatrice protagonista di benessere e di concentrazione. Non escluderei che la luminosità, vera responsabile della qualità del luogo, venga riflessa e amplificata da qualche sottile lesena di superficie specchiante: non si tratta solo di aumentarne la potenza radiante, ma di governarla come occasione di sorpresa introspettiva. Entrare in questo luogo per incontrare sé stessi ed esservi provocati attraverso un evento visivo, la silenziosa riscoperta del proprio volto, libro misteriosamente leggibile della propria storia, credo possa farsi dispositivo efficace di un non banale significato (nelle celle gli specchi sono proibiti). Occhi e mani sono di fatto i soli attori in un silenzio offerto con semplicità.
LA SOGLIA. In carcere è una realtà di forte impatto, è uno dei più pesanti vincoli quotidiani: tutto lo spazio di reclusione è un tripudio di cancelli barriere chiavi; gesti e riti di inclusione e di esclusione punteggiano ogni situazione e condizionano le circostanze anche più elementari. Difficile riscattare questo vissuto generalizzato in ognuno dei ristretti; difficile ma suggestiva l’ipotesi di indicare, con la qualità della porta della sala del silenzio, che l’entrarvi si produca non solo come “permesso/divieto”, non solo come spostamento autorizzato, ma come predisposizione emotiva ad attingere un altrove. La cerniera che una soglia rappresenta tra un esterno pesante e rumoroso e un interno di pace va protetta come nodo espressivo di un procedere solo a certe condizioni, ma questa volta solo interiori, verso ciò che interrompe e sorprende. Non penso solo a delle mani che, insolitamente libere, toccano, spingono, spostano, (in ogni altra situazione diurna sono soltanto le guardie che aprono e chiudono) ma anche a degli occhi che si soffermano su immagini o su parole.
Certo, le immagini, escludendo con rigore tutte quelle confessionali, avrebbero un valore solo simbolico, evocativo: penso alle Ninfee di Monet, o ai Campi di grano di VanGogh, per citare due esempi antitetici di incanto o di desolazione, penso all’Urlo di Munch o al Violinista sul tetto di Chagall, per riprendere richiami, di senso opposto, alla domanda di comunicazione. Le parole avrebbero diritto di comparire solo se intensamente poetiche, perché,come osserva il modernista Henri Bremond: “…anche nel più grande dei poeti l’esperienza poetica non si fa preghiera, ma qualche volta tende a diventarlo; per merito dei poeti invece ci succede, paradossalmente proprio di pregare senza difficoltà: strana natura della poesia, non prega ma fa pregare”.
Del resto è Tillich stesso che annota: “se si domandasse ad una persona impressionata dai mosaici di Ravenna o dai dipinti della Sistina o dai ritratti dell’ultimo Rembrandt se la sua esperienza sia religiosa o culturale, troverebbe difficile rispondere a tale domanda…”.
L’ARREDO. Dovrebbe consentire l’emozione della differenza: per una quiete raccolta e silenziosa andrebbero predisposte superfici morbide e sedute comode, mobili, prive di orientamento spaziale definito, atte quindi alla concentrazione solitaria o all’ascolto in gruppo (di letture preghiere musiche); dovrebbe sviluppare una sua “carica segnica” pur nella nudità delle forme e dei richiami. E’ quella che gli esperti chiamano la “doppia scalarità”: mentre infatti la luce filtrata o riflessa, l’assenza di icone, il setting dimesso, i colori smorzati alimentano sensazioni di vaga indefinita apertura, di assenza, di rottura del vissuto routiné indotto dall’ingombro rumoroso e stipato delle celle, la presenza invece di qualche oggetto isolato evocativo, su cui posare lo sguardo e di cui percepire una prossimità familiare e amichevole, può risvegliare significati ed emozioni sommerse, che certo vanno esenti dalla regressione idolatrica di cui si nutrono molte comuni esperienze di religiosità.
Qui ancora, nelle intenzioni, la posta in gioco è la qualità non idolatrica del sito: e più l’ambiente rimanda alla purezza dell’astratto, più si garantisce da funzioni pedestremente didascaliche, da memorie confessionali potenzialmente divisive. Ma questo non vuol dire ignorare, in un’ottica semiotica, che sempre e ovunque la fiamma di un cero, lo zampillo di una fontana, la fioritura di un albero dilatano il mondo dell’interiorità, il distacco dalla frammentazione convulsa del quotidiano, che anzi nutrono una energia mentale libera e leggera. E se in carcere vedo improbabile perché vietata, la presenza del fuoco, nulla impedisce che dell’acqua scorra, cada, circoli in qualche dispositivo , che accompagni col suo suono sommesso l’immagine mentale di un flusso che “…ricolma, ricade, accoglie, dona, fugge, sta…”. O che un modesto terrario ospiti un mandorlo, o un olivo, o un rampicante a fioritura coraggiosa, che si offra alla cura metodica di qualcuno dei ristretti, per presentarsi e restare nel tempo segno di vita e di paziente rinascita.
Mi pare essenziale, per finire, lavorare di immaginazione non evasiva sui caratteri di un luogo “a venire” che, presentandosi come ambito ospitale per la preghiera e la meditazione, parli a ciascuno, a chi in particolare in carcere vive esperienze di deprivazione negatività emarginazione rancore, e parli nel silenzio, con le parole delle tradizioni religiose di ognuno, rendendo possibile con l’aiuto discreto e prudente di chi si fa interprete e ministro di una fede o di una cultura, la riscoperta dignitosa del proprio valore, la ricomposizione di un ordine nel proprio personale caos esistenziale.
La preghiera, in fondo, tra le sue tante motivazioni e forme, da quelle ascetiche a quelle mistico-contemplative, mantiene questo tratto di fondo, l’apertura ad una improbabile e non rappresentabile esperienza di ulteriorità, che da vissuti di paura, di colpa, di domanda, apre ed eleva alla gratuità, alla fiducia, alla lode, alla dimensione del dialogo.
Testi sacri di fedi diverse, materiali audio di qualità dovrebbero supportare le potenzialità di nutrimento spirituale del luogo.
Ho presente il rischio abbastanza serio di micro-conflitti interpersonali nel confronto tra esperienze religiose lontane tra loro, ostili, legate peraltro a vissuti individuali di regressione etica, di rifiuto, di cinismo. Conosco bene tali contesti, ma ho personalmente constatato come l’apertura alla comunicazione delle proprie domande di senso permetta in situazioni anche umanamente poverissime percorsi preziosi di sviluppo di autostima, di consapevolezza del proprio valore e della peculiarità della propria storia, in responsabile lucidità.
Le confessioni cristiane già perseguono un cammino “ecumenico” di incontri annuali di preghiera riconciliata all’interno delle case di reclusione, che spesso hanno a che fare con libere e toccanti testimonianze su testi biblici o liturgici; l’Islam e l’Ebraismo tutelano spesso con forza, anche in detti luoghi di pena, la propria presenza e testimonianza; le altre fedi avrebbero nell’istituzione di spazi inter-religiosi l’occasione per contribuire più esplicitamente a quello che è in fondo l’obiettivo elementare di ogni loro ricerca, l’alimentare momenti di sviluppo di umanità.
(continua)
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