Formazione Religiosa

Venerdì, 23 Ottobre 2015 09:56

Riti e simboli del morire cristiano (Andrea Grillo)

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Viviamo in un tempo e in una cultura che non sa più prendersi cura del morire e del morente. Spesso la morte sopraggiunge in luoghi asettici e spersonalizzanti. La morte è "desocializzata" ed è assente l'elaborazione del lutto. Solo se celebriamo la fede nella vita, sapremo apprezzare i riti delle esequie. Le moderne ritualità "post mortem".

Il progresso bio-tecnologico ha modificato il nostro modo di vivere, ma ha cambiato anche il nostro modo di morire. La "cultura" che circonda lo spegnersi della vita umana ha subìto trasformazioni certamente decisive, ma anche cariche di conseguenze non sempre "progressive". Anzi, in senso stretto, tale progresso ha assolutizzato la "qualità della vita", al punto che spesso non sa più riservare alcuna attenzione alla "qualità della morte".
La morte accade così o nella privacy senza respiro dell'individualità o nella "pubblicità" anonima della colonna del giornale o del servizio in tv, in una scissione tra privato e pubblico che non è più capace di quell’"intersoggettività" che non è né privata né pubblica e che sola sa garantire dignità e cura al morire.

Qualità, cura e cultura del morire

Oggi sappiamo curare il malato, ma non sappiamo consolare l'afflitto. Oggi riusciamo in molte cose prima impensabili: curiamo molte malattie fino a ieri letali, e possiamo anche sapere con precisione assoluta quando "uno" morirà. Questa conoscenza però risulta in quasi tutti i casi assolutamente "ingestibile": in queste eventualità la "verità" non è mai dicibile, nemmeno a noi stessi, e si entra così nel campo minato e nel vortice del silenzio e della finzione, della reticenza e della menzogna. Questo strano sapere obiettivo sulla morte non sa come dirsi umanamente, non ha forme comuni per esprimersi, non ha parole né gesti adeguati alla vita che resta da vivere, per il morente come per coloro che gli sopravvivono.
Eppure, la morte continua ad essere un'esperienza finale per tutti gli uomini e le donne, e tuttavia ciò accade come se non fosse così, come se accadesse sempre "per sbaglio".
Si curano i vivi, non i morenti: il morente è al massimo “malato terminale” ed è pensabile come "paziente al termine", non come colui che si dispone a finire, a passare, a morire. Inoltre, e per lo stesso motivo, la morte per lo più "accade" nella spersonalizzazione di luoghi della "cura medica", inadeguati al regime solenne dell'addio più intimo e commosso.
Eppure, proprio in tale condizione di evidente emarginazione e rimozione, la morte può presentarsi come euthanasia, morte buona e bella: ironia della parola ormai fraintesa e tragedia delle condizioni culturali in cui può essere ancora pronunciata. Essa designa originariamente un surplus comunitario di relazione "in punto di morte", mentre finisce con il designare oggi una individualizzazione solitaria nella scelta del morire.
La questione essenziale dell’"eutanasia" è allora in quale modo noi ci prendiamo cura amorevole di coloro che si avvicinano alla morte, nella sofferenza e nel dolore, nella solitudine e nella perdita di relazione, Se l'uomo di oggi - che per molti versi potrebbe ancora dirsi cristiano - volesse risolvere la questione dell’"eutanasia" favorevolmente o negativamente, dovrebbe però evitare di collocarla anzitutto sul piano delle possibilità "consentite o vietate dalla morale o dal diritto", ma piuttosto sul piano primario e privilegiato del concreto e amorevole "prendersi cura di colui che ti muore accanto da parte di colui che gli sopravvive accanto".
Di fatto, anche il principio della sacralità della vita, che di per sé non è mai sufficiente a risolvere il caso concreto, rischia addirittura di essere un ulteriore motivo per confermare il clima di freddezza e di distacco che oggi circonda "ufficialmente" e "medicalmente" il malato grave. Se, in nome della "sacralità della vita" noi dovessimo pensare che ognuno debba "sopportare" per principio tutto il dolore che la vita gli propone, allora avremmo già perso di vista il volto del Dio di misericordia che la fede cristiana annuncia da due millenni: un tale Dio non sopporta che neppure la vita possa diventare un idolo al suo cospetto.

Evento pasquale e vita sensata

Non un principio di sacralità della vita, ma la scoperta della vita come "dono di grazia" attraverso l'incontro con una persona, che è morta per me e nella cui compagnia consolante e salvante posso vivere anche la mia sofferenza: questo è il centro della fede cristiana e su questo può meditare anche l'uomo di oggi, trovandovi conforto e motivo di speranza, persino "contro ogni speranza", ma sempre nella "fede": il dono della vita non è mai un ricatto alla mia sofferenza. E quando lo diventa, la fede è ormai tramontata e con essa si è di fatto spenta ogni umanità.
Ora, il rapporto tra me e la mia vita è talmente intimo e profondo da essere molto più che mio: è più intimo della mia stessa intimità e perciò è la quintessenza di ciò di cui non posso semplicemente disporre e da cui essenzialmente dipendo. Ma è importante riconoscere che questa verità non dipende da un "freddo principio" di sacralità della vita, ma dalla rete di relazioni che mi hanno "donato a me stesso" e attraverso le quali ho potuto trovare, coltivare e sviluppare questo intimo rapporto con me. I riti cristiani, se hanno una giustificazione, la trovano proprio in questa evidenza non ideologica, ma relazionale, della vita "donata" e "scambiata".
Proprio qui vediamo il duplice rischio che oggi corriamo: o di rendere soltanto soggettivo il rapporto con la morte (in una deriva liberale-libertaria), o di renderlo solo oggettivo, affidandolo a principi assoluti e disumani, o a tecnici del mestiere (in una deriva autorevole-autoritaria). E di questo soprattutto dovrebbe rammaricarsi uno sguardo credente sulla vita e sulla morte. E, come accade oggi, una tale deriva riesce a giustificare tutto, meno che azioni rituali di commiato, per il defunto e per chi gli sopravvive.
Rimane comunque da fare una distinzione capitale: eutanasia - nel gergo attuale - è il suicidio procurato dall'intervento di un terzo. Ma, per scongiurare ad ogni costo questa ipotesi, non dobbiamo affatto rassegnarci ad un "accanimento terapeutico" che non permetta più di guardare alla morte come ad una possibilità della mia vita, prima e oltre ogni terapia medica: la "buona morte" sfugge alla competenza medica esattamente come la "vita buona".
Invece, il "morire con" per "vivere con"è al centro dell'esperienza cristiana della vita: non come principio generale di lettura del reale, e tanto meno come "ideologia" buona per ogni stagione, ma sempre e solo come concreto incontro con una persona che trasforma la mia esistenza in un "dono senza ricatto", se è vero che “nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso”. E’ questa l'euthanasia, "bella morte" e "vita buona", che per il cristiano si presenta miracolosamente come una possibilità donata dall'alto, da cui egli dipende e dalla quale viene liberato. Nelle lucide parole cristiane di Lutero tale inaudita possibilità si presenta così: «L'uomo dice "nel mezzo della vita sono colto dalla morte", ma il cristiano dice "nel mezzo della morte sono colto dalla vita"».

Il simbolo rituale

Alla morte di Gesù di Nazareth è connessa, prima e dopo, una "cerimonia di addio" che prende la forma sorprendente di una cena. Il raduno dei discepoli intorno alla tavola prima e dopo la sua morte costituisce una testimonianza originaria di quella prassi cristiana - assai sorprendente, per la verità - con cui ci si congeda da un defunto in una celebrazione eucaristica, nella quale davanti a lui e con lui, si ascolta, si loda, si rende grazie, si mangia e si beve. Poiché riconosciamo in Gesù colui che vince la morte una volta per tutte, noi viviamo della sua morte e alla sua morte associamo anche i nostri morti e la nostra morte, perché egli possa donare a loro e a noi la vita eterna. È la comunione di pasto e di parola a costituire il simbolo rituale che ci libera dall'opposizione disperante tra vita e morte, tra salvezza e perdizione, tra paradiso e inferno.
Il defunto non può restare solo. Questo sapere della comunione - familiare, sociale, comunitario ed ecclesiale - oggi trova difficoltà a dirsi, a darsi, ad articolarsi, a prendere una forma vivibile convincente, non azzardata e non formalistica. Le forme stesse del morire chiedono parole e gesti nuovi, silenzi e canti adeguati. L'isolamento della "terapia intensiva" - con più di una buona ragione - rischia di prolungarsi nell'isolamento del "malato terminale" e del "defunto" - senza più ragioni umanamente sostenibili, ma con tante apparenti buone ragioni tecniche e funzionali.
Per questo i riti delle esequie – con tutta la sapienza simbolica e rituale di cui hanno bisogno - non possono scaturire da un vuoto rituale che riguarda la vita, la malattia, la colpa o la vocazione. Solo se sappiamo ancora celebrare la fede nella vita, quando la morte ci incontra possiamo non solo sopportare, ma cercare e volere un raduno più che familiare, una presa di parola significativa, una serie di saluti e la pronuncia di un "ad-dio" che sia davvero affidamento e speranza, fecondità di chi ha vissuto e responsabilità di chi sopravvive.
Ma, come per Gesù nulla era stato più accuratamente sperimentato di questa comunione conviviale con i peccatori - e per questo può esservi un"'ultima cena", solo perché essa può stare nel punto culminante di una lunga serie di consuetudini conviviali, di scandalose comunioni e di imbarazzanti solidarietà maturate intorno al piatto fumante -, così anche per il rito del congedo eucaristico, esso può risultare significativo soltanto in una certa abitudine al rendimento di grazie, alla supplica e alla benedizione, al raduno e alla conversione.
D’altra parte – è bene sempre ricordarlo – le modalità con cui la Chiesa saluta i propri fratelli sono inevitabilmente molteplici, si possono modellare sui singoli episodi, assumere le forme più adeguate, calibrate rispetto alle circostanze e alle persone implicate nel rito. I recenti tentativi - tanto ufficiali quanto ufficiosi – di fare entrare nell'Ordo exequiarum una serie di temi e di forme nuovi sta ad attestare la vigilanza che la chiesa esercita sul tema. (1)
L'elaborazione del lutto: di questo oggi manchiamo sovranamente. Le risorse dell'Italia, sotto questo profilo, sono ancora assai grandi, a causa della grande differenza di costumi e di pratiche che caratterizza la nostra penisola. Accanto alla più piena e triste "desocializzazione della morte", abbiamo ancora il Meridione che mantiene una forte ritualizzazione sociale del morire. Se è possibile affermare che "a Napoli nessuno muore in ospedale", ossia che non si rinuncia all'elaborazione familiare e sociale del lutto, legata agli spazi e ai tempi della casa, del quartiere, della parentela e del vicinato, a costo di fare carte false con l'ospedale acquiescente, questo indica un'ancora forte radicazione della morte come "fatto più che individuale", come articolazione sociale, come assunzione comunitaria dell'assenza e terapia relazionale del lutto. Ma questo ha effettivo riscontro nella prassi rituale della Chiesa? Senza dubbio, la presenza di culture fortemente segnate dall'esperienza comunitaria - che restano sempre anche problematiche, per molti aspetti - favorisce comunque una forte percezione della dimensione relazionale che il morire e il vivere assumono necessariamente per l'esperienza umana.
In questo senso il contesto "festivo" dei riti cristiani - anche quando hanno il tono pacato e mesto dell'addio - risulta fondato sulla comunione tra Cristo e la Chiesa, mistero di incarnazione e di morte e risurrezione, cui ogni cristiano è unito all'inizio della sua esistenza e che ritrova, alla fine, ritornando alla terra e incontrando il suo Signore non più solo per speculum.

I riti "post mortem"

Che cosa resta di noi? Dobbiamo proprio restare "riconoscibili" anche dopo l'estremo respiro? Le forme della cremazione, della dispersione delle ceneri in mare o nel bosco, la privatizzazione dell'urna riposta in casa o la scelta della "fossa comune" sono oggi forme del desiderio di ritornare alla natura che sempre si rinnova, di perdersi nel creato, nell'indistinto delle onde marine o nel fruscio ombroso delle fronde. La tradizionale "resistenza" ecclesiale a queste forme di liberazione dal corpo si è forse tramutata in una "resa"? Ma questa resistenza era davvero "tradizionale"? O dobbiamo pensare che, dietro a questi fenomeni, non si nasconda il sorgere di un diverso rapporto tra elaborazione del lutto e celebrazione della risurrezione?
Le forme storiche dell'elaborazione del lutto avevano certo ritmi, tempi, luoghi e forme strategiche. Oggi quasi tutto è diverso: le case sono sostituite dagli ospedali, le parole dai silenzi, i raduni dalle solitudini, i pasti comuni dai digiuni ad oltranza. Ma puntare sulla risurrezione, quando riguarda gli uomini, implica davvero di rinunciare a significativi processi simbolici e rituali di elaborazione del lutto?
Resta la parola chiara di Monica morente, riportata dal figlio Agostino: «Seppellite questo mio corpo in un posto qualsiasi: non ve ne preoccupate affatto: vi prego solo di ricordarvi di me davanti all'altare del Signore, ovunque voi siate... non esistono lontananze per il Signore». L'affermazione ricorrente di questa "non lontananza dal Signore" e le forme storiche del lutto, per attestare una visibile vicinanza, restano in una insuperabile tensione: ogni assetto rituale, di oggi e di domani, dovrà sempre riconoscere la contingenza benedetta di ogni segno di resa della vita visibile che fu nel tempo, per attestare la più forte resistenza della vita invisibile che sarà per sempre.

Andrea Grillo

(tratto da Settimana, anno 2011, n. 39, p. 1)


1 Cf. P. Sartor, «La "presa di parola" nelle esequie. Situazione, opportunità, indicazioni», Rivista Liturgica, 93(2006), 895-903; C. Cibien, «"Non fiori, ma opere di bene". Un linguaggio essenziale che la morte impone e che ci trova impreparati», Rivista Liturgica 93(2006), 904-911.

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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