Se e vero che esiste nelle scritture di tutti gli universi religiosi un'immagine «terrifica» di Dio, è altresì innegabile che ad essa se ne accosti spesso una seconda, di tutt'altro segno. Nei Testi sacri, infatti, l'implacabilità del divino non emerge mai in maniera univoca ed assoluta, ma si stempera sempre nel ritratto di un dio capace di produrre nel credente uno smarrimento fascinoso ed avvolgente. La cianosi prodotta dal soffocante rigore divino di certe immagini fosche e tragiche si cancella grazie alla boccata d'ossigeno che lo stesso Dio insuffla nell'animo del credente, in altri e più numerosi passaggi. Anzi, in questo senso, la visione minacciante e terribile di un dio riottoso al perdono, appare propedeutica ad una seconda concezione del sacro, più dialogica e meno imperativa, che si innesta nella prima per rovesciarla dall'interno. Il ribaltamento straniante dell'idea del divino presente in tutti i percorsi religiosi è, questo sì, radicale ed assoluto. Si assiste ad una sorta di piroetta ad effetto, al punto che lo stesso Dio della minaccia e della punizione, della distruzione e della perentorietà, diviene il Dio della consolazione e del perdono, della misericordia e, soprattutto, della pace. Ma si tratta di una contraddizione inspiegabile o insanabile? A tale quesito occorre rispondere affermativamente, se ci si arresta su di un piano strettamente letterario, e negativamente, se ci si spinge oltre la lettera del testo e si cercano consonanze più profonde ad altri livelli, sui quali è necessario soffermarsi.
Scenari e linguaggi diversi
Il Dio terribile, infatti, agisce su un piano storico e personale: è il Dio che parla all'uomo con l'immediatezza di immagini e azioni facilmente decodificabili. Anche quando si paventano scenari ultraterreni di punizione, si è sempre in presenza di un linguaggio che si connota per l'urgenza di comunicare qualcosa, di sollecitare qualcuno, di muovere e di con-muovere una persona o, addirittura un popolo. Si è in presenza di un linguaggio espressionistico, gridato ed efficace nella sua ruvidezza, finalizzato ad un risveglio del credente, ad una presa di coscienza di un popolo.
Il Dio della clemenza e del perdono, invece, sembra utilizzare modalità comunicative che non vivano nell'impellenza di trasmettere un messaggio, ma che, al contrario, tendano a sollecitare l'acquisizione di un diverso punto di vista sulla storia e sull'umanità. Si tratta di un linguaggio dai toni più dolci e sfumati, a tratti quasi intimistici, che chiama in causa, più che la ragione, l'esperienza religiosa del credente, con tutto il suo patrimonio di indicibilità e di abbandono.
Il Dio della pace, dunque, parla un linguaggio che attiene all'evasività dell'esperienza mistica e chiede al credente di compiere un salto nel vuoto, allontanandosi dal tipico argomentare umano. In questo senso, allora, il Dio del perdono si presenta come colui che sa attraversare ogni confine, ogni dicotomia, e, simultaneamente, come colui che sa accompagnare l'uomo al di là di ogni contraddizione. Si impone, allora, il linguaggio «dell'oltre», che è per sua stessa natura empatico, fusionale e onnicomprensivo, perché non collegato al piano diretto degli eventi e dei fatti, anche se determina una ricaduta immediata nella realtà. È il Dio della pace interiore intesa, più propriamente, come pacificazione, ossia, per usare le parole di Agostino, come tranquillitas ordinis (1), come ricerca di armonia con se stessi, con gli altri, con il mondo, come tensione verso il benessere e la solidarietà. La logica dello sconfinamento, infatti, attiva una dinamica di pacificazione individuale e collettiva profonda, grazie al fatto che ci obbliga a sollevare lo sguardo e a moltiplicare le prospettive, assumendo anche le infinite ottiche altrui. Il Dio dell'amore e della clemenza insegna proprio a guardare se stessi e l'altro in modi differenti, fino ad avvertire la responsabilità dell'altro come una responsabilità per l'altro, come una corresponsabilità. L’atteggiamento dell'amore solidale che Dio insegna all'uomo nelle scritture delle religioni, seppure presenti notevoli differenze, risulta identico in un punto: non è possibile amare l'altro se non si di-viene stranieri alle logiche dell'attaccamento e dell'egoismo, se non si diviene capaci di scardinare le logiche comuni fino ad essere pervasi da una meta-logica che respira di assoluto. Il divino che si presenta come amore, come pace, come giustizia, come misericordia, dunque, si propone a modello per l'essere umano, spingendolo a librarsi sopra le mediocrità di un ego che punta i piedi e cerca una remunerazione personale.
La pace, dunque, si costruisce a partire da questo senso di «eccedenza» rispetto alla mediocrità delle nostre concezioni del mondo, che permette di attraversare ogni ostacolo nella convinzione che le vie del Signore sono diverse da quelle prettamente umane. Nel Nuovo Testamento, ad esempio, si moltiplicano i passi in cui gli autori si prodigano a far emergere la necessità di abbandonarsi all'esperienza dell'amore divino: «Amiamoci gli uni e gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio», si legge nella Prima lettera di Giovanni (5,7), in cui, con un linguaggio illimpidito e inequivocabile, viene ribadito l'imperativo dell'amore. Conosciuto l'amore di Dio attraverso la missione salvifica del Figlio, per il cristiano tutto appare diverso e nuovo rispetto alle vecchie logiche di appartenenza, e diviene possibile aprirsi ad un senso di con-partecipazione che permette di riconoscere l'altro come «fratello». E la pace si fonda sul sentirsi ormai irrimediabilmente «con» e «per» l'altro e sulla rinuncia di quella logica di affermazione di sé, come attaccamento alla ricchezza e al valore assoluto di se stessi, che, invece, denota il «giovane ricco» del Vangelo di Matteo (19, l6-22).
Attraversare le logiche perverse
È bene chiarire che l'invito ad abbandonarsi ad una logica di amore e di pace non coincide con una sottovalutazione dell'agire umano. Non vuol dire neppure deprivare di senso la storia, le sue ingiustizie, le sue prevaricazioni, le sue incoerenze, a volte tragiche e tremende; non spinge a lasciarsi andare a logiche paciose e buoniste dalla «giustificazione» facile, come troppo spesso si sente dire. L'invito è diverso ed è rivolto all'interiorità del credente, che deve cercare, nonostante tutto, di vedere «oltre» la miseria umana di sé, del mondo e, a volte, anche della logica naturale, acquisendo da Dio tale capacità di attraversamento.
Anche nell'islamismo è presente, seppure in toni meno marcati, questo aspetto.
Il Dio coranico, infatti, in sé assoluto e autosufficiente, si piega verso l'uomo e gli si rivela proprio in nome della sua profonda misericordia e clemenza. Dio guarda l'uomo, la sua pochezza, la sua mediocrità, la sua fallacità e, pur conoscendo la scarsa affidabilità del cuore umano, gli manifesta la sua volontà. Il Corano è rivelazione di quanto Allah desidera sia conosciuto dall'uomo affinché questi impari anche a disvelare il volto autenticamente fraterno dell'altro. L'uomo, infatti, incapace di costruire autonomamente un mondo di pace, è stato fatto oggetto di una rivelazione su cui si deve fondare il senso stesso di ogni fratellanza e, quindi, di ogni possibile pace. Dice Allah nella Sura III: «Afferratevi tutti alla corda di Dio e non disperdetevi, e ricordatevi le grazie che Dio vi ha elargito: eravate nemici e vi ha posto armonia in cuore e per la sua grazia siete divenuti fratelli» (2). Anche per l'islam, dunque, la pace e la fratellanza sono doni che l'uomo può acquisire e nel contempo realizzare solo nella misura in cui si apre alla dimensione nuova dell'esperienza religiosa che, in questo caso, coincide con un abbandono radicale al volere del Creatore.
Non si deve dimenticare, poi, che tutto l'Oriente indù si muove alla ricerca della pace, intesa sia come úânti - letteralmente «pace» - che come ahimsâ, ossia «non violenza». Ma, per poter comprendere appieno cosa significhi il termine «pace» per l'indù, è necessario aprirsi ad una dimensione profonda della comprensione, dal momento che non esiste vera pace se non si conosce il senso del termine «verità». Se l'uomo infatti crede di essere qualcosa in quanto «ego» che pensa e che agisce, secondo l'Oriente sbaglia radicalmente. La logica dell'ego, infatti, è tutta virata all'autoaffermazione di sé e finisce con il far impigliare la coscienza umana nelle trame di una falsa apparenza. L'ego che vede solo se stesso è, infatti, prigioniero delle sue passioni, dei suoi attaccamenti e delle sue necessità, e arranca alla ricerca di risposte che non solo non lo appagheranno mai completamente, ma che lo coinvolgeranno nel gorgo senza fine della logica karmica, basata sul rapporto causa-effetto. Così, l'uomo brutale, che si abbandona alla violenza, risulterà sempre più facile all'ira, alla vendetta, lasciandosi andare ad una serie di comportamenti ancora più negativi che determineranno un accumulo di propensione alla violenza sempre maggiore. I Veda, invece, i più antichi testi sacri indù, mostrano che l'unica via percorribile per emanciparsi dalla spirale negativistica del Karma è quella che consente un «attraversamento» delle logiche umane. Si legge nell'Atharva veda: «Che la terra possa vivere nella pace (...). Che tutti gli dèi mi possano portare la pace e che queste invocazioni possano essere creatrici di pace (...) Che io possa portare la pace a tutto ciò che è terribile, crudele, brutale. Che tutto possa essere riscattato e possa essere di aiuto a noi viventi» (3). Nelle Upanishad, i grandi testi mistico-teologici posti al termine dei Veda, poi, questa concezione si chiarisce ulteriormente perché si afferma che l'indole violenta del mondo è in qualche misura inscritta nell'ordine delle cose, nell'andamento ciclico della realtà, mentre la pace deriva da uno spostamento di prospettiva e da un cammino interiore che permette di percepire come al di là dell'ego esista un respiro di assoluto presente in ogni cosa. L'Oriente indù sembra distruggere l'illusione che si possa costruire un mondo in pace senza una ricerca di pacificazione radicale, senza una messa in discussione totale di sé, senza un cammino che scardini l'egotismo nauseante che ci inchioda in noi stessi e ci imprigiona nel nostro sentire. La pace nasce, invece, dal percepirsi parte integrante del tutto, nel sentirsi oltre se stessi, fino a realizzare che ogni azione violenta è un rifiuto della verità; è la scelta deliberata di una menzogna. Dietro la rinuncia dell'ego, dunque, vi è anche una scelta: quella di aprirsi all'esperienza dell'universale che si rifrange in quell'essenza di assoluto presente in ogni realtà e che le Upanishad chiamano Âtman. Se gli dèi atterriscono, se la malattia spaventa, se la morte cancella, è solo perché noi siamo concentrati sulla parte superficiale dell'esistenza; ma se, al contrario, spogliati delle apparenze, ci apriamo all'esperienza della totalità, saremo capaci di vedere in maniera più chiara le falsità del tempo e saremo davvero in grado di costruire la pace.
Ancora più perentorio è, a questo riguardo, il buddhismo. Per il buddhismo, «l'ego è la nostra malattia mortale - afferma A. N. Terrin - finché abbiamo ego è inutile parlare di pace, di non violenza, di tranquillità: qui sta tutta la causa vera della violenza, tutte le altre cause sono secondarie e non serve toglierle credendo di raggiungere la non violenza. Se non si toglie quello che sta alla radice, se non ci si scontra con il desiderio stesso di vivere: forza universale e dannata, non si estirperà mai la violenza» (4). Anche per il buddhismo è imperativo guardare oltre e fondare la ricerca di pace su valori profondi e radicali, posti al di là della normale comprensione. In modi diversi, dunque, con logiche e percorsi differenti, le religioni parlano di un mondo pacificato attuabile solo attraverso un'immersione totale nel senso più autentico e radicale dell'esperienza religiosa, fino a liberarsi di quel fardello di narcisismo, di volontà di potenza, di senso di superiorità che ci fa estranei ad ogni autentica logica di pace.
Marco Gallizioli
(1) Cfr. Agostino, De civitate Dei, XIX.
(2) Sura III, 103. cfr. C. Saccone, I percorsi dell'Islam. Dall'esilio di Ismaele alla rivolta dei nostri giorni, Messaggero, Padova 2003, p. 283.
(3) Atharva Veda, 19,9, citato da A. N. Terrin, Il respiro religioso dell'Oriente. Luoghi di incontro con il cristianesimo, EDB, Bologna 1997, p. 64.
(4) A. N. Terrin, Introduzione allo studio comparato delle religioni, Morcelliana, Brescia 1998, p. 154.
(tratto da Rocca, 15 febbraio 2004, pp. 45-47)