Il processo ai tempi di Gesù
Per comprendere almeno in parte le cause che hanno condotto Gesù sulla croce occorre necessariamente tenere presenti le due forme di procedimento giudiziario in uso presso Israele, il “rîb” e il “mĭšpat”. Queste due forme differiscono per il numero delle persone chiamate in causa, per le modalità di svolgimento e, soprattutto, per le finalità della procedura. Nel “mĭšpat” le persone coinvolte sono tre: la parte lesa, il reo, il giudice. Il procedimento prevede che la parte lesa faccia la sua denuncia al giudice, il quale – esaminati i fatti – decide se punire il reo o la parte lesa medesima, se quest’ultima ha accusato ingiustamente. Dal “mĭšpat”, in altre parole, scaturisce in ogni caso una punizione: il giudice, riconosciuta la colpa, non può perdonare, non può permettere a chi l’ha commessa di andarsene impunito. Detto per inciso, è questa una delle ragioni per cui occorre essere molto cauti nel definire Dio come giudice: significa alludere a un Dio che non può perdonare, che è in un certo senso costretto a punire. Nel “mĭšpat” la pena viene comminata in modo proporzionale alla colpa, secondo la logica dell’occhio per occhio, dente per dente, vita per vita. L’Antico Testamento contempla senz’altro casi di “mĭšpat”, per esempio la pena di morte prevista per il bestemmiatore (Lv 24,16). Resta tuttavia il fatto che si tratta di un modo imperfetto di fare giustizia, perché utilizza metodi coercitivi e talvolta violenti. Il “mĭšpat”, in realtà, non permette di raggiungere la vera giustizia. Tale forma di processo può persino diventare auto-contraddittoria: per affermare che una certa colpa è particolarmente grave, per esempio l’omicidio, il giudice deve a sua volta infliggere la pena di morte.
Conversione, non punizione
La vera giustizia si ottiene piuttosto con il “rîb”, che cerca non la punizione ma la conversione del reo. Nel “rîb” le parti in causa sono soltanto due: la parte lesa e il reo, il giudice non c’è. L’offeso va direttamente dal reo e lo accusa del male che questi sta facendo, allo scopo di fargliene prendere contezza. Va da sé che la parte lesa, in cuor suo, deve aver già perdonato; il colpevole, per quanto lo riguarda, deve essere disponibile al pentimento, alla confessione, al cambiamento di condotta. È altresì prevista una forma di “rîb gestuale” consistente in atti anche duri e apparentemente punitivi che sono in realtà curativi, educativi, hanno lo scopo di scuotere il reo dal suo torpore morale. Un tipico esempio di “rîb” è quello in cui il profeta Natan, attraverso la storia del ricco che ruba al povero la sua unica pecorella, fa sì che Davide prenda coscienza della propria colpa (2 Sam 12,1–7).
Il “rîb” nell'antico e nel nuovo Testamento
Nel corso dell’Antico Testamento, Dio – che è la parte lesa – pratica il “rîb”: il giudizio definitivo, il “mĭšpat”, è previsto solo in prospettiva escatologica. Dio fa il “rîb” in molti modi diversi, ma principalmente attraverso i profeti, che aiutano il singolo peccatore o l’intero popolo di Israele a prendere coscienza del proprio male e della volontà salvifica di Dio. Si può dire che tutto il profetismo dell’Antico Testamento sia essenzialmente un lungo “rîb” durato diversi secoli.
Anche Gesù pratica il “rîb” durante il suo ministero, con momenti duri e persino violenti, come nei casi della cacciata dei mercanti dal tempio e del fico disseccato. Quando però il Nazareno finisce sotto processo (Mt 26,57–68), è il “mĭšpat” che gli viene intentato: in questo caso l’accusa non è per la salvezza ma per la morte. Qui qualcuno deve necessariamente essere giustiziato, perché l’accusa è di bestemmia. A questo punto Gesù, che pure è il Verbo incarnato e tanto ha parlato nell’annunciare il regno di Dio, improvvisamente tace: se parlasse condannerebbe chi lo giudica, sicché sceglie di prendere su di sé la morte piuttosto che darla ai suoi accusatori.
La logica del “paradídomi”
Se la storia finisse qui, tuttavia, non si potrebbe parlare di giustizia. Ci troveremmo anzi davanti alla più grande delle ingiustizie, a un’ingiustizia addirittura disperante, dal momento che decreta il fallimento di entrambe le forme di procedimento giudiziario: il “rîb” praticato da Gesù non ha dato gli esiti attesi, e il “mĭšpat” si conclude con la condanna dell’innocente e l’assoluzione dei rei. Ma è proprio qui che interviene Dio, con la resurrezione del mattino di Pasqua. Resurrezione che non va in alcun modo considerata come una rianimazione di cadavere ma come una nuova creazione basata non più sul vecchio “mors tua vita mea” ma su un inedito “mors mea vita tua”, sul dare la propria vita per l’altro, per gli altri. In realtà in questa nuova creazione nessuno muore: la tomba vuota dice, a livello simbolico, che non c’è più il corpo del reato. Se noi accettiamo la logica del “paradídomi”, che è un po’ il verbo della redenzione, allora entriamo in questa realtà miracolosa che Dio è capace di realizzare e nella quale non si ragiona più in termini di accuse, processi e pene capitali ma di vita sovrabbondante, di vita da donare: volevamo uccidere Gesù ma non ci siamo riusciti, il suo amore è stato più forte della nostra volontà di male, il suo perdono più grande del nostro rifiuto. A questo punto la domanda è la seguente: riuscirà mai il cristianesimo, così innamorato della morte, della punizione e della sofferenza da aver tenuto in vigore per mille anni la sciagurata dottrina dell’espiazione vicaria di Anselmo d’Aosta, a comprendere e accogliere una simile generosità e gratuità?
Marco Galloni