Un lungo colloquio con il filosofo Raimon Panikkar, giunto in Italia nell'autunno 2005 per un ciclo di conferenze e per presentare i suoi ultimi libri: L'esperienza della vita. La mistica (Jaca Book), La dimora della saggezza (Mondadori) e La porla stretta della conoscenza (Rizzoli), sul rapporto tra scienza e religione.
«Caminante no bay camino se hace el camino al andar» (viandante non c'è cammino. Il cammino si fa camminando). Perché lei cita volentieri questo verso dì Antonio Machado?
L’importante e anche urgente imparare che nel pellegrinaggio umano non esistono sentieri prestabiliti. La tecnica ci porta a credere che per camminare ci sia bisogno di una strada. Se usiamo un mezzo meccanico, infatti, abbiamo bisogno di una strada. Abbiamo perso il senso del camminare a piedi, del rapporto diretto con il mondo reale. In India si cammina per lo più a piedi nudi. L'uomo è interprete e coautore della realtà. Bisogna ritrovare l'equilibrio tra il corpo e l'anima, tra la società che ci circonda, la natura e l'universo, il rapporto con il mistero che tutto avvolge. Se tornassimo a coltivare questa coscienza cosmica per prima cosa ci sentiremmo più al nostro posto, che non è al centro di tutto, e secondariamente vedremmo la realtà come quell'avventura divina, cosmica ed umana alla quale siamo chiamati a partecipare. Allora recupereremmo una maggiore libertà, un maggior ottimismo e anche una gioia più profonda, che non dipenderebbe dal fatto che il mio partito vinca o perda o che le cose funzionino come avevo previsto io.
Mi fa piacere che abbia incluso anche il buon rapporto che esiste nella cultura indiana tra l'uomo e gli animali, in particolare gli elefanti, nella sua visione dell'uomo come partecipe di tutto l'universo che lo circonda. Il suo ultimo libro si occupa del rapporto tra scienza e teologia. Gli scienziati mettono in evidenza un salto qualitativo nel modo in cui la scienza ha ripensato se stessa tramite l'osservazione dei fenomeni quantici, rilevando la parzialità del nostro conoscere.
Esiste una relazione tra il fenomeno osservato, l'osservatore, e gli strumenti che vengono usati, tra conoscenza e coscienza dei limiti della propria esperienza personale.
Lei ha parlato anche della concezione del tempo, molto diversa dal modo come la intendono gli europei.
Gli europei mitizzano il tempo come misura lineare e su questo costruiscono la storia. Assomigliano a quel tizio che tornando a casa la sera tardi si accorge di aver perso le chiavi di casa e le cerca in terra nel cerchio di luce intorno al lampione distante da casa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede perché insista a cercare le sue chiavi proprio là. «Perché qui c'è luce», risponde il tizio. C'è qualcosa che non è riducibile alla temporalità, che va al di là, ed è afferrabile solo in una concezione cosmoteandrica dell'universo che comprende l'uomo come sòma, come psyché, come polis, come kósmos, cioè come parte che rappresenta il tutto e non come centro dell'universo. Dobbiamo guardare la realtà nella sua triplice dimensione: divina, umana, materiale La visione cosmoteandrica non gravita intorno ad un singolo punto, ma si apre all'intersezione dei tre punti nominati sopra. Noi uomini non siamo gli unici abitanti dell'universo.
Perché dice spesso che la tecnologia ci ha mangiato il cervello? Vuol dire che dobbiamo tornare al «good old time»?
Tutt'altro. La tecnologia, non la scienza, ha fatto dell'homo sapiens l'homo habilis. La tecnologia è intrinsecamente vincolata alla cultura occidentale ed e incompatibile con altre culture tradizionali. Molte culture non vogliono vivere in affitto nella grande casa tecnologica. Il prezzo sembra loro troppo alto. La tecnologia influisce sulla relazione tra spazio e tempo. Lo spazio e il tempo umani sono intrinseci ad ogni essere umano, mentre lo spazio e il tempo nei quali si muovono le macchine non lo sono e tuttavia vengono considerati neutri e universali. Ci troviamo di fronte a due approcci diversi: uno sta nel piegare il determinismo fisico agli obiettivi umani, l'altro nel considerare l’uomo come punto di incontro con l'universo.
Alla luce di questa visione cosmoteandrica, che cosa significa dunque il verso di Machado?
Se cammini a piedi nudi devi guardare dove metri i piedi. Machado è un grande poeta e i poeti sanno dire con poche parole cose belle e molto profonde. Non c'è un cammino da seguire. Dobbiamo semplicemente camminare. Per la mentalità occidentale serve sempre una mappa che dia le informazioni sul come fare una cosa o l'altra. Non c'è un come. Abbiamo perso la spontaneità. Vogliamo la ricetta pronta per tutto e tutto deve avere uno scopo e una ragione. In realtà vogliamo darci uno scopo finale che giustifichi tutto: «camminiamo» per diventare ricchi, per andare in cielo, per avere potere, per imporre una propria immagine, per un fine quale che sia in cui crediamo consista la nostra felicità, e questo ci rende infelici. Gesù nel Vangelo dice: «Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli l'avete fatto a me» (Matteo, 25). Ciò che facciamo per gli altri liberamente, spontaneamente e non per uno scopo esterno, ha valore e ci rende liberi. Dove c'è libertà non c'è sicurezza, c'è rischio. Libertà non significa che tutto sia indifferentemente accettabile o al contrario che io abbia il diritto di prevaricare sull'altro. Libertà è rispetto della dignità dell'altro, e desiderio di conoscenza con animo puro e non per sfruttare la situazione a mio vantaggio.
Lei sostiene che bisogna tenere aperto il dialogo. Ci sono delle persone con cui non si può dialogare, che sanno tutto, che non lasciano neanche parlare gli altri, sono violente ed aggressive e non c'è modo di dialogare con loro.
C'è sempre il modo, anche se a volte è rischioso.
Infatti si vedono tanti eroi silenziosi, che fanno cose normali senza aspettarsi premi e riconoscenze e rischiano la vita consapevoli di ciò.
Se non siamo pronti a rischiare la vita non sappiamo viverla pienamente. Non si tratta di rinunciare ad una ricompensa, si tratta di non averne bisogno. Gli eroi silenziosi non si considerano tali. Non sono dei guru, non sono dei pandit: sono uomini comuni che fanno cose normali. Lo fanno spontaneamente, senza aspettarsi nessuna ricompensa. Martire è colui che paga con la propria vita la fedeltà ai propri ideali. Gli ideali non sono sempre condivisi. Pluralismo dottrinale non significa caos concettuale, pluralismo etico non comporta anarchia morale. Dobbiamo essere fedeli alle nostre convinzioni. Abbiamo diritto di ribellarci ad una legge ingiusta.
Una signora ha obbiettato, nel dibattito che ha seguito una sua conferenza in cui lei affermava l'importanza dell'ascolto: «Ma se io ascolto e l'altro ascolta, restiamo in silenzio e non c'è dialogo».
La capacità di ascolto non è così semplice, perché implica lo sforzo di capire quella parte di intelligibilità che si condivide con l'altra persona. L'ascolto è il presupposto per il dialogo e il dialogo è una forma di ascesi intellettuale. Devo essere preparato ad accettare di avere torto. Se non accetto questo presupposto, potrò al limite tollerare il mio interlocutore. Entrare in dialogo rende vulnerabili. Conoscenza e amore vanno insieme. Filosofia significa non solo amore della saggezza ma anche saggezza dell'amore.
Lei è indù?
Che cosa vuol dire «sono»? Io mi considero indù, cristiano, buddhista. Se invece dico «sono», ragiono per esclusione assolutizzando automaticamente un modo di essere come l'unico in cui accetto di identificarmi.
Ma quando parla di «sòma», «psyché», «pòlis», «kosmos» si riferisce alla tradizione indù?
Non soltanto, mi riferisco anche alla tradizione cristiana.
La filosofia sufi ha origini in India, è vero?
Nell'età antica gli uomini erano molto più collegati gli uni con gli altri di quanto non sembri. Non avevano frontiere, treni, aerei, ma avevano rapporti umani. Il più grande sufi è nato in Spagna, a Murcia. Si chiamava Ibn Arabi ed è morto a Damasco. Il sufismo è nato nel momento dell'incontro tra l'islam e l'India. Quando l'espansione dell'impero arabo ha fatto sì che musulmani e indiani entrassero in rapporto, allora è nato il sufismo.
Conosco persone che dichiarano di praticare la filosofia sufi e magari non sanno neanche bene che cosa sia. L'assimilano genericamente al senso dell'amicizia, della disponibilità verso gli altri...
Va benissimo, se questa è una loro esigenza. L'ossessione occidentale è di mettere etichette a tutto, sbagliando spesso anche il significato delle parole. Un poliziotto alla frontiera mi ha chiesto: «Mostri la sua carta d'identità». Ho risposto: «Non ce l'ho. Possiedo solo un documento di identificazione. La mia identità non è un pezzo di carta».
Nella ricerca del potere per esorcizzare la paura ci metterei anche il successo di Huntington e della sua teoria sullo scontro delle civiltà, che sviluppa alcune sue teorie anticipate in un articolo pubblicato da «Foreign Affairs» (la rivista ufficiale del Ministero degli esteri Usa) nel 1993.
La celebrità non dipende dal valore di una persona. Siamo vittime delle notizie diffuse dai mass media. lo ho insegnato a Harvard, dove ha insegnato anche Huntington: egli gode dell'importanza che noi gli abbiamo attribuito. L'altro giorno mi hanno chiesto di commentare l'attacco alle Torri gemelle. Io ho chiesto a mia volta: «Sapete niente di Ayodhia, la grande moschea in India attaccata dagli indù qualche anno fa con conseguenze disastrose, sia in termini di vite umane che di equilibri politici e di tensioni religiose in una popolazione di un miliardo di abitanti?». Non ne sapevano niente.
Lei ha parlato di speranza. Io sento stringersi intorno a me il cerchio di diversi fondamentalismi di ogni specie. Si parla tanto di quello musulmano ma non si parla di quello cristiano e di quello ebraico. Fondamentalismo chiama fondamentalismo?
La speranza non è nel futuro, fa parte dell'invisibile. La speranza è scoprire che il regno di Dio sta nelle relazioni umane, sta dentro di noi, sta in un'amicizia, nella bellezza.
La speranza è dentro di noi?
Al di dentro e al di fuori. È una dimensione dell'essere, della vita, non solo all'interno di ognuno di noi. Ma noi siamo così indaffarati a correre che nemmeno ci rendiamo conto che c'è.
Cova in tutti?
In tutti.
Anche in quelli dominati dalla paura?
Anche in quelli dominati dal male e non soltanto dalla paura. L'elemento fondamentale è la purezza del cuore che ci libera dalla paura. Superare la paura non dipende dalla volontà, dipende dalla purezza del cuore. La paura, nell'uomo, è associata all'angoscia: gli animali hanno paura ma non hanno angoscia. La paura moderna è insita nel sistema stesso che abbiamo creato e può assumere forme patologiche. Per superare la paura si cerca la sicurezza e quindi il potere e la cultura del potere.
Offrire i nostri rimedi ad una cultura diversa non serve a niente, anzi favorisce i peggiori che si mimetizzano nel filone culturale più appoggiato dalle grandi potenze europee per interessi di parte.
Se ci accostiamo alle altre tradizioni usando categorie ad esse estranee non saremo mai in grado di capirle. Ogni concetto è valido solo nell'ambiente dove è stato concepito. Invece di chiedersi che cosa può insegnare uno all'altro, varrebbe la pena di chiedersi in quale misura possiamo imparare uno dall'altro.
Lei ha detto: libertà equivale a rischio. Come si coniuga con il perdono?
Il perdono è un atto libero che ha la forza di cancellare il male. Con la punizione non si può riscattare il male fatto. Posso non vendicarmi ma devo anche avere una forza in me che supera l'autoimposizione di non vendicarmi, che mi libera dal veleno che mi è stato versato dentro al cuore. Solo il perdono può contribuire alla giustizia in modo duraturo senza togliere con ciò alla società il diritto di difendersi.
(intervista a cura di Alda Radaelli)
tratto da Confronti, gennaio 2006, pp. 31-33