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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La risonanza della vicenda del profeta Giona e del suo insegnamento è diffusa nel contesto anticotestamentario (cf. 2Re 14,25) e nell'interpretazione rabbinica. (1) E’ interessante poter vedere come la storia parabolica del profeta Giona, la cui trama narrativa presenta una serie di indicazioni teologiche per il suo tempo, viene riletta nella prospettiva del compimento messianico. (2) La singolarità del tema sta proprio nell'uso che Gesù fa della storia di Giona come «segno» cristologico, che non trova un successivo sviluppo neotestamentario. (3) In questo contributo ci proponiamo di studiare i testi e i contesti evangelici che esplicitamente evocano il libro di Giona.

L'annuncio del «regno» e la pretesa del «segno»

Il riferimento esplicito alla storia del profeta Giona appare in tre contesti: Mt 12,38-42, il suo parallelo di Lc 11,29-32 e Mt 16,1-4. E’ interessante notare come la prospettiva entro la quale va interpretato il motivo di Giona è posta tra l'annuncio del «regno» e la richiesta del «segno». Nella sezione matteana dei miracoli (cf. Mt 8-9) si presentano personaggi che ricevono segni: il lebbroso (Mt 8,3), la suocera di Pietro (Mt 8,14-15), la tempesta sedata (Mt 8,23-27), i due indemoniati liberati (Mt 8,28-34), la bambina di Giairo e l'emorroissa (Mt 9,18-26), i due ciechi (Mt 9,27-31), l'indemoniato muto (Mt 9,32-34) e altri che credono senza il bisogno di vedere segni: il centurione (Mt 8.5-13), il paralitico (Mt 9,1-8). Di fronte alla fede del centurione che non chiede un segno, ma crede sull’autorità della parola, Gesù afferma:

In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede cosi grande! Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti (Mt 8,10-12).

Questo riferimento e collegato all'incredulità (4) intorno alla figura messianica di Gesù e all'annuncio del regno. Nel primo vangelo la concezione della fede e subordinata all'accoglienza della persona del Cristo (cf. Mt 14,53-58) e del regno, che si manifesta mediante la predicazione accompagnata da segni prodigiosi. Si schiude cosi la prospettiva che caratterizza la seconda parte del ministero pubblico di Gesù e che si collega con uno dei temi teologici del libro di Giona: l'universalismo della salvezza. Considerando il messaggio dei tre sinottici, di fronte alla richiesta di «segni» Gesù sembra dare due risposte diverse. Secondo la narrazione marciana il Signore nega risolutamente ogni segno della sua autorità divina (cf. Mc 8,11-12). Nell'economia della presentazione cristologica di Marco, la negazione del segno appare coerente con la struttura progressiva e rivelativa del vangelo, che chiama alla fede mediante la rivelazione della persona del Cristo (cf. Mc 8,27-30) e al discepolato mediante la sequela della croce (cf. Mc 8,31-38). La concessione di un segno, che non appare nella tradizione marciana, viene invece introdotta negli altri due sinottici, per bocca dello stesso Gesù, che reinterpreta la storia di Giona come enigmatico annuncio del proprio destino.

II contesto sinottico di Matteo

L'intenzione dell'evangelista in Mt 11-12 è quella di presentare la persona di Gesù come Messia che compie le attese d'Israele. Egli è colui che annuncia il regno nei discorsi (cf. Mt 5-7), lo rende presente nei segni miracolosi (cf. Mt 8-9) e lo affida alla missione itinerante dei discepoli (cf. Mt 10). Il modello teologico che sottosta alla figura e alla missione di Gesù è costituito dal servo sofferente di YHWH (Mt 12,15-21; cf. Is 52-53). Pertanto la domanda implicita che percorre questa sezione è tematizzata sull'identità messianica di Gesù, richiesta dall'interpellanza del Battista e rivelata nella risposta del Signore:

«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono. i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella. E beato è colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,3-6).

A partire da questa lettura messianica, in Mt 12 si registrano i diversi motivi conflittuali tra Gesù e l'autorità costituita: le dispute riguardano il lavoro in giorno di sabato (Mt 12,2-3.12) e i potere di scacciare i demoni (Mt 12,22-24). Più che nel parallelo lucano, Matteo mette in luce la funzione giudiziale del Cristo, mediante la forte requisitoria contro l'ipocrisia dei farisei. Il tono profetico del confronto assume un orientamento escatologico, a motivo dell'insistenza del giudizio finale (Mt 12,33-37). Sulla stregua di questo confronto, che segna la distanza tra Gesù e il gruppo degli scribi e dei farisei, si inserisce la richiesta di un segno. che verte esplicitamente sul destino del Figlio dell'uomo e sulle conseguenze nei riguardi della «generazione perversa» (Mt 12.39.45). Mentre lo spirito impuro tornerà a dimorare e a peggiorare la condizione dei malvagi (Mt 12,43-45), la nuova famiglia di Gesù sarà costituita da quanti compiono «la volontà del Padre» (Mt 12,50).

II contesto sinottico di Luca

Il contesto lucano riporta una serie di logia riguardanti l'insegnamento di Gesù mentre è in cammino e svolge la sua predicazione alle folle. Dopo la consegna della preghiera del Padre nostro (Lc 11,1-4) e la necessità di invocare Dio con insistenza (Lc 11,5-13), l'evangelista presenta una disputa di Gesù con «alcuni» che di fronte al miracolo della guarigione del muto indemoniato, affermavano che il Signore agiva «in nome di Beelzebù» (Lc 11,15) mentre «altri, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo» (Lc 11,16). Gesù risponde, rivelando come la sua missione liberatrice avviene con il «dito di Dio», segno della venuta del regno di Dio (Lc 11,20). A confermare questa rivelazione, segue la similitudine dell'«uomo forte che è vinto dall'arrivo di un uomo che è più forte» (cf. la definizione del Cristo pronunciata dal Battista in Lc 3,16).
La sentenza finale di Lc 11,23 pone in modo radicale la scelta di essere con Cristo, altrimenti la condizione di schiavitù e di peccato tornerà a essere peggiore di prima (cf. Lc 11,24-26). Solo l'evangelista Luca riporta la scena della donna che benedice la maternità del Signore (Lc 11,27-28) e la significativa risposta di Gesù: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!». La rilevanza della «beatitudine dell'ascolto» pone in evidenza la diversa interpretazione lucana del segno di Giona (cf. Lc 11,29-32). In definitiva, le prospettive dei due sinottici sembrano diverse, come le conseguenti sottolineature relative all'interpretazione di Giona: in Matteo è sottolineata l'esperienza del parallelismo dei tre giorni e tre notti di Giona e quelli del Figlio dell'uomo (morte-risurrezione), in Luca l'analogato è la predicazione di Giona ai niniviti; pertanto il segno consiste nella «predicazione» stessa di Gesù.

II «segno» di Giona profeta

Dopo aver indicato lo sviluppo tematico del contesto, fermiamo l'attenzione sui due testi sinottici.
Nella versione matteana il segno di Giona consiste anzitutto nel fatto che il profeta «rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce» (cf. Gio 2,1), figura del «figlio dell'uomo» che «resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40). Questa sottolineatura stabilisce un confronto tra Gesù e l'episodio specifico accaduto al profeta: mentre il profeta fu gettato in mare per salvare l'equipaggio, venne ingoiato nel ventre del pesce e fu riportato vivo sulla terra, il «figlio dell'uomo» morirà per salvare l'umanità, rimarrà nel cuore della terra e il terzo giorno risorgerà. Si stabilisce cosi una relazione tipologica tra Giona e Gesù secondo lo schema promessa/compimento: la «profezia» di Giona diventa un segno rivelatore, in quanto essa prefigura il destino pasquale del Cristo. che muore e risorge «il terzo giorno» per donare la salvezza universale.

 

 Mt 12,38-42  Lc 11,29-32
38 Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono 29 Mentre le folle si accalcavano, Gesù
«Maestro, vorremmo che tu cominciò a dire: «Questa generazione
ci facessi vedere un segno». Ed egli rispose: e una generazione malvagia; essa cerca
39«Una generazione perversa e un segno, ma non le sarà dato alcun
adultera pretende un segno! Ma nessun segno, fuorché il segno di Giona. 30 Poiché,
segno le sarà dato, se non il segno di come Giona fu un segno per quelli
Giona profeta. 40Come infatti Giona di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo
rimase tre giorni e tre notti nel ventre lo sarà per questa generazione.
del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà La regina del sud sorgerà nel giudizio
tre giorni e tre notti nel cuore della insieme con gli uomini di questa
terra. 41 Quelli di Ninive si alzeranno a generazione e li con dannerà; perché
giudicare questa generazione e la essa venne dalle estremità della terra
condanneranno, perché essi si convertirono per ascoltare la sapienza di Salomone.
Alla predicazione di Giona. Ecco, 32 Quelli di Ninive sorgeranno nel
Ora qui c’è più di Giona!42 La regina giudizio insieme con questa generazione
del sud si leverà a giudicare questa e la condanneranno; perche essi
generazione e la condannerà, perché alla predicazione di Giona si convertirono.
Essa venne dall'estremità della terra Ed ecco, ben più di Giona c'e qui.
per ascoltare la sapienza di Salomone;  
ecco, ora qui c'e più di Salomone!  

 

Tuttavia nel confronto tra Giona e Gesù, il segno del Figlio dell'uomo rimane pur sempre enigmatico, perché Giona resta vivo nel ventre del pesce e viene rigettato all'asciutto per compiere la sua missione e da parte sua non accetta l'idea della salvezza dei pagani. mentre il Figlio dell'uomo, dopo aver predicato la salvezza a tutti. prima verrà ucciso e nel terzo giorno Dio lo farà risorgere alla vita (cf. Os 6.2). (5) In questo sviluppo si annuncia la superiorità del Cristo, non solo rispetto alla profezia di Giona, ma anche alla sapienza di Salomone. In tal modo l'evangelista propone un ulteriore messaggio: il compimento cristologico, a cui la comunità è chiamata a credere, non è solo nella linea profetica ma anche in quella sapienziale.
II giudizio escatologico che segue nelle due sentenze contro la «generazione perversa e adultera» verte sul motivo della fede nella persona del Cristo. I niniviti si convertirono alla predicazione di Giona e la regina del sud venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, «questa generazione» invece rimane incredula e non si converte di fronte al Cristo, il cui mistero pasquale rappresenta un evento assai più importante del segno di Giona e della stessa sapienza di Salomone. Nel giorno del giudizio i niniviti si leveranno come testimoni non soltanto per accusare i contemporanei di Gesù, ma anche per affermare la sua superiorità rispetto a Giona e a Salomone.
Nella versione lucana si afferma che Giona fu «un segno per quelli di Ninive» e si omette la citazione dei tre giorni», lasciando intendere che tutta la vita di Giona «fu segno» per quelli di Ninive, soprattutto quando il profeta accetta di predicare finalmente nella grande città (cf. Gio 3). Va sottolineato come l'evangelista anticipa l'esempio positivo della figura femminile della regina del sud (Lc 11,31), a cui segue la presentazione dei niniviti pagani (Lc 11,32). II motivo determinante è dato dalla «fede nella predicazione» (Lc 11,32: kerygma) di Giona. Infatti esso è collocato alla fine della pericope, come chiave di lettura del processo di conversione dei pagani. Appare chiaro come l'evangelista, in linea con lo sviluppo narrativo e teologico del proprio racconto, intenda accentuare la necessità dell'accoglienza della predicazione da parte della «generazione malvagia» in vista della conversione, a cui tutti, giudei e pagani, uomini e donne, sono chiamati a corrispondere.
Riassumendo gli esiti delle due tradizioni sinottiche, l'impiego teologico del libro di Giona in Matteo appare più centrato sul mistero pasquale del Cristo, mentre l'attenzione di Luca verte maggiormente sul processo dell'evangelizzazione, che sottintende la prospettiva della salvezza universale e la necessità dell'accoglienza di coloro che si convertono ed entrano a far parte della comunità cristiana.

Il logion di Mt 16,1-4 e I'accenno «ironico» a Simone figlio di Giona (Mt 16,17)

Collegata con Mt 12,38-42, un'ulteriore menzione del «segno di Giona» ritorna in Mt 16,1-4:

1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2 Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perchè iL cielo rosseggia"; e al mattino: "Oggi burrasca, perche il cielo è rosso cupo". Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4 Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.

Il brano si contestualizza in Mt 16,1-12, dove si presentano due scene: la richiesta di un segno da parte dei farisei e dei sadducei, seguita dalla risposta di Gesù. (vv. 1-4) e il successivo dialogo del Signore con i suoi discepoli sulla barca (vv. 5-12). E’ nella prima scena che Gesù fa riferimento al «segno di Giona», senza ulteriori specificazioni, rispondendo ai rappresentanti del giudaismo («farisei e sadducei», cf. Mt 3,7; 15,1-20), che perseverano nel metterlo alla prova. Sebbene Gesù avesse moltiplicato i pani per la folla (cf. Mt 15.29-39), i farisei e i sadducei non sono ancora soddisfatti del segno compiuto e pretendono la stessa richiesta di Mt 12,38-42: la conferma inconfutabile dell'identità messianica di Gesù richiede «un segno dal cielo». intendendo per «cielo» la realtà trascendente di Dio. Questa volta la risposta del Signore si trasforma a sua volta in una domanda che fa leva sul contrasto tra la capacita dei suoi interlocutori di interpretare due segni atmosferici: il rossore del cielo alla sera e alla mattina (vv. 2-3).
Pertanto la similitudine della previsione del tempo meteorologico pone in questione la capacita di discernimento del «segni dei tempi» da parte degli avversaridi Gesù. Attratti da un messianismo distorto e fallace, essi si aspettano segni prodigiosi che mirano al prestigio religioso e al potere pubblico; ma la missione del Cristo rifugge proprio questo messianismo fino alle estreme conseguenze (cf. Mt 27,40). La risposta di Gesù si completa al v. 4: la generazione «malvagia e adultera», rappresentata dall'incredulità refrattaria e ostile all'azione di Dio, da parte dei responsabili del giudaismo, non merita alcun segno se non il «segno di Giona». La mancanza di ulteriore specificazione fa pensare che il testo rimandi al precedente logion di Mt 12,38-42.
Alcuni autori hanno inteso collegare il motivo di Giona all'espressione rivolta a Pietro da parte di Gesù in Mt 16,17, dove viene denominato «Simone figlio di Giona»:

E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio the e nei cieli».

L'interpretazione si basa sull'ipotesi secondo la quale Gesù, rispondendo ai farisei e ai sadducei, avrebbe rimandato con un accenno ironico all' umile fede di Pietro a cui verrà affidata la Chiesa, che qui e definito «figlio» (nel senso simbolico) di Giona. Pur lasciando aperta questa ipotesi a ulteriori verifiche, il testo sembra esulare dalla prospettiva che vorrebbe collegare la figura di Giona con quella di Simon Pietro. Infatti tale interpretazione rimane periferica rispetto alla relazione tipologica Giona-Cristo, emersa da Mt 12,38-42 e Lc 11,29-32 e collegata al motivo teologico-narrativo del «segno» messianico e della rivelazione del «Cristo, Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

Conclusione

Il percorso proposto ha permesso di cogliere alcuni aspetti della ricchezza del libro di Giona reinterpretato nei racconti evangelici. Possiamo segnalare tre principali prospettive che emergono dall'interpretazione evangelica:

a) la prospettiva cristologica, in quanto il «segno di Giona» fa riferimento al mistero della morte e della risurrezione di Cristo;

b) la prospettiva kerigmatica perché la vita e la missione del profeta si esplica mediante la predicazione della salvezza ai pagani, i quali accolgono l'invito alla conversione e ricevono il perdono di Dio, tra le proteste del profeta (cf. Gn 4.1);

c) la prospettiva antropologica, in quanto dal libro si coglie la dimensione umana del protagonista, il suo conflitto interiore, la paradossalità dialettica della sua missione e del suo portato teologico.

In definitiva una «storia» dall'esito imprevedibile, come imprevedibile è la misericordia di Dio per noi.

 

Giuseppe De Virgilio

Note

1) Alcuni rabbini sostenevano che «Giona figlio di Amittai» fosse quel figlio della vedova di Sarepta risuscitato da Elia e tra i midrashim esegetici vi è il Midrash Giona. In alcune leggende ebraiche su Giona si descrivono storie romanzate sulle vicende narrate nel libro del profeta, a indicare l'importanza che il libro ricoprì nello sviluppo della riflessione teologica successiva (cf. A. UNTERMAN, Dizionario di usi e leggende ebraiche, Laterza, Bari 1994. 122).
2) Per l'approfondimento cf. H.W. WOLFF, Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982; G. LIMENTANI, Giona e il Leviatano, Paoline, Milano 1998; E. WIESEL, Cinque figure bibliche, Giuntina, Firenze 1988.
3) A differenza di altre tipologie anticotestamentarie riprese e applicate al Cristo nel Nuovo Testamento (Noè, Abramo, Davide, Salomone, Isaia, Geremia, Daniele, ecc.), la figura di Giona ritorna solo in Matteo e Luca. Per un approfondimento, cf. V. MORA, Le signe de Jonas, Cerf, Paris 1983; R. FARRIS, Matteo, Borla, Roma 1982, 281-283; S. GRASSO, Il Vangelo di Matteo, Deboniane, Roma 1995, 322-325.
4) Per uno sviluppo del tema. cf. M. CAIROLI, La «poca fede» nel Vangelo secondo Matteo. Uno studio esegetico-teologico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2005; V. FUSCO, «L'"incredulità del credente”: un aspetto dell'ecclesiologia di Matteo», in Parole Spirito e Vita 17 (1988) 118-142.
5) Commenta a proposito A. Mello: «Quanto alla predicazione profetica di Giona, il suo valore prefigurativo è piuttosto quello dell'anti-tipo, ossia del contrario. Giona aveva un messaggio di sventura a cui i niniviti cedettero, facendo penitenza; Gesù porta un evangelo di salvezza in faccia alla quale "questa generazione" rimane incredula. "Ho inviato un profeta a Ninive, che la indusse a convertirsi facendo penitenza. Ma questi figli di Israele che sono a Gerusalemme, quanti profeti ho inviato loro!” (Eikha Rabba, Peticha 31)» (A. MELLO, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano 1995, 229-230).

 

(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)

 

 

 

 Capitolo II (continua)

§3. Il sacrificio convertito

Questa rassegna, per quanto breve, rivela quale diffusione e importanza avesse il sacrificio nell’Antico Testamento e quanto sia inaccettabile la proposta di eliminarlo dalla storia della salvezza: «L’abbondanza con cui la categoria del sacrificio è attestata nella Scrittura ne fa un polo essenziale della soteriologia cristiana. Né essa è meno attestata nella tradizione», scrive B. Sesboüé[86]. Ma la rassegna appena vista mostra anche un’altra cosa: che la passione di Cristo non rientra in nessuna delle categorie sacrificali dell’Antico Testamento. Niente fa pensare che una simile morte potesse avere una dimensione sacrificale, dal momento che non ebbe luogo nel tempio e neppure per mano dei sacerdoti; fu anzi perpetrata da empi (cfr. At 2,23). Del resto la morte di un uomo non fu mai considerata un sacrificio dalla tradizione veterotestamentaria; nei sacrifici dell’Antico Testamento si offrivano agnelli, capretti, tori, tortore, colombe o, in modo incruento, prodotti della terra, mai uomini. A tal proposito può essere illuminante il parallelo tra la morte di Gesù e quella di Giovanni Battista: tutti e due sono vittime dell’odio dei loro nemici (Lc 3,19; Mt 14,1 – 12), ma solo la morte di Gesù sarà inquadrata nella categoria del sacrificio; il supplizio del Battista sarà classificato come martirio[87].


La morte di Gesù, anzi, ha tutte le carte in regola per essere considerata l’esatto contrario del sacrificio, dell’atto gradito a Dio: se è vero che «i sacrifici sono anzitutto un momento di incontro del fedele con Dio, durante il quale il Signore concede la sua benedizione, ossia la fertilità e il benessere»[88], allora la crocifissione di Cristo è un antisacrificio, il momento non dell’incontro con l’Altissimo ma del suo rifiuto e della sua maledizione. Secondo Gérard Rossé, infatti, con ogni probabilità Gesù è caduto sotto la sanzione della Legge espressa in Dt 21,22 – 23: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità»[89].


È opinione diffusa che Gesù sia morto sulla croce perché questa era la pena che i romani comminavano a schiavi ribelli, banditi famigerati e criminali particolarmente pericolosi; se Roma non fosse stata solita togliere lo ius gladii ai popoli sottomessi, Gesù sarebbe probabilmente morto per lapidazione, la pena di morte ebraica più praticata. In realtà, fa notare Rossé, il supplizio della crocifissione era conosciuto e praticato in Israele anche prima che i romani ne facessero uso sistematico; esisteva una crocifissione come punizione giudaica, eseguita nel nome della Legge e in riferimento alla sentenza di Dt 21,22 – 23. La LXX, coordinando i verbi dei versetti in questione («se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e sia messo a morte e che lo appendiate a un legno...»), suggerisce il seguente svolgimento: il condannato è prima ucciso per lapidazione (influenza probabile di Dt 21,18 – 21), poi il suo cadavere è appeso a un legno (albero, palo). Tuttavia l’interpretazione più primitiva e più comune leggeva Dt 21,22 nel modo seguente: «Se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte, tu l’appenderai al legno»; in questo caso la condanna riguarda una morte per crocifissione, non una lapidazione seguita dall’impiccagione del cadavere. La testimonianza più diretta e importante di tale pena capitale si trova nel Rotolo del Tempio, scoperto nelle grotte di Qumran. A differenza di Dt 21,22, che parla in modo generico di delitto degno di morte, il manoscritto del Mar Morto menziona due crimini specifici: il caso di un traditore che consegna il suo popolo a una nazione straniera; il caso di un condannato a morte che, riuscendo a fuggire, si rifugia in altre nazioni dalle quali maledice il suo popolo. Per tali delitti il rotolo prescrive: «Lo appenderete al legno, e morirà (...). E non lascerai il loro (sic) cadavere sul legno durante la notte, ma li dovete seppellire il giorno stesso, perché sono maledetti da Dio e dagli uomini coloro che sono appesi al legno e tu non contaminerai la terra che ti ho dato in eredità» (11 Q 19 LXIV 6 – 13). Il Rotolo del Tempio, insomma, confermerebbe che, attorno all’era cristiana, il testo di Dt 21,22 – 23 era applicato alla crocifissione di criminali, pena sentenziata nel nome della Legge e compresa come punizione giudaica. Non si può quindi escludere, prosegue Rossé, che il Sinedrio stesso abbia condannato Gesù alla crocifissione con l’accusa di essere un bestemmiatore o un falso profeta, anche se il potere esecutivo era in mano a Pilato[90]. Come sia, è plausibile ritenere che Gesù, condannato in nome della Legge e crocifisso, fosse considerato da molti, in Israele, un maledetto da Dio, sulla base di Dt 21,23. Paolo è il primo ad affermarlo in modo esplicito in Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno». Va precisato, fa ancora notare Rossé, che l’apostolo attribuisce la maledizione non a Dio ma alla Legge: Gesù crocifisso subisce la maledizione della Legge e si trova così in piena solidarietà con l’uomo sotto la Legge, per riscattarlo; nondimeno la citazione di Dt 21,23 in Gal 3,13 testimonia che Paolo conosce il legame tra il supplizio della croce e la maledizione a esso legata[91].


Anche il processo intentato a Gesù, non solo la sua passione, sfugge alle tradizionali categorie ebraiche e romane: la morte del Messia è stata decisa non dal Sinedrio al completo, riunito in modo regolare, ma durante una seduta notturna di alcuni sinedriti. Gesù fu ritenuto pericoloso al punto da essere consegnato a Pilato. E il prefetto romano, la cui crudeltà era conosciuta, ne sentenziò la morte per crocifissione in maniera del tutto ingiustificata[92]. Scrive Rossé: «Con ogni probabilità il motivo dell’arresto e della condanna sono stati il gesto e la profezia contro il tempio; ruolo attivo hanno avuto i Sadducei; motivo nascosto: Gesù metteva in discussione l’ordine stabilito; motivo politico da portare a Pilato: una pretesa regalità (vedi il titulus della croce). Ma se Pilato avesse ritenuto Gesù politicamente o socialmente pericoloso, avrebbe anche fatto ricercare e arrestare i suoi complici, cioè i discepoli, ma non lo fece»[93].


Quanto fin qui esposto rende facile condividere ciò che Joseph Moingt dice sulla passione di Cristo: «La croce è un sacrificio sotto il modo di non esserlo, sacrificio unico nel suo genere, che non entra nel genere sacrificale, un sacrificio che si compie consumando in sé la ragion d’essere e il senso sacrificale degli altri sacrifici religiosi, i quali sono inefficaci e non sono graditi a Dio, un sacrificio che trasforma radicalmente l’atteggiamento religioso degli uomini per renderli degni della rivelazione e del culto del Dio nuovo rivelato sulla croce»[94]. Possiamo in un certo senso dire – riprendendo il pensiero di Sesboüé, che parla di «senso convertito assunto dal termine sacrificio» (cfr. op. cit., n. 79) – che la morte di Gesù redima anche il sacrificio. Non elimina il sacrificio dalla storia della salvezza, non lo rinnega, anzi abbraccia un po’ tutte le pratiche sacrificali della storia di Israele e di alcune riprende il linguaggio (il pasto sacro, l’effusione di sangue), ma nello stesso tempo – secondo quella logica di tradizione e novità, di continuità e compimento/superamento che lega in modo indissolubile Antico e Nuovo Testamento – le trascende, va oltre, dà loro un significato del tutto nuovo.

 

Marco Galloni

 

[86] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 291.

[87] Cfr. G. DEIANA, op. cit., p. 73.

[88] Ivi, p. 51.

[89] G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in Paolo e in Marco, Città Nuova Editrice, Roma, 2006, pp. 8 – 9.

[90] Ivi, pp. 9-11.

[91] Ivi, pp. 11-12.

[92] Ivi, p. 8.

[93] Ivi, p. 8, n. 1.

[94] J. MOINGT in Mort pour nos péchés. Recherche pluridisciplinaire sur la signification rédemptrice de la mort du Christ, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, p. 167.

testo precedente

 

Dodicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Gb 38,1.8-11

Dal libro di Giobbe

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
e gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 106 (107)

Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.

Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.
 
Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.
 
Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.
 
Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.

Seconda Lettura 2Cor 5,14-17

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
 
Canto al Vangelo (Lc 7,16)


Alleluia, alleluia.

Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo.

Alleluia.

Vangelo Mc 4,35-41

Dal vangelo secondo Marco

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

OMELIA

Siamo tempesta. “Siamo solitudine” (Rilke).
L’unica cosa veramente umana che possiamo fare è ‘mantenere la calma’.
Scendere al centro di noi e scoprirvi il luogo, la dimensione dove è possibile riposare nella pace, come nell’occhio del ciclone, ove tutto è incandescenza. E lì patire la trasformazione.
Si tratta di ancorarci profondamente sul ‘fondo’ della nostra anima. Nella tempesta, ‘stare’ in perfetta quiete al Centro di noi stessi. Dove niente e nessuno potrà entrare, o recar danno.
Noi siamo. Siamo il nostro Essere, al di là di ciò che abbiamo, i nomi, le cose cui ci ancoriamo.
Disarcionati, cadiamo nel Vuoto: stato dell’infinità possibilità.
I miti antichi, e la saggezza dei grandi ci suggeriscono che c’è un solo modo per non lasciarsi vincere dal sentimento della paura: abitarla. Fino in fondo. Là si compirà l’autentico miracolo della nostra esistenza: costatare che l’angoscia è solo un errore di prospettiva. Non siamo cosa che può essere perduta. Ma uno con l’Uno. Epifania dell’incommensurabile.
Siamo l’altro nome di Dio.
 
Paolo Scquizzato
 
Undicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ez 17,22-24

Dal libro del profeta Ezechiele

Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 91 (92)

È bello rendere grazie al Signore.

È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.

Seconda Lettura 2Cor 5,6-10

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

Canto al Vangelo


Alleluia, alleluia.

Il seme è la parola di Dio,
il seminatore è Cristo:
chiunque trova lui, ha la vita eterna.

Alleluia.

Vangelo Mc 4,26-34

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

OMELIA

“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (vv. 26-28)

Esiste una realtà, in cui siamo immersi e che ci pervade, che fa sì che tutto emerga, cresca e si compia. E questo ‘spontaneamente’, senza forzature, senza il nostro intervento, o di qualcosa d’esterno. Anzi, meno ci si pone di traverso, più questa forza farà il suo corso, conducendo tutto in porto.

«Coloro che fluiscono come scorre la vita, sanno di non aver bisogno di altra forza» (Lao Tse).

Il non fare è ciò che di più grande e produttivo si possa compiere. Nella vita spirituale – come nell’arte – quanto meno si opera maggiormente si crea.
Compiremo l’opera più alta quando l’ego e i nostri sforzi consapevoli s’arrenderanno a questa forza che non è la nostra.
Non esiste ‘un noi’ a cui accadono le cose diverso da quanto sta accadendo, e di conseguenza le cose non accadono ‘a noi’. Noi siamo (nel)le cose che accadono. Le cose accadono e insieme ci accadono e basta.
Il ‘noi’ fa parte di ciò che accade, perché facciamo parte dell’universo. E l’Universo non ha parti. È Uno.

“Che cosa cerchi?
La sorpresa suprema”.

Ciò che cerchiamo alla fine è solo la ‘sorpresa suprema’, e nella misura in cui abbiamo dei preconcetti su di essa, la guasteremo.
Il principio che regola l’Universo è la sorpresa, e la spontaneità. Significa compiere un miracolo senza compiere miracoli, senza far nulla, senza programmarlo.
Quando smetti di desiderare il miracolo, il miracolo si compie.
 
Paolo Scquizzato
 
Decima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Gen 3,9-15

Dal libro della Genesi

[Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo,
maledetto tu fra tutto il bestiame
e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna,
fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 129 (130)

Il Signore è bontà e misericordia.

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

Io spero, Signore;
spera l'anima mia,
attendo la sua parola.
L'anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all'aurora.

Più che le sentinelle l'aurora,
Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

Seconda Lettura 2Cor 4,13-5,1

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.
Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.

Canto al Vangelo Gv 12,31b-32


Alleluia, alleluia.

Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.

Alleluia.

Vangelo Mc 3,20-35

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni».
Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa.
In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

OMELIA

Gesù non s’allinea alla tradizione religiosa dei suoi padri, a quel ‘s’è sempre fatto così’ in bocca a chi ha trasformato la tradizione in mero culto delle ceneri quando è invece sacra custodia del fuoco. E per questo proprio i suoi, sua madre e i suoi fratelli lo vanno a prendere, credendolo impazzito: ‘È fuori di sé’ (v. 21). Un indemoniato (v. 30).
Bellissimo! Per stare dentro la logica evangelica occorre essere ‘fuori di sé’. E fuori da una religione fondata su tradizioni e dottrine che son semplici precetti di uomini: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (cfr. Mc 7, 7s.). Quella medesima tradizione che in nome del suo piccolo dio afferma che un essere umano può essere discriminato in base al suo stato di purità, alla colpa commessa, al popolo d’appartenenza o alle sue scelte alimentari.
Per questo Gesù non ci sta, e ne prende le distanze. Per lui la persona è sempre di più che un’affermazione di principio – religiosa o politica che sia. Neanche un dio può essere sopra l’umano. Averlo creduto ha fatto sì che si perpetuassero crimini orrendi nei confronti delle persone in nome del medesimo dio.
Per questo Gesù è ‘fuori di sé’. Perché ha finalmente compreso che il suo Dio coincide con l’umano portato alle estreme conseguenze. E quindi alla luce. Ed è per questo che ha guarito i lebbrosi che la Legge divina considerava maledetti; ha rialzato l’adultera che la Legge di Dio reputava meritevole di morte; ha violato il sabato – il più alto comandamento divino – a favore del bene dell’uomo; ha dichiarato puri tutti gli alimenti quando la Legge di Dio proibiva l’uso di una miriade di cibi; ha toccato una donna mestruata quando la Legge divina la considerava un paria, inavvicinabile, e semplicemente perché convinto appunto che il ‘suo’ Dio non può reputare impuro o profano nessuno (cfr. At 10, 28). E se ha accolto pagani e stranieri – contro il Dio nazionalista ebraico – è solo perché il ‘suo’ Dio non fa preferenza di persona, indipendentemente dalla nazione di appartenenza (cfr. At 10, 35).
Non si entrerà dunque nel ‘regno di Dio’ perché ci si riconosce dalla parte di Dio – o credenti – ma perché si crederà fermamente e finalmente nell’umano (cfr. Mt 25, 31ss.) impegnandosi a compiere la volontà del Padre (v. 35), vivendo con lo stile di Gesù il pazzo, il sovversivo.
 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 02 Giugno 2024 18:53

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Anno B

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Es 24,3-8

Dal libro dell'Esodo

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 115 (116)

R. Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Seconda Lettura Eb 9,11-15

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d'uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo - il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio - purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un'alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che era stata promessa.

Canto al Vangelo Gv 6,51


Alleluia, alleluia.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice il Signore.
Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

Alleluia.

Vangelo Mc 14,12,16.22-26

Dal vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: "Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?". Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

OMELIA

«Prendete, questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue».
L’amore si spezza e si versa. Vuoto a perdere.
Si fa dono senza ‘se’ e senza ‘ma’. Non domanda ‘carta d’identità’, e ‘fedina penale’ a chi si dà.
In Giovanni, l’unico discepolo che si ‘comunica’ al pane spezzato è Giuda, il traditore. (cfr. Gv 13, 26).
La comunione eucaristica non è il premio dei buoni, la ricompensa dei puri, la palma per i vincitori. È il farmaco per i malati, il balsamo dei feriti.
“Signore non son degno di partecipare alla tua mensa….” si recita prima di ricevere il pane: appunto perché non degni possiamo accostarci a quel dono. Ci reputassimo tali non dovremmo neanche alzarci in piedi e incamminarci verso il ‘medico’, dato che lui è venuto solo per malati e non per i sani (cfr. Mt 9, 12).
Gesù dice che il pane e vino sono ‘segno’ dell’Alleanza, ossia di un’unione speciale tra lui e i suoi. Nutrirsi del pane eucaristico significa impegnarci a vivere con uno stile di vita ‘altro’, improntato a quello di Gesù di Nazareth. È in fondo un atto di responsabilità. ‘Fare eucaristia’ significa ‘spezzarsi’ e ‘versarsi’ ogni giorno, nelle comuni circostanze della vita.
«La celebrazione eucaristica realizza sé stessa quando fa in modo che i credenti donino “corpo e sangue” come Cristo per i fratelli» (Carlo Maria Martini).
«L’eucaristia sancisce questo vincolo di sangue: tu non disprezzerei nessuno. Tu non farai del male a nessuno. Tu non ti arricchirai calpestando i diritti dei tuoi fratelli. Tu non usurperai la terra che non è tua. Tutto questo è contro la fraternità, è contro l’Alleanza. Se una persona non ha questa disposizione è meglio che non venga ad alimentarsi del corpo e sangue di Cristo, perché mangia la sua morte» (Arturo Paoli).
 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 26 Maggio 2024 10:35

Santissima Trinità. Anno B

Santissima Trinità. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 4,32-34.39-40

Dal libro del Deuteronomio

Mosè parlò al popolo dicendo:
«Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità all'altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?
O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n'è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 33

Beato il popolo scelto dal Signore.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell'amore del Signore è piena la terra. 

Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato,
comandò e tutto fu compiuto.

Ecco, l'occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L'anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Seconda Lettura Rom 8,14-17

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 
Canto al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo,
a Dio, che è, che era e che viene. (Cf. Ap 1,8)

Alleluia.

Vangelo Mt 28,16-20

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

OMELIA

«Quando sappiamo di non conoscerlo e siamo in attesa di lui per poterlo conoscere, allora sappiamo realmente qualcosa di lui ed egli ci ha afferrati e conosciuti e ci possiede. Allora siamo credenti pur nella nostra incredulità ed egli ci accoglie nonostante la nostra separazione da lui» (Paul Tillich).
Di ciò che denominiamo con la parola Dio o se ne fa esperienza o rimarrà puro significante privo di significato, mero concetto elaborato della mente, e in ultima analisi indifferente. E l’esperienza nasce da un atto di donazione e quindi uno di ricezione. Vi è prima un ‘tender l’orecchio’, una postura ‘attenta’ a ciò che potrebbe raggiungermi, e poi l’esperienza appunto di ciò che m’ha raggiunto, che dev’essere però totalmente altro da ciò che m’attendevo.
Dio non è un ‘ente tra gli enti’, e tantomeno un ente conoscibile, oggetto di comprensione.
«Si conosce meglio Dio non conoscendolo» (Agostino) e «La suprema conoscenza di Dio è conoscere Dio come sconosciuto» (Tommaso).
È Mistero, indefinibile e inconoscibile. Però possiamo al contempo esperirlo e venire da lui (o da esso?) conosciuti. E questo accadrà nel momento in cui rinunceremo ad agire in ‘qualche modo’ nei suoi confronti; quando vivremo finalmente il Distacco, e ‘rinunceremo a fare di noi stessi dei santi’ (Dietrich Bonhoeffer).
La festa che oggi la Chiesa celebra, la Santissima Trinità, è metafora fondamentale. Il Mistero è paragonabile all’Amore, la più alta e feconda esperienza che può fare l’essere umano. Per cui Dio-Trinità lo si può esperire come l’amore degli amanti, l’energia che muove l’Essere, «che mi chiede di esprimermi appieno e di afferrare la sacralità di tutto ciò che esiste» (John Spong).
Per questo motivo dire di credere in Dio – e nel Dio Trinità – non potrà risolversi in una sterile professione di fede, ma piuttosto in un atto di accoglimento, un ascolto attento e silenzioso, scevro da immagini, pregiudizi aspettative sino a sentirsene parte ed espressione: ‘In lui viviamo, ci muoviamo e siamo’ (At 17, 28), e conseguentemente nell’impegnarsi a vivere secondo la versione migliore di noi stessi, sedendoci accanto alle donne e agli uomini che la storia ci fa incontrare, per asciugare loro – secondo il bisogno – le lacrime e aprirgli strade di futuro.
Crederà nel Dio Amore (Trinità) solo colui che crederà fermamente nell’uomo, nella sua profonda bontà, nella sua inalienabile dignità, nella sua totale irriducibilità.
«La conoscenza di Dio, secondo la Bibbia, è per equivalenza, genesi dell’uomo. Diventare davvero uomo e conoscere Dio sono una sola e medesima operazione. Conoscere Dio e vivere la vita umana perciò coincidono» (Pierre Ganne).
 
Paolo Scquizzato
 

Per quanto riguarda i sette grandi sacramenti, la liturgia non si accontenta di osservare le norme minimali per la loro "validità" giuridica, cioè la verità della materia e l'esatta pronuncia della formula che l'accompagna; sebbene tutto questo sia determinante per fare ciò che intende fare la Chiesa. La liturgia si preoccupa anche (ed è la sua caratteristica specifica) della validità o efficacia pastorale. Infatti, la liturgia comunica il deposito della fede «attraverso i riti e le preghiere» (cf SC 48). La partecipazione alla liturgia non solo deve essere attiva, ma anche consapevole perché sia fruttuosa (cf SC 11). Per questa ragione i riti devono splendere per nobile semplicità, essere chiari per brevità, senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano, generalmente, bisogno di molte spiegazioni (cf SC 34). Tutto questo vale anche per la cresima. Mi sembra importante richiamare queste caratteristiche della celebrazione liturgica in un momento in cui c'è chi tende a identificare il mistero cristiano semplicemente con ciò che non si capisce affatto, confondendo la realtà soprannaturale invisibile con i segni visibili che intendono comunicarla.

La crismazione con la formula che l'accompagna è il cuore del sacramento della cresima. Per questo Paolo VI, affinché fosse chiaro il significato del sacramento, sostituì la formula invalsa nel medio evo (XII sec), che non faceva alcun riferimento allo Spirito se non nella benedizione conclusiva della formula stessa con il segno di croce (= Ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo).

L'attuale formula (= Accipe signaculum doni Spiritus Sancti) risale al V secolo ed è comune alla Chiesa bizantina. Non solo un segno di grande valore ecumenico attingendo all'antica e comune eredità della Chiesa indivisa, ma anche una presa di posizione dottrinale sul significato specifico della confermazione: il dono dello Spirito che conferma e porta a compimento la nascita dall'acqua e dallo Spirito Santo per essere conformati a Cristo e partecipi della sua missione.

La rubrica che precede il momento culminante della confermazione prevede come preferenziale che i cresimandi si accostino processionalmente al vescovo. Questo è certamente il gesto più significativo, come del resto si fa normalmente anche per accostarsi alla mensa eucaristica. Il movimento processionale nella liturgia esprime infatti l'identità e la missione della Chiesa: un popolo in cammino nel tempo, sulle strade del mondo, verso la pienezza della vita in Cristo.

Non è certo la celebrazione in atto il momento per fare un'articolata catechesi sulla cresima. Le opportune monizioni non sono lezioni. La dottrina dovrebbe essere oggetto degli incontri catechistici, specie nell'anno che prepara a questo evento. Se poi alla confermazione segue immediatamente, nella stessa celebrazione, la prima partecipazione all'eucaristia. tanto meglio. I due sacramenti si integrano perfettamente, non l'uno a scapito dell'altro, come qualcuno obietta, ma integrandosi reciprocamente recuperando la loro originaria sequenza. Si tratta, infatti, di quella particolare unzione che abilita il battezzato a partecipare alla mensa eucaristica, anzi, a identificarsi a quel Gesù che ha portato a compimento il suo sacerdozio offrendo se stesso (cf Eb 7,27).

Il cresimato è abilitato a unire l'offerta della propria vita all'offerta unica e irripetibile di Cristo. Non è senza ragione che fin dal 1971 «i cresimati e, secondo l'opportunità, i loro padrini, genitori, coniugi e catechisti possono ricevere la comunione sotto le due specie» (Rito della confermazione 37). Si tratta di sottolineare l'importanza del sacramento, dando alla celebrazione tutta la ricchezza possibile della sua ritualità. Il segno di pace, che conclude il rito del sacramento, sostituisce lo "schiaffetto" che, di quel gesto originario, era diventato, per così dire, un semplice organo-testimone, così da assumere lungo i secoli interpretazioni, se non del tutto improprie, certamente parziali e marginali come, ad esempio, il coraggio di professare la propria fede anche a prezzo della derisione e persecuzione. Impegno di ogni vero cristiano, ma non legato a questo gesto.

Silvano Sirboni

 

(Vita Pastorale, n. 9, 2015, p. 53)

 

Venerdì, 17 Maggio 2024 11:01

Rispettare i beni altrui (Cettina Militello)

Rilettura del decalogo: il settimo comandamento

Dietro colui che è sorpreso a rubare c'è uno società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, quelli che hanno fatto della speculazione un'arte, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.

Introducendo al VII comandamento, abbiamo fatto spazio all'utopia, anzi alla radicalità cristiana, che guarda ai beni tutti come dono e dunque li custodisce, ne ha cura, senza la prevaricazione del possesso. In verità, la radicalità di cui parliamo appartiene anche a certa tradizione ebraica che, poiché le cose tutte appartengono al creatore, legge il furto come profanazione del nome di Dio e perciò come bestemmia. Di fatto, però, cristiani e non, siamo addivenuti a un'accezione privata e/o pubblica del possesso, perciò dell'opporre gli uni agli altri diritti acquisiti circa le persone e le cose. Ci è giocoforza avventurarci nelle maglie di quest'ordinario nostro vivere e declinare il furto nella scala di peccaminosità (e reato) che esso comporta.

Rispetto delle persone e dei beni

Il Catechismo della Chiesa cattolica sotto il titolo "il rispetto delle persone e dei loro beni" distingue il rispetto dei beni altrui e a seguire il rispetto dell'integrità della creazione. Nella prima prospettiva il furto è considerato «usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario» (CCC, 2408). Non c'è furto se il consenso è "presunto", ovvero se il possesso è contrario «alla ragione e alla destinazione universale dei beni».

Dunque, dinanzi a una necessità urgente relativa a bisogni immediati ed essenziali non c'è furto che tenga. Ovvero, non si può parlare di furto. E come beni essenziali vengono indicati: nutrimento, rifugio, indumenti... Proprio i puntini di sospensione fanno capire che l'elenco non è esaustivo e che, a ben riflettere, è, all'opposto, un furto negare a qualcuno il diritto nativo a nutrirsi, ad avere un tetto, ad avere vesti adeguate a difendere il proprio pudore e la propria dignità.

Ebbene, nel mondo in cui viviamo milioni (miliardi?) di persone sono prive di questi diritti inalienabili. Il che ci apre al delitto immane collettivamente consumato verso chi non ha casa, nutrimento, vestito. Le cronache del nostro tempo di crisi, anche nell'opulento Occidente, anche a casa nostra, ci mettono dinanzi a chi per bisogno sottrae cibo dagli scaffali dei supermercati, a chi occupa immobili, disabitati vuoi per iniquità vuoi per incuria. Diventa più sottile la questione del vestirsi. Ma se ne allarghiamo la valenza, anche al riguardo la responsabilità collettiva è enorme.

Una perla del CCC al paragrafo 2409 riguarda la discrepanza tra le disposizioni della legge civile e il VII comandamento. Il furto resta tale anche quando l'azione del sottrarre a qualcuno un bene proprio non si configura come reato. E, bisogna pur dire che, nella dissoluzione dell'ethos pubblico e nell'iniquità di un legiferare a favore del privilegio, tantissime azioni riprovevoli e riconducibili al furto, alla sottrazione indebita a singoli o alla comunità, di fatto non vengono più perseguite come tali, anzi è diventato obbligato vantarsene come azione virtuosa - meglio "fruttuosa" - di chi se ne avvantaggia.

Società all'insegna della frode

L'elencazione del paragrafo citato accosta l'appropriarsi di cose avute in prestito al mantenere come proprie le cose smarrite, il commettere frode nel commercio al pagare salari ingiusti e ancora all'alzare i prezzi speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Speculazione, corruzione, uso privato dei beni sociali di un'impresa, lavori eseguiti male, frode fiscale, contraffazione di assegni e di fatture, spese eccessive, sperpero, danno arrecato alle proprietà private e pubbliche. Sembra quasi di scorrere le colonne dei nostri quotidiani. La nostra società è nel segno della frode, della speculazione, della corruzione, dello sperpero, della contraffazione.

È chiaro che a fare la differenza è il peso del bene sottratto. Personalmente trovo che l'ingiuria più grave, purtroppo impunita, è quella relativa alla bellezza. Basta entrare in una stazione, salire su un treno ordinario, entrare in un ospedale, in una scuola, in una Asl per capire come non contano nulla le persone e i loro bisogni e come ci si accanisca a rendere invivibili mezzi, ambienti, risorse di altissimo valore sociale.

Una cosa esige la morale cattolica e anche questa ce la siamo dimenticata: il risarcimento. Non basta mettere in carcere chi ha rubato. Il più delle volte non serve, anche perché i ladri che popolano le carceri, quelli che del furto hanno fatto un "mestiere", il più delle volte sono tali per "bisogno". Dietro colui che è sorpreso a rubare - quale che sia l'entità del furto - c'è una società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, i "colletti bianchi", quelli che della speculazione hanno fatto un'arte, della corruzione uno stile di vita, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.

In carcere non vanno quelli che allungano e incrementano il costo delle opere pubbliche, che frodano sulla qualità dei materiali, che "ungono" per ottenere autorizzazioni poi disastrose. In carcere non vanno quelli che hanno a disposizione congrui rimborsi spese e che se ne servono, oltre la legittimità della loro funzione, per gratificare e corrompere. Ebbene tutti costoro dovrebbero restituire il mal tolto, risarcire l'offesa arrecata ai singoli e alla collettività. Il più delle volte - nel nostro ordinamento – proprio questi reati vanno in prescrizione.

Il tragico è ancora che soggetti siffatti passano pure per buoni cristiani; li si assolve senza che abbiano restituito il mal tolto. Discorso questo che tocca tutti, laici e chierici. Per questi ultimi, poi, c'è spesso, purtroppo, la pretesa di collocarsi al di sopra della legge. Risarcire, restituire il bene sottratto, riparare all'ingiustizia compiuta. Sono cose praticamente impossibili nella misura in cui la frode, la speculazione, l'appropriazione crescono qualitativamente.

Una finanza creativa, che calpesta le persone

Nella babele dell'infinito numero di leggi è facile trovare vie d'uscita. Quelle che non ha chi non ha mezzi, non ha cultura, non ha santi protettori, non ha la possibilità di farsi valere e perciò paga anche quello che altri dovrebbero pagare al suo posto. Penso alla cosiddetta finanza creativa, all'andare in fumo di miliardi e miliardi così come all'incrementarsi di miliardi e miliardi, senza che ciò abbia un corrispondente riscontro di beni, mentre reale e concreto, è l'impoverimento di chi s'è fidato, di chi, magari, ha provato pure lui a rischiare e si ritrova alla fine privo di risorse. Penso allo scandalo dei "derivati", al debito gestito come denaro contante e pagato, tragicamente, non dalle banche, ma da singoli e incauti loro clienti.

Forse, però, l'aspetto più inquietante è quello relativo non alle cose, ma alle persone. E, ancora sulla scia del CCC 2014, lo dico non genericamente, visto che il furto nel sottrarre un bene tocca sempre comunque la persona. Lo dico delle persone ridotte in schiavitù, asservite per ragioni egoistiche, ideologiche, mercantili, totalitarie, negando loro la dignità personale. Persone acquistate, vendute e scambiate come merci. E il discorso si fa pesante relativamente all'appoggio offerto, direttamente e indirettamente, anche con una legislazione ingiusta, ai «mercanti di carne umana» - come li ha chiamati Papa Francesco. Offende il VII comandamento il mercato dell'immigrazione, lo sfruttamento dei lavoratori, clandestini e non o comunque irregolari. E di nuovo è mercato di carne umana il racket della prostituzione, del gioco d'azzardo, o anche quello che accende le guerre e recluta addirittura bambini-soldati. È mercato di carne umana quello che incrementa nuove e vecchie schiavitù, la più odiosa delle quali è quella legata all'idolatria dell'utile, con disprezzo di chi vi contribuisce e ne resta escluso.

Offende il VII comandamento la pretestuosa delocalizzazione delle imprese; la vergognosa rottamazione dei lavoratori; lo sfruttamento dell'ingegno, della creatività, dell'immaginazione; lo sfruttamento nei Paesi poveri (ma anche da noi) di quanti sono costretti a incrementare le ricchezze di pochi, avendo negati regole e diritti. Offende il VII comandamento il furto della dignità, della speranza, l'orizzonte buio di un presunto do ut des comunque utilitaristico e mercantile; l'imposizione disperante di una vita senza ideali, senza utopie, senza la bellezza e l'armonia del vivere e dell'operare "insieme". Detto altrimenti, è offesa contro il VII comandamento tutto ciò che viola l'essere umano, la sua dignità di persona fatta a immagine di Dio. Il che offende anzitutto Dio stesso, la sua signoria, il suo progetto di affidare a tutte le sue creature la "culturazione" del vivere e la "coltivazione" del creato.

Cettina Militello


(Vita Pastorale, n. 3, 2014, pp. 46-47)

 

 

 

 

«Siamo infatti opera sua,
creati in Cristo Gesù per le opere buone,
che Dio ha preparato perché in esse
camminassimo» (Ef 2,10)

Nel cap. IV della sua Regola, Benedetto offre una lunga lista di "strumenti delle buone opere", o "strumenti dell'arte spirituale" 1, che toccano quegli ambiti nei quali il monaco è chiamato ad impegnarsi nel suo quotidiano cammino di conformazione al Cristo.

A motivare e illuminare l'utilizzo degli "strumenti delle buone opere" che Benedetto via via elencherà, è il duplice comandamento dell' amore esplicitamente rievocato all'inizio del capitolo: «In primo luogo: Amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze", poi amare il prossimo come se stesso»2.

In queste parole del Signore, che compendiano tutto il Vangelo, è racchiusa l! essenza del "buon operare". Infatti, poiché l'amore è la natura stessa di Dio (cf. IGv 4,8.16), esso è anche ciò che meglio di qualsiasi altra cosa qualifica la ricerca di Lui e del suo Regno, ricerca che ha come suo riscontro concreto l'attuazione delle buone opere (cf. Gc 2,14ss)3. Questa motivazione, basata sul duplice comandamento dell' amore, è anche la conferma che le "buone opere" non sono semplicemente il risultato degli sforzi umani, ma soprattutto il frutto della grazia divina, il dono dell' amore che lo Spirito «ha riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) e che illumina ogni aspetto della nostra vita. Nel cammino di conformazione a Cristo - agli occhi d Benedetto - tutto è dunque avvolto dall' amore, alla luce de quale trova senso anche l'assunzione degli "strumenti delle buone opere" che il monaco è chiamato a declinare generosa mente nel suo quotidiano cammino.

È emblematico, in proposito, il fatto che Benedetto abbia introdotto il duplice comandamento dell'amore con l' avverbio "imprimis" (anzitutto/in primo luogo), mentre gli strumenti veri e propri sono preceduti dall'avverbio "deinde" (quindi/qui innanzi). Con ciò Benedetto vuol far risaltare che al cuore della vita monastica, e quindi al centro della sequela di Cristo vi è l'amore per Dio e per i fratelli. Gli "strumenti" che ne declineranno poi la forma nella trama concreta di ogni giorno non ne sono che un commento, un'applicazione o una conseguenza. È l'amore, infatti, a rendere possibile l'attuazione delle "buone opere" e a dare loro il tono, il calore e la forza della verità, anche se non bisogna dimenticare che lo stesso duplice comandamento dell' amore a Dio e ai fratelli è, a sua volta, reso possibile dall'iniziativa benevola di Dio che ci viene incontro con il suo Amore, come scrive san Basilio: «Poiché, dunque, abbiamo ricevuto il comandamento di amare Dio, abbiamo insita in noi fin dal primo momento in cui siamo stati plasmati, la capaciti di amare»4.

NIENT' ALTRO CHE CRISTIANI NEL SOLCO DEI COMANDAMENTI

È dunque sullo sfondo luminoso del duplice comandamento dell' amore che Benedetto apre l'elenco degli "strumenti delle buone opere" riproponendo alla lettera cinque comandamenti tratti dalle "Dieci parole" o "Dieci comandamenti" consegnati da Dio a Mosè, sul Sinai: Non uccidere; Non commettere adulterio; Non rubare; Non nutrire desideri illeciti; Non dire falsa testimonianza5.

Si tratta di comandamenti che mantengono la loro basilare importanza anche per la fede cristiana e che, ancora una volta, richiamano la necessità di innervare nelle relazioni interpersonali la centralità dell' amore, inteso come adempimento della legge. Lo dirà bene anche l'apostolo Paolo in quei versetti della Lettera ai Romani dai quali, forse, lo stesso Benedetto ha tratto ispirazione per la collocazione dei comandamenti subito dopo il duplice comandamento dell' amore:

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8-10).

È importante rilevare che l'inserzione di questi cinque comandamenti all'inizio .della lista degli "strumenti delle buone opere", attesta chiaramente come Benedetto considerasse il movimento monastico come parte integrante dell'unica Chiesa di Cristo, e non ad essa parallelo o addirittura contrapposto. Indicando ai suoi monaci quei precetti che stanno a fondamento della fede biblico-cristiana, egli li richiama al senso ultimo della vocazione monastica, che altro non è se non una vocazione cristiana presa e vissuta sul serio, ossia una chiamata a vivere radicalmente il Vangelo di Gesù, il Vangelo dell'amore. In altre parole, Benedetto ci tiene a chiarire che il monaco non è per nulla uno specialista della fede cristiana, un detentore di una vocazione speciale e più o meno eccezionale, ma un cristiano tout court o, come è stato scritto «un devoto laico, che si limita a scegliere i mezzi più radicali perché il suo cristianesimo sia integrale»6. Al riguardo, il cardinale benedettino Basil Hume così scriveva:

«A rigore, la vita del monaco non è organizzata in vista di un particolare lavoro o servizio nella Chiesa. Il suo scopo principale è di cercare Dio e questo egli assume come compito per tutta la vita. In un certo senso, questo compito non è diverso da quello di ogni cristiano, anzi di ogni per- sona. La vita monastica è semplicemente un modo di vivere la vita cristiana, e il monaco la vive in una comunità. Il valore di un monastero all'interno della Chiesa è principalmente il fatto che esso esiste. È un centro spirituale che deve rendere testimonianza delle cose di Dio e attrarre a sé (...). Ma i principi che guidano il monaco nella sua ricerca di Dio e i valori evangelici che egli si sforza di fare suoi sono egualmente rilevanti sia per i cristiani che per i non- cristiani» 7.

E ancora:

«Noi non consideriamo noi stessi come detentori di una missione o una funzione particolare nella Chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Da un punto di vista umano siamo lì quasi per caso. E fortunatamente continuiamo ad "essere semplicemente lì [we go on "just being there"]»8.

Non ci si stupirà allora se Benedetto abbia proposto anche ai monaci alcuni precetti tratti dai Dieci comandamenti e che, di primo acchito, potrebbero sembrare fuori posto in una regola monastica redatta allo scopo di aiutare a vivere al meglio la propria appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa. Se lo fa, è perché Benedetto è convinto che anche i monaci, come tutti i cristiani, debbono trarre ispirazione per la loro ricerca di Dio da quei fondamenti generali della vita cristiana che sono, appunto, i "dieci comandamenti".

Non uccidere9

Avendo vissuto sulla sua pelle l'esperienza amara di Vicovaro - ossia il tentativo perverso messo in atto da parte dei monaci di avvelenarlo10 -, la decisione di Benedetto di conservare nella lista degli "strumenti delle buone opere" l'ingiunzione a "non uccidere", sembra soprattutto dettata dalla sua conoscenza del cuore umano. Egli sa che anche il monaco potrebbe allontanarsi dalla via inizialmente intrapresa con ardore e abbrutirsi interiormente ed esteriormente fino ad arrivare a infierire contro i proprio fratello.

Sullo sfondo biblico-cristiano il "non uccidere" si fonda sul rispetto della dignità di ogni persona umana in quanto creata a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27). Tale rispetto conosce poi una declinazione multiforme che mira sempre a salvaguardare l'integrità spirituale e psico-fisica dell'altro. Infatti, oltre che fisicamente, si può uccidere l'altro anche verbalmente. Gesù stesso ha detto: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» (Mt 5,21-22). Ogni mancanza di rispetto per l'altro, e ogni parola (o silenzio) che veicoli un disprezzo nei suoi confronti, tramite la maldicenza, la calunnia o l'omertà, è un attentato alla sacralità e alla preziosità della sua vita, dono dell'unico Creatore. È possibile uccidere il nostro prossimo anche spiritualmente, ad esempio rompendo ogni forma di dialogo e di amicizia con lui, togliendogli la fiducia, la comprensione, l'amore, e facendogli percepire tutta la disistima e l'astio che si provano nei suoi confronti. Quante relazioni, segnate magari da ferite ch potevano essere guarite dalla generosità e dalla lungimiranza dell'amore, sono deperite a causa dell' ostentato rifiuto a concedere spazio alla gioia del perdono, della riconciliazione, della comunione!

Si può, inoltre, attentare all'integrità dell'altro anche attraverso lo scandalo, che è «l'atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male»11, come quando, non facendo bene il proprio dovere, si provoca nei più deboli la tentazione di fare altrettanto. Lo scandalo acquista poi maggiore gravità quanto maggiore è l'autorità morale di coloro che lo causano o la debolezza di coloro che lo subiscono. A tal proposito Gesù ha parole molto dure contro chi scandalizza i "piccoli" coloro cioè che sono più deboli e più facilmente suggestionabili: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli (...), sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Lo scandalo, infine, oltre che da persone singole, «può essere procurato anche dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall'opinione pubblica»12, così come «chi usa i poteri di cui dispone in modo tale da spingere ad agire male, si rende colpevole di scandalo e responsabile del male che, direttamente o indirettamente, ha favorito»13.

In una prospettiva olistica, la sacralità e la preziosità della vita vengono rispettate non solo non attentando all'incolumità psico-fisica e spirituale dell'altro, ma anche attraverso una giusta attenzione alla dimensione corporea, purché non si scada in «una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo»14.

Benché la morale cristiana non ne faccia un valore assoluto, anche il corpo va infatti rispettato, purché, appunto, lo si faccia con quella temperanza che ci dispone ad evitare ogni sorta di eccesso. Perciò, anche se Benedetto esorterà a «sottoporre a disciplina il proprio corpo»15, è importante per l'uomo d'oggi ricercare un rapporto equilibrato e sereno con esso, convinti che il proprio corpo non è né il "frate asino" da bistrattare senza criterio, né l'oggetto di un salutismo esasperato che può facilmente degenerare in idolatria o in... ipocondria.

Il comando di "non uccidere", infine, richiama anche la difesa e la promozione della pace, a tutti i livelli, da quella che siamo chiamati a coltivare nel nostro cuore a quella che deve permeare di sé i rapporti con gli altri e con le cose. Come abbiamo già citato sopra, Gesù attesta che non solo chi uccide, ma chiunque si adira è meritevole di giudizio (cf. Mt 5,22). Perciò il precetto: "Non uccidere!" è anche un pressante invito ad essere uomini di pace, che siano "in pace" con se stessi e costruttori di pace attorno a sé. E ciò ci sarà possibile nella misura in cui volgiamo lo sguardo a Cristo «nostra pace» (Bf 2,14), Colui che ha distrutto «in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,16) con il suo sangue sparso sulla croce.

Non commettere adulterio16

È utile ricordare anche qui le parole pronunciate da Gesù come antitesi alla Legge antica: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).

Per il monaco questo "strumento" è un richiamo a non "adulterare" il proprio cuore, barattando l'intimo abbraccio di Dio con quello degli esseri umani o delle cose. Si tratta essenzialmente di un' esortazione ad amare la castità che il monaco ha liberamente scelto e abbracciato, come Benedetto dirà più avanti con un'espressione pregnante di significato: «Castitatem amare - Amare la castità»17

Inoltre, l'esortazione a "non commettere adulterio" richiama anche a chi ha consacrato la propria vita al Signore che la componente sessuale non cessa di esercitare «un'influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima»18. Di conseguenza occorre vigilare attentamente sui moti e i desideri del proprio cuore, al fine di mantenerlo "indiviso" agli occhi di Dio. Esercizio, questo della vigilanza, che vale per tutti i cristiani indistintamente.

Non rubarel9

Davanti ai monaci, che nulla posseggono di proprio, Benedetto voleva senza dubbio porre in risalto la libertà interiore, ossia la bellezza del non sentirsi schiavi delle cose e dei beni di questo mondo. In tale prospettiva il "non rubare" non consiste solo nel non togliere ad altri ciò che è loro, ma anche e soprattutto nel condividere quel che abbiamo con chi è nel bisogno20. C'è infatti anche un rubare che consiste nella chiusura egoisti- ca del proprio cuore e delle proprie mani di fronte alle necessità dei fratelli, e dunque un "non rubare" che, in positivo, si dispiega e si concretizza nella solidarietà. Ce lo ha insegnato lo stesso Signore Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero» per noi, perché noi diventassimo «ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

San Giovanni Crisostomo ha, al riguardo, parole molto dure: «Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri»21. Anche Benedetto mostra grande attenzione e solerzia verso i poveri22 ed esorta a confidare nella Provvidenza e a non aver paura di condividere con gli altri anche quel poco che si possiede. Eloquente, al riguardo, è l'episodio dell' ampolla d'olio, ambientato a Montecassino al tempo di Benedetto, quando una grave carestia imperversava su tutta la regione. Così ce lo racconta Gregorio Magno:

«Nel tempo in cui la carestia affliggeva la Campania, l'Uomo di Dio [Benedetto] aveva dato ai poveri ogni cosa del monastero. Nella dispensa rimaneva solo un pochino di olio in un orciolo di vetro. Arrivò un suddiacono di nome Agapito, che chiese insistentemente un po' d'olio.

L'Uomo di Dio, che aveva stabilito di dare tutto quaggiù per serbarsi tutto in Cielo, comandò di dargli quel poco olio rimasto. Ma il monaco addetto alla dispensa, udito il comando, preferì non obbedire.

L'Uomo di Dio dopo qualche tempo si informò se si fosse eseguito l'ordine. Il monaco rispose di no: se lo avesse dato - disse - non ne sarebbe rimasto affatto per i fratelli. Allora, adirato, Benedetto comandò ad un altro monaco di gettare dalla finestra quel recipiente di vetro con il poco olio rimasto, perché della disobbedienza non rimanesse nulla. L'ordine fu eseguito.

Sotto la finestra si apriva un profondo precipizio, irto di rocce enormi. Dunque, l' orciolo fu lanciato. Ma, pur cadendo sulle rocce, non si ruppe, né l'olio si versò. L'uomo di Dio comandò allora di andarlo a riprendere e, avutolo, lo diede a chi glielo aveva richiesto.

Radunati, poi i fratelli, davanti a tutti rimproverò il monaco disobbediente per la sua mancanza di fede e per il suo orgoglio. Terminato il rimprovero, Benedetto si mise in preghiera assieme ai fratelli. C'era là una giara per l'olio, vuota e con sopra un coperchio. Mentre Benedetto era in preghiera, il coperchio della giara cominciò a sollevarsi per l'olio che, crescendo, aveva superato il bordo del recipiente e aveva cominciato a colare sul pavimento. Appena se ne accorse, il Servo di Dio concluse la preghiera. In quell'istante stesso l'olio smise di scorrere sul pavimento»23.

Non nutrire desideri illeciti24

In sé il termine latino concupiscere (da cui concupiscentia) qui impiegato da Benedetto designa ogni forma veemente di brama o desiderio umano25. Infatti, già l'apostolo Paolo utilizzava il termine greco corrispondente (epithumìa) per indicare l'opposizione della "carne" allo "spirito": «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (epithumia-concupiscentia); la carne infatti ha desideri contrari (epithumèi-concupiscit) allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda (...) Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (epi-thumiais-concupiscentiis ») (Gal 5,16-17.24).

L'apostolo ed evangelista Giovanni, dal canto suo, distingue tre tipi di desiderio smodato o concupiscenza che, anche per il veggente di Patmos, ha una radice mondana: «Tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) della carne, la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza (epithumia-concupiscentia); ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,16-17).

Nell'esortare i suoi monaci a non nutrire desideri illeciti, Benedetto allude alla lotta o combattimento spirituale che è parte integrante della vita monastica e cristiana in generale. Si tratta, infatti, di quella tensione di fondo che vede contrapposte le esigenze dello Spirito e quelle della carne, la docile sottomissione all'azione salvifica del primo (azione che ci porta alla libertà dei figli di Dio) e la resistenza opposta dalla seconda. Non c'è altra via: la lotta contro la concupiscenza in tutte le sue forme passa attraverso la purificazione del cuore, condizione grazie alla quale è possibile scorgere la presenza di Dio nella propria vita: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Non dire falsa testimonianza26

Nelle sue relazioni con gli altri, il cristiano è esortato a non falsare la verità né con le parole né con le azioni. Il farlo significherebbe rifiutare un cammino di rettitudine morale, nel quale deve inserirsi chiunque voglia seguire Gesù, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perchè siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,23-25).

La menzogna, che - come scrive sant' Agostino - consiste «nel dire il falso con l'intenzione di ingannare»27, era stata stigmatizzata da Gesù come un'azione diabolica: «Voi (...) avete per padre il diavolo (...) non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

Ovviamente «la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità»28.

Le offese alla verità vanno dalla falsa testimonianza resa pubblicamente (la quale diventa spergiuro se fatta sotto giuramento) al disprezzo della reputazione altrui; dal giudizio temerario29 (un giudizio, cioè, che, senza un sufficiente fondamento, attribuisce al prossimo una colpa morale) alla maldicenza (=il rivelare i difetti o le mancanze altrui a terze persone che li ignorano) e alla calunnia (=il nuocere alla reputazione del prossimo con affermazioni non veritiere, che causano erronei giudizi su di lui).

Sono considerate offese alla verità, e quindi da bandire, anche la lusinga e l'adulazione o la compiacenza, che incoraggiano e confermano «altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti»30.

Nel suo significato più profondo la menzogna è una profanazione della parola, la cui funzione è quella di comunicare agli altri la verità. Storpiare intenzionalmente quest'ultima e il contraffarla non solo mina alla radice il significato primo della parola - quello, appunto, di strumento per instaurare una relazione veritiera con il prossimo -, ma impedisce anche a colui col quale si entra in relazione di esercitare il suo diritto di conoscere la verità. Privato di questa conoscenza, infatti, egli è impossibilitato a formulare giudizi e decisioni rispondenti al vero. Con l'affermare cose contrarie alla verità si contravviene dunque sia alla giustizia che alla carità, e si minano le basi delle relazioni interpersonali che dovrebbero essere improntate a onestà e fiducia. Non va dimenticato, infine, che il non dire la verità non riguarda solo il modo sbagliato con cui ci si pone davanti al prossimo, ma chiama in causa anche il rapporto con Dio. Infatti, «ferendo il rapporto dell'uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamenta le dell'uomo e della sua parola con il Signore»31.

Onorare tutti gli uomini32

Benedetto modifica il IV comandamento del Decalogo, quello riguardante l'onore e il rispetto dovuti ai genitori, allargandolo a tutti gli uomini e trasformandolo così in un precetto generale. Il motivo immediato è semplice. Abbandonando il mondo, il monaco - secondo il richiamo del vangelo - lascia anche i propri genitori per servire totalmente il Signore (cf. Mt 4,22; 10,37; 19,19).

Più in profondità, il precetto di onorare tutti gli uomini nasce da quell'unità di fondo che lega gli esseri umani, creati «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26-27; 5,1; 9,6). Morendo "per tutti", Cristo ha riespresso nella drammaticità della croce l'amore di Dio per ogni essere umano, e ha riaffermato una volta per tutte che il Padre «non fa preferenza di persone» (Rm 2,11), ma stende il suo sguardo misericordioso su tutti gli uomini, perché «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4).

È probabile che nell' accogliere questo precetto nella lista degli "strumenti delle buone opere", Benedetto abbia anche alluso alla necessità di evitare con tutte le proprie forze qualsiasi discriminazione nei confronti degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, di coloro cioè che destano poca o nessuna considerazione agli occhi del mondo. In costoro, infatti, risplende maggior- mente il volto di Cristo, come annoterà più avanti: «Soprattutto si abbia cura di accogliere con sollecitudine i poveri e i pellegrini, perché proprio in essi maggiormente si accoglie Cristo; quanto ai ricchi infatti la soggezione stessa che essi incutono impone da sé rispetto»33. Onorare tutti gli uomini significa allora relazionarsi a tutti con la libertà interiore di chi coglie in ogni essere umano il riflesso del volto di Cristo.

Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé34

Questo strumento delle buone opere è il naturale prosieguo di quello precedente, ed è posto alla fine del breve elenco di comandamenti biblici qui riportato. E come se Benedetto desiderasse chiudere il cerchio, iniziato col riferimento al duplice comandamento dell' amore, con un ulteriore rimando a quella fonte dalla quale ogni comandamento trae luce, energia e forza.

«Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé», implica innanzi tutto la consapevolezza che ciascun essere umano è caratterizzato da "unicità". Si può essere simili, ma non identici. Anche quando due gemelli si assomigliano come due gocce d'acqua, c'è sempre qualche dettaglio che li distingue, a partire dal DNA e dalle impronte digitali, che sono sempre diverse tra l'uno e l'altro. Anche nella struttura psichica e nelle vie dello spirito ogni uomo ha una sua peculiarità. E un unicum!

Questa consapevolezza dovrebbe ulteriormente aprirci al rispetto e alla stima di ciascuna persona, tenendo presente le sue possibilità, i suoi limiti, i suoi tempi. Tutto questo Benedetto lo dice ricorrendo a un proverbio che troviamo nell' Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15), e che Gesù riprenderà con una formulazione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12; cf. anche Lc 6,31). Nell'uno come nell'altro caso, l'esortazione ci richiama a quel requisito fondamentale che dovrebbe illuminare e fecondare i rapporti interpersonali all'interno di qualsiasi forma di convivenza, sia essa di natura religiosa o sociale, nella quale si è inseriti.

Ab. Donato Ogliari osb

Abate di San Paolo fuori le Mura - Roma

Il testo è il primo capitolo del volume: Per una fede adulta. Alla scuola di san Benedetto, Noci, Edizioni "La Scala", 2010.

 

Note

1 «Instrumenta artis spiritalis» (BENEDETTO, Regola [=RB] 4,75). Per questi "strumenti", Benedetto si basa in gran parte sulla cosiddetta "Ars sancta" della Regola del Maestro (cf. Regola del Maestro 3-6).

2 RB 4,1-2 (cf. Mc 12,30-31).

3 Si veda anche la seguente esortazione: «Cinti dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni, procediamo per le sue vie sotto la guida del Vangelo» (RB, Prol. 21).

4 BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse l, in L. CREMASCHI (a cura di), Le Regole. Regulae fusius tractatae - Regulae brevius tractatae, Magnano/Bi 1993 p. 79.

5 Cf. Es20,12-17; Dt 5,17-20; cf. Mt 19,18-19.

6 L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri [III- VI secolo], Bologna 1986, p. 35.

7 B. HUME, Alla ricerca di Dio, Brescia 1980, pp. 11-12.

8 ID., In Praise of Benedict, Ampleforth 1996, p. 23.

9 «Non occidere» (RB 4,3)

10 GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,3.

11 Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC), n. 2284.

12 CCC, n. 2286.

13 CCC, n. 2287.

14 CCC, n. 2289

15 RB 4,11.

16 «Non adulterari» (RB 4,4).

17 RB 4,64.

18 CCC, n. 2332.

19 «Non facere furtum» (RB 4,5).

20 Il comandamento "non rubare" «prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano, Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo» (CCC, n. 2401).

21 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Lazarum 1,6.

22 Più avanti, tra gli "strumenti delle buone opere", si trova anche la seguente ingiunzione: «Ristorare i poveri» (RB 4,14).

23 Cf. GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,28-29

24 «Non concupiscere» (RB 4,6).

25 Sulla scia della Parola rivelata e della tradizione cristiana, la Chiesa ha sempre inteso la "concupiscenza" come un moto smodato che si oppone al buon senso e ai dettami della ragione. Conseguenza della disobbedienza del primo peccato, la concupiscenza «ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa un peccato, inclina l'uomo a commettere il peccato» (CCC, n. 2515).

26 «Non falsum testimonium dicere» (RB 4,7).

27 AGOSTINO, De mendacio 4,5

28 CCC, n. 2484.

29 Per evitare il giudizio temerario ciascuno dovrebbe sforzarsi «di interpretare, per quanto possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo" (CCC,n. 2478). Al riguardo sant'Ignazio di Loyola scrive: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l'affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi" (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali 22).

30 CCC, n. 2480. Anche la iattanza o millanteria e l'ironia irrispettosa costituiscono, in ultima istanza, un attentato alla verità.

31 CCC, n. 2483.

32 «Honorare omnes homines» (cf. 1Pt 2,17; RB 4,8).

33 RB 53,15.

33 «Et quod sibi quis fieri non vult, alio ne faciat» (RB 4,9)

 

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