Dio può discendere per restaurare il dharma, come dice la Gītā, tante volte quanto gli paia conveniente e prendere la forma che vuole. Ma è solo una forma esteriore e apparente. L’avatāra è vero Dio e ha solo l’apparenza di creatura. Dal punto di vista cristiano è puro docetismo.
Dio può ispirare e anche dimorare in modo speciale in un uomo e farne un profeta o anche il profeta. Ma questo rimane un uomo per quanto pieno possa essere della divinità. Il profeta è un uomo, non Dio.
L’Incarnazione non è questo, né la «discesa» di un Dio, né l’«elevazione» di un uomo. Il Cristo cristiano è sia totalmente uomo sia totalmente Dio. In un monoteismo tale affermazione è priva di senso. In un triteismo o politeismo è perfettamente inutile. Tutto è in relazione. L’Incarnazione solo ha senso all’interno della concezione trinitaria della divinità.
Ordunque, se questo è certo, una carne umana è divina, è Dio, fa parte e in modo costitutivo, non per giustapposizione, della stessa divinità. In questa concezione non contrasta ontologicamente che ci sia una realtà corporale che sia anche pienamente divina. Almeno in un singolo punto la distanza tra il divino e l’umano si è annullata, pur con tutti i distinguo della tradizione.
C’è allora una carne divina. La corporeità non è contraddittoria della divinità. Cristo non è una divinità minore, anche se non possiamo confondere le nature, come ci diranno i concili. Ma non possiamo nemmeno separarle. Vale a dire che le nostre distinzioni sono meramente mentali per quanto «fundamentum in re» possano avere.
E se la vocazione del cristiano è quella di assimilarsi a Cristo, il cristiano deve divinizzarsi anche come il suo modello e capo, formando un solo Corpo con lui, come afferma la Scrittura stessa. Potremmo dire che la religione cristiana è, per antonomasia, la religione del corpo.
Raimon Panikkar
(tratto da Raimon Panikkar, La religione, il mondo e il corpo, Milano 2010, p. 65)