Vita nello Spirito

Lunedì, 05 Dicembre 2011 22:41

Il Dio imprevedibile (Ladislaus Boros)

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Ci inginocchiamo davanti al nostro Dio fatto bambino, ammutolendo di fronte al suo mistero. Forse, come i magi dell'Oriente, riceviamo da lui l'indicazione di «un'altra strada» per raggiungere il nostro paese, per ritornare nel mondo della quotidianità.

Natale è la festa che ci ricorda che Dio è diverso, non conosce consuetudini, le sue vie sono sempre nuove, egli è giovane, viene a noi come vuole. A Natale quindi celebriamo anche la festa dell'imprevedibilità di Dio. Non solo  nella notte di  Natale,  anche  più  tardi, dopo la sua resurrezione, il Signore continuò ad apparire in modo che noi potevamo scambiarlo per un altro: per un giardiniere, un viandante, uno che ha fame, per un uomo sulla riva. Che Dio venga a noi in contrasto con le nostre attese, che le sue vie non si possano prevedere, può essere una minaccia per l'uomo che cerca Dio. Come doveva essere audace e distaccata da sé la fede di coloro che per la prima volta si sono inginocchiati davanti ad un bambino sulla paglia e hanno adorato Dio in lui! È in questo contesto che intendiamo riflettere su un tema che quasi mai viene trattato oppure viene ricordato solo marginalmente nelle meditazioni natalizie: il tema delle tentazioni del Natale.

La prima tentazione del Natale dice: Dio non si lascia fissare. L'imprevedibilità di Dio fa sì che l'uomo non possa mai averlo in suo potere, non può mai fissarlo come vorrebbe. Dio si sottrae continuamente alla nostra presa. Egli non si lascia imprigionare in regole, sistemi e metodi. Anche i santi hanno spesso ceduto a questa tentazione: volevano continuamente costringere Dio mediante l'accumulazione delle loro disposizioni, con la grande somma delle loro preghiere orali, con i lunghi tempi che essi riempivano con il loro almanaccare. In tal modo essi ambivano ad avere sempre a disposizione la vicinanza di Dio, la sua parola, la sua rivelazione, a sentire continuamente le sue consolazioni, la sua luce e la sua grazia sensibile. Dio ha ingegnato loro qualcosa di meglio. Certamente l'uomo deve preparare nella vita quotidiana le vie di Dio con la preghiera, il superamento di se stesso e soprattutto con la bontà schietta. Deve appianare i colli e colmare le valli. Ma che poi Dio percorra queste vie che gli sono state preparate, che egli scelga questa porta festosamente ornata o un'altra, è cosa che dipende unicamente da lui. Perciò la vera azione, l'atteggiamento estremo della santità è la disponibilità, la perseveranza, l'apertura dell'anima, l'allargamento delle braccia. Dio dona la sua presenza dove, quando e come vuole. La lettera ai Romani esprime in maniera inconfondibile questa dimensione del rapporto umano con Dio: «Io avrò compassione di chi ho compassione e userò misericordia a chi la uso. Quel che conta non è perciò il volere o il correre dell'uomo, ma la misericordia di Dio». Lo stesso atteggiamento trova nel Salmo 127 (126) la sua sconvolgente espressione: «Se non è Dio che edifica la casa, invano si affaticano i costruttori. Se non è Dio che custodisce la città, invano vegliano le sentinelle. Invano anticipi la tua alzata e ritardi il tuo riposo, mangiando il pane delle sofferenze, mentre colma il suo amato che dorme». Meglio ancora la venuta imprevedibile, non calcolabile, di Dio viene  preparata dal silenzio essenziale, dalla quiete. Per questo è detto anche nella Messa di Natale; «mentre il silenzio avvolgeva tutto e la notte era giunta a metà del suo cammino, la tua onnipotente Parola, Signore, è scesa dal cielo, dal tuo trono regale». Il padre apostolico Ignazio, secondo successore di Pietro nella sede episcopale di Antiochia, nella sua lettera ai cristiani di Magnesia ricorda Cristo «la Parola provenuta dal silenzio». Già i pagani avvertivano queste connessioni: l'atteggiamento genuino dello spirito — diceva Eraclito — è un «ascolto della verità delle cose», lo stare in silenzio di fronte al mistero. Nel silenzio cogliamo la perenne novità di Dio. In esso ne comprendiamo l'imprevedibilità.

La seconda tentazione del Natale è: Dio è spesso deludente. Come può questo piccolo bambino stringere solidamente nelle sue mani il mondo? Ma non soltanto nella notte della sua prima venuta, anche nell'intero suo governo del mondo Dio si manifesta apparentemente impotente e indifeso. II nostro Dio non è abbastanza brillante. Lo vorremmo più bello, più sorprendente, più forte. Perché egli non manifesta più chiaramente la sua potenza? Perché risparmia i bricconi e lascia che gli uomini di buona volontà cadano vittime degli attentati? Perché sciupa sforzi così preziosi? Perché lascia cadere in rovina opere già avviate e incomincia tutto daccapo? Dio evidentemente non è all'altezza del mondo. Ma si noti: l'uomo è sempre incline a lasciarsi deludere da ciò che gli è più caro e che egli pensa di essersi conquistato per sempre. Ciò che è autentico non ha l'evidenza e neppure la densa «presenza» di ciò che appare in primo piano. Non possiamo attenderci che ciò che è luminoso per noi lo diventi, come per miracolo, anche per gli altri. È tuttavia difficile tollerare che ciò che è bellezza per noi non sia bello anche per tutti gli uomini. Così l'uomo, anche il più santo, dubita di ciò che gli è più caro: di sua madre, di sua moglie, del suo amico, del suo Dio. Ma se si sforza di superare questa tentazione — e questo è il compito che la festa di Natale affida al nostro essere cristiani — egli nota che l'essenziale non può essere mostrato, che esso cresce nella misura in cui la nostra dedizione diviene più pura. Da ciò che ci è più caro non ci si può attendere che esso sia caro a tutti, da ciò che è più magnifico che sia tale per tutti gli uomini. C'è una profondità ultima dell'esistenza umana in cui il dono diventa pienamente individuale, unico, valido solo per questo uomo. Mediante il superamento della tentazione della «delusione causata da Dio» il mondo si approfondisce spiritualmente attorno a noi, ci dischiude i suoi segreti al di là di tutte le superfici immaginabili Ogni passo verso l'autentico deve passare ali inverso questa tentazione della delusione.

La terza tentazione del Natale consiste nel fatto che Dio ci respinge nel quotidiano. È quanto egli ha fatto diventando un bambino e sottomettendosi a dei semplici uomini. L'autenticità religiosa e la superbia non possono coesistere solidamente nell'essere umano. Nelle esperienze genuinamente religiose lo spirito diventa più sensibile, più luminoso e ampio. I confini del proprio essere si dilatano. Viene raggiunto un vertice dell'esistenza che è insieme il vertice del mondo. L'animo è sospeso sopra un abisso luminoso. Il mondo intero in tali momenti appare piccolo e misero. Lo spirito penetra nell'Altro, nell'Ignoto, al di là di tutto ciò che è mondano. Un potente sentimento di forza e una magnificenza sovrana sorgono in esso. Da questi vertici del mondo l'uomo cristianamente religioso deve ritornare alle miserie della povera gente, alla pietà di tutti i giorni, a cui lo chiama il suo Dio fatto uomo, divenuto bambino. In questo senso il Natale ha trasformato l'intera religiosità umana. Da questo momento la grandezza si costruisce dimenticando e non considerando la propria grandezza, nel superamento della superbia. Da questo momento la grandezza si cerca una dimora solo negli uomini che sanno di essere nulla, che un giorno provano noia della propria magnificenza. Da questo momento si stabilisce uno stretto legame indissolubile tra rinuncia della grandezza e genuina grandezza umana, o, in altre parole, tra sacrificio e gioia. Ciò sembra contraddittorio, alla stessa maniera di ciò che avviene nel momento in cui una madre dona la vita al suo figlio. Che il sacrificio e la gioia formino un'unità, che ci si arricchisci solo donando, che per divenire realmente grande si debba rinunciare, è una verità che si esperimenta ma che non si può provare. Onesta indimostrabilità del fondamento ultimo della natura umana costituisce la più forte tentazione del nostro essere cristiani. Solo una tentazione superata fino alla fine della vita può far comprendere che chi si fa grande viene umiliato e che chi si umilia diventa grande. È quasi impossibile esprimere con parole appropriate questi atteggiamenti delicatissimi del mondo del cuore. Il cantico di Maria — il nostro cantico natalizio più vero — ha compreso ciò: «Egli ha manifestato la potenza nel suo povero e ha disperso i superbi di cuore. Ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha esaltato gli umili. Ha saziato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote». Chi non sapesse donde origina questo cantico potrebbe pensare ch'esso sia l'inno di una rivoluzione. E in realtà è l'inno della rivoluzione, della rivoluzione del Natale.
Lo spirito dell'incarnazione, lo spirito del Natale dice quindi con semplicità e profondità: «Egli, che esisteva nella forma di Dio, non ha stimato l'essere uguale a Dio come un bene da conservare gelosamente. Ma ha vuotato se stesso prendendo la forma di schiavo ed è diventato simile agli uomini. Nel suo modo di comportarsi esteriormente è stato trovato come un uomo, ha abbassato se stesso sottomettendosi con obbedienza fino alla morte, anzi fino ad una morte di croce». Con queste parole è stata indicata una via al nostro essere cristiani: la dedizione, il rinnegamento di sé è la condizione per divenire se stessi in modo cristiano. L'uomo trova la sua natura più propria donandosi. Così facendo egli conserva se stesso e raggiunge la perfezione. L'uomo può «conservarsi» solo allentando la presa del proprio egoismo. L'essere umano è costituito essenzialmente in vista di un'estasi: esso si possiede solo «esponendosi». Quanto più si rinchiude in se stesso tanto meno l'uomo è «se stesso», tanto meno è un uomo. Lo spirito dell'incarnazione di Cristo è quindi anche lo spirito dell'incarnazione dell'uomo. Se si rinchiude nel proprio io l'uomo si trova vuoto e senza promesse. In ultima analisi quindi l'autodivenire dell'uomo (e l'incarnazione di Dio) include la morte. Solo nella morte cioè l'uomo viene «tolto a se stesso» in modo tale che — se accetta liberamente questo distacco da sé può farsi perfettamente umile, cioè può raggiungere l'essere perfetto donandosi totalmente. Per questo Paolo concepisce l'incarnazione di Cristo come l'«obbedienza fino alla morte». Ma chi dice morte, nel nostro ordine di salvezza, pensa insieme alla resurrezione. Così il cammino di questo Dio divenuto bambino è già segnato dal «sentimento dell'incarnazione». Egli sarà il Dio morto e risorto. Intuiamo ora di quale indicibile peso e insieme di quale promessa sia per noi portatore il Natale.

Riassumendo possiamo e dobbiamo dire che con le gesta dell'incarnazione Dio ha creato un nuovo ordine. Un ordine in cui la piccolezza accettata consapevolmente conduce al compimento. Dio ci ha inseriti in un movimento di autoliberazione, in un distacco da sé da cui — mediante l'accettazione della morte — scaturirà la resurrezione. Inoltre Dio ha dovuto trasformare tutti i nostri sistemi e previsioni. Egli ha dovuto esporci al pericolo dell'imprevedibilità, della delusione e della quotidianità. Solo così l'io umano che ruota attorno a se stesso si dischiude per un compimento eterno.

Un ultimo pensiero ancora. Anche se abbiamo compreso queste ultime riflessioni — se così fosse ciò sarebbe già la grazia di Natale — non possiamo pensare di aver compreso ciò che è definitivo, di essere immedesimati in esso. È stata soltanto una tappa sul cammino senza fine, sulla via del nostro incessante camminare nel mistero. Il comprendere è sempre soltanto l'inizio di un comprendere ancora maggiore. Verso Dio non potremo fare altro che aspirare. Non cogliamo mai né lui né i suoi pensieri. Ora se ciò a livello della nostra esistenza terrena può apparire un'indigenza, in realtà è il presupposto di una felicità illimitata. Noi rimaniamo degli eterni ricercatori di Dio.
In questo senso il viaggio dei magi che vengono dall'Oriente è un simbolo sia della nostra esistenza terrena che del nostro compimento celeste. Noi cerchiamo Dio, per trovarlo, durante la nostra vita terrena. Cerchiamo Dio, dopo averlo trovato, nella beatitudine eterna. In quanto lo si cerca per trovarlo egli è incommensurabile. È questa la struttura del divenire Dio della creatura, di un divenire che per sua essenza non ha mai una fine. In questo spirito ci inginocchiamo davanti al nostro Dio fatto bambino, ammutolendo di fronte al suo mistero. Forse, come i magi dell'Oriente, riceviamo da lui l'indicazione di «un'altra strada» per raggiungere il nostro paese, per ritornare nel mondo della quotidianità. Infatti per colui che è stato afferrato da questo Dio, per colui che in lui ha visto la sua salvezza, è incominciata una nuova vita con sentieri del tutto nuovi.

Ladislaus Boros

(tratto da Ladislaus Boros, Meditazioni sul Natale, Brescia 19894, pp. 107-116).

 

Letto 2592 volte Ultima modifica il Giovedì, 25 Dicembre 2014 10:07
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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